Una proposta al mese – Sul tempo determinato (a partire dal Decreto Dignità)

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

“Donaci, padre Zeus,
il miracolo di un cambiamento”
(Simonide di Ceo)

Il titolo che abbiamo utilizzato per questo articolo rischierebbe di fuorviarci: se dovessimo cambiare qualcosa del cd. “Decreto Dignità”, ecco, cominceremmo dal nome. Chi opera nel mercato del lavoro sa quanto poco di dignitoso ci sia in un complesso di norme che, soprattutto anche se non solo, relativamente al tempo determinato sembrano scritte con una penna del secolo scorso, anzi forse ancora col pennino intinto nel calamaio (per dire dell’arretratezza); altrettanto poco dignitosa una decretazione d’urgenza scritta, riscritta, annunciata e ritirata più volte, perdendo del tutto la pretesa urgenza, in un delirio di correzioni che tradiscono oltre ad una scarsa dimestichezza con la scrittura giuridica, un senso un po’ relativo della lingua italiana.

Tuttavia, nello sforzo di rimanere – in questa rubrica – squisitamente tecnici senza tracimare in considerazioni che amplierebbero l’arco della discussione e del confronto, ci permettiamo alcuni suggerimenti “de iure condendo” (come dicono i professori), sperando che ci siano “spazi di manovra” durante il processo di formazione di una norma (come in quella in commento, che deve passare da un’iter di approvazione parlamentare che può apportare opportune modifiche o integrazioni). Si noti che i suggerimenti non entrano volutamente, pur non condividendoli appieno, nelle scelte e negli obiettivi di fondo del legislatore.

Il periodo transitorio

Ci sono politiche del personale che vengono pianificate attentamente. Una norma che con immediatezza stoppa la possibilità di rinnovi e di proroghe oltre i 12 mesi (poi diremo perché diciamo così), e solo ottimisticamente oltre i 24, rischia di veder tagliati e costretti ad un turn-over forzoso molti lavoratori, soprattutto nell’immediato.

Se è pur vero il contrario, ovvero che il periodo transitorio rischia di vanificare parzialmente gli effetti di una norma, in un caso del genere i pro (ad un periodo transitorio) sono molto più dei contro. Diciamo che rispetto ai contratti a tempo determinato in corso sarebbe utile concedere in ogni caso un periodo di 12 mesi (cioè fino a luglio dell’anno prossimo) di non applicazione della norma, che però poi avrebbe un effetto immediato anche sui rapporti in corso, che non potrebbero quindi proseguire con le vecchie norme oltre tale data. Si scongiurerebbe così una previsione abbastanza scontata, cioè l’interruzione e definitivo abbandono di rapporti che avrebbero ancora molto da dire e da dare alle parti e si avrebbe un lasso di tempo per studiare intelligentemente (e non, ancora, ad effetto) misure parallele, quali l’incentivazione dei rapporti a tempo indeterminato.

I rinnovi: annullare le causali e stabilizzare l’aliquota di maggiorazione

Sembra che il legislatore della pretesa dignità nutra un’incontenibile ed incomprensibile idiosincrasia per i rinnovi dei tempi determinati, a cui ha destinato la maggiorazione dell’aliquota contributiva che, per come è scritta la norma, sembra progressivamente elevata (dello 0,5 % ogni rinnovo) e che devono sempre sottostare a motivazione (anche entro i 12 mesi).

Tuttavia i rinnovi, come le proroghe, fanno parte delle normali esigenze produttive. Mettere una motivazione anche entro il periodo “libero” dei 12 (o 24, come proporremo) mesi sembra un’inutile appesantimento, che pertanto proponiamo decisamente di togliere. Così pure l’aliquota progressiva, rischia di ingenerare una molteplicità di confusioni di calcolo e di relativo controllo, anche da parte degli Enti impositori: meglio attestarsi su una maggiorazione fissa (1,91 % per tutti i rinnovi) e basta.

Semplificare le causali (ovvero renderne possibile l’utilizzo) e alzare il limite

Il decreto prevede che tutti i rinnovi (di cui abbiamo già detto) ed i contratti dopo 12 mesi (di primo contratto o in seguito a proroghe) debbano essere motivati con riferimento a delle causali. Tuttavia quelle individuate dalla legge sono di difficile esercizio, al limite dell’impossibile, o quantomeno restringono il campo a poche, limitatissime ipotesi, salvo quella sostitutiva.

Se proprio si sente la necessità di causali, a quelle impraticabili attuali (“esigenze temporanee ed oggettive estranee all’attività ordinaria; esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinario”) meglio tornare alla dicitura di ampia portata del D.lgs. n. 368/2001.

Inoltre, dato il limite numerico dei contratti, già condizionante l’esercizio dei tempi determinati in un’impresa, proponiamo di alzare la soglia di obbligatorietà della casuale ai rinnovi ed alle proroghe superiori ai 18 mesi.

Inoltre, dato che le esigenze sostitutive possono avere dilatazioni nel tempo, proponiamo di elevare fino a 48 mesi il limite temporale ai contratti in sostituzione, qualora il rapporto a termine si riferisca, per tutta la durata, alla medesima persona assente. Peraltro, in un’ottica di sostegno alla persona la causa sostitutiva potrebbe essere tenuta in atto non solo nel periodo di assenza “pura e totale” del lavoratore da sostituire, ma anche qualora egli potesse tornare al lavoro a tempo parziale o solo per brevi periodi, inframmezzati da cure. Infine, proponiamo di aumentare a due mesi prima dell’assenza e a due mesi dopo il rientro il periodo considerato di sostituzione di un persona che sia assente per prevedibilmente più di 90 giorni.

L’impugnazione entro 60 giorni

Alzare il tetto della soglia di impugnazione del contratto a termine rispetto a quello del licenziamento indeterminato non sembra avere molto senso. Anche il possibile deterrente (all’impugnazione) della promessa di una nuova assunzione a termine si esaurisce, ora come ora, entro i 30 giorni (e se il decreto non cambiasse, il rinnovo sarebbe impraticabile per i motivi anzidetti). Proponiamo che l’impugnazione del termine del contratto avvenga entro i 60 giorni canonici di impugnazione di ogni altro tipo di licenziamento.

Con la proposta appena fatta entriamo in un campo di “manutenzione” della regolazione del tempo determinato che non c’entra direttamente con il contenuto del Decreto in esame – riguardando norme già cristallizzate nel tempo da altri passaggi legislativi – ma che ci sembra utile proporre ai fini di una rivisitazione globale e sistematica della materia.

La deroga assistita: perché solo all’Ispettorato e non alle Commissioni di Certificazione?

È attualmente previsa la possibilità di derogare al limite massimo di esercizio di contratti a termine (vedi, da ultimo, l’art. 19 co. 3 del D.lgs. n. 81/2015) ma solo con un contratto stipulato fra datore e lavoratore avanti all’Ispettorato territorialmente competente.

Ora, è nostra convinzione che l’Ispettorato abbia compiti ben più importanti da svolgere e che tale funzione di accertamento della volontà e dei diritti delle parti ben potrebbe essere svolta (altrettanto, se non più egregiamente, e sicuramente con maggiore snellezza) dalle Commissioni di Certificazione ex art. 75 e seg. D.lgs. n. 276/2003.

In tal modo, senza alcuna perdita di tutela, si libererebbe la vigilanza, già in sofferenza di organico, da oneri burocratici ad essa poco utilmente affidati.

Il periodo di osservazione del tempo determinato: 5 anni solari

Con la norma, anche attuale, il datore di lavoro è onerato a mantenere un periodo di osservazione “eterno” sul lavoratore assunto a tempo determinato (direttamente o tramite somministrazione a termine), in quanto il periodo di 36 mesi (ora 24) si estende per tutta la vita del lavoratore (e dell’azienda).

Questo può comportare rischi obiettivi per i datori di lavoro (a lungo andare) derivanti dalla difficoltà di tenere in memoria la storia lavorativa di un dipendente per un periodo sostanzialmente illimitato. Si pensi poi ai frequenti cambiamenti nella direzione delle risorse umane, nell’amministrazione del personale e nei programmi gestionali, senza contare eventuali acquisizioni o scorpori societari che contribuiscono a diluire ulteriormente la memorizzazione di questi eventi. Ad evitare questi problemi, senza diminuire un deterrente al continuo uso di tempi determinati basterebbe fissare un quinquennio solare mobile, periodo in cui andare a ritroso a verificare l’esercizio di tempo determinato con un lavoratore. Tanto più adesso che il periodo massimo viene ridotto a 24 mesi. Il quinquennio mobile, nella nostra proposta, azzererebbe completamente qualsiasi conteggio, che potrebbe ripartire da capo. D’altronde, se dopo cinque anni il lavoratore ancora non ha trovato una collocazione stabile, di certo la colpa non è di chi lo ha assunto anni prima. E se ora venisse richiamato, potrebbe essere una nuova occasione in più.

Le aziende collegate

Un aggiramento dei limiti posti al tempo determinato è dato dall’utilizzazione a termine del lavoratore con più aziende riferibili al medesimo centro di interesse (ad esempio, facenti parte dello stesso Gruppo o riferibili a d assetti proprietari coincidenti, o – ancora – consorziate o in rete). Ai fini di evitare una distorsione elusiva, si dovrebbe istituire una sommatoria del divieto di utilizzo dopo il tempo limite considerando l’impiego a termine in tutte le aziende collegate. È ovvio che tale proposta fa il paio con la precedente, in quanto sarebbe concretamente possibile limitando il periodo complessivo di osservazione.

Il recesso nel tempo determinato: perché solo per giusta causa?

Ne abbiamo già parlato in questa rubrica qualche tempo fa. A causa di una vetusta formulazione dell’art. 2118 c.c. il recesso nel contratto a termine può essere esercitato solo per giusta causa (n.b. anche dal lavoratore). Nella normalità di esercizio con cui il contratto a termine viene ora utilizzato (anche con il Decreto Dignità, seppure solo per i primi 12 mesi) si possono creare sproporzioni fra un lavoratore a tempo indeterminato ed un lavoratore a termine. Proponiamo che con una semplice modifica (elidere il riferimento al tempo indeterminato nell’art. 2118) il contratto a termine possa essere interrotto anche per giustificato motivo soggettivo o oggettivo ovvero, nel caso del lavoratore, per semplici dimissioni. Qualora le parti decidessero diversamente, in ragione di una particolare necessità legata al rispetto del termine, potrebbero sempre inserire clausole o penali all’interno del contratto di lavoro.

Riduzione/uniformazione del periodo di precedenza

La domanda si pone con il paragone fra un lavoratore, magari di lunga anzianità aziendale, ed un lavoratore a tempo determinato esercitato per un periodo superiore ai sei mesi. In caso di licenziamento per motivi oggettivi connessi a riduzioni strutturali, il primo (a tempo indeterminato) ha un diritto di precedenza (in caso di assunzione per medesime o analoghe mansioni) per sei mesi dalla cessazione del rapporto, il secondo ha un diritto di precedenza che si estende per un periodo doppio (cioè per un anno).

Una differenziazione che non si spiega, neanche con una condizione di favor verso il lavoratore a termine: addirittura, nella contemporanea cessazione di due lavoratori, uno a termine ed uno indeterminato (la situazione, nell’attuale programmazione, è tutt’altro che infrequente), in caso di ripresa del lavoro dopo (poniamo) sette mesi, il lavoratore a termine può esercitare un diritto che il lavoratore più anziano ha perso per sempre.

È evidente, per concludere, che malgrado tentativi anche recenti di modernizzazione, verso il lavoro a termine il legislatore vive un “senso di colpa” che lo porta a determinare squilibri ingiustificati nella normazione della fattispecie, squilibri – ampliati dal Decreto Dignità – che non sembrano sottostare ad alcuna esigenza logica.

Forse la prima normalizzazione del mercato del lavoro passa per un’intelligente razionalizzazione che, sia pur limitando il ricorso al tempo determinato, non lo demonizza, quando ben altri sono i problemi che nel nostro Paese recano illegalità, precarietà ed ingiustizie.

 

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I contratti a termine alla luce del Decreto Dignità

di Chiara Julia Favaloro – Avvocato e Consulente del Lavoro in Milano

e Riccardo Vannocci – Consulente del Lavoro in Milano

La lotta al precariato sembrerebbe essere la priorità anche del nuovo Governo… ma siamo sicuri che le novità introdotte dal Decreto Dignità siano davvero la soluzione ai problemi del mercato del lavoro italiano?

Il dubbio sorge e sembra alquanto fondato: se da un lato, infatti, il neo-ministro Luigi Di Maio ritiene che le nuove disposizioni possano indurre i datori ad abbandonare i contratti a temine ed a sottoscrivere sempre più contratti di lavoro a tempo indeterminato, è pur vero che, dall’altro lato, non si possa, invece, escludere che tali previsioni inducano ad un turn-over rapido ed irrefrenabile, al solo fine di evitare di raggiungere le ridotte soglie imposte dalla nuova normativa ed il conseguente potenziale contenzioso.

Il Decreto Dignità rinnova la durata massima del contratto a termine, passando da complessivi 36 mesi a 24 e riducendo il numero massimo di proroghe applicabili all’originario contratto da 5 a 4 (art. 1 co. 1 lett. b) in riforma dell’art. 21 del D.lgs. n. 81/2015).

Ma non solo.

La riforma del contratto a tempo determinato sembra essere l’obiettivo condiviso dai Governi che si sono succeduti negli ultimi anni: se con il Governo Renzi abbiamo assistito alla totale abolizione della distinzione tra “causalità” ed “acausalità”, con l’attuale Governo assistiamo ad una drastica virata ed un ritorno alle causali, seppur in una versione completamente differente.Il D.l. n.87/2018, in vigore dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale avvenuto il 13 luglio scorso, prevede infatti che, nel caso in cui il contratto di lavoro venga stipulato e/o prorogato per una durata complessiva superiore a 12 mesi (ma, comunque, inferiore a 24), nonché rinnovato (indipendentemente dalla durata, purchè inferiore a 24 mesi complessivi e, in ogni caso, ferme restando le condizioni del cd. Stop and go), il datore di lavoro sarà tenuto a specificare la causale, ossia ad indicare esplicitamente le ragioni che giustificano il ricorso a tale tipologia contrattuale (art. 1 co. 2 del D.l. n. 87/2018).

A tal proposito, l’art. 1 co. 1 lett. a) del D.l. n.87/2018 (in riforma dell’art. 19 del D.lgs. n. 81/2015) individua le seguenti condizioni:

  • esigenze temporanee ed oggettive estranee all’ordinaria attività (lett. a);

  • esigenze sostitutive di altri lavoratori (lett. a);

  • incrementi temporanei significativi e non programmabili dell’attività ordinaria (lett.b).

È di tutta evidenza che le nuove causali non hanno nulla a che vedere con quelle previste dall’art. 1 co. 1 del D.lgs. n. 368/2001, secondo cui era sufficiente indicare le ragioni “tecniche, organizzative, produttive e/o sostitutive” che giustificavano l’apposizione di un termine ai contratti di lavoro.

Le causali così individuate, dunque, vengono del tutto tipizzate, a discapito delle precedenti che, seppur obbligatorie, lasciavano un più ampio margine di “discrezionalità” al datore di lavoro.

Tuttavia, in mancanza di causale e/o nel caso in cui, per quanto apposta, sia del tutto generica e non rispondente alle condizioni di cui all’art. 1 co. 1 lett. a), il termine indicato risulterà nullo ed il rapporto di lavoro potrà essere, conseguentemente, ricondotto ab origine ad un contratto a tempo indeterminato.

Al lavoratore viene, inoltre, concesso un termine di 180 giorni, in luogo dei precedenti 120, per impugnare formalmente il termine apposto al proprio contratto di lavoro (art. 1 co. 1 lett. c) in riforma dell’art. 28 co. 1 del D.lgs. n. 81/2015).

Sarà davvero questa l’arma decisiva per sconfiggere il precariato? Ci auguriamo che in sede di conversione, il Decreto Legge venga rivisto in modo significativo, poiché le novità introdotte rischiano, da un lato, di indurre i datori di lavoro a stipulare contratti di soli 12 mesi per sfuggire alle causali e, dall’altro, di incrementare notevolmente il contenzioso al fine di ottenere il riconoscimento di rapporti di lavoro a tempo indeterminato.

Se così fosse, assisteremmo ad un vero e proprio effetto boomerang: alimentare i contratti a termine (di soli 12 mesi!) nel tentativo di sconfiggere il precariato.

Si noti, peraltro, che l’attuale sistema assistenziale, in questo panorama normativo, non agevolerebbe certo i lavoratori nell’accesso agli strumenti di sostegno al reddito ma, anzi, aumenterebbe considerevolmente la spesa pubblica e diminuirebbe gli importi effettivamente erogabili in quanto calibrati non già su 12-24 mesi ma sui precedenti 36.

Sì alle riforme, dunque, purché organiche, strutturate e, per stare in tema, dignitose!

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Modifiche ai rapporti in Somministrazione a termine e altre previsioni del Decreto Dignità

di Roberto Camera – Esperto in materia di lavoro

Modifiche alla somministrazione a termine

Con la vigenza del Decreto Dignità (D.l. n. 87/2018) cambia, in maniera molto evidente, l’approccio dell’impresa al contratto di somministrazione di lavoro a termine, ciò in quanto tale tipologia contrattuale, dal 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del decreto legge) è soggetta, quasi totalmente, alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato.

Per spiegare molto brevemente l’evoluzione (per alcuni considerata involuzione) della normativa, è il caso di fare un passo indietro, andando ad indicare ciò che prevedeva la somministrazione prima del 14 luglio.

La somministrazione di lavoro a termine riprendeva i limiti previsti dalle regole sui contratti a tempo determinato, qualora compatibili, ad esclusione degli art. 19, co. 1, 2 e 3, 21, 23 e 24. Ciò significava che non erano previste le seguenti limitazioni, presenti esclusivamente nei rapporti diretti a tempo determinato:

  1. limite di durata dei 36 mesi per contratto;

  2. limite di durata massima;

  3. contratto assistito;

  4. 5 proroghe;

  5. stop and go;

  6. limite quantitativo dei lavoratori a termine;

  7. diritto di precedenza.

Un appunto particolare riguarda il limite massimo di durata (punto 2) che è dato dalla commistione dei contratti a tempo determinato ordinari e dei periodi di missione nell’ambito di somministrazioni di lavoro a termine. Detto limite rappresentava un “blocco” esclusivamente alla stipulazione dei contratti a tempo determinato e non al ricorso alla somministrazione. Lo stesso Ministero del Lavoro, con la circolare n. 18/2012, era intervenuto sull’argomento specificando che una volta raggiunto tale limite (36 mesi) il datore di lavoro poteva ricorrere alla somministrazione a tempo determinato con lo stesso lavoratore, in quanto detta limitazione non era stata prevista nelle regole relative alla somministrazione di lavoro ma esclusivamente alle regole dei contratti a tempo determinato diretto.

Con detta affermazione, l’azienda era libera, raggiunti i 36 mesi, di usufruire, ancora “a tempo”, delle prestazioni del lavoratore girandolo all’agenzia di lavoro e utilizzandolo come lavoratore somministrato a termine.

Con l’introduzione del D.l. n. 87/2018, l’esclusione, prevista dal co. 2, dell’art. 34, del D.lgs. n. 81/2015, dei rapporti in somministrazione al limite dei 36 mesi, viene meno. Così come vengono meno altre esclusioni previste sempre dall’art. 34. Infatti, con la vigenza del Decreto Dignità – dal 14 luglio 2018 – vi è quasi una piena equiparazione del contratto a tempo determinato diretto con la somministrazione di lavoro a termine. Le uniche cose che sono escluse riguardano: il limite massimo di lavoratori in somministrazione impiegabili ogni anno dall’azienda utilizzatrice (sempreché detta previsione non sia stata regolamentata dalla contrattazione collettiva dell’utilizzatore) ed il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato, previsto esclusivamente per coloro i quali hanno avuto uno o più contratti a tempo determinato presso la stessa azienda, per un periodo superiore a sei mesi, sempre relativamente alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine conclusi.

Ricapitolando, al contratto di somministrazione si applicano, dal 14 luglio, le seguenti regole previste per i contratti a tempo determinato diretto:

  1. La durata massima dei contratti in somministrazione a termine non potrà superare i 24 mesi (ad esclusione delle agenzie di somministrazione che applicano contratti collettivi che hanno previsto una diversa disposizione in merito).

  2. Il contratto di somministrazione a termine con una durata superiore a 12 mesi devono prevedere una delle seguenti causali:

    a. esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività;

    b. esigenze sostitutive di altri lavoratori;

    c. esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

  3. Il primo contratto di somministrazione a termine, di durata non superiore a 12 mesi, può essere stipulato senza la specifica di una delle causali previste al punto 2;

  4. Le proroghe, previste all’interno dei 24 mesi massimi di utilizzo, sono 4 a prescindere dal numero dei contratti (non più 6 proroghe a contratto);

  5. Le proroghe effettuate dopo i primi 12 mesi devono prevedere una delle causali indicate al punto 2;

  6. Tra i contratti in somministrazione o tra un contatto di somministrazione ed un contratto a tempo determinato diretto si deve applicare il cd. “stop and go”, cioè quel periodo di non lavoro che può andare da un minimo di 10 giorni (qualora il contatto scaduto sia stato di massimo 6 mesi) ad un massimo di 20 giorni (qualora il contatto scaduto sia stato superiore a 6 mesi);

  7. Nel rispetto della durata massima, il rapporto di somministrazione potrà prevedere, al pari dei contratto a tempo determinato diretto, una cd. “prosecuzione di fatto”, cioè un ulteriore periodo di massimo 30 giorni se il contratto in scadenza è stato inferiore a 6 mesi ovvero massimo 50 giorni se il contratto in scadenza è stato pari o superiore a 6 mesi;

  8. L’agenzia di somministrazione dovrà corrispondere una maggiorazione contributiva pari all’1,40% sui primo contratto a termine ed una maggiorazione dell’1,90% per ogni rinnovo del contratto in somministrazione a termine. Ciò sta a significare che la maggiorazione dell’1,90% si deve corrispondere esclusivamente dal secondo contratto in somministrazione a termine, mentre la maggiorazione dell’1,40% vige per tutto il primo contratto a termine, proroghe comprese;

  9. Qualora il lavoratore ritenga illegittimo il contratto di somministrazione a tempo determinato stipulato, deve impugnare, con qualsiasi atto, anche di natura extragiudiziale, il contratto entro 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto.

Permettetemi qualche considerazione personale sull’argomento. La Somministrazione di lavoro è una triangolazione tra una agenzia per il lavoro, un lavoratore dipendente dell’agenzia ed una impresa che utilizza il lavoratore e che non è il datore di lavoro. Da questa triangolazione sorgono alcuni dubbi sulla realizzazione di alcune regole e sull’erogazione delle relative “sanzioni” in caso di violazione.

Prendiamo l’applicazione delle causali. Sul contratto di lavoro, stipulato tra l’agenzia di somministrazione ed il lavoratore, dovrà essere precisata la motivazione dell’assunzione. Motivazione che dovrà essere fornita dall’utilizzatore. Cosa succede in caso di ricorso del lavoratore in merito al fatto che la motivazione addotta dall’impresa utilizzatrice non è reale o, meglio, non rientra tra quelle indicate dal legislatore? L’agenzia di somministrazione non credo possa ingerire nella causale e valutare la congruità rispetto ai limiti imposti dal legislatore (esempio, relativamente alle esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività). Il contratto a termine viene “convertito” in un rapporto a tempo indeterminato? Ma il datore di lavoro non è l’utilizzatore che ha errato nella motivazione, ma l’agenzia per il lavoro. A questo punto, il lavoratore può chiedere la conversione del rapporto di lavoro presso l’utilizzatore?

Limiti alla delocalizzazione (articolo 5)

Le imprese – sia italiane che estere – che operano in Italia e che hanno ottenuto dallo Stato aiuti per investimenti produttivi, decadono da tali benefici qualora entro 5 anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata, decidano di trasferire, in Stati non appartenenti all’Unione Europa (esclusi gli Stati aderenti allo Spazio Economico Europeo), l’attività economica (o anche una sua parte) per la quale sono stati concessi gli aiuti di Stato; inoltre, l’impresa è sottoposta – da parte della medesima amministrazione che ha erogato l’aiuto di Stato – al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo da 2 a 4 volte quello dell’aiuto fruito.

Il legislatore ha provveduto anche a definire il termine “delocalizzazione”. Per delocalizzazione si intende il trasferimento di una attività economica, o di una sua parte, dal sito produttivo incentivato ad altro sito, da parte della medesima impresa beneficiaria dell’aiuto o di altra impresa con la quale vi sia un rapporto di controllo o collegamento (ai sensi dell’art. 2359 c.c.).

Inoltre, il legislatore ha precisato (ma non poteva fare diversamente) che vengono fatti salvi i vincoli derivanti dai trattati internazionali.

Stesso discorso si realizza nel caso in cui l’impresa – italiana o straniera – abbia beneficiato di un aiuto di Stato per l’effettuazione di investimenti produttivi specificamente localizzati in una determinata area. In questo caso, l’impresa decade dal beneficio qualora l’attività economica interessata dall’aiuto di Stato (o anche una parte di essa) venga trasferita (delocalizzata), entro 5 anni dalla data di conclusione dell’iniziativa o del completamento dell’investimento agevolato, fuori dal sito incentivato, in favore di unità produttiva situata al di fuori dell’ambito territoriale del predetto sito, in ambito nazionale, dell’Unione europea e degli Stati aderenti allo Spazio economico Europeo.

In entrambi i casi, oltre alla decadenza dei benefici fruiti dalle aziende, il legislatore prevede la restituzione degli aiuti di Stato già ricevuti, maggiorati di un tasso di interesse pari al tasso ufficiale di riferimento vigente alla data di erogazione o fruizione dell’aiuto, maggiorato del 5%.

I tempi e le modalità per il controllo del rispetto dei vincoli previsti per le aziende che usufruiscono degli incentivi statali summenzionati, nonché per la restituzione dei benefici fruiti in caso di accertamento della decadenza, saranno definiti da ciascuna amministrazione con propri provvedimenti volti a disciplinare i bandi e i contratti relativi alle misure di aiuto di propria competenza.

I nuovi limiti previsti dal legislatore riguardano benefici non ancora concessi o banditi e per investimenti non ancora agevolati alla data del 13 luglio 2018. Viceversa, per i benefici già concessi o banditi, nonché per gli investimenti agevolati già avviati, prima del 14 luglio 2018 (data di decorrenza del D.l. n. 87/2018), resta ferma l’applicazione della disciplina previgente.

Tutela dell’occupazione

La norma (articolo 6 del D.l. n. 87/2018) prevede che una impresa italiana o estera, operante nel territorio nazionale, che beneficia di misure di aiuto di Stato che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale, decada dal beneficio qualora riduca, di oltre il 10%, i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio nei 5 anni successivi alla data di completamento dell’investimento. Restano fuori le riduzioni di personale effettuato per giustificato motivo oggettivo.

La decadenza dal beneficio è proporzionata alla riduzione del livello occupazionale ed è totale qualora la riduzione, di detti livelli, sia superiore al 50%.

Anche in tal caso, così come per quanto riguarda la restituzione dei benefici in caso di delocalizzazione, i tempi e le modalità per il controllo del rispetto dei vincoli previsti per le aziende che usufruiscono degli incentivi statali summenzionati, nonché per la restituzione dei benefici fruiti in caso di accertamento della decadenza, saranno definiti da ciascuna amministrazione con propri provvedimenti volti a disciplinare i bandi e i contratti relativi alle misure di aiuto di propria competenza.

Le nuove norme si applicano ai benefici concessi o banditi, nonché agli investimenti agevolati avviati, successivamente all’entrata in vigore del Decreto legge.

Indennità per licenziamento ingiustificato

Il Decreto Dignità ha previsto (articolo 3) una rimodulazione, al rialzo, dell’indennità risarcitoria contemplata in caso di verifica, da parte di un giudice, della illegittimità di un licenziamento comminato ad un lavoratore assunto a tempo indeterminato ed in tutele crescenti (art. 3, co. 1, del D.lgs. n. 23/2015) nelle aziende che raggiungono i limiti dimensionali previsti dall’art. 18, co. 8 e 9, dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970).

Le modifiche riguardano esclusivamente l’importo minimo e quello massimo e non l’importo annuale che rimane fisso alle due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio.

La novità, come anticipato, attiene al fatto che l’indennizzo non potrà andare al di sotto delle 6 mensilità e non potrà essere superiore alle 36. Ciò sta a significare che qualora un giudice sentenzi l’illegittimità di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa, ad eccezione dei limitati casi di reintegra presenti esclusivamente nel licenziamento disciplinare (per l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore) e nei licenziamenti discriminatori e nulli (esempio, intimati in forma orale), l’ex datore di lavoro dovrà versare al lavoratore una indennità risarcitoria che non potrà andare al di sotto del 6 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr, indipendentemente dal fatto che il lavoratore abbia prestato la propria attività lavorativa per meno di 3 anni.

Per quanto riguarda i lavoratori che hanno più di tre anni di anzianità, continua ad applicarsi la regola generale e cioè l’indennità erogata, in caso di sentenza di un giudice dell’illegittimità del licenziamento, sarà di due mensilità per ogni anno di servizio. La modifica legislativa attiene al massimale di risarcimento erogabile, che passa da 24 a 36 mensilità. Ciò significa che un lavoratore che ha una anzianità di servizio di 10 anni continuerà a percepire 20 mensilità, mentre un lavoratore con una anzianità di servizio di 15 anni percepirà 30 mensilità e non più 24 (massimale previgente). In definitiva si alza l’asticella: sino a 18 anni di servizio ci sarà una crescita dell’indennizzo, oltre tale periodo il risarcimento rimarrà fermo al nuovo massimale previsto e cioè 36 mensilità.

Ricordo, infine, che l’indennità non è assoggettata a contribuzione previdenziale e che per le frazioni di anno d’anzianità di servizio, le indennità sono riproporzionate e le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni si computano come mese intero. Inoltre, per le aziende al di sotto dei limiti dimensionali dell’articolo 18, l’indennità va dimezzata e non può, in ogni caso, superare il limite di sei mensilità. Ciò significa che si andrà da un minimo di 3 ad un massimo di 6 mensilità (prima era minimo 2 e massimo 6).

Infine, nulla è cambiato per quanto riguarda l’offerta conciliativa, prevista dall’art. 6 del D.lgs. n. 23/2015, che continua a prevedere un importo – non assoggettato a contribuzione previdenziale ed esente da Irpef – di una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 18, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare.

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Decreto Dignità: il recupero degli aiuti di Stato per imprese interessate dalla riduzione dei livelli occupazionali

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna

Parafrasando una famosa battuta attribuita a John Coltrane potremmo dire che “il Decreto Dignità è come il jazz … piace solo a chi lo fa”.

Non sembra infatti che il primo provvedimento del neo Ministro del lavoro, Luigi Di Maio, abbia ricevuto un’accoglienza entusiastica, a parte quella dello stesso vice Premier che continua a difenderlo a spada tratta. Le censure, che possiamo definire vere e proprie stroncature, sono arrivate da più parti. Con particolare riferimento al nucleo centrale del Decreto Dignità – la nuova disciplina dei contratti a termine – basterebbe citare le critiche mosse sia dal mondo imprenditoriale (Confindustria in primis) che da quello professionale (Consulenti del lavoro e avvocati) oltre che dalla stampa specializzata e, ovviamente, dalle opposizioni. Sorvolando poi sullo stucchevole scontro istituzionale con il Presidente dell’Inps Boeri e sul fatto che gli stessi alleati di governo, capitanati da Salvini, pare spingano per alcuni correttivi sostanziali.

Limitandoci a citare solo alcune delle questioni sollevate si intuisce la gravità del problema:

– il ritorno all’obbligatorietà del requisito “causali” porterà, a detta di molti, ad un turn-over dei precari e non alla stabilizzazione dei loro rapporti;

– l’incertezza interpretativa derivante dalla assoluta fumosità nella declaratoria delle nuove “causali” porterà, opinione diffusa, inevitabilmente ad un aumento del contenzioso;

– l’ipotizzata perdita di posti di lavoro emersa dalle relazioni tecniche (vera o non vera, si deve dare atto che in nessuna di esse si è parlato di incrementi occupazionali), che appare inconciliabile con lo scopo dichiarato del decreto di “contrastare fenomeni di crescente precarizzazione in ambito lavorativo”.

Sia ben chiaro che qui non si vuole insistere sulla nuova disciplina dei contratti a tempo determinato, sulla quale si stanno versando, e si verseranno ancora, fiumi di inchiostro.

Si permetta solo a chi scrive di evidenziare la contraddittorietà della contemporanea presenza di causali giustificatrici del termine e di limiti quantitativi all’utilizzo di contratti a tempo determinato. Se le individuate esigenze produttive legittimano l’occupazione di lavoratori a termine perché al contempo limitarne l’utilizzo per una quota parte del fabbisogno dell’impresa? Perché costringere l’impresa, per la quota eccedente il “20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione”, alla sottoscrizione di contratti a tempo indeterminato pur in presenza di quelle stesse temporanee esigenze che, contestualmente, giustificano l’apposizione del termine per l’assunzione di un primo gruppo di lavoratori? Che senso ha tutto questo? Dove il legislatore ravvisa la possibilità di manovre elusive da parte datoriale o addirittura il pericolo di sfruttamento del lavoratore?

Siamo poi così certi che questa assurda limitazione dell’iniziativa economica privata sia conforme al precetto dell’art. 41 della Costituzione?

Analoghe perplessità riguardano la stessa legittimità costituzionale – requisiti di straordinaria necessità e urgenza – del decreto-legge approvato: un intervento che ripristina le causali a partire dal tredicesimo mese dalle nuove assunzioni a termine come può intervenire e incidere con immediatezza sul problema precariato?

Ed infine, che senso ha una disciplina di contrasto alla precarietà che, per espressa disposizione del co. 2 dell’art. 1, non si applica “ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, ai quali continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto”?

Esiste un precariato di serie A e un precariato di serie B? Quello creato dalla PA è virtuoso? I precari del Pubblico Impiego hanno minore “dignità”?

La decadenza degli aiuti di Stato per le imprese che riducono i livelli occupazionali

Chiusa la parentesi sui contratti a termine, c’è un altro intervento che pare passato, per il momento, sottotraccia e che – quantomeno a chi scrive – sembra, più che una vera e propria disciplina, una mera dichiarazione di principio, peraltro non condivisibile nei suoi presupposti.

Il perché lo vedremo a tempo debito. Come nostra abitudine partiremo dal testo normativo.

Art. 6 – Tutela dell’occupazione nelle imprese beneficiarie di aiuti

1. Qualora una impresa italiana o estera, operante nel territorio nazionale, che beneficia di misure di aiuto di Stato che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale, fuori dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo, riduca i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio nei cinque anni successivi alla data di completamento dell’investimento, decade dal beneficio in presenza di una riduzione di tali livelli superiore al 10 per cento; la decadenza dal beneficio è disposta in misura proporzionale alla riduzione del livello occupazionale ed è comunque totale in caso di riduzione superiore al 50 per cento.

2. Per le restituzioni dei benefici si applicano le disposizioni di cui all’articolo 5, commi 3 e 5.

3. Le disposizioni del presente articolo si applicano ai benefici concessi o banditi, nonché agli investimenti agevolati avviati, successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.

Come si diceva il principio sottostante l’intervento è chiaro e condivisibile: se ti concedo un finanziamento, devi garantire di impiegare questi fondi per raggiungere l’obiettivo per cui ti sono stati concessi. Uno schema utilizzato, ad esempio, per i contributi all’acquisto di beni strumentali, erogati con il vincolo della loro cessione non prima di cinque anni. Il classico do, ut des.

E questo, come detto, è ok. È tutto il resto che leggiamo nell’art. 6 che non va affatto bene.

Vediamolo punto per punto.

I motivi della riduzione dei livelli occupazionali

Quello a cui il provvedimento mira è evitare che il beneficiario degli aiuti di Stato “riduca i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio”, monitorando, come vedremo, tale eventualità in un arco di tempo individuato.

Va detto che non tutte le riduzioni rilevano per la perdita del beneficio restandone “fuori” esplicitamente i “casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo”.

Ammetto di aver letto più volte il passaggio, cercando conferma di qualche refuso confrontando il testo del Decreto Dignità su varie fonti. Tutto invano: è corretto il riferimento al giustificato motivo oggettivo, ovvero alle cessazioni connesse a ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa.

È necessario qui aprire una piccola parentesi. L’attuale prassi amministrativa sugli aiuti di Stato subordinati al mantenimento dei livelli occupazionali prevede che il venir meno dell’incremento (salvo che per alcune tipologie di licenziamento che non rilevano) comporti la perdita del beneficio per il mese di calendario di riferimento. Non si tratta pertanto di una decadenza assoluta cosicché l’eventuale ripristino dell’incremento per i mesi successivi consente la fruizione del beneficio dal mese di ripristino fino alla sua originaria scadenza, pur non consentendo di recuperare il beneficio perso.

Già quindi prima del Decreto Dignità un licenziamento per giustificato motivo oggettivo che comportava una diminuzione dell’indice ULA aveva rilevanza sul diritto al beneficio decretandone una sorta di “temporanea sospensione” senza però prevederne la sua immediata decadenza. Il Decreto Di Maio pare confermare indirettamente questa disciplina per i licenziamenti cosiddetti “economici”.

La novità oggi introdotta riguarderebbe dunque le sole fattispecie di cessazione dei rapporti a tempo determinato “fuori dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo”, con un contorto riferimento quindi ai licenziamenti a carattere disciplinare.

In sintesi il nuovo assetto normativo oggi prevede:

– se un’impresa licenzia per giustificato motivo oggettivo (crisi aziendale, cessazione dell’attività o soppressione delle mansioni cui era assegnato il lavoratore) questi eventi non comporteranno né la decadenza del beneficio né la sua totale restituzione, ma il suo disconoscimento per i soli mesi in cui si registrerà il decremento occupazionale;

– se la stessa impresa interrompe il rapporto per giustificato motivo soggettivo – il classico licenziamento disciplinare – a tale circostanza consegue la decadenza e la restituzione (in alcuni casi, lo vedremo più avanti, per l’importo totale) del “maltolto”.

Oggettivamente incomprensibile il ragionamento del neo Ministro del Lavoro: se un mio dipendente ruba o se un altro mi aggredisce e mi manda all’ospedale, il messaggio, quasi “intimidatorio”, è chiaro: attento a licenziarli, perché perderai i benefici fin qui goduti!

Dalla tutela del precariato alla tutela dei disonesti e dei delinquenti. Semplicemente sconcertante.

Gli aiuti di Stato

La restituzione dei benefici goduti riguarda quanto ricevuto a titolo di aiuti di Stato i quali “prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale”.

Pare si sia già creato il panico tra gli operatori sulla corretta individuazione di cosa si intenda per aiuto di Stato e più nello specifico quali siano quelli che prevedono una valutazione dell’impatto occupazionale. Se per l’esatta definizione degli aiuti di Stato si ritiene inevitabile il riferimento all’art. 107, par. 1 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che considera tale “qualsiasi aiuto concesso da uno Stato membro o da risorse statali in qualsiasi forma che distorce o minaccia di falsare la concorrenza favorendo talune imprese o la produzione di determinate merci”, sulla corretta individuazione di quelli per i quali rileva la valutazione dell’impatto occupazionale aspetteremo, al solito, la classica circolare che, provenendo dallo stesso Ministero del Lavoro promotore dell’iniziativa di legge, sarà certamente chiara ed esaustiva. Scusate l’ironia.

L’arco temporale

La disciplina in esame stabilisce poi la decadenza dai benefici in caso di riduzione dei livelli occupazionali “nei cinque anni successivi alla data di completamento dell’investimento”.

Anche in questo caso regna la massima incertezza. Non si fa riferimento al provvedimento di concessione del beneficio, non si fa riferimento alla data di effettivo incasso dell’agevolazione, ma al completamento dell’investimento. Individuare quale sarà il giorno da cui partirà il quinquennio oggetto di monitoraggio sarà tutta da ridere.

Se poi applichiamo il principio a quelle agevolazioni contributive connesse alle nuove assunzioni (o stabilizzazioni) che comportano lo sgravio mensile sul DM10 – ad esempio l’assunzione di un giovane NEET ed iscritto al Programma Giovani – uno rischia il crepapelle dalle risate.

La rilevanza della riduzione occupazionale

Anche sull’entità della riduzione dei livelli di organico bisogna dire un paio di cose.

Non tutti i licenziamenti di tipo disciplinare rilevano. Solo nel caso questi realizzassero una riduzione del livello occupazionale superiore al 10 per cento l’impresa dovrà restituire i benefici. Parrebbe un’operazione facile facile, ma non lo è.

Partiamo dal livello occupazionale. A quale data dovrà essere valutato? Sarà il livello dell’occupazione del giorno precedente il licenziamento? Sarà una media del periodo precedente, considerato quello compreso dalla data di completamento dell’investimento e sino alla data antecedente il licenziamento? Sarà quello dell’intero quinquennio?

E se avessimo due o più licenziamenti a distanza di mesi o addirittura anni l’uno dall’altro, cambia il parametro di riferimento? Andrà fatto qualche conguaglio? E se il datore di lavoro procedesse nel breve periodo (addirittura a distanza di pochi giorni) a delle assunzioni in sostituzione dei lavoratori licenziati, sarà ugualmente penalizzato?

E infine nel calcolo dell’organico o della media occupazionale rileverebbero eventuali riduzioni per licenziamenti causa giustificato motivo oggettivo che, come visto, già hanno una loro specifica, soprattutto molto meno gravosa, sanzione?

Anche sulla percentuale di riduzione andrebbero dette un paio di cose. Si ipotizzi una impresa di 100 lavoratori: solo il licenziamento di 11 lavoratori (superiore al 10%) comporta la restituzione dei benefici; licenziarne 10 non crea problemi.

In una piccola impresa di 2 lavoratori, già il licenziamento di uno dei due (il 50% dell’organico) realizzerebbe la fattispecie. In pratica la sanzione colpisce statisticamente di più le piccole imprese. E viene pure il dubbio che riguardi solo quelle.

Se infatti si considera che la revoca è “totale in caso di riduzione superiore al 50 per cento” si deduce che il licenziamento di 11 lavoratori da parte della grande impresa dell’esempio precedente (quella con 100 dipendenti) comporta la perdita dell’11% degli incentivi fruiti; invece nella piccola azienda di due lavoratori che ne licenzia uno, il recupero avviene per il 50%. Se poi la piccola impresa con 3 addetti avesse la sfortuna di cogliere sul fatto due di questi a rubare e li licenziasse entrambi perderebbe in toto gli aiuti di Stato, dato che il recupero “è comunque totale in caso di riduzione superiore al 50 per cento”.

Difficile invece che la grande impresa possa perdere tutti i benefici perché non è ipotizzabile che, sempre riferendoci all’esempio precedente, licenzi 51 dipendenti su 100 per giustificato motivo soggettivo. E questa osservazione ci spinge ad un’altra considerazione: in base a quali dati – parliamo del fenomeno aziende che fruiscono di aiuti di Stato e poi licenziano – il nuovo Governo ha deciso di intervenire? Chi scrive non ha contezza che, in Italia, nelle grandi imprese ci siano stati episodi così eclatanti di licenzianti “collettivi” per furto o insubordinazione.

Si deve allora concludere che siamo di fronte ad un provvedimento destinato a colpire la piccola impresa con una sanzione di una entità tale che non potrà mai essere applicata alla grande impresa.

Una sperequazione inaccettabile.

Conclusioni

La leggenda (leggasi social e Facebook) narra che dietro a Di Maio e al Decreto Dignità vi sia un trittico di professionisti, tra cui due docenti universitari. Ora potremmo, seppur a fatica, sorvolare sulle idee per quanto strampalate possano sembrare. Si decide di penalizzare maggiormente le imprese che licenziano dei lavoratori che hanno commesso gravi infrazioni disciplinari rispetto a quelle che attuano riduzioni del personale giustificate da una più conveniente riorganizzazione aziendale, addirittura – come da recente giurisprudenza – con il risultato di incrementare i propri profitti? Restiamo allibiti ma ne prendiamo e ne diamo atto.

Chi scrive non può invece accettare il dilettantismo giuslavoristico e la superficialità tecnico-giuridica, di cui trasuda tutto il provvedimento in esame, da parte di soggetti, rectius di professionisti, chiamati a collaborare con il Governo a delle importanti iniziative legislative. A maggior ragione – sempre ovviamente che quanto sopra riportato corrisponda a verità – quando costoro sono figure a cui affidiamo l’istruzione e la formazione giuridica dei nostri figli.

E qui, citando qualcuno che oggi siede al Governo, lo dico da papà.

 

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