IL TIROCINANTE può lavorare?

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

 

Il tirocinante può lavorare? La risposta è sì, laddove per lavoro non si intenda quanto strettamente riconducibile all’art. 2094 c.c..

L’art. 2094 c.c., come noto, disciplina infatti la figura del lavoratore subordinato, e quindi la subordinazione, foriera di una gamma di doveri, diritti e obbligazioni in capo alle parti, indubbiamente peculiari.

Ai sensi dell’art. 1, comma 720, L. n. 234/2021, “Il tirocinio è un percorso formativo di alternanza tra studio e lavoro finalizzato all’orienta- mento e alla formazione professionale, anche per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro […]” e lo stesso, ex comma 723, “[…] non costituisce rapporto di lavoro e non può es- sere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente”, a sancire una volta ancora la sostanziale differenza tra lo strumento in analisi, da considerarsi puramente orientativo-formativo, e il reale rapporto di lavoro. E, sebbene quanto detto risulti piuttosto chiaro, preme notare come il dettato normativo menzionato non chiarisca in- vero la modalità di attuazione pratica del tirocinio, se non sancendo una non meglio spiegata alternanza1, identificandone invece in modo molto specifico unicamente la sua natura.

L’aspetto pratico, tuttavia, è indubitabilmente fondamentale per la corretta attuazione del periodo, al di là della (altrettanto fondamentale) qualificazione della sua natura giuridica. Se, com’è evidente, nell’attuazione e gestione del tirocinio ci si allontana da gran parte delle tutele (se non tutte) previste dal nostro ordinamento giuridico per il rapporto di lavoro subordinato, diverso aspetto è invece capire se il tirocinante possa lavorare alla stregua di un lavoratore dipendente, se possa quindi “sporcarsi le mani”, se possa operativamente manovrare gli strumenti, o fornire l’apporto concettuale tipico della figura impiegatizia, oppure se la sua debba essere una mera presenza sul luogo del Soggetto Ospitante, potendosi quindi rifiutare di rendere quella che, nei fatti e solo nei fatti, resta una prestazione di lavoro. La domanda potrebbe apparire banale, dalla risposta scontata, a maggior ragione se si tiene conto delle previsioni di cui alla Legge di Bi- lancio 2022, le quali scandiscono espressamente due momenti differenti all’interno del tirocinio, ossia lo studio e il lavoro, tra loro in alternanza.

D’altra parte, il dubbio sollevato non pare una novità, se si pensa che esistono casi in giurisprudenza che, in tutta evidenza, denotano l’insorgenza dello stesso in capo a taluni attori e ricorrenti2.

E, al fine di consegnare una risposta alla domanda che dà titolo al presente contributo, è proprio la giurisprudenza che potrà essere presa a riferimento definitivo, la quale consegna degli elementi indispensabili per comprendere cosa debba e possa fare il tirocinante nel luogo della sua esperienza formativa, così come si vedrà in conclusione.

Tuttavia, al fine di giustificare la risposta data in apertura, è possibile ricorrere anche ai documenti di prassi amministrativa, certamente espliciti nel confermare le modalità effettive di attuazione del tirocinio. Scendendo nel merito, fatte salve innanzi a tutto le precipue previsioni del singolo progetto formativo, che potrebbero delineare nello specifico la reale modalità di svolgimento dei percorsi, la prassi amministrativa sembra chiarire, a più riprese, la possibilità di adibire al lavoro il tirocinante.

In particolare, esaminando la circolare n. 8/2018 dell’Inl, si ritrovano alcuni evidenti riscontri di tale possibilità, purché non si realizzi un perfetto inserimento nell’attività aziendale (e cioè nel ciclo produttivo). In tema di riqualificazione del rapporto, dapprima la circolare in analisi chiarisce che l’“attività dei tirocinanti – benché finalizzata all’apprendimento on the Job – può presentare aspetti coincidenti con i profili dell’eterodirezione che tipicamente connotano i rapporti di lavoro subordinato”, successivamente la stessa chiarisce che tale attività debba essere “effettivamente funzionale all’apprendimento e non piuttosto all’esercizio di una mera prestazione lavorativa”.

Ciò che risulta chiaro è, in ogni caso, la presenza di un’attività lavorativa, sebbene (richiamandosi a un diverso riferimento di prassi) tale attività non possa essere svolta “come un vero e proprio rapporto di lavoro subordina- to”3, pur avendone delle sembianze in comune in termini di eterodirezione.

In tutta evidenza, l’ago della bilancia sulla legittimità del tirocinio non sarà quindi tanto la resa concreta di un’attività lavorativa di per sé, quanto l’eventuale “pregressa professionalità emergente dagli specifici compiti svolti”4 e il “ruolo assunto nell’azienda”5 dal tirocinante, tenuto conto anche (ma non esclusivamente) degli indici di subordinazione più volte enucleati dalla giurisprudenza6.

In altre parole, colui che effettua un tirocinio, pur lavorando: non potrà essere, nella resa di una determinata mansione lavorativa, titolare di doveri in termini di produttività oltreché titolare di parte7 di quelle responsabilità ascrivibili all’obbligo di diligenza; aspetti che sono normalmente da ricondurre alle obbligazioni che scaturiscono dall’instaurazione di un rapporto di lavoro dipendente e pertanto ti- pici appunto del rapporto sinallagmatico di cui all’art. 2094 cod. civ., cosa che il tirocinio assolutamente non è, pur conservando dei tratti di corrispettività8;

  • non potrà essere un elemento indispensabile dell’ossatura aziendale, posto che, come già chiarito, il tirocinante, ex lege, non può essere utilizzato per sostituire lavoratori dipendenti, tenuto conto in aggiunta che le linee guida del 2017 in materia di tirocini extracurricolari, teoricamente in procinto di essere sostituite ai sensi dell’art. 1, comma 721, L. n. 234/2021, chiariscono l’impossibilità di attivazione di un tirocinio da parte del Soggetto Ospitante laddove necessario “per ricoprire ruoli necessari all’organizzazione dello stesso”9;
  • e non potrà, infine, essere già competente e formato, il che si porrebbe in evidente contra- sto con la natura specifica dello strumento che nasce, expressis verbis, per orientare e formare.

Solo allora, egli, potrà rendere una prestazione di lavoro pur essendo un tirocinante, altri- menti si sarà in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, che, come tale, dovrà essere coerentemente trattato.

 

 

1. Sulla questione, preme sottolineare il passaggio da quanto sancito dalla risalente L. n. 196/1997 a quanto sancito dalla più recente L. n. 234/2021. In particolare, la L. n. 196/1997, all’art. 18, prevedeva il tirocinio “Al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro”, mentre la più recente norma, all’art. 1, comma 720, prevede un tirocinio che sia caratterizzato, esso stesso, dall’ “alternanza tra studio e lavoro”.

2. Cfr. ex multis Cass,. n. 25508/2022 e Cass., n. 18192/2016.

3. Nota Inl n. 1451/2022.
4. Cass., n. 18192/2016.
5. Ibidem.
6. Cfr. Cass., n. 25508/2022, in cui si richiamano gli indici rilevatori di subordinazione e quelli sussidiari.
7. Alcune sfumature dell’obbligo di diligenza sembrano permanere, si pensi alla correttezza e buona fede che devono essere riposte pur nella effettuazione di un tirocinio. D’altra parte, “la diligenza esigibile dal lavoratore come attitudine a rendere una prestazione positivamente inseribile nell’organizzazione produttiva predisposta dal datore di lavoro” non pare invece in linea con le caratteristiche intrinseche del tirocinio e del tirocinante, il quale deve restare una semplice appendice rispetto ad una struttura di per sé già autonoma e funzionante. Per la citazione tra virgolette si veda M. Roccella, Manuale di diritto del
lavoro, Giappichelli Editore, p. 267.
8. Cfr. M. Tiraboschi, che chiarisce come sia presente un diverso corrispettivo anche per il tirocinante che non è raffigurabile nella retribuzione, “il corrispettivo della attività lavorativa svolta dal tirocinante in azienda è cioè rappresentato dalla occasione di formazione e/o di orientamento”, in Diritto delle Relazioni Industriali, numero 1/XI-2001, Giuffrè Editore, p. 64.
9. Cfr. Linee Guida 2017, premesse, punto B)

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WELFARE PER I TIROCINANTI: una contraddizione in termini?

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

 

Un orientamento di qualche anno fa dell’Agenzia delle Entrate considera possibile, senza dubbio alcuno, integrare in un sistema di welfare gli stagisti.

Nel dettaglio, si fa riferimento alla risposta a interpello n. 10 del 2018, che così si espresse: “nel caso in esame lo stagista, essendo ricompreso nella categoria di dipendenti […] potrà godere del regime esentativo previsto dalla lettera f) del comma 2 dell’articolo 51 del TUIR relativamente al servizio […] previsto nel Piano Welfare1.

Orbene, pur nella piena consapevolezza che un intervento di prassi non rappresenta una fonte normativa, il chiarimento fornito dall’Agenzia delle Entrate appare piuttosto lapidario e dirimente.

A questo punto della riflessione, preme soffermarsi sulla natura delle varie fattispecie chiamate in causa.

Com’è noto, il tirocinio è, ex lege, “un percorso formativo di alternanza tra studio e lavoro, finalizzato all’orientamento e alla formazione professionale, anche per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”2, il quale “non costituisce rapporto di lavoro e non può essere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente”3. Per quanto riguarda il welfare, invece, non esistendo un’univoca definizione giuridica, la quale pare rinvenibile a “macchia di leopardo”4 nel nostro ordinamento giuridico, urge indagare sulla reale natura dello strumento, il quale nasce, storicamente,

  1. per mirare ad “un miglioramento nella produttività dei dipendenti, maggiormente motivati”, così come affermato dal Ministero del Lavoro5,
  2. inizialmente, tramite forme di previdenza integrativa6, chiaramente non previste per il “lavoro” del tirocinante, ovvero di sanità integrativa7, spesso imbastita sul perno fondamentale fornito dalla contrattazione collettiva (cui lo stagista astrattamente non è soggetto);
  3. per poi sfociare nelle forme attuali di welfare aziendale unilaterale o bilaterale, che niente o poco attengono alle forme non lavorative stricto sensu 8.

E, non a caso, autorevole dottrina ne ha sottolineato l’utilità, in particolar modo al fine del “miglioramento del clima aziendale, fidelizzazione e senso di appartenenza dei dipendenti, attrazione delle alte professionalità, risultati positivi sia per l’azienda (riduzione dell’assenteismo, livello di engagement del dipendente, qualità della produzione), sia per i dipendenti (risparmi dei tempi e delle spese personali e familiari, migliore rapporto fra quanto erogato dall’azienda e quanto percepito)”9.

Di certo, si è ben coscienti che il Tuir, ai sensi dell’art. 50, co. 1, lett. c), assimili il reddito prodotto dai tirocinanti a quello dei lavoratori dipendenti, eppure il tema non pare unicamente e strettamente fiscale10. Più approfonditamente, se applicare e garantire forme di welfare pare già di per sé una scelta matura e consapevole, che richiede coscienza e conoscenza fiscale, lavoristica, organizzativa e di psicologia, invero prevederle per i tirocinanti potrebbe risultare, ben più semplicemente, una contraddizione in termini. Come visto, il welfare nasce e cresce con l’intento di fidelizzare il dipendente, di motivarlo o attrarlo. Come potente arma, e premurosa coccola, espressamente costruita e architettata al fine di aumentare “tanto la soddisfazione dei lavoratori quanto la loro produttività, contribuendo in questo modo alla diffusione di un clima aziendale sereno, nonché alimentando la capacità di attrarre i migliori talenti” (parola del Ministero del Lavoro!11).

Lo stagista, tuttavia, non è di certo un lavoratore dipendente. E anzi, la sua scelta formalizzata di instaurare un tirocinio, le sue conseguenti attenuate responsabilità rispetto ad un rapporto di lavoro, e gli obiettivi stessi sottesi al percorso, non giustificano e non richiedono né una fidelizzazione (lo strumento nasce con fini orientativi) né, tantomeno, un aumento di produttività, laddove la produttività non dovrebbe essere richiesta.

D’altra parte, a quanto detto, si potrebbe ribattere che tutto ciò che è dato in più è, come tale, da apprezzarsi.

Invero, anche battendo strade parallele, la materia lavoristica non pare sempre ammettere trattamenti migliorativi rispetto a quelli base, nel rispetto dell’essenza delle fattispecie: si pensi all’ipotesi che all’apprendista sia corrisposta una retribuzione maggiore rispetto a quella dei lavoratori qualificati, il che risulta, com’è noto, di fatto non possibile12, poiché in evidente contrasto con la posizione di chi lavora certo, ma anche e fortemente per apprendere.
Non si può considerare, quindi, come assoluto principio in ambito lavoristico, la possibilità di prevedere trattamenti in melius, laddove gli stessi risultino in contrasto con la natura dello strumento, o con la singola fattispecie. E quanto detto, a parere di chi scrive, risulta da applicarsi anche all’alveo dei tirocini: una evidente impossibilità che nasce al cospetto dell’essenza orientativa del periodo.
Se fidelizzazione o engagement è richiesto, evidentemente, si è già in presenza di un lavoratore (e non tirocinante) che, come tale, esige un contratto di lavoro, ossia la completa e corretta ripartizione dei diritti e doveri in capo alle parti: non si tratta quindi di negare un qualche cosa, ma di riconoscere, presumibilmente, l’esistenza di presupposti differenti, al fine di consegnare l’intero novero dei corretti trattamenti (tra cui anche il welfare).
Come spesso accade, ad una attenta (ma anche personale) riflessione, prassi, norme e obiettivi potrebbero non risultare pienamente coerenti.
Ed è qui che subentra il ruolo di uno degli attori principali: il Consulente del Lavoro, Professionista del settore, il quale indubbiamente ha il dovere di presentare al cliente l’orientamento degli enti, ma che, certo, ha anche il potere, dai tratti etici e nobili, di illustrare la reale finalità e la logica degli strumenti.
D’altronde, in conclusione, non si dimentichi che “Il Consulente del Lavoro, in ogni sede, tutela la legalità e la dignità del lavoro, tenuto conto del rilievo costituzionale e sociale dei contenuti a fondamento della professione”13.

1. L’art. 51, co. 2, lett. f), Tuir, recita: “l’utilizzazione delle opere e dei servizi riconosciuti dal datore di lavoro volontariamente o in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale, offerti alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti e ai familiari indicati nell’articolo 12 per le finalità di cui al comma 1 dell’articolo 100”, laddove l’art. 100, comma 1, recita: “Le spese relative ad opere o servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o categorie di dipendenti volontariamente sostenute per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto, sono deducibili per un ammontare complessivo non superiore al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi”.
2. Art. 1, co. 720, L. n. 234/2021.
3. Art. 1, co. 723, L. n. 234/2021.
4. Così AA.VV., Il manuale del welfare per il consulente del lavoro, Teleconsul editore, 2019.
5. Così il sito istituzionale Cliclavoro, al link
https://www.cliclavoro.gov.it/pages/it/my_homepage/news/trend_interviste/trend_detail/?contentId=BLG13779 .
6. Cfr. T. Treu, Introduzione Welfare aziendale, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 297/2016, p. 11.
7. Ibidem.
8. Sempre T. Treu, op. cit., pone in atto alcune riflessioni in tema di welfare e lavoro atipico, denunciando il rischio di precarizzazione nel caso non siano previste forme di welfare per i lavoratori appartenenti a tale bacino. Tuttavia, l’Autore nell’opera non include espressamente all’alveo dei lavoratori atipici i tirocinanti.
9. Così T. Treu, op. cit., p. 21 e 22.

10. Ad evidenza delle differenze tra le norme di rango fiscale e quelle di tipo lavoristico, si valutino le Faq della Regione Lombardia in materia di tirocini: “nei casi di soggetti beneficiari di indennità NASpI titolari di borse lavoro, stage e tirocini professionali, premi o sussidi per fini di studio o addestramento professionale – pur a fronte dell’assimilazione, ai fini fiscali, delle somme percepite ai redditi da lavoro dipendente – non si ravvisa lo svolgimento di un’attività lavorativa prestata dal soggetto con correlativa remunerazione. In tali ipotesi, pertanto, le remunerazioni derivanti da borse lavoro, stage e
tirocini professionali, nonché i premi o sussidi per fini di studio o di addestramento professionale sono interamente cumulabili con l’indennità NASpI e il beneficiario della prestazione non è tenuto ad effettuare all’INPS comunicazioni relative all’attività e alle relative remunerazioni”.
11. Nuovamente, il sito Cliclavoro.
12. Sebbene, si chiarisce, la norma parli di semplice possibilità di retribuire in misura inferiore l’apprendista (cfr. art. 25, co. 5, lett. b), D.lgs. n. 81/2015), in linea con alcuni importanti precedenti orientamenti di prassi (cfr. circolare Min. Lav. n. 30/2015), è dato alla contrattazione collettiva il compito di delineare il corretto trattamento retributivo per il rapporto a causa mista. La stessa, in via generale, indica strettamente la retribuzione da corrispondere, sempre inferiore a quella del lavoratore qualificato (Cfr. Ccnl Studi Professionali Cipa, Ccnl Metalmeccanica industria, Ccnl Terziario distribuzione e servizi Confcommercio).
13. Art. 1, co. 1, Codice deontologico dei Consulenti del lavoro.

 

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IL TIROCINIO COME SPECCHIO DELLA REGOLAZIONE al di fuori della dicotomia autonomia-subordinazione

Marco Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

L’ACCOSTAMENTO DELLA PERSONA AL LAVORO: LA DICOTOMIA AUTONOMIA E SUBORDINAZIONE

Disquisire di diritto del lavoro, generalmente, significa trattare strettamente di quanto attiene alla tutela del lavoro subordinato1 , di tutto ciò che consente, quindi, di assicurare le necessarie forme di protezione per il lavoratore dipendente, soggetto alla eterodirezione del datore di lavoro e pertanto parte debole nel rapporto di lavoro.
A ben osservare, non mancano filoni dottrinali che ascrivono al diritto del lavoro anche altri ambiti, ipotizzandone talora una sua estensione, talaltra un suo aggiornamento2 , e, per dovere di precisione, va chiarito che in dottrina di sovente si è sollevato il problema dell’inefficienza qualificatoria delle disposizioni di cui all’art. 2094 cod. civ.3 , anche con riferimento all’evoluzione del mondo del lavoro e delle modalità di resa dello stesso4 .
Ad ogni modo, rifacendosi anche al percorso storico della tutela del lavoro, si può affermare che il diritto del lavoro sia quel diritto nato e cresciuto per garantire (almeno negli intenti) le tutele necessarie per il rapporto di lavoro subordinato, sommariamente riuscendovi.
Va da sé, quindi, che le prestazioni di lavoro al di fuori della subordinazione non ricadono nell’insieme delle protezioni fornite dal diritto del lavoro, sebbene, a tal proposito, non si possa che richiamare il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale: ultimo appiglio per quelle prestazioni di lavoro con un diverso nomen iuris, ma che di fatto si svolgono nelle tipiche modalità del lavoro subordinato5 , da valutare anche secondo quegli indici periodicamente individuati dalla giurisprudenza6.
Sintetizzando, il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale implica che “alle parti non è consentito scegliere il tipo contrattuale nel senso di escludere l’applicazione del diritto del lavoro laddove le modalità di esecuzione
presentino i tratti tipici della subordinazione”7 .
Ovviamente, vivere al di fuori della subordinazione non implica l’assenza di tutela alcuna, sebbene vada  affermato che, innegabilmente, il grado di protezione, al di fuori di quest’ambito, sia sensibilmente ridotto8 .
Nel nostro ordinamento giuridico, infatti, in via prioritaria, vi è certamente un’altra faccia della medaglia da dover considerare, ossia il lavoro reso in modalità autonoma, enunciato dall’art. 2222 cod. civ., storicamente in antitesi rispetto alla subordinazione, pur anch’esso soggetto a peculiari protezioni.
Da una parte, pertanto, si può affermare che vi sia il diritto del lavoro, dall’altra un diritto per il lavoro autonomo (o “disciplina del lavoro autonomo” 9 ), composto da tutele diverse e specifiche, ovvero quelle contenute, in particolar modo, nello  Statuto del lavoro autonomo (L. n. 81/2017), così come talvolta definito10.

Non è errato, a tal proposito, parlare di sostanziale dicotomia, o di assetto binario come già definito in dottrina11. Sintomatiche, a tal proposito, sono le parole consegnate da giurisprudenza ormai nota: “ogni attività umana
economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, […] l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione”12.
A ben osservare, la rilevanza della dicotomia in analisi è peraltro confermata dall’avvento di alcune particolari tipologie contrattuali, non apparentemente riconducibili (perlomeno in via immediata) all’alveo del lavoro subordinato o autonomo. Si fa riferimento, in particolare, alle collaborazioni di cui all’art. 409, comma 3, c.p.c., ovvero a quella parasubordinazione che taluno attribuì inizialmente ad un teorico a sé stante tertium genus (il
terzo, quindi, oltre la citata dicotomia). Tali forme di lavoro, in tutta evidenza, hanno manifestato invece la necessità di richiamarsi nuovamente alla bipartizione “autonomiasubordinazione”, sia al fine di una loro plausibile catalogazione (generalmente all’alveo del lavoro autonomo13), sia al fine di garantire sufficienti tutele per il lavoratore, di fatto appoggiandosi alle protezioni tipiche del lavoro subordinato in presenza dei requisiti necessari
(si veda a tal proposito l’art. 2, comma 1, D.lgs. n. 81/201514).
Anche valutando, quindi, queste forme di lavoro del tutto peculiari, appare evidente come la suddetta dicotomia si sia rivelata un perpetuo punto di riferimento, soprattutto allo scopo di riconoscere un appropriato meccanismo di tutele che fosse confacente ai dettami costituzionali.
In conclusione, nel valutare l’accostamento della persona al lavoro, e le sue necessarie protezioni, certamente difficile per il giuslavorista appare abbandonare la logica binaria tipica del nostro ordinamento giuridico15, sebbene le considerazioni non possano necessariamente fermarsi a questo punto.

IL LAVORO SENZA CONTRATTO
A questo punto della riflessione, preme notare che le surrichiamate modalità di accostamento della persona al lavoro trovano la loro effettiva genesi in un contratto e, a tal proposito, pare necessario sottolineare che la dottrina maggioritaria ritiene che il rapporto di lavoro in genere, o perlomeno quello appartenente alle tradizionali forme di lavoro, abbia un’origine puramente contrattuale16.
Eppure, non si può dimenticare che esiste un bacino di forme lavorative diverse, le quali, evidentemente ed empiricamente, non trovano la loro fonte in un contratto tra le parti, pur concretizzandosi, a tutti gli effetti, nella
resa di un’attività lavorativa. Le stesse, con una mera esigenza classificatoria, possono essere ascritte alla macrocategoria del lavoro senza contratto, intendendosi per tale l’intero alveo di quelle esperienze lavorative rese al di fuori di un preciso vincolo contrattuale. A titolo esemplificativo, tra queste forme di lavoro è possibile identificare l’intero complesso dei tirocini (tra cui quello curricolare e quello extracurricolare), regolamentati tramite convenzioni e progetti formativi, il contratto di prestazione occasionale di cui all’art. 54-bis, L. n. 96/2017 (che contratto invero non è), che trova la sua regolamentazione e attuazione tramite una piattaforma online e non di certo in un contratto17, oppure il periodo di pratica professionale, altrimenti detto praticantato, anch’esso ascrivibile all’alveo dei tirocini18, se non anche il compartimento del lavoro familiare reso affectionis vel benevolentiae causa.
Come evidente, nelle circostanze summenzionate  è certamente possibile identificare la resa di una prestazione di lavoro, con specifici e peculiari vincoli giuridici19, sebbene questi ultimi non scaturiscano dalle rigide maglie
di un contratto di lavoro e, quindi, da un reale animus contrahendi delle parti.
Orbene, vi è da chiarire, in conclusione, che i lavoratori appartenenti a tale bacino appaiono spesso  insufficientemente tutelati, vuoi per la frequentissima assenza di significative tutele pensionistico-previdenziali, vuoi per la innegabile precarietà che contraddistingue tali prestazioni. Come a dire che, superando i confini della citata dicotomia, il lavoro non sia meritevole di rilevanti tutele. Peraltro, a tal proposito, la dottrina più volte ha rimarcato la necessità di istituire sufficienti protezioni anche per questa gamma di esperienze lavorative non standard 20, finanche rivisitando completamente larga parte degli istituti21, così da combattere l’istituzionalizzazione del lavoro povero e la diffusione dei cosiddetti working poors.

IL TIROCINIO COME SPECCHIO DELLA REGOLAMENTAZIONE AL DI FUORI DELLA DICOTOMIA
Un’analisi empirica, certamente, può coadiuvare la comprensione delle generali criticità che appartengono al lavoro che vive oltre i confini dell’autonomia e della subordinazione. Da qui l’esigenza di scegliere e valutare con occhio critico una specifica forma di lavoro  senza contratto.
Come si vedrà, gran parte delle criticità rilevate non riguardano, unicamente, le specifiche tutele previste, la loro natura e la loro estensione, ma spesso, bensì, la carente qualità della regolazione, che poi, di conseguenza, sfocia in situazioni di insufficiente protezione per il lavoratore debole22. In particolare, si prenderà qui a riferimento il tirocinio extracurricolare, da definirsi oggi “un percorso formativo di alternanza tra studio e lavoro, finalizzato all’orientamento e alla formazione professionale, anche per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”23,
evidentemente, ma anche per espressa previsione24, da non considerarsi lavoro subordinato.
Innanzi a tutto, preme chiarire che, per le forme di lavoro acontrattuali, il già richiamato principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale risulta assai depotenziato; proprio perché, in tali casi, è il Legislatore a dire cosa il lavoro sia, o meglio non sia, attenuando il potere riqualificatorio, essenza del principio25.
In altre parole, abbandonando la logica del contratto di lavoro, e finendo al di fuori dei confini di autonomia e subordinazione, si pone il problema della necessaria rivisitazione della portata del suddetto principio, poiché
il Legislatore, in buona sostanza, converge prioritariamente sull’importanza del nomen iuris, più che sulle modalità effettive di svolgimento della prestazione26.
A tal proposito, va considerato che il tirocinio consente, se non addirittura esige27, la resa di attività lavorativa, anche sotto una certa direzione del datore di lavoro (qui soggetto ospitante)28, nonostante non sia per espressa previsione, come visto, da considerarsi lavoro subordinato. Certo, non va dimenticato che, ex lege, “il tirocinio […] non può essere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente”29, e che la giurisprudenza più volte ha consegnato dei parametri per identificare una prestazione ascrivibile alla subordinazione (ad esempio, l’assenza di formazione o la ripetitività ed elementarità dei compiti assegnati), eppure il rischio di cadere in situazioni di abuso appare permanente e difficilmente scardinabile se si considera l’“economicità” dello strumento rispetto ad un ordinario rapporto di lavoro. A titolo esemplificativo, è previsto un semplice rimborso spese per l’attività lavorativa (non paragonabile alla retribuzione di cui all’art. 36, Cost.) e non vi sono costi pensionistico- previdenziali, posto che non vi è una tutela pensionistico-previdenziale per il tirocinante. Il rischio è, in tutta evidenza, quello di trovarsi
di fronte alla legittimazione di un lavoro dal corrispettivo povero, e povero di tutele: una beffa. Una prospettiva inaccettabile poiché del tutto antitetica rispetto ai sacri principi sanciti dalla nostra Costituzione. Tuttavia, pare difficile in poche righe affrontare nello specifico la discussione sulla natura dello strumento, e sulle tutele per esso previste, se non anche sulla reale necessità che debba esistere un tirocinio dall’essenza extracurricolare30, volendosi invece focalizzare l’attenzione sulla inadeguatezza dell’intero impianto regolatorio, il quale certamente denota la poca attenzione rivolta nei confronti del lavoro oltre i confini dell’autonomia e della subordinazione. A tal proposito, si considerino le ultime previsioni normative da parte della Legge di Bilancio 2022, con le quali il Legislatore ha voluto porre le basi per una riforma del tirocinio tramite specifiche e dettagliate disposizioni. Ebbene, tali disposizioni, in primis, sono parse da subito in contrasto con precedenti pronunce della Corte costituzionale (non vi può essere, infatti, una “indebita invasione dello Stato in una materia di competenza residuale delle Regioni”31), in secundis hanno evidenziato la scarsa attenzione riposta nella loro trascrizione. Si noti infatti come all’art. 1,  comma 724, (forse involontariamente?) sia stata prevista l’obbligatorietà della comunicazione obbligatoria Unilav per il tirocinio in genere, e non unicamente per quello extracurricolare, in totale controtendenza rispetto a quanto previsto dalla nota M.L.P.S. n. 4746/2007, la quale prevedeva di “escludere l’obbligo di comunicazione per i tirocini promossi
da soggetti ed istituzioni formative a favore dei propri studenti ed allievi frequentanti, per realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro”. Tuttavia, successivamente, con nota n. 530/2022 l’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) ha chiarito che, in merito all’obbligo di comunicazione preventiva, “si ritiene, in coerenza con i precedenti orientamenti, che lo stesso riguardi unicamente i tirocini extracurriculari”; anche se, agli occhi del giuslavorista, il verbo ritenere non pare equiparabile al verbo legiferare.
E, richiamandosi proprio all’intervento dell’Inl summenzionato, preme sottolineare la sempre forte incidenza che la prassi amministrativa ha avuto nel settore: sempre decisiva per determinare i corretti perimetri dello strumento. A titolo esemplificativo, si veda la circolare Inl n. 08/2018 in tema di riqualificazione del rapporto.
Ivi si afferma, tra le molte precisazioni, che la “corresponsione significativa e non episodica di somme ulteriori rispetto a quanto previsto nel PFI” può essere causa di riqualificazione del rapporto: tale specifica, invero, appare
più sostanziale che chiarificatrice ai fini della corretta gestione del rapporto.
Come evidente, una così forte rilevanza della prassi amministrativa può essere foriera di criticità non indifferenti, oltreché manifestare una presumibile insufficienza regolatoria. A tal proposito, non pare fuori fuoco richiamarsi
a quanto avvenuto nelle circostanze del bonus 200 € di cui al D.l. n. 50/2022, ovvero alle incongruenze manifestatesi tra passi e norma32 e alle notevoli difficoltà causate tanto agli operatori, quanto ai lavoratori. In aggiunta,
va notato che in dottrina si è già più volte  evidenziato, anche se per altri ambiti, come la prassi amministrativa sia servita, di frequente, per supplire al silenzio del Legislatore33, a volte manifestando, peraltro, un problema di
coerenza con le disposizioni normative34. Orbene, come se quanto illustrato non fosse sufficiente, va da ultimo evidenziato un ripetuto (e smodato) ricorso alle Faq, le quali, spesso, hanno consegnato informazioni da
considerarsi imprescindibili. A tal proposito, si vedano le Faq fornite dal Sito Cliclavoro in materia di Tirocini formativi e di orientamento35, ma anche quelle fornite, molto spesso, dalle singole regioni36. Sulle Faq, tuttavia, preme riportare quanto deciso dai giudici del Consiglio di Stato con sentenza n. 1275/2021: “In linea generale,
occorre prendere atto del sempre maggiore ricorso da parte delle pubbliche amministrazioni alle Frequently Asked Questions (FAQ) […]. Si tratta di una serie di risposte alle domande che sono state poste (o potrebbero essere
poste) […]. In tal modo viene data risposta pubblica, su un sito web, a interrogativi ricorrenti, sì da chiarire erga omnes e pubblicamente le questioni poste con maggiore frequenza. Il ricorso alle FAQ, evidentemente, è
normalmente da ricondurre a esigenze di trasparenza dell’attività della pubblica amministrazione e di economicità della medesima. […]. Tuttavia, non si può neppure dimenticare che le FAQ sono sconosciute all’ordinamento
giuridico, in particolare all’art. 1 delle preleggi al Codice civile. Esse svolgono una funzione eminentemente pratica […]. È quindi da escludere che le risposte alle FAQ possano essere assimilate a una fonte del diritto, né primaria, né secondaria. Neppure possono essere considerate affini alle circolari, dal momento che non costituiscono un
obbligo interno per gli organi amministrativi. In difetto dei necessari presupposti legali, esse non possono costituire neppure atti di interpretazione autentica”.
In tutta evidenza, l’emanazione delle perigliose Faq manifesta l’incontrovertibile necessità di meglio chiarire e perimetrare i confini dello strumento, quest’ultimo presumibilmente maldisciplinato ab origine dalla norma.

CONCLUSIONI
Si è testé trattato, in particolare, di tirocinio extracurricolare, invero, si badi bene, la carenza di tutele appare caratteristica intrinseca di tutto quelle forme di lavoro che abbandonano la logica contrattuale e che vivono al di
fuori del caldo abbraccio delle protezioni tipiche della subordinazione, se non anche di quelle specifiche per il lavoro autonomo. Prendere atto della carenza di tutele, come si è visto, non è però sufficiente. Urge infatti, in primis, interrogarsi sulle modalità con cui il lavoro acontrattuale viene regolamentato, ovvero sulla attenzione e sulla tecnica riposte dal Legislatore nei confronti di quest’alveo. Come ormai chiaro, il bacino del lavoro senza contratto molto spesso pare bistrattato, “Eppure, si tratta di lavoro, la cui tutela «in tutte le sue forme» è garantita dall’art. 35 Cost”37. In apertura si è discusso della sostanziale dicotomia che permea il nostro ordinamento giuridico. Al di là delle discussioni forse squisitamente dottrinali riguardanti la definizione di “diritto del lavoro”, o la presumibilmente
evidente necessità di allargamento del suo perimetro, piuttosto sembra doveroso riconoscere, innanzi a tutto, la dignità per il lavoro in quanto tale.
La necessità di un’evoluzione generale, quindi, verso un diritto delle “relazioni personali di lavoro”38, o “del mercato del lavoro”, che sfoci in una nuova “cultura del diritto del lavoro” 39 in cui si riesca pienamente a garantire
la tutela dei più deboli al cospetto dei più forti40, indubbiamente tramite più certezze e minori ambiguità.

 

1. Cfr. ex multis M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli Editore, e M. V. Ballestrero, La dicotomia autonomia/subordinazione.
Uno sguardo in prospettiva, Labour & Law Issues, vol. 6, no. 2, 2020.
2. Cfr. sulla questione M. V. Ballestrero, La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva, cit.. 3. Ibidem.
4. Cfr. ex multis M. Pallini, La subordinazione è morta! Lunga vita alla subordinazione!, Labour & Law Issues, vol. 6, no. 2, 2020.
5. Cfr. Corte costituzionale n. 121/1993 e n. 115/1994, in dottrina M. V. Ballestrero, Brevi note sulla dialettica tra posizioni contrattualistiche e acontrattualistiche, in Lavoro Diritti Europa n. 2020/3.
6. A titolo esemplificativo si veda la recente ordinanza n. 22846/2022 della Corte di Cassazione.
7. Così M. V. Ballestrero, Brevi note sulla dialettica tra posizioni contrattualistiche e a-contrattualistiche, cit., p. 7.
8. Cfr. A. Perulli, Il diritto del lavoro e il “problema” della subordinazione, Labour & Law Issues, vol. 6, no. 2, 2020, p. I.103. In aggiunta, per uno studio delle tutele al di fuori del contratto di lavoro, mi si permetta di rimandare a M. Tuscano, il lavoro senza contratto, Adapt University Press.
9. Così M. V. Ballestrero, La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva,
cit,, p. I.14.
10. Cfr. ex multis M. V. Ballestrero, op. cit. e G. Cavallini, Il «nuovo» lavoro autonomo dopo la stagione delle riforme, Lavoro@confronto.

11. Cfr. A. Perulli, op. cit..
12. Cfr. ex multis Corte di Cassazione n. 9251/2010.
13. Cfr. in dottrina M. V. Ballestrero.
14. Il quale recita: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui
modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
15. A tal proposito, si veda nuovamente M. V. Ballestrero che non condivide un teorico superamento della dicotomia in analisi, in La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva, cit,, p. I.14.
16. Cfr. M. V. Ballestrero, Brevi note sulla dialettica tra posizioni contrattualistiche e a-contrattualistiche, cit. e M. Roccella, op. cit..
17. Cfr. V. Pinto, Prestazioni occasionali e modalità agevolate di impiego tra passato e futuro, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 343/2017.
18. Cfr. in dottrina ex multis L. Casano.

30. Molto spesso in dottrina si è sollevato  il problema di come il tirocinio possa depotenziare la possibilità di  inserimento del giovane nel mondo del lavoro tramite un vero e proprio contratto, ad esempio di apprendistato.
Cfr. ex multis M. Tiraboschi, Persona e lavoro tra tutele e mercato, cit..

31. Cfr. sentenza n. 287/2012, Corte costituzionale.
32. Cfr. ex multis A. Borella, L’indennità una tantum di 200 euro ai dipendenti. Chiarimenti inps in ordine
sparso, in Sintesi n. 06/2022.
33. Cfr. I. Corso, La c.d. maxisanzione: elementi caratterizzanti e ambito di applicazione della fattispecie sanzionata,
in Legalità e rapporti di lavoro, Incentivi e sanzioni, a cura di M. Brollo, C. Cester, L. Menghini, EUT, p. 456.
34. Ibidem, pp. 461 e 462.

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