Senza filtro -PIRATA È CHI PIRATA FA

di Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

PREMESSA (AVULSA DAL RESTO DELL’ARTICOLO)

Il Senza Filtro avrebbe voluto questo mese prendere in considerazione la vergogna, l’ignominia, l’abominio del meccanismo con cui è stato congegnato l’ormai celeberrimo “bonus dei 200 euro”. Dovessimo qualificarlo con termine assicurativo, peraltro, più che di un bonus dovremmo parlare di un malus, un sortilegio, un obbrobrio – prima giuridico, poi amministrativo e burocratico – inventato probabilmente come arzigogolo per fare impazzire consulenti del lavoro già stanchi di loro, stremati da anni di pandemia riccamente condita da idiozie normative. Il fatto è che tale disposizione è talmente sfuggente, labirintica, vacua e continuamente mutevole che è davvero difficile dirne qualcosa di sensato, specie pensando che il decreto cambierà ancora mille e mille volte, cercando di raddrizzare questa mala pianta nata da subito sotto il pessimo degli auspici. È un po’ come leggere un libraccio, uno di quei gialli intricati in cui lo scenario ed i personaggi cambiano continuamente e ti confondono, non già per la maestria dell’autore ma per la sua conclamata cialtroneria (e quindi in modo confuso e contraddittorio); come fai, non dico a capire chi sarà infine l’assassino, ma anche solo a raccontarne la trama? (E comunque mi dicono che l’amico e collega Albero Borella, da vero amante del brivido, si cimenta su questo numero a tentare di districare la matassa, con la consueta rara maestria che lo contraddistingue).

Per ora una sola cosa ci è chiara, e questa sola diremo: l’istituzione, da parte di Inps, del mese di “giuglio”, un mese che se lo guardi in un modo è giugno ma se lo guardi un po’ più inclinato è luglio, un po’ come quelle figurine a doppio riflesso, o stampa lenticolare che dir si voglia (chissà se, a questo punto, conseguentemente invece di fare un UniEmens istituiranno un DuEmens, dichiarazione bifronte). Vedremo (che Dio ci protegga. E anche che – sia pur  “leggerissimamente” – li strafulmini!). Fine della premessa, avulsa ma doverosa.

Oggi invece vorremmo prendere in considerazione i cosiddetti “contratti pirata”, quelle contrattazioni collettive, normalmente di non elevata rappresentatività, che sono così definite per alcune loro proprietà poco simpatiche. Noi dobbiamo forse intenderci prima sul termine di “pirata”, che troppo spesso nella letteratura  assume un significato nobile, di antieroe buono, simpatico e battagliero (solo formalmente dalla parte sbagliata) in nome di una qualche giustizia. A quelli della mia età (o oltre) sicuramente non sfuggirà il riferimento ai racconti di Salgari, Sandokan in testa ma anche il Corsaro nero (con tanto di figlia e colorazioni varie), generazioni successive hanno seguito l’astro-bucaniere Capitan Harlock o il Jack Sparrow della saga de “i Pirati dei Caraibi” (spero che a questo punto nessuno tiri fuori “Soy un pirata soy un senor” di Julio Iglesias).. Tuttavia, pirata ha un’accezione indubbiamente negativa: i film e i cd riprodotti illegalmente sono “piratati”, la pirateria informatica è quella che ti ruba le password o ti spara virus sul pc, chi si muove in un certo modo nel mondo della finanza è definito un pirata. I pirati del mare esistono anche oggi e molte navi cargo o da crociera se ne devono difendere (e non è mica così simpatico e romantico imbattersi in qualcuno che ti mitraglia senza troppi problemi).

Insomma, un pirata è uno che ruba, che uccide, che fa scorrerie, un fuorilegge, un bandito.

Ma parlando di contrattazione pirata, ecco intervenire subito il fine esegeta, il giuslavorista accademico, a sostenere in linea di diritto (con diverse buone ragioni, peraltro) che il termine “pirata” è, oltre che offensivo, del tutto improprio. L’art. 39 della Costituzione italiana sancisce l’assoluta libertà sindacale (e quindi di contrattazione)  e quindi in forza di ci  qualsiasi contratto avrebbe pari dignità di fronte alla legge. Se la legge volesse – come di fatto fa – condizionare benefici normativi o versamento della contribuzione al rispetto dei livelli di trattamento economico-normativo dei contratti costituiti da parti sociali di maggior rappresentatività, dovrebbe primariamente stabilire i criteri per come conteggiare e definire la rappresentatività. Ma siccome questo non viene fatto e rimane tutto in un sistema di confini incerti, parlare di pirateria contrattuale non si puo’ . Viviamo pertanto in una situazione di “entropia normativa” (la definizione è di un amico collega), una specie di notte in cui tutte le vacche sono nere, o bianche, o marroni, tanto è notte e ognuno vede il colore che vuole vedere.

Permettetemi una digressione, a questo punto. La nostra è una repubblica fondata sul lavoro. Ma anche se non fosse intervenuto l’art. 1 a dircelo graziosamente, la vita della maggior parte di noi è fondata sul lavoro, che occupa buona parte del nostro tempo e condiziona l’accesso delle persone alle risorse necessarie a condurre una vita libera e dignitosa (che è un diritto, come ci ricorda sempre la Costituzione). Qui interviene la legislazione sul lavoro, in Italia particolarmente corposa, la cui applicazione molto spesso per  poggia sulle declinazioni fatte dalla contrattazione collettiva. Che viene fatta dalle parti sociali. Che sono libere nel modo più assoluto e di cui non si puo’  valutare o regolare il funzionamento (se no che libertà sarebbe?) né la rappresentatività (perché le parti sociali “non ci tengono” poi così tanto a misurarsi).

Quindi, al di là di alcune norme confine basilari, questa cosa così importante che è il lavoro è regolata da ciascuno un po’ come gli pare. Ora, non si offenda il mitico Roberto Benigni, ma siamo arrivati ad un circolo vizioso in cui sostenere che la nostra Costituzione sia “la più bella del mondo” è un po’ azzardato (oltre che un tantino campanilista…). Ma alla fine, sapete qual è il problema vero? Che la legge vorrebbe far accedere alle agevolazioni contributive sono coloro che fanno le cose per bene, che hanno a cuore i diritti dei lavoratori. E pertanto guarda con disfavore chi i lavoratori li tratta meno bene. Per  ritorniamo da capo (chi decide chi tratta bene chi?). Tanto che qualcuno suggerisce che le agevolazioni siano concesse senza limitazioni, una specie di “tana libera tutti” (Paolo Conte canterebbe “libertà e perline colorate”). Qualcun altro invece propugna una legge sul trattamento minimo, per  siccome “lassù” di gente che capisce non ce n’è tantissima, le proposte sul valore dell’importo di questo trattamento minimo oscillano fra valori da fame – quindi assolutamente inutili – e valori altissimi, marziani, e quindi impraticabili; e peraltro si parla di trattamento minimo orario, cioè una cosa di vetustissima applicazione (e non facile comparazione)  rispetto ad un mondo del lavoro che sempre meno bada alle ore come misurazione del compenso. Se ne discute da anni. E i problemi aumentano.

Allora potrebbe essere interessante un criterio empirico, molto pragmatico, quasi forrestgumpiano: andare a vedere la quantificazione pratica di questo trattamento. Con un criterio abbastanza semplice. Pirata è chi il pirata fa. Chi mette le mani nelle tasche delle persone e/o dello Stato. Pirata è chi paga di meno e sfrutta. Se normalmente la contrattazione in voga ha una paga da 9 e tu dai 7, qualcosa non va. Pirata è chi evade, anche con mezzi pseudo-legali.

Ecco per  che tanti anni di letture salgariane cominciano a fare il loro effetto: il pirata in realtà si ribellerebbe a questo sistema marcio di cui quelli della “triplice” sono complici, quasi correi. E quindi la contrattazione pirata è una sorta di liberazione, un evadere dal maglio e dalle tenaglie di sindacati intrisi di potere e di connivenza col sistema. Come Sandokan contro il governatore James Brooke, rappresentante del potere di sfruttamento inglese attraverso la Compagnia delle Indie.

Ma qui vorrei introdurre ancora il tema che, tagliente come il rasoio di Occam, abbiamo posto a criterio. In tutto questo, chi ci guadagna e chi ci perde?

Perché a me piacerebbe vedere, davvero mi piacerebbe, una contrattazione minore (diciamo, meno rappresentativa) che avesse il coraggio di pagare non dico di più ma almeno tanto quanto quella che va per la maggiore, magari anche come trattamento complessivo. Una contrattazione che avesse a tema il welfare e la formazione, la sussidiarietà e la bilateralità (quelle vere, non di facciata o ancor peggio di business squallido1). Invece non è così, è drammaticamente il contrario: siamo onesti, ci sono contratti collettivi che devono il loro successo solo e soltanto al brutale risparmio in termini di costo del lavoro (cioè paghe minori). E attraverso di loro e con i meccanismi di esternalizzazioni più o meno azzardate il mondo del lavoro gioca al ribasso. Sulla pelle di chi  provate un po’ ad immaginare. Ecco la pirateria negativa. E se in un ultimo sussulto di pseudo dignità il pirata per giustificarsi) dovesse tirare fuori il costo del lavoro, lo Stato ladrone e sprecone, i politici etc etc. io chiederei: e quindi? Perché questo prezzo lo devono pagare i lavoratori? Quando e come siamo diventati una società che invece che progredire e cercare soluzioni intelligenti scatena meschine guerre fra poveri? E poi, che senso ha la proliferazione, anche fra le sigle maggiori, di così tanti contratti collettivi? Perché un contabile di un settore prende più o meno di uno che fa lo stesso lavoro in un altro settore? E la solidarietà sociale? Ah no, c’è la libertà economica.

Eh già, la libertà.

Alla nostra generazione, fin da giovani hanno insegnato che libertà non puo’  essere distinta dalla responsabilità, insomma che la libertà ha un prezzo da pagare se vuole essere dignitosa e non velleitaria o pretestuosa. Così ci dicevano che nessuno dettava i tempi e i modi per studiare (oggi, con lo smart working, anche per lavorare) bastava che i risultati arrivassero.  Anche perché,  se poi i risultati non arrivano, la libertà è solo un’occasione sprecata ed un pretesto per fare altro.

E allora se vuoi essere libero e dignitoso, paga bene e fai cose intelligenti senza abbassare tutele e stipendi.

Non discutiamo, va bene, su chi è pirata o chi no. Domandiamoci piuttosto se c’è un’etica pubblica e privata nel pagare poco e meno le persone che lavorano, nel generare enti bilaterali farlocchi, nel drenare risorse ed energie pubbliche e private.

È probabile, diciamolo en passant, che al vaglio di alcune di queste domande non sfuggirebbero nemmeno le parti sociali c.d. maggiormente rappresentative. Alle quali è riconosciuto un grande potere. E quindi hanno grandi responsabilità.

Torna ancora questa parola: responsabilità. E io mi chiedo, per fare qualche esempio, come si possa esser responsabili se da maggior forza sindacale (o presunta tale) dei lavoratori invece di promuovere contrattazioni collettive che individuino meccanismi di regolarità degli appalti si promuove un referendum (è successo nel 2016) per togliersi del tutto questa possibilità, d’altronde mai usata o tentata dal sindacatone nei dieci anni in cui è rimasta in vigore.

La complessità del mondo del lavoro è tanta e quindi ci si dovrebbe chiedere se è responsabile un approccio meramente ideologico alla legislazione sul lavoro, che ingessa il mondo del lavoro e con la sua rigidità apre la porta a vie di fuga disonorevoli, dal nero a fattispecie contrattuali improbabili.

Né riesco a capire le Centrali Cooperative, che attraverso il loro osservatorio costituito dalle maggiori organizzazioni sindacali, sono arrivate ad affermare che le cooperative spurie sono quelle che non applicano le contrattazioni maggiormente rappresentative (cioè le loro); niente di più illogico, le cooperative spurie sono quelle in cui i soci non partecipano direttamente ed attivamente alla gestione ed alle decisioni della cooperativa. E ce ne sono tantissime che pure sotto l’egida di una tessera o di una protezione politico-sindacale così autentiche non sono. E anche qui, chi ha la responsabilità della proliferazione di tanto sottobosco cooperativo?

Quindi tutto è ancora una volta marcio e siamo nell’entropia più assoluta? Niente affatto, diciamo che se nessuno pu  arrogarsi il diritto di ergersi su di un piedistallo e dare del pirata agli altri, se nessuno puo’  fare la morale, tutti possiamo usare il criterio di capire chi e come e quando qualcuno fa il pirata: quando rubi, imbrogli, ordisci, evadi, paghi meno sei un pirata. Se usi un contratto collettivo che ti fa risparmiare pagando meno i tuoi lavoratori, non importa quali buchi normativi abbia il sistema italiano: sei un pirata. Oppure chiamati come vuoi, semplicemente non sei una brava persona o una brava azienda E meriti tutti gli inciampi possibili sulla tua strada perversa.

Ricordando sempre, in ogni caso, che i pirati non viaggiano mai da soli, e che la complicità o lo strizzamento d’occhio ai pirati arriva da affaristi, politici e non ultimi, anche purtroppo da qualcuno del mondo professionale.

Comunque, alla fine, ragionando di pirati, un piccolo aggancio rispetto alla premessa avulsa di questo articolo  l’ho trovato. Perché di fronte a tanta astrusità normativa, sia quella dei 200 euro sia l’incapacità di governare le dinamiche salariali frenando le vie al ribasso, un moto di ribellione istintivo, quasi piratesco (ma nel  senso nobile) un po’ al consulente del lavoro viene. E certo non ci vedo entrare in qualche ufficio pubblico o istituzionale brandendo il kampilang 2 a mutilare funzionari spesso incolpevoli: ma qualche azione dissuasiva anche pesante contro una legislazione sempre più assurda  e inefficace sarebbe davvero doverosa.

Per  non confondiamoci mai: ribelli sì, ma coi pirati nessuna connivenza.

1.  Per il business squalliduccio, si puo’  far riferimento al Senza Filtro dello scorso numero, L’uomo che sussurrava ai professionisti.

2. Nella narrazione salgariana, il kampilang (o kampilan) è l’arma prediletta usata dai pirati malesi, un pesante arnese, una specie di via di mezzo fra una spada ed una scimitarra.


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