LEGITTIMA LA RIDUZIONE DELLA RETRIBUZIONE SE DERIVA DA CONTRATTO COLLETTIVO *

Potito di Nunzio e Laura Antonia di Nunzio, Consulente del Lavoro in Milano e Avvocato giuslavorista in Milano

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La Cassazione ribadisce il consolidato principio secondo cui l’irriducibilità della retribuzione ex art. 2103 c.c. non implica la conservazione nel patrimonio individuale del lavoratore delle voci retributive collettivamente determinate

Parte datoriale che intenda eliminare alcune componenti retributive riconosciute negli anni dalla contrattazione collettiva aziendale spesso si scontra, oltre che con i comprensibili malumori dei lavoratori o dei loro rappresentanti sindacali, anche con quanti gli oppongono il c.d. principio d’irriducibilità della retribuzione, principio spesso male interpretato. Ancora più ostacoli si incontrano se tali elementi retributivi siano stati riconosciuti in occasione di un trasferimento d’azienda, al fine di compensare eventuali disparità di trattamento economico conseguenti alla diversa contrattazione collettiva applicata ai lavoratori trasferiti.

Sulla possibilità o meno per parte datoriale di tirare una riga su tali trattamenti retributivi di miglior favore risponde la Cassazione, che con la pronuncia del 27 marzo 2025, n. 8150 ha valutato pienamente legittima la disdetta datoriale ad un contratto collettivo integrativo che oltre vent’anni prima aveva riconosciuto al personale ceduto in seguito al trasferimento di un ramo d’azienda un “superminimo non assorbibile” a compensazione del deteriore trattamento retributivo conseguente al cambio di CCNL presso la cessionaria.

IL CASO DI SPECIE

Il caso di specie attiene ad alcune lavoratrici che dall’01/01/1997 erano passate alle dipendenze di un’altra società per effetto di un’operazione di trasferimento di ramo d’azienda. La precedente datrice di lavoro applicava alle lavoratrici un CCNL ad hoc, mentre a partire dall’01/01/1997 ai dipendenti ceduti veniva applicato il CCNL del settore terziario. Dalla stessa data veniva riconosciuto a tali dipendenti un “superminimo non assorbibile” pari alla differenza tra il trattamento retributivo goduto in base al contratto precedentemente applicato dalla cedente e quello previsto dal CCNL terziario. Tale superminimo era stato disciplinato nell’ambito di un accordo collettivo mantenuto in vigore fino al 27/11/2018, quando la società cessionaria ha comunicato alle organizzazioni sindacali formale disdetta con effetto dall’1/04/2019, poi differito all’1/05/2020, data a decorrere dalla quale in busta paga era venuto meno il superminimo non assorbibile.

Le lavoratrici hanno quindi promosso azione giudiziale chiedendo al giudice (e ottenendo) l’emissione di un decreto ingiuntivo che imponesse a parte datoriale la corresponsione in loro favore del superminimo non assorbibile maturato successivamente alla disdetta e non corrisposto. Il decreto ingiuntivo veniva vittoriosamente opposto dalla Società. Non trovando soddisfazione nel secondo grado di giudizio, le lavoratrici hanno promosso ricorso in Cassazione lamentando:

  • la violazione dell’art. 2112 c.c. e dell’art. 2103 c.c. per avere la Corte d’Appello ammesso la possibilità che, in sede di trasferimento d’azienda ad altro soggetto che applica un contratto collettivo deteriore, sia ammissibile la riduzione dei livelli retributivi, in contrasto con il principio di irriducibilità della retribuzione;
  • la violazione dell’art. 2112, co. 1 e co. 3, c.c., per avere la Corte d’Appello escluso che, in sede di trasferimento d’azienda ad altro soggetto che applica contratto collettivo deteriore, le differenze retributive restino comunque a vantaggio del lavoratore senza che potessero essere assorbite da future modifiche del trattamento previsto dai contratti collettivi, in applicazione del divieto di reformatio in peius per il caso di trasferimento d’azienda, ritenuto intangibile della stessa giurisprudenza della Corte di giustizia UE.

La Cassazione ha ritenuto infondate entrambi i motivi di doglianza.

LE MOTIVAZIONI DELLA CASSAZIONE

Nel confermare la correttezza della condotta datoriale la Suprema Corte ha innanzitutto ricordato quanto disposto dall’art. 2112, co. 3 c.c., ossia che ai dipendenti ceduti per effetto di un trasferimento d’azienda deve essere applicato il contratto collettivo in vigore presso la cessionaria, anche se più sfavorevole, potendo trovare applicazione il contratto collettivo della cedente nel solo caso in cui presso la cessionaria i rapporti di lavoro non siano regolamentati da alcuna disciplina collettiva.

Lo stesso postula la normativa europea e precisamente l’art. 3, n. 3 della direttiva 2001/23 (coincidente con l’art. 3, n. 2, secondo comma della direttiva 77/187), che così recita: “Dopo il trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente, fino alla data (…) (di) applicazione di un altro contratto collettivo”. In diverse pronunce della Corte di giustizia europea si legge che tale norma dev’essere interpretata nel senso che il cessionario ha il diritto di applicare, sin dalla data di trasferimento, le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione¹. I giudici di legittimità hanno ricordato come nello specifico caso Scattolon² i giudici della Corte europea avevano affermato che la direttiva 77/187 lascia un margine di manovra al cessionario e alle altre parti contraenti, che consente loro di stabilire l’integrazione retributiva dei lavoratori trasferiti, in modo tale che questa risulti debitamente adattata alle circostanze del trasferimento in questione. Lo scopo della direttiva – sempre secondo i magistrati europei – consiste essenzialmente nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole “per il solo fatto del trasferimento”. Il trasferimento d’azienda “non può determinare per il lavoratore trasferito un peggioramento retributivo ossia condizioni di lavoro meno favorevoli di quelle godute in precedenza, secondo una valutazione comparativa da compiersi all’atto del trasferimento, in relazione al trattamento retributivo globale, compresi gli istituti e le voci erogati con continuità, ancorché non legati all’anzianità di servizio”³. Pertanto, la direttiva vieta che il trasferimento d’azienda consenta un trattamento retributivo deteriore al momento della cessione e “per il solo fatto del trasferimento”, ma chiaramente non può impedire che successivamente la retribuzione dei lavoratori trasferiti possa essere influenzata dalle dinamiche contrattuali che la disciplinano dall’esterno.

Sulla scorta di tali argomentazioni la Cassazione ha sottolineato come nel caso di specie fosse incontestato che al momento del trasferimento le lavoratrici non avessero subito alcuna decurtazione della retribuzione e che il trattamento migliorativo loro assegnato dalla cessionaria rispetto agli altri dipendenti era stato preservato per oltre venti anni dalla data del trasferimento. Ciò dunque escludeva la violazione sia di quanto disposto dall’art. 2112, comma 3 c.c. (in quanto la cessionaria ha correttamente applicato la contrattazione collettiva applicata al proprio personale al tempo del trasferimento e ha preservato il complessivo trattamento economico delle lavoratrici prevedendo un superminimo a compensazione delle differenze di trattamento), sia di quanto previsto dalla normativa europea sopra richiamata (in quanto le lavoratrici coinvolte nel trasferimento non avevano avuto un trattamento meno favorevole per il verificarsi della cessione del rapporto di lavoro).

Ciò premesso, la Suprema Corte ha poi evidenziato come il miglior trattamento retributivo riservato alle lavoratrici dalla contrattazione collettiva aziendale in seguito al loro trasferimento non potesse rimanere insensibile ai successivi, legittimi mutamenti delle condizioni contrattuali collettive. Tale miglior trattamento retributivo infatti non era acquisito a livello individuale, ma era stato stabilito a livello collettivo dalle rappresentanze sindacali. Tale superminimo non poteva neppure essere ritenuto parte della c.d. retribuzione irriducibile, in quanto – come la Corte ha tenuto a ribadire anche nella pronuncia in commento – è da considerare tale solo la “retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni” svolte dal lavoratore e il superminimo in parola aveva tutt’altra funzione. Derivando tale emolumento da una “fonte” esterna al rapporto individuale di lavoro la sua previsione (per l’appunto collettiva) ben poteva essere modificata, anche in peius, da successive disposizioni collettive. Inoltre, v’è da dire – ed è questo un passaggio rilevante nel ragionamento della Corte – che anche il trattamento retributivo goduto dalle lavoratrici ricorrenti in giudizio prima del loro trasferimento presso la cessionaria era determinato non dal contratto individuale, ma dal contratto collettivo (quello della cedente), sicché le sue clausole ben potevano essere modificate (anche in via peggiorativa) da successivi contratti collettivi. Pertanto, avendo determinato il trattamento retributivo delle lavoratrici ab origine a livello collettivo ed avendo statuito il superminimo in questione sempre a livello collettivo, entrambe le previsioni contrattuali avrebbero potuto essere modificate da parte datoriale, anche attraverso la disdetta dai contratti collettivi aziendali, come ha fatto la cessionaria nel caso di specie.

CONCLUSIONI

Con la pronuncia in commento i giudici di legittimità ribadiscono un principio di diritto più che consolidato nella propria giurisprudenza, ossia quello secondo cui il principio di irriducibilità della retribuzione ex art. 2103 c.c. non implica la conservazione nel patrimonio individuale del lavoratore delle voci retributive collettivamente determinate, le quali possono essere modificate in peius da successivi contratti collettivi, salva l’eventualità che il trattamento economico più favorevole sia stato espressamente stabilito in sede di contratto individuale per specifiche qualità professionali, mansioni o modalità di esecuzione della prestazione⁴.

Tuttavia, nella vicenda in commento, ci si chiede come mai la contrattazione collettiva aziendale sia intervenuta per garantire quanto già l’art. 2112 c.c. avrebbe garantito autonomamente. Infatti, qualora non fosse intervenuta la contrattazione collettiva a riconoscere come diritto collettivo il “superminimo non assorbibile”, i lavoratori avrebbero comunque avuto diritto, a livello individuale, al mantenimento del trattamento economico complessivo loro assicurato dal precedente contratto collettivo, il che avrebbe costretto parte datoriale a riconoscere lo stesso emolumento senza che questo potesse essere influenzato dalle vicende contrattuali successive.

¹ Sentenza 9 marzo 2006, causa C-499/04, Werhof, Racc. pagg. 1-2397, punto 30, nonché, in tema di art. 3, n. 3, della direttiva 2001/23, sentenza 27 novembre 2008, causa C-396/07, Juuri, Racc. pag. 1-8883, punto 34).

² Sentenza 6 settembre 2011, causa C-108/10, Scattolon.

³ V. sempre Sentenza 6 settembre 2011, causa C-108/10, Scattolon.

⁴ Così tra le tante anche Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 10/07/2024, n. 18941.

* Pubblicato in Corriere delle Paghe, 1 maggio 2025, n. 5.

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