Una proposta al mese – Ancora INPS: garantire una corretta gestione delle richieste

di Valentina Curatolo,  Consulente del lavoro in Milano  e Daniela Stochino, Consulente del lavoro in Milano

Come promesso ritorniamo sull’argomento già trattato nell’articolo apparso su questa Rivista nel mese di novembre 2018 per integrare alcune proposte parallele in merito alla gestione della debenza  contributiva.
Anzitutto riteniamo opportuno aggiornare  i nostri lettori sugli sviluppi intervenuti e,  soprattutto, sulla sensazione che forse, finalmente, qualcosa si stia muovendo. Sul  punto è d’obbligo il riferimento alla lettera che la Presidente Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha trasmesso al Ministro Di Maio, nella quale ha esposto le difficoltà che le aziende e i Consulenti del lavoro riscontrano nell’ottenere il Documento di Regolarità Contributiva, dovendo scontrarsi con “semafori”, “lucchetti” e automatizzazione di processi non controllabili. Nel corso degli “Stati Generali” dei Consulenti del lavoro che si sono svolti a Roma l’11 gennaio scorso, in occasione della celebrazione del 40° della professione, il Ministro ha garantito di aver tenuto in debito conto le sollecitazioni ricevute. Oltre a quanto già esposto, le proposte che  offriamo in questo articolo non entrano nel merito del “contenuto” della norma, di cui all’articolo 1, comma 1175 della Legge n. 296/2006 (Finanziaria 2007), ma si concentrano sulle “modalità formali” di richiesta e di gestione delle posizioni scoperte (o presunte tali). Sono in parte anche interventi “minimi”, ma  con i quali si potrebbero superare alcuni “ostacoli” burocratici di sicuro peso per le aziende.
Di seguito, quindi, le nostre ulteriori proposte:

1) Possibilità di richiedere il Durc almeno 30 giorni prima della scadenza e non solo una volta trascorsi i 120 giorni di validità. Allo stato attuale, infatti, è possibile richiedere l’emissione di un nuovo Durc solo allo scadere della validità del precedente. Questo comporta che nel caso in cui emergesse una qualche irregolarità (purtroppo non è infrequente che la stessa non sia reale ma emerga da un dato sporco o irrisolto presente nei non sempre affidabili archivi Inps), un’azienda, seppure regolare nei pagamenti, vivrebbe concitatamente un periodo di possibile “scopertura” che potrebbe arrivare fino a 30 giorni (termine massimo entro cui l’Inps deve emettere l’esito positivo o negativo della richiesta). In molti casi, soprattutto nell’ambito degli appalti, le aziende senza il Durc non possono nemmeno lavorare o trovano un blocco nei pagamenti, già difficili da ottenere con regolarità.
Tra l’altro segnaliamo che alcune sedi Inps territoriali hanno manifestato alcuni comportamenti stigmatizzabili:

– pseudo-emissione di Durc negativi (tale è in fondo l’effetto di un Durc non processato) allo scadere del trentesimo giorno solo perché non avevano avuto la possibilità di lavorare la pratica, chiedendo al Consulente del lavoro di inserire una nuova richiesta sul portale;
– Durc elaborati negativamente in casi di risposte non condivise/recepite ben prima del 30° giorno, senza un reale approfondimento ma solo per rispettare (e questo pare un assurdo) “processi di
qualità” interni che prevedono un’accelerazione dei tempi di processo del Durc.
2) Nell’ipotesi di Durc irregolare, consentire alle aziende di aver più tempo per la regolarizzazione, ampliando i termini attuali, portandoli da 15 a 45 giorni.
3) Sempre nell’ipotesi di Durc irregolare per mere violazioni formali e, quindi, nel caso di contributi sostanzialmente pagati, in attesa che l’azienda ricostruisca la situazione, modifichi i flussi e l’Inps li acquisisca, sanando la propria posizione, riteniamo corretto, dato le
tempistiche lunghe, avere la possibilità di concedere all’azienda un “Dur c Te mporaneo”della durata di 15 o 45 giorni (stesso termine per la regolarizzazione) e non di 120 giorni; ciò permetterebbe alle società di non avere “blocchi” nello svolgimento delle proprie attività nelle more della definizione delle irregolarità.
4) Valutare la possibilità di rilasciare il “Durc temporaneo” anche in presenza di attività, messe in atto da parte delle aziende, per contestare il debito richiesto da parte dell’Istituto ritenendo che lo stesso non sia dovuto o sia dovuto in parte – ricorsi amministrativi proposti, ricorsi giudiziari depositati in tribunale-
sino a definizione degli atti.
5) Istituire una procedura di silenzio-assenso sul dialogo post-richiesta di Durc che obblighi l’Istituto a rispondere entro 30 giorni, trascorsi i quali il Durc verrà considerato comunque regolare (salvo successivo intervento dell’Istituto).
6) Per bilanciare tale favor verso il contribuente e, per contrastare possibili fenomeni scorretti, prevedere sanzioni pesanti per chi ponga in essere (azienda o anche professionista) attività fraudolente per sfruttare le previsioni di cui sopra con comportamenti temerari o palesemente dilatori.

Auspichiamo che i suggerimenti che provengono (come i nostri) dall’esperienza  professionale dei Consulenti del lavoro – il  cui fine è unicamente quello di migliorare le attività con cui ci scontriamo giornalmente – vengano colti e, che le promesse di modifiche legislative riferite all’argomento in esame, comprese quelle annunciate dal Ministro Di Maio nell’intervento sopra ricordato, vengano mantenute, non con interventi “spot” ma nel quadro di una rivisitazione organica e sistematica della materia.

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L’apprendistato di primo livello non decolla? Proviamo a fare chiarezza

di Valentina Curatolo,  Consulente del lavoro in Milano 

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una rilevante diffusione del contratto di apprendistato professionalizzante, mentre al contrario le altre due tipologie di primo e terzo livello – quelle che prevedono, l’alternanza scuola-lavoro e il coordinamento tra impresa e istituzione scolastica – sono rimaste per lo più inattuate, salvo rare eccezioni in alcune Regioni più “virtuose” tra le quali rientra sicuramente il modello attuato dalla Regione Lombardia.

Qualche mese fa durante il dibattito ad un convegno, il cui tema era per l’appunto l’apprendistato di primo livello, una docente di un istituto professionale di Milano, che vanta l’attivazione di numerosi contratti di apprendistato di primo livello, ha fatto notare che quando l’istituzione scolastica contatta le aziende per proporre il primo livello di apprendistato, queste si riservano sempre di consultare il loro Consulente del lavoro prima di accettare l’inserimento di uno studente in azienda.

Come categoria siamo dunque investiti di un ruolo di primaria importanza per la diffusione del contratto di apprendistato di primo livello, disciplinato dall’art. 43 del D.lgs. n. 81/2015 e riservato ai giovani tra i 15 e 25 anni. La fattispecie in questione è finalizzata, attraverso il meccanismo dell’alternanza scuola-lavoro, all’acquisizione di una qualifica e di un diploma professionale, un diploma di istruzione secondaria superiore o un certificato di specializzazione tecnica superiore,

Conoscere e diffondere la cultura dell’apprendistato è un dovere sociale in quanto l’apprendistato non è semplicemente una tipologia contrattuale ma un utile strumento per agevolare i giovani nel delicato passaggio tra scuola e lavoro e che può rivelarsi particolarmente efficace a ridurre il divario, in termini di competenze, tra scuola ed impresa.

L’apprendistato di primo tipo, se utilizzato con cognizione di causa è altresì un validissimo strumento contro la dispersione scolastica, in quanto accompagna all’acquisizione del titolo anticipando l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovanissimi.

Infine rappresenta uno strumento strategico per la lotta contro la disoccupazione giovanile, arrivata a livelli allarmanti.

Ma a questi obiettivi, per così dire “sociali”, si affianca una profonda opportunità per l’impresa, in grado di incidere direttamente sulla formazione del giovane da inserire in azienda coordinando teoria e pratica in modo funzionale alle necessità del mondo del lavoro.

Una logica win-win, insomma.

Nella maggior parte dei casi l’avviamento del contratto avviene per iniziativa dell’istituzione scolastica che contatta le imprese e propone l’inserimento di un giovane studente in apprendistato di primo tipo dopo un periodo di alternanza scuola lavoro. Ciò non toglie che l’iniziativa possa arrivare dall’azienda interessata ad avviare dei contratti di questo tipo.

Questi, in estrema sintesi, i passaggi operativi da attuare per l’avvio di un contratto di apprendistato di primo livello:

  1. Stipula di un protocollo tra datore di lavoro e istituzione formativa che disciplina compiti e responsabilità. Il D.M. 12/10/2015 riporta in allegato uno schema di Protocollo, che le parti devono compilare e hanno la facoltà di integrare, in funzione di specifiche esigenze. Tale schema di protocollo si compone di 8 articoli che nello specifico disciplinano:
  2. oggetto
  3. tipologia e durata dei percorsi
  4. modalità di articolazione della formazione interna/esterna
  5. tipologia e modalità di individuazione dei destinatari
  6. obbligo di sottoscrivere un piano formativo individuale
  7. ripartizione della responsabilità formativa in capo all’istituzione scolastica e datore di lavoro
  8. modalità di valutazione da parte dell’istituzione scolastica, in collaborazione con l’azienda, dei risultati conseguiti dall’apprendista ai fini del superamento dell’esame finale e l’acquisizione del titolo
  9. decorrenza e durata del protocollo.

In questa fase il Consulente del lavoro può supportare l’azienda, ma non entra nel merito del contenuto del protocollo che rimane a cura dell’istituzione scolastica e del datore di lavoro.

  1. Una volta sottoscritto il protocollo è necessario procedere con la redazione del piano formativo individuale (PFI), redatto a cura dell’istituzione formativa con il coinvolgimento del datore di lavoro. Nel PFI viene stabilita la durata del contratto e la durata e l’articolazione annua della formazione interna ed esterna, secondo la normativa scolastica vigente in relazione al titolo da conseguire e l’anno scolastico che si trova a frequentare l’apprendista. Sul PFI vengono anche individuati un tutor aziendale e uno scolastico. La redazione del calendario delle ore di formazione interna ed esterna è a cura dell’istituzione scolastica.
  • Ai sensi del D.lgs. n. 81/2015 (art. 42, co. 1) il contratto di apprendistato deve essere stipulato in forma scritta, pertanto, con il supporto del Consulente del lavoro, sarà necessario procedere con la redazione della lettera di assunzione. A tal fine preliminarmente si dovranno controllare le regolamentazioni collettive, ovvero Ccnl e accordi interconfederali di settore, che intervengono invece a disciplinare tutta la parte relativa allo svolgimento del rapporto di lavoro (trattamento economico e normativo).
  1. Se l’apprendista è minorenne, l’ammissione al lavoro deve essere obbligatoriamente preceduta da una visita medica preassuntiva.
  2. L’apprendistato di primo livello è a tutti gli effetti un rapporto di lavoro subordinato e pertanto è obbligatoria la comunicazione di assunzione al centro per l’impiego da inviare preventivamente all’avvio del contratto, secondo le normali tempistiche previste.

E’ tuttavia opportuno segnalare che, nonostante lo sforzo di alcune Regioni per la diffusione del contratto di apprendistato di primo livello, molti sono ancora i punti irrisolti che necessiterebbero di chiarimenti da parte degli attori competenti.

A mero titolo esemplificativo, ci sono dei punti aperti per quanto riguarda il trattamento in caso di malattia (per esempio, cosa succede nel caso di malattia intervenuta in un giorno di formazione scolastica?), maternità e infortunio. Da quando decorre il periodo di preavviso? Quando devono essere godute le ferie? Quali sono le modalità di maturazione e quantificazione della retribuzione differita ?

La mancanza di una risposta certa a questi e altri quesiti, ricavabili solo in via interpretativa, ha l’effetto di scoraggiare la diffusione del contratto in argomento: può accadere, infatti, che i  colleghi più timorosi arrivino a sconsigliarne l’utilizzo in alternativa ad altre tipologie contrattuali sicuramente più agevoli da attuare.

Forse sono proprio questi i motivi della mancata diffusione del contratto di primo livello; d’altra parte un Consulente del lavoro che consiglia ad un’azienda questa tipologia contrattuale, si assume in parte il rischio di colmare con la propria competenza, e talvolta anche con una certa dose di fantasia e coraggio, i tanti punti irrisolti ancora aperti, addossandosene (ingiustamente) la responsabilità.

Sappiamo bene come la certezza del diritto per le aziende – ma anche per tutti gli operatori –  rappresenti sempre di più una necessità. Quindi se da un lato sono evidenti le enormi potenzialità, già ricordate in apertura di questo articolo, di tale fattispecie contrattuale, dall’altro non si può non auspicare un intervento volto a fare chiarezza sugli aspetti irrisolti.

Queste risposte devono arrivare da più parti: il Legislatore, le Regioni (detentrici del potere di legiferare in tema di formazione professionale), le Parti Sociali a cui è demandata l’analisi delle specificità di settore.

In questo quadro come sempre i consulenti del lavoro sono disponibili al dialogo con le istituzioni e con il mondo del lavoro al fine di mettere in luce gli aspetti tecnico-operativi da risolvere e al fine di trovare soluzioni adeguate che garantiscano un incontro efficace tra formazione e lavoro, per offrire posti di lavoro concreti ai giovani e colmare il bisogno di competenza e professionalità  delle imprese, il che non può avvenire se non in un quadro di certezza del diritto e chiarezza delle regole.

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Una proposta al mese – Durc e agevolazioni contributive: un problema da risolvere al più presto. Le nostre proposte

di Valentina Curatolo,  Consulente del lavoro in Milano  e Daniela Stochino, Consulente del lavoro in Milano

“Donaci, o padre Zeus

il miracolo di un cambiamento”

(Simonide di Ceo)

In considerazione dell’importanza che riveste l’argomento e della necessità di una risoluzione rapida dei problemi legati al Durc, il Centro Studi e Ricerche dei Consulenti del Lavoro di Milano ritiene utile avanzare delle proposte volte alla semplificazione delle procedure ed alla risoluzione rapida dei problemi legati al rilascio della regolarità contributiva.

In considerazione della complessità della materia e delle molteplici sfaccettature che si interfacciano sul tema dei versamenti contributivi, ci limiteremo qui alle questioni inerenti al “Durc interno” ed ai risvolti sulla perdita delle agevolazioni, riservando di esporre altre proposte in prossimi numeri della rivista.

Partiamo da una considerazione generale: nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un processo di profondo cambiamento nella gestione previdenziale dei rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato.

Da un lato abbiamo una normativa in continua evoluzione e sempre più complessa, dall’altro lato il “processo di telematizzazione” interno all’Inps, nato con l’obiettivo di semplificare la procedura di rilascio del Durc, di fatto ha generato pericolosissimi automatismi di accertamento delle irregolarità o presunte tali, con conseguenze a volte finanche drammatiche per le aziende, se si considera l’importanza che riveste oggi la regolarità contributiva per le aziende.

È chiaro e palese agli occhi di tutti coloro che per un motivo o per un altro hanno avuto la necessità di rapportarsi con l’Inps, che l’Istituto non è stato in grado di sviluppare una procedura informatica in grado di gestire la complessità della materia previdenziale.

Con ciò non vogliamo certo negare che la tecnologia informatica non possa essere un ausilio fondamentale nei rapporti con la P.A.  e nella gestione della stessa, tuttavia negli ultimi anni è forte l’impressione che l’Inps abbia gradatamente abbandonato l’intelligenza umana – cosi ricca di discernimento – a favore di una ”intelligenza informatica” spesso rigida, impersonale e schematica oltre misura, forse anche per una programmazione ancora parecchio inadeguata.

I riscontri nella realtà sono molteplici: quante volte infatti i consulenti del lavoro si sono sentiti rispondere degli operatori Inps affermazioni quali “è la procedura” oppure “non possiamo forzare la procedura”.

Ad aver aggravato tale situazione si aggiunge il fatto che l’Inps manifesta l’intenzione di avere sempre meno rapporti diretti con le aziende e i consulenti del lavoro.

La discussione vis à vis arriva solo dopo mesi di tentativi, e soltanto come extrema ratio.

Lo strumento di comunicazione bilaterale, il famoso “cassetto previdenziale”, ha miseramente fallito. Possiamo senza dubbio affermare che non rappresenta ad oggi uno strumento idoneo e sufficiente a gestire le necessità di comunicazione delle aziende e dei professionisti con l’Ente. Nella stragrande maggioranza dei casi le risposte che si ricevono non sono pertinenti alla domanda o comunque non sono risolutive, e in ogni caso arrivano sempre in tempi troppo lunghi, tempi incompatibili con l’esigenza degli operatori e con le tempistiche di scadenza contenuta negli atti emessi dallo stesso Istituto.

Si pensi ad esempio che una nota di rettifica a debito ha scadenza 15 giorni dall’emissione. Ma se si rileva che l’importo non è dovuto o è dovuto in parte, i tempi di risposta del cassetto non sono compatibili con la scadenza della nota stessa.

Le aziende devono decidere se pagare ed evitare problemi con il Durc oppure rischiare e attendere nella speranza di riuscire a comunicare con l’Inps.

Una follia, se si pensa che nella maggior parte dei casi un’interlocuzione diretta con personale competente sarebbe sufficiente a risolvere il problema in tempi brevi.

In questo articolo ci concentreremo in particolare su quello che sta diventando sempre più un problema allarmante ovvero la gestione del c.d. “Durc interno”, un apparato dai riflessi quasi diabolici messo a punto dall’Inps per la verifica automatica della regolarità contributiva che permette alle aziende di fruire delle agevolazioni contributive previste dalla legge.

La fonte normativa di riferimento è l’art. 1, co. 1175 della L. 27 dicembre 2006, n. 296 che testualmente recita “a decorrere dal 1° luglio 2007, i benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati al possesso, da parte dei datori di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva, fermi restando gli altri obblighi di legge ed il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

Su queste poche righe l’Inps ha costruito procedure e controlli automatizzati che hanno come conseguenza la perdita dei benefici contributivi fruiti.

La prima proposta che avanziamo all’Istituto, dunque, è proprio questa: “basta automatismi”, l’irregolarità o le scoperture che possono dar luogo alla perdita di agevolazioni devono essere notificate con concessione al datore di lavoro di un termine congruo, che riteniamo dovrebbe essere di almeno 30 giorni, per sistemare la posizione e/o confrontarsi con l’Ente. Soprattutto i famosi “semafori rossi” (e multicolore) e i vari “lucchetti” che indicano che l’azienda è definitivamente irregolare senza possibilità di intervento da parte degli operatori Inps, non possono nella maniera più assoluta essere frutto di controlli automatici, spesso fallaci, dai quali scaturiscono i recuperi delle agevolazioni contributive fruite. Chiediamo dunque che prima di far scattare i semafori rossi “lucchettati”, ci sia un confronto formale con l’azienda o con l’intermediario di riferimento.

Molto spesso infatti abbiamo assistito a recuperi di agevolazioni contributive per banalissime violazioni o ritardi di tipo amministrativo.

Facciamo un esempio concreto: se un datore di lavoro temporaneamente senza dipendenti, non procede a sospendere la matricola per i mesi in cui l’Inps non riceve i flussi Uniemens e pagamenti F24, essendo la matricola attiva, automaticamente la procedura rileva l’irregolarità contributiva con il recupero delle agevolazioni fruite. Ne consegue dunque che una violazione banale ha come conseguenza non una sanzione amministrativa congrua, ma un danno economico che in alcuni casi arriva anche ad essere ingente.

Da qui la nostra seconda proposta: “richiediamo che ci sia proporzionalità tra l’infrazione commessa e la relativa sanzione. Non è possibile che violazioni esclusivamente formali, che non comportano una mancata contribuzione, abbiano come conseguenza il Durc interno negativo, con semaforo rosso e “lucchettato”.

Nei casi come quello sopra riportato non deve conseguire alcuna perdita di agevolazione, che la legge prevede correlata ad un mancato versamento. L’Inps invece allargando, indiscriminatamente e senza alcun sostegno normativo, il concetto di irregolarità contributiva ex art. 1, co. 1175 della L. 27 dicembre 2006, n. 296, considera tali violazioni idonee alla perdita del Durc interno, non solo, ma lo fa anche con una procedura automatizzata senza considerare la storia pregressa dell’azienda, un’azienda potrebbe anche essere stata regolare nei versamenti e nell’invio delle denunce contributive, ma una violazione formale potrebbe costarle il recupero degli incentivi fruiti.

Senza voler entrate nel merito dei processi di organizzazione interni all’Inps, che sappiamo essere complessi, riteniamo che gran parte di questi problemi potrebbero essere risolti, come già sottolineato, parlando direttamente con l’operatore responsabile della pratica. A tal proposito si potrebbe pensare di avere un referente (o meglio un gruppo di lavoro) a cui assegnare un certo numero di matricole, una organizzazione alla stregua dei nostri studi più strutturati, in modo tale da raggiungere una continuità ed uniformità di trattamento, senza la sensazione attuale di rimbalzo dei problemi, con utilità reciproca (sia dell’operatore ma anche dell’Ente).

Rispetto alla marginalità di determinate scoperture, riterremmo inoltre equo fissare un più elevato limite di debito al di sotto del quale l’azienda venga considerata comunque regolare (ad esempio: 3% del dovuto ad Inps, con un limite minimo di valore assoluto complessivo di 500 euro), in modo da non rischiare di perdere i benefici per scoperture di poco conto, magari dovute a contenziosi o importi generati in modo improprio.

Valorizzeremmo inoltre la possibilità della regolarizzazione spontanea o ravvedimento operoso. Sotto questo profilo, le aziende non perderebbero le agevolazioni – o, se perdute, le recupererebbero – in caso di regolarizzazione totale intervenuta entro 24 mesi dalla data di scadenza del primo pagamento.

Perché, in fondo, tutte queste proposte? Non certo per un favor verso l’evasione, ma perché riteniamo che le agevolazioni contributive siano in realtà connaturate al rapporto di lavoro ed alle condizioni dello stesso e non un elemento posticcio. Giusto pertanto che la legge revochi la loro fruizione nel caso di conclamata scorrettezza, del tutto ingiusto ed irragionevole che a causarne la perdita siano violazioni marginali se non addirittura semplici equivoci o sfasamenti burocratici, penalizzando imprese sane ed oneste.

 

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