CORTE COSTITUZIONALE VS TUTELE CRESCENTI: NUOVI CASI DI APPLICAZIONE DELLA TUTELA REINTEGRATORIA

Andrea Ottolina , Avvocato in Milano

Anche in piena estate la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi sul contratto a tutele crescenti disciplinato dal D.lgs. n. 23/2015 e, come già fatto con altre recenti sentenze, ha inferto due nuovi colpi al sistema di tutele che il legislatore aveva deciso di introdurre nel 2015 con il Jobs Act e che, di fatto, ridimensionava la tutela reintegratoria, senza però eliminarla, riconoscendo: a) la tutela reintegratoria c.d. piena (cioè il diritto alla reintegra e al risarcimento integrale del danno, quantificato in tutte le mensilità intercorrenti tra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione, con un minimo di 5 mensilità) a tutti i casi più gravi di licenziamenti nulli perché discriminatori o perché riconducibili ad altri casi di nullità previsti dalla legge (art. 2, co. 1, D.lgs. n. 23/2015), ovvero ai casi di difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (art. 2, co. 4, D.lgs. n. 23/2015); b) la tutela reintegratoria c.d. attenuata (cioè il diritto alla reintegra e al risarcimento del danno pari alle mensilità intercorrenti tra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione, con un massimo di 12 mensilità) alle sole ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa nelle quali sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, co. 2, D.lgs. n. 23/2015). Per quanto riguarda i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, quindi, il D.lgs. n. 23/2015, così come originariamente promulgato, non riconosceva la tutela reintegratoria in nessun caso di illegittimità e ciò a differenza di quanto previsto dal co. 7 dell’art. 18 Statuto Lavoratori, così come riformulato dalla L. n. 92 del 2012 e poi modificato sempre dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 125/2022, in base al quale la reintegra è riconosciuta nei casi di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento c.d. economico, cioè determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Proprio su questo aspetto, la Sezione lavoro del Tribunale di Ravenna, con ordinanza del 27 settembre 2023, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, co. 2, D.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui non dispone la tutela reintegratoria quando il Giudice accerti l’insussistenza del fatto posto alla base del giustificato motivo oggettivo, motivandola sostanzialmente con l’ingiustificata disuguaglianza di trattamento tra il motivo soggettivo e il motivo oggettivo in presenza degli stessi presupposti di vizio. Ebbene, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 128 del 16 luglio 2024, ha accolto le argomentazioni del giudice rimettente e ha appunto dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 2, D.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui non prevede la tutela reintegratoria attenuata per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo qualora in giudizio sia dimostrata l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro. In particolare, la Corte ha rilevato che, sebbene la motivazione alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non sia sindacabile nel merito dal Giudice e ciò in ragione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione, ignorare l’insussistenza del fatto materiale nell’ambito dei licenziamenti economici configurerebbe una violazione del principio di causalità del recesso, in base al quale il licenziamento deve essere necessariamente sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo oggettivo, e comporterebbe una irragionevole disparità di trattamento rispetto ai licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Disparità di trattamento che, peraltro, indebolirebbe fortemente la tutela reintegratoria prevista dallo stesso D.lgs. n. 23/2015 per i casi più gravi di licenziamento: per il datore di lavoro, infatti, sarebbe agevole aggirare la tutela reintegratoria e ridurre il rischio alla sola compensazione indennitaria, deducendo un fatto materiale insussistente e limitandosi a qualificarlo come giustificato motivo oggettivo. In sostanza, secondo la Corte, il recesso del datore di lavoro offende la dignità del lavoratore per la perdita del posto di lavoro quando non sussiste il fatto materiale allegato a suo fondamento e ciò a prescindere dalla qualificazione data a tale fatto, sia quella di ragione d’impresa, sia quella di addebito disciplinare. Per queste ragioni, la Corte Costituzionale ha ritenuto di estendere la tutela reintegratoria anche ai casi di insussistenza del fatto posto alla base dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, fatto da indentificarsi con la decisione economica organizzativa con la quale il datore di lavoro intende giustificare l’interruzione del contratto di lavoro, i cui elementi fondamentali sono la soppressione di un posto di lavoro e il nesso causale tra la soppressione del posto e il lavoratore licenziato. Come noto, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo resta anche condizionata dalla necessità che il datore di lavoro dimostri l’impossibilità di collocare il dipendente da licenziare in un posto di lavoro diverso da quello soppresso (c.d. obbligo di repêchage). Sul punto, la Corte Costituzionale, sempre con la sentenza n. 128/2024 in commento, ha tuttavia precisato che la violazione di tale obbligo da parte del datore di lavoro non va ad incidere sulla sussistenza del motivo economico posto alla base del licenziamento. Alla luce di ciò, la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 2, D.lgs. n. 23/2015 deve esser limitata al rilievo dell’insussistenza del fatto materiale e deve quindi tener fuori dalla sua portata applicativa la valutazione sulla possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato, non diversamente dal licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente, che esclude il rilievo, a tal fine, della valutazione di proporzionalità del licenziamento stesso rispetto alla colpa del lavoratore. Nell’ambito dei contratti a tutele crescenti, quindi, la violazione dell’obbligo di repêchage continuerà ad essere sanzionata con la tutela indennitaria di cui al co. 1 dell’art. 3 del D.lgs. n. 23/2015. Ma la Corte Costituzionale non si è limitata ad ampliare la portata della tutela reintegratoria nell’ambito dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Con la sentenza n. 129/2024, infatti, la Corte si è pronunciata ancora sull’art. 3, co. 2 del D.lgs. n. 23/2015, ma nella parte in cui, in caso di licenziamento disciplinare, non prevede l’applicazione della tutela reintegratoria laddove il fatto contestato, in base alle previsioni della contrattazione collettiva di riferimento, sia punibile solo con sanzioni di natura conservativa. Ebbene, con tale decisione la Corte ha compiuto un ulteriore passo nell’avvicinamento delle tutele crescenti all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: pur ribadendo preliminarmente l’adeguatezza del sistema sanzionatorio previsto dal D.lgs. n. 23/2015 per i casi in cui il licenziamento disciplinare risulti sproporzionato rispetto alla condotta del lavoratore, la Corte ha infatti affermato che il principio di proporzionalità del licenziamento non si estende ai casi in cui il fatto contestato sia inequivocabilmente inidoneo a configurare una giusta causa e quindi a giustificare il recesso e ciò per espressa previsione della contrattazione collettiva. Conformemente a quanto previsto dal co. 7 dell’art. 18, quindi, per i rapporti di lavoro rientranti nell’ambito del D.lgs. n. 23/2015 la tutela reintegratoria (seppur in forma attenuata) dovrà applicarsi anche nelle ipotesi in cui il licenziamento disciplinare venga irrogato sulla base di condotte per le quali il Ccnl prevede solo sanzioni meramente conservative e ciò al pari dei casi in cui il fatto materiale contestato sia risultato insussistente.


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