TRACCE DI “AFFECTIONIS VEL BENEVOLENTIAE CAUSA” IN UN MONDO DI ONEROSITÀ Quando il lavoro non è reso per un corrispettivo economico-monetario

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

Com’è noto, nel nostro ordinamento giuridico vige una presunzione di onerosità della prestazione  lavorativa, talvolta accreditata come vero e proprio principio1 , che trova le sue stabili fondamenta sia nei dettami di legge che nelle varie pronunce giurisprudenziali.
Con riferimento alle fonti di legge, si vedano, ex multis, le seguenti previsioni normative:
– Art. 2094 c.c.: “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”;
– Art. 2222 c.c.: “Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”.
In tutta evidenza, nella generalità dei casi, il Legislatore sottende alla resa della prestazione di lavoro (nei casi richiamati a titolo subordinato o autonomo) un corrispettivo monetario, da definirsi retribuzione o compenso a seconda della modalità di resa della prestazione lavorativa.
Con riferimento alle fonti giurisprudenziali, invece, si prenda a riferimento la sentenza n. 7703,
del 28 marzo 2018, della Corte di Cassazione, nella quale fu chiarito che “[…] ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro si deve presumere come effettuata a titolo oneroso […]”, a confermare quale sia la normalità in presenza della resa di una attività lavorativa, ossia l’esistenza di una controprestazione.
Tuttavia, al di là della presunzione (o principio) di onerosità vista, il nostro ordinamento giuridico ammette la resa di una prestazione di lavoro a titolo gratuito, sebbene in circostanze specifiche, ovvero in eccezione alla predetta normalità.
Tra queste possono essere individuate le ipotesi riconducibili al concetto di lavoro reso “affectionis vel benevolentiae causa”.
Per una definizione di prestazione lavorativa resa “affectionis vel benevolentiae causa”, si leggano le parole di L. Menghini che così la definisce: “collaborazione dettata da sentimenti affettivi, rivolta  all’attuazione del principio morale […] esercitata non per averne in contraccambio una corrispettiva retribuzione materiale, bastando il conseguimento dei benefici spirituali […]” 2

Ma si valuti, in aggiunta, anche la voce della  giurisprudenza, che così si esprime: è un “criterio della causa del rapporto”3 , “caratterizzato dalla gratuità della prestazione; a tale fine non rileva il grado maggiore o minore di subordinazione, cooperazione o inserimento del prestatore di lavoro, ma la sussistenza o meno di una finalità ideale alternativa rispetto a quella lucrativa, che deve essere rigorosamente provata”4 ; in altre parole, si è in presenza di una “prestazione di lavoro […], non […] eseguita con spirito di subordinazione né in vista di adeguata retribuzione, ma affectionis vel  benevolentiae causa o in omaggio a principi di ordine morale o religioso o in vista di vantaggi che si traggano o si speri di trarre dall’esercizio dell’attività stessa”5.
A questo punto della disamina, si rende utile individuare i contesti in cui possa essere identificata la  prestazione lavorativa resa “affectionis vel benevolentiae causa”.
Indubbiamente, l’apporto di lavoro a tale titolo può essere individuato nelle prestazioni rese dai familiari. A tal proposito, si veda l’esaustiva Circolare M.L.P.S. n. 10478/2013, che così si esprime: “Nella maggior parte dei casi, la collaborazione prestata all’interno di un contesto familiare viene resa in virtù di una obbligazione “morale”, basata sulla c.d. affectio vel benevolentiae causa, ovvero sul legame solidaristico e affettivo proprio del contesto familiare, che si articola nel vincolo coniugale, di parentela e di affinità e che non prevede la corresponsione di alcun compenso”; tale documento di prassi, vi è da chiarire, risulta peraltro fortemente supportato da numerosissimi riferimenti  risalenti e non) di natura giurisprudenziale6.
D’altra parte, come del resto risulta evidente, le prestazioni lavorative caratterizzate da una causa riconducibile alla mera benevolenza possono essere identificate nell’ambito del volontariato, che si caratterizza proprio per lo spirito dei cittadini “[…] che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona […]”7 con spontaneità e autonomia “per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”8, laddove “Il volontario è una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà”9 . Tali prestazioni, pertanto, certamente sono da catalogarsi come di lavoro, benché rese “affectionis vel benevolentiae causa”10, secondo “Le motivazioni  profonde di ciascuno (psicologiche, affettive, ecc.)”11, nella piena consapevolezza “di effettuare la propria attività senza voler assolutamente ottenere in cambio un corrispettivo monetario o comunque rapportato al lavoro prestato”12. Ulteriormente, anche nell’ambito sportivo è stato ritenuto configurabile un rapporto reso “affectionis vel benevolentiae causa”; sulla questione, così si è espressa la dottrina : “I motivi che spingono un soggetto a prestare la propria attività lavorativa senza ricevere in cambio alcun compenso, possono essere molteplici, comunque riconducibili al brocardo  “affectionis vel benevolentiae causa” vale a dire la realizzazione di una determinata causa di natura non economica ossia a carattere sociale, culturale, assistenziale o  sportiva ritenuta comunque meritevole secondo l’ordinamento giuridico”13.
E, sul punto, vale la pena evidenziare quanto sancito dalla recente riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo, ai sensi del D.lgs. n.  36/2021, che all’art. 29, co. 1, recita: “Le società e le associazioni sportive, le Federazioni Sportive Nazionali, le Discipline Sportive Associate e gli Enti di Promozione Sportiva, anche paralimpici, il CONI, il CIP e la società Sport e salute S.p.a., possono avvalersi nello svolgimento delle proprie attività istituzionali di volontari che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente con finalità amatoriali. Le prestazioni dei volontari sono comprensive dello svolgimento diretto dell’attività sportiva, nonché della formazione, della didattica e della preparazione degli atleti”.
In conclusione, pur apparendo generalmente difficile legare il concetto di lavoro a quello di gratuità14, appare ormai chiaro come sia invece possibile lavorare lontani dall’idea di onerosità, ma certo solo per determinati e specifici ambiti, ben delimitati e riconosciuti da normativa, giurisprudenza, dottrina e prassi, tra cui, appunto, l’ambito del lavoro reso “affectionis vel benevolentiae causa” nelle sue diverse declinazioni.
E quanto sopra, del resto, risulta scontato, se si considera la “fonte dei principi generali del diritto”15, ossia la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, “a common standard of achievement for all  peoples and all nations” 16, la quale all’art. 23 sancisce che “Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione”, che “Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro” e che “Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale”.

 

1. Cfr. ex multis G. Quadri, Lavoro familiare e presunzione di gratuità, volume 5, n. 2 del 2013, temilavoro.it, p. 33 e T. Bussino, Vigilanza ispettiva nel lavoro a titolo gratuito e a titolo oneroso, Working Paper Adapt, 12 ottobre 2009, n. 95, p. 2.
2. L. Menghini, Nuovi valori costituzionali e volontariato, Giuffrè Editore, Milano, 1989, p. 2.

3. Così L. Gori, La disciplina del volontariato individuale, ovvero dell’applicazione diretta dell’art. 118, ultimo comma, cost., Rivista Aic, n. 1/2018, p. 18, richiamandosi a Cass. 6 aprile 1999, n. 3304.
4. Cass., 6 aprile 1999, n. 3304.
5. Cass., 7 novembre 2003, n. 16774.
6. Ex plurimis, si vedano Cass., 15 marzo 2006, n. 5632, Cass., 13 giugno 1987, n. 5221 e Cass., 21 agosto 1986, n. 5128.
7. Art. 1, comma 1, D.lgs. n. 117/2017.
8. Art. 2, D.lgs. n. 117/2017.
9. Art. 17, D.lgs. n. 117/2017.
10. Cfr. A. Lepore, Lavoro gratuito e subordinazione, Riv. giur. lav., 2006, II, p. 320.
11. Così L. Zoppoli, Volontariato e diritti dei lavoratori dopo il Jobs Act, WP CSDLE “Massimo D’Antona”, 2016, p. 11.
12. Ibidem.

13. Così G. Martinelli, Il rapporto di lavoro sportivo: aspetti giuridici, 2009, documentazione Coni Marche. Per l’ambito giurisprudenziale, si veda Cass. 20 febbraio 1990, n. 1236.
14. A tal proposito, si valutino le eloquenti parole di V. Bavaro: “la formula “lavoro gratuito”, per il diritto, è un ossimoro” in Questioni in diritto su lavoro digitale, tempo e  l libertà, in RGL, 2018., p. 37.
15. Così E. Bergamini, La Dichiarazione nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, rivista.eurojus.it, Fascicolo n. 4 – 2019, p. 60.

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IL TIROCINIO COME SPECCHIO DELLA REGOLAZIONE al di fuori della dicotomia autonomia-subordinazione

Marco Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

L’ACCOSTAMENTO DELLA PERSONA AL LAVORO: LA DICOTOMIA AUTONOMIA E SUBORDINAZIONE

Disquisire di diritto del lavoro, generalmente, significa trattare strettamente di quanto attiene alla tutela del lavoro subordinato1 , di tutto ciò che consente, quindi, di assicurare le necessarie forme di protezione per il lavoratore dipendente, soggetto alla eterodirezione del datore di lavoro e pertanto parte debole nel rapporto di lavoro.
A ben osservare, non mancano filoni dottrinali che ascrivono al diritto del lavoro anche altri ambiti, ipotizzandone talora una sua estensione, talaltra un suo aggiornamento2 , e, per dovere di precisione, va chiarito che in dottrina di sovente si è sollevato il problema dell’inefficienza qualificatoria delle disposizioni di cui all’art. 2094 cod. civ.3 , anche con riferimento all’evoluzione del mondo del lavoro e delle modalità di resa dello stesso4 .
Ad ogni modo, rifacendosi anche al percorso storico della tutela del lavoro, si può affermare che il diritto del lavoro sia quel diritto nato e cresciuto per garantire (almeno negli intenti) le tutele necessarie per il rapporto di lavoro subordinato, sommariamente riuscendovi.
Va da sé, quindi, che le prestazioni di lavoro al di fuori della subordinazione non ricadono nell’insieme delle protezioni fornite dal diritto del lavoro, sebbene, a tal proposito, non si possa che richiamare il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale: ultimo appiglio per quelle prestazioni di lavoro con un diverso nomen iuris, ma che di fatto si svolgono nelle tipiche modalità del lavoro subordinato5 , da valutare anche secondo quegli indici periodicamente individuati dalla giurisprudenza6.
Sintetizzando, il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale implica che “alle parti non è consentito scegliere il tipo contrattuale nel senso di escludere l’applicazione del diritto del lavoro laddove le modalità di esecuzione
presentino i tratti tipici della subordinazione”7 .
Ovviamente, vivere al di fuori della subordinazione non implica l’assenza di tutela alcuna, sebbene vada  affermato che, innegabilmente, il grado di protezione, al di fuori di quest’ambito, sia sensibilmente ridotto8 .
Nel nostro ordinamento giuridico, infatti, in via prioritaria, vi è certamente un’altra faccia della medaglia da dover considerare, ossia il lavoro reso in modalità autonoma, enunciato dall’art. 2222 cod. civ., storicamente in antitesi rispetto alla subordinazione, pur anch’esso soggetto a peculiari protezioni.
Da una parte, pertanto, si può affermare che vi sia il diritto del lavoro, dall’altra un diritto per il lavoro autonomo (o “disciplina del lavoro autonomo” 9 ), composto da tutele diverse e specifiche, ovvero quelle contenute, in particolar modo, nello  Statuto del lavoro autonomo (L. n. 81/2017), così come talvolta definito10.

Non è errato, a tal proposito, parlare di sostanziale dicotomia, o di assetto binario come già definito in dottrina11. Sintomatiche, a tal proposito, sono le parole consegnate da giurisprudenza ormai nota: “ogni attività umana
economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, […] l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione”12.
A ben osservare, la rilevanza della dicotomia in analisi è peraltro confermata dall’avvento di alcune particolari tipologie contrattuali, non apparentemente riconducibili (perlomeno in via immediata) all’alveo del lavoro subordinato o autonomo. Si fa riferimento, in particolare, alle collaborazioni di cui all’art. 409, comma 3, c.p.c., ovvero a quella parasubordinazione che taluno attribuì inizialmente ad un teorico a sé stante tertium genus (il
terzo, quindi, oltre la citata dicotomia). Tali forme di lavoro, in tutta evidenza, hanno manifestato invece la necessità di richiamarsi nuovamente alla bipartizione “autonomiasubordinazione”, sia al fine di una loro plausibile catalogazione (generalmente all’alveo del lavoro autonomo13), sia al fine di garantire sufficienti tutele per il lavoratore, di fatto appoggiandosi alle protezioni tipiche del lavoro subordinato in presenza dei requisiti necessari
(si veda a tal proposito l’art. 2, comma 1, D.lgs. n. 81/201514).
Anche valutando, quindi, queste forme di lavoro del tutto peculiari, appare evidente come la suddetta dicotomia si sia rivelata un perpetuo punto di riferimento, soprattutto allo scopo di riconoscere un appropriato meccanismo di tutele che fosse confacente ai dettami costituzionali.
In conclusione, nel valutare l’accostamento della persona al lavoro, e le sue necessarie protezioni, certamente difficile per il giuslavorista appare abbandonare la logica binaria tipica del nostro ordinamento giuridico15, sebbene le considerazioni non possano necessariamente fermarsi a questo punto.

IL LAVORO SENZA CONTRATTO
A questo punto della riflessione, preme notare che le surrichiamate modalità di accostamento della persona al lavoro trovano la loro effettiva genesi in un contratto e, a tal proposito, pare necessario sottolineare che la dottrina maggioritaria ritiene che il rapporto di lavoro in genere, o perlomeno quello appartenente alle tradizionali forme di lavoro, abbia un’origine puramente contrattuale16.
Eppure, non si può dimenticare che esiste un bacino di forme lavorative diverse, le quali, evidentemente ed empiricamente, non trovano la loro fonte in un contratto tra le parti, pur concretizzandosi, a tutti gli effetti, nella
resa di un’attività lavorativa. Le stesse, con una mera esigenza classificatoria, possono essere ascritte alla macrocategoria del lavoro senza contratto, intendendosi per tale l’intero alveo di quelle esperienze lavorative rese al di fuori di un preciso vincolo contrattuale. A titolo esemplificativo, tra queste forme di lavoro è possibile identificare l’intero complesso dei tirocini (tra cui quello curricolare e quello extracurricolare), regolamentati tramite convenzioni e progetti formativi, il contratto di prestazione occasionale di cui all’art. 54-bis, L. n. 96/2017 (che contratto invero non è), che trova la sua regolamentazione e attuazione tramite una piattaforma online e non di certo in un contratto17, oppure il periodo di pratica professionale, altrimenti detto praticantato, anch’esso ascrivibile all’alveo dei tirocini18, se non anche il compartimento del lavoro familiare reso affectionis vel benevolentiae causa.
Come evidente, nelle circostanze summenzionate  è certamente possibile identificare la resa di una prestazione di lavoro, con specifici e peculiari vincoli giuridici19, sebbene questi ultimi non scaturiscano dalle rigide maglie
di un contratto di lavoro e, quindi, da un reale animus contrahendi delle parti.
Orbene, vi è da chiarire, in conclusione, che i lavoratori appartenenti a tale bacino appaiono spesso  insufficientemente tutelati, vuoi per la frequentissima assenza di significative tutele pensionistico-previdenziali, vuoi per la innegabile precarietà che contraddistingue tali prestazioni. Come a dire che, superando i confini della citata dicotomia, il lavoro non sia meritevole di rilevanti tutele. Peraltro, a tal proposito, la dottrina più volte ha rimarcato la necessità di istituire sufficienti protezioni anche per questa gamma di esperienze lavorative non standard 20, finanche rivisitando completamente larga parte degli istituti21, così da combattere l’istituzionalizzazione del lavoro povero e la diffusione dei cosiddetti working poors.

IL TIROCINIO COME SPECCHIO DELLA REGOLAMENTAZIONE AL DI FUORI DELLA DICOTOMIA
Un’analisi empirica, certamente, può coadiuvare la comprensione delle generali criticità che appartengono al lavoro che vive oltre i confini dell’autonomia e della subordinazione. Da qui l’esigenza di scegliere e valutare con occhio critico una specifica forma di lavoro  senza contratto.
Come si vedrà, gran parte delle criticità rilevate non riguardano, unicamente, le specifiche tutele previste, la loro natura e la loro estensione, ma spesso, bensì, la carente qualità della regolazione, che poi, di conseguenza, sfocia in situazioni di insufficiente protezione per il lavoratore debole22. In particolare, si prenderà qui a riferimento il tirocinio extracurricolare, da definirsi oggi “un percorso formativo di alternanza tra studio e lavoro, finalizzato all’orientamento e alla formazione professionale, anche per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”23,
evidentemente, ma anche per espressa previsione24, da non considerarsi lavoro subordinato.
Innanzi a tutto, preme chiarire che, per le forme di lavoro acontrattuali, il già richiamato principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale risulta assai depotenziato; proprio perché, in tali casi, è il Legislatore a dire cosa il lavoro sia, o meglio non sia, attenuando il potere riqualificatorio, essenza del principio25.
In altre parole, abbandonando la logica del contratto di lavoro, e finendo al di fuori dei confini di autonomia e subordinazione, si pone il problema della necessaria rivisitazione della portata del suddetto principio, poiché
il Legislatore, in buona sostanza, converge prioritariamente sull’importanza del nomen iuris, più che sulle modalità effettive di svolgimento della prestazione26.
A tal proposito, va considerato che il tirocinio consente, se non addirittura esige27, la resa di attività lavorativa, anche sotto una certa direzione del datore di lavoro (qui soggetto ospitante)28, nonostante non sia per espressa previsione, come visto, da considerarsi lavoro subordinato. Certo, non va dimenticato che, ex lege, “il tirocinio […] non può essere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente”29, e che la giurisprudenza più volte ha consegnato dei parametri per identificare una prestazione ascrivibile alla subordinazione (ad esempio, l’assenza di formazione o la ripetitività ed elementarità dei compiti assegnati), eppure il rischio di cadere in situazioni di abuso appare permanente e difficilmente scardinabile se si considera l’“economicità” dello strumento rispetto ad un ordinario rapporto di lavoro. A titolo esemplificativo, è previsto un semplice rimborso spese per l’attività lavorativa (non paragonabile alla retribuzione di cui all’art. 36, Cost.) e non vi sono costi pensionistico- previdenziali, posto che non vi è una tutela pensionistico-previdenziale per il tirocinante. Il rischio è, in tutta evidenza, quello di trovarsi
di fronte alla legittimazione di un lavoro dal corrispettivo povero, e povero di tutele: una beffa. Una prospettiva inaccettabile poiché del tutto antitetica rispetto ai sacri principi sanciti dalla nostra Costituzione. Tuttavia, pare difficile in poche righe affrontare nello specifico la discussione sulla natura dello strumento, e sulle tutele per esso previste, se non anche sulla reale necessità che debba esistere un tirocinio dall’essenza extracurricolare30, volendosi invece focalizzare l’attenzione sulla inadeguatezza dell’intero impianto regolatorio, il quale certamente denota la poca attenzione rivolta nei confronti del lavoro oltre i confini dell’autonomia e della subordinazione. A tal proposito, si considerino le ultime previsioni normative da parte della Legge di Bilancio 2022, con le quali il Legislatore ha voluto porre le basi per una riforma del tirocinio tramite specifiche e dettagliate disposizioni. Ebbene, tali disposizioni, in primis, sono parse da subito in contrasto con precedenti pronunce della Corte costituzionale (non vi può essere, infatti, una “indebita invasione dello Stato in una materia di competenza residuale delle Regioni”31), in secundis hanno evidenziato la scarsa attenzione riposta nella loro trascrizione. Si noti infatti come all’art. 1,  comma 724, (forse involontariamente?) sia stata prevista l’obbligatorietà della comunicazione obbligatoria Unilav per il tirocinio in genere, e non unicamente per quello extracurricolare, in totale controtendenza rispetto a quanto previsto dalla nota M.L.P.S. n. 4746/2007, la quale prevedeva di “escludere l’obbligo di comunicazione per i tirocini promossi
da soggetti ed istituzioni formative a favore dei propri studenti ed allievi frequentanti, per realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro”. Tuttavia, successivamente, con nota n. 530/2022 l’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) ha chiarito che, in merito all’obbligo di comunicazione preventiva, “si ritiene, in coerenza con i precedenti orientamenti, che lo stesso riguardi unicamente i tirocini extracurriculari”; anche se, agli occhi del giuslavorista, il verbo ritenere non pare equiparabile al verbo legiferare.
E, richiamandosi proprio all’intervento dell’Inl summenzionato, preme sottolineare la sempre forte incidenza che la prassi amministrativa ha avuto nel settore: sempre decisiva per determinare i corretti perimetri dello strumento. A titolo esemplificativo, si veda la circolare Inl n. 08/2018 in tema di riqualificazione del rapporto.
Ivi si afferma, tra le molte precisazioni, che la “corresponsione significativa e non episodica di somme ulteriori rispetto a quanto previsto nel PFI” può essere causa di riqualificazione del rapporto: tale specifica, invero, appare
più sostanziale che chiarificatrice ai fini della corretta gestione del rapporto.
Come evidente, una così forte rilevanza della prassi amministrativa può essere foriera di criticità non indifferenti, oltreché manifestare una presumibile insufficienza regolatoria. A tal proposito, non pare fuori fuoco richiamarsi
a quanto avvenuto nelle circostanze del bonus 200 € di cui al D.l. n. 50/2022, ovvero alle incongruenze manifestatesi tra passi e norma32 e alle notevoli difficoltà causate tanto agli operatori, quanto ai lavoratori. In aggiunta,
va notato che in dottrina si è già più volte  evidenziato, anche se per altri ambiti, come la prassi amministrativa sia servita, di frequente, per supplire al silenzio del Legislatore33, a volte manifestando, peraltro, un problema di
coerenza con le disposizioni normative34. Orbene, come se quanto illustrato non fosse sufficiente, va da ultimo evidenziato un ripetuto (e smodato) ricorso alle Faq, le quali, spesso, hanno consegnato informazioni da
considerarsi imprescindibili. A tal proposito, si vedano le Faq fornite dal Sito Cliclavoro in materia di Tirocini formativi e di orientamento35, ma anche quelle fornite, molto spesso, dalle singole regioni36. Sulle Faq, tuttavia, preme riportare quanto deciso dai giudici del Consiglio di Stato con sentenza n. 1275/2021: “In linea generale,
occorre prendere atto del sempre maggiore ricorso da parte delle pubbliche amministrazioni alle Frequently Asked Questions (FAQ) […]. Si tratta di una serie di risposte alle domande che sono state poste (o potrebbero essere
poste) […]. In tal modo viene data risposta pubblica, su un sito web, a interrogativi ricorrenti, sì da chiarire erga omnes e pubblicamente le questioni poste con maggiore frequenza. Il ricorso alle FAQ, evidentemente, è
normalmente da ricondurre a esigenze di trasparenza dell’attività della pubblica amministrazione e di economicità della medesima. […]. Tuttavia, non si può neppure dimenticare che le FAQ sono sconosciute all’ordinamento
giuridico, in particolare all’art. 1 delle preleggi al Codice civile. Esse svolgono una funzione eminentemente pratica […]. È quindi da escludere che le risposte alle FAQ possano essere assimilate a una fonte del diritto, né primaria, né secondaria. Neppure possono essere considerate affini alle circolari, dal momento che non costituiscono un
obbligo interno per gli organi amministrativi. In difetto dei necessari presupposti legali, esse non possono costituire neppure atti di interpretazione autentica”.
In tutta evidenza, l’emanazione delle perigliose Faq manifesta l’incontrovertibile necessità di meglio chiarire e perimetrare i confini dello strumento, quest’ultimo presumibilmente maldisciplinato ab origine dalla norma.

CONCLUSIONI
Si è testé trattato, in particolare, di tirocinio extracurricolare, invero, si badi bene, la carenza di tutele appare caratteristica intrinseca di tutto quelle forme di lavoro che abbandonano la logica contrattuale e che vivono al di
fuori del caldo abbraccio delle protezioni tipiche della subordinazione, se non anche di quelle specifiche per il lavoro autonomo. Prendere atto della carenza di tutele, come si è visto, non è però sufficiente. Urge infatti, in primis, interrogarsi sulle modalità con cui il lavoro acontrattuale viene regolamentato, ovvero sulla attenzione e sulla tecnica riposte dal Legislatore nei confronti di quest’alveo. Come ormai chiaro, il bacino del lavoro senza contratto molto spesso pare bistrattato, “Eppure, si tratta di lavoro, la cui tutela «in tutte le sue forme» è garantita dall’art. 35 Cost”37. In apertura si è discusso della sostanziale dicotomia che permea il nostro ordinamento giuridico. Al di là delle discussioni forse squisitamente dottrinali riguardanti la definizione di “diritto del lavoro”, o la presumibilmente
evidente necessità di allargamento del suo perimetro, piuttosto sembra doveroso riconoscere, innanzi a tutto, la dignità per il lavoro in quanto tale.
La necessità di un’evoluzione generale, quindi, verso un diritto delle “relazioni personali di lavoro”38, o “del mercato del lavoro”, che sfoci in una nuova “cultura del diritto del lavoro” 39 in cui si riesca pienamente a garantire
la tutela dei più deboli al cospetto dei più forti40, indubbiamente tramite più certezze e minori ambiguità.

 

1. Cfr. ex multis M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli Editore, e M. V. Ballestrero, La dicotomia autonomia/subordinazione.
Uno sguardo in prospettiva, Labour & Law Issues, vol. 6, no. 2, 2020.
2. Cfr. sulla questione M. V. Ballestrero, La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva, cit.. 3. Ibidem.
4. Cfr. ex multis M. Pallini, La subordinazione è morta! Lunga vita alla subordinazione!, Labour & Law Issues, vol. 6, no. 2, 2020.
5. Cfr. Corte costituzionale n. 121/1993 e n. 115/1994, in dottrina M. V. Ballestrero, Brevi note sulla dialettica tra posizioni contrattualistiche e acontrattualistiche, in Lavoro Diritti Europa n. 2020/3.
6. A titolo esemplificativo si veda la recente ordinanza n. 22846/2022 della Corte di Cassazione.
7. Così M. V. Ballestrero, Brevi note sulla dialettica tra posizioni contrattualistiche e a-contrattualistiche, cit., p. 7.
8. Cfr. A. Perulli, Il diritto del lavoro e il “problema” della subordinazione, Labour & Law Issues, vol. 6, no. 2, 2020, p. I.103. In aggiunta, per uno studio delle tutele al di fuori del contratto di lavoro, mi si permetta di rimandare a M. Tuscano, il lavoro senza contratto, Adapt University Press.
9. Così M. V. Ballestrero, La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva,
cit,, p. I.14.
10. Cfr. ex multis M. V. Ballestrero, op. cit. e G. Cavallini, Il «nuovo» lavoro autonomo dopo la stagione delle riforme, Lavoro@confronto.

11. Cfr. A. Perulli, op. cit..
12. Cfr. ex multis Corte di Cassazione n. 9251/2010.
13. Cfr. in dottrina M. V. Ballestrero.
14. Il quale recita: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui
modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
15. A tal proposito, si veda nuovamente M. V. Ballestrero che non condivide un teorico superamento della dicotomia in analisi, in La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva, cit,, p. I.14.
16. Cfr. M. V. Ballestrero, Brevi note sulla dialettica tra posizioni contrattualistiche e a-contrattualistiche, cit. e M. Roccella, op. cit..
17. Cfr. V. Pinto, Prestazioni occasionali e modalità agevolate di impiego tra passato e futuro, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 343/2017.
18. Cfr. in dottrina ex multis L. Casano.

30. Molto spesso in dottrina si è sollevato  il problema di come il tirocinio possa depotenziare la possibilità di  inserimento del giovane nel mondo del lavoro tramite un vero e proprio contratto, ad esempio di apprendistato.
Cfr. ex multis M. Tiraboschi, Persona e lavoro tra tutele e mercato, cit..

31. Cfr. sentenza n. 287/2012, Corte costituzionale.
32. Cfr. ex multis A. Borella, L’indennità una tantum di 200 euro ai dipendenti. Chiarimenti inps in ordine
sparso, in Sintesi n. 06/2022.
33. Cfr. I. Corso, La c.d. maxisanzione: elementi caratterizzanti e ambito di applicazione della fattispecie sanzionata,
in Legalità e rapporti di lavoro, Incentivi e sanzioni, a cura di M. Brollo, C. Cester, L. Menghini, EUT, p. 456.
34. Ibidem, pp. 461 e 462.

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Il cumulo delle qualita’ di amministratore e lavoratore subordinato

di Gabriele Fava , Avvocato in Milano

 

Il presente contributo affronta una questione già più volte dibattuta nel corso degli ultimi anni, ma comunque sempre molto attuale: il cumulo delle qualità di amministratore di società e di dipendente della stessa.

La vicenda in esame riguarda, in particolare, il licenziamento di un soggetto che, dapprima nominato amministratore delegato e presidente del comitato di gestione della società, stipulava, poco tempo dopo, con la medesima società, un contratto di lavoro subordinato con la qualifica di dirigente.

Il dipendente, impugnando il licenziamento, lamentava l’insussistenza della giusta causa di recesso e chiedeva, oltre all’accertamento dell’inesistenza della predetta causa, la condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare prevista dal Ccnl Dirigenti.

Il Giudice del Lavoro del Tribunale e la Corte d’Appello respingevano la domanda del dirigente non riconoscendo la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato, in quanto il soggetto in questione non aveva dimostrato l’esistenza dei presupposti per la configurazione di tale tipo di rapporto.

La giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata nell’affermare, in linea di principio, che “il rapporto organico che lega il socio o l’amministratore ad una società di capitali non esclude la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato a contenuto dirigenziale tra il primo e la seconda” (Cass., n. 1283/1998; Cass. Civ., sez. Lavoro, 1 febbraio 2012, n. 1424) allorquando sia individuabile la formazione di una volontà imprenditoriale distinta, tale da determinare la soggezione del dipendente-amministratore ad un potere disciplinare e direttivo esterno, sì che la qualifica di amministratore costituisca uno schermo per coprire un’attività configurabile, in realtà, nei termini di un normale lavoro subordinato (Cass. Civ., sez. Lavoro, 14 gennaio 2000, n. 381; Cass. Civ., sez. Lavoro, 12 gennaio 2002, n. 329).

I giudici di merito, inoltre, rimarcavano l’irrilevanza, ai fini qualificativi, del contratto di lavoro concluso inter partes, in quanto stipulato ai soli fini previdenziali ed assistenziali.

Spesso, infatti, l’interesse che l’amministratore ha di figurare contemporaneamente come lavoratore subordinato coincide con l’opportunità di godere di trattamenti previdenziali, assistenziali e pensionistici connessi per legge con tale qualifica.

Successivamente la Corte di Cassazione, sulla scia di quanto precedentemente deciso dai giudici di merito, rigettava il ricorso del dirigente, sottolineando che le due posizioni lavorative in questione (Amministratore e Dirigente) possono essere cumulabili (ad esclusione dell’Amministratore Unico, in quanto questo sarebbe datore di lavoro di se stesso) solo “ove sia configurabile concettualmente, e dimostrato in concreto, l’elemento che caratterizza tale rapporto, ossia la subordinazione” (Cass. Civ., sez. Lavoro, 23 novembre 1988, n. 6310).

Non vi è, quindi, l’esistenza del vincolo di subordinazione nel caso in cui un dirigente non risponda al consiglio di amministrazione nell’esecuzione della sua attività (Cass. Civ., sez. Lavoro, 3 ottobre 2013, n. 22611).

Vi deve essere, quindi, una volontà imprenditoriale che si forma in modo autonomo rispetto a quella dell’amministratore-dirigente, con l’assoggettamento di quest’ultimo al potere direttivo e di controllo degli organi della società (Cass., n. 381/2000 cit.).

Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione conferma il consolidato orientamento giurisprudenziale, statuendo che “per la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato fra un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, ovvero l’amministratore delegato, e la società stessa, è necessario che colui che intende far valere tale tipo di rapporto fornisca la prova della sussistenza del vincolo di subordinazione e, cioè, l’assoggettamento, nonostante la suddetta carica sociale, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società nel suo complesso” (Cass. Civ., sez. Lavoro, 25 settembre 2018, n. 22689).

Attestata, quindi, la possibile compatibilità giuridica tra le funzioni di lavoratore dipendente e quelle di amministratore di una società, la sussistenza di un tale rapporto deve essere verificata in concreto, essendo necessario accertare, da una parte, l’esistenza di una volontà della società distinta da quella del singolo amministratore e, d’altra parte, il ricorrere dell’elemento tipico, qualificante, della subordinazione (Cass. Civ., sez. Lavoro, 29 gennaio 1998, n. 894). Nello specifico, la compatibilità non deve essere verificata solo in via formale, con riferimento esclusivo allo statuto e alle delibere societarie, occorrendo invece accertare in concreto la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione (Cass. Civ., sez. Lavoro, 11 novembre 1993, n. 11119).

A tal proposito la giurisprudenza ha precisato che “il cumulo delle due qualità presuppone, al di là dello statuto e delle deliberazioni assembleari e consiliari, la verifica in concreto circa la sussistenza del vincolo della subordinazione gerarchica e, in particolare, lo svolgimento dietro retribuzione, di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita” (Cass. Civ., sez. Lavoro, 26 ottobre 1996, n. 9368).

Il Supremo Collegio, infatti, rigettando il ricorso, ha tenuto a rimarcare, oltre che la necessità della prova del vincolo di subordinazione, il principio per cui può esservi cumulabilità tra la carica di amministratore delegato e lavoratore subordinato di una stessa società di capitali, purché si accerti l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale.

Di conseguenza, ai fini della legittimità del cumulo delle qualità di amministratore e lavoratore subordinato della medesima società, è necessario, da una parte, calibrare i poteri conferiti all’Amministratore, che non potranno in tal caso prevedere il potere di assumere e licenziare, il potere disciplinare nei confronti dei dirigenti, i poteri direttivi e di controllo estesi all’area dirigenziale, prevedendo così una non pienezza dei poteri in capo alla figura di Amministratore, ma solo, eventualmente, una funzione vicariale dello stesso; d’altra parte, per la funzione di Dirigente nonché di lavoratore subordinato, dovranno essere previste mansioni diverse da quelle svolte in veste di amministratore, l’obbligo di rendere conto all’organo di amministrazione della società circa il proprio operato e l’assoggettamento al potere disciplinare dell’organo di amministrazione della società come fondamento per la sussistenza del vincolo di subordinazione.

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Esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: le Sezioni Unite non fanno completa chiarezza

di Lucio Imberti – Professore Associato di Diritto del Lavoro Università degli Studi di Milano

I contrasti giurisprudenziali nella Sezione Lavoro

Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 27436/2017,si sono finalmente pronunciate sui profili sanzionatori della disciplina applicabile in caso di esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, cercando in tal modo di assicurare l’uniforme interpretazione della l. 142/2001 da parte della giurisprudenza di legittimità, rivelatasi alquanto ondivaga negli ultimi anni.

In sintesi, un primo orientamento della Sezione Lavoro – alla luce dell’art. 5, co. 2, Legge n. 142/2001 secondo cui il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio – ha affermato che il legislatore ha … previsto un rapporto di consequenzialità fra il recesso o l’esclusione del socio e l’estinzione del rapporto di lavoro, che esclude la necessità, in presenza di comportamenti che ledono il contratto sociale oltre che il rapporto di lavoro, di un distinto atto di licenziamento, così come l’applicabilità delle garanzie procedurali connesse all’irrogazione di quest’ultimo (Cass. n. 14741/2011; nello stesso senso: Cass. n. 2802/2015; Cass. n. 9916/2016). Queste decisioni ritengono – adottando l’interpretazione della disciplina più condivisibile ad avviso di chi scrive – che l’esclusione del socio comporti automaticamente il venir meno del rapporto di lavoro subordinato.

In senso diametralmente opposto, si è posto altro orientamento della Sezione Lavoro, secondo cui se la delibera di esclusione del socio si fonda esclusivamente sull’intervenuto licenziamento …, una volta ritenuto quest’ultimo illegittimo, consegue che parimenti illegittima è la delibera di esclusione del socio. Pertanto Legge n. 142 del 2001, ex art. 2 … trova applicazione l’art. 18 St.Lav. (Cass. n. 14143/2012; di questo avviso anche: Cass. n. 6224/2014; Cass. n. 17868/2014; Cass. n. 1259/2015; Cass. n. 19918/2016). Questo orientamento riconosce ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato tutele analoghe a quelle previste per i lavoratori subordinati tout court, ritenendo applicabili le garanzie procedurali e la disciplina sostanziale del licenziamento, anche in caso di esclusione e contestuale licenziamento.

Non è poi mancato un ulteriore indirizzo interpretativo, espresso da Cass. n. 11548/2015, che pur affermando la sussistenza di un rapporto di consequenzialità fra l’esclusione del socio ed il recesso, incidendo la delibera di esclusione pure sul concorrente rapporto di lavoro, ha conclusivamente ritenuto applicabile l’art. 18, Legge n. 300/1970 una volta rimosso il provvedimento di esclusione.

Ancora più vario è stato il panorama delle opinioni nella giurisprudenza di merito, che in parte ha seguito orientamenti analoghi a quelli della Cassazione sopra citati ed in parte ha proposto ulteriori ed originali soluzioni interpretative quanto ai profili formali, sostanziali e sanzionatori relativi all’esclusione ed al licenziamento del socio lavoratore.

Ne è risultato, in definitiva, un quadro di estrema incertezza.

Due articolate e puntuali ordinanze interlocutorie del maggio 2017 (Cass. nn. 13030 e 13031/2017) hanno opportunamente ritenuto che a fronte dei contrasti esistenti in materia nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e dell’importanza della questione – la quale attiene alla ricostruzione dei meccanismi estintivi del rapporto e delle tutele applicabili per i moltissimi lavoratori che operano in cooperative come soci – si rende opportuno rimettere il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite della Corte.

La decisione delle Sezioni Unite

Il ricorso oggetto dell’ordinanza n. 13030 è stato ritenuto inammissibile dalla sentenza n. 27435, mentre le Sezioni Unite – nel pronunciarsi sul ricorso cui si riferiva l’ordinanza n. 13031 – sembrano aver optato con la sentenza n. 27436/2017 per un indirizzo interpretativo nuovo ed originale.

La questione presa in esame riguarda il caso di un socio lavoratore – al contempo escluso dalla cooperativa e da essa licenziato per giusta causa, in ragione della contestata aggressione ad un superiore gerarchico – che si era limitato ad impugnare il licenziamento, senza invece impugnare la delibera di esclusione.

In primo luogo, le Sezioni Unite affermano che la cessazione del rapporto associativo … trascina con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro. Sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore. Alla luce di tale premessa, non è condivisibile l’orientamento volto sostanzialmente alla tutela giuslavoristica del socio lavoratore, la cui impostazione determina il capovolgimento della relazione di dipendenza prefigurata dal legislatore tra l’estinzione del rapporto associativo e quella del rapporto di lavoro, che deriva dal collegamento tra essi.

Da altro punto di vista, tuttavia, la sentenza n. 27346 rileva che il nesso di collegamento tra rapporto associativo e rapporto di lavoro … per quanto unidirezionale, non riesce ad oscurare la rilevanza di quello di lavoro, anche nella fase estintiva. Da questa osservazione discende la critica rivolta anche all’applicazione della sola disciplina societaria, sulla base della considerazione per cui non mostra di tener conto di tale autonoma rilevanza l’orientamento … in base al quale, al cospetto di condotte che ledano nel contempo il rapporto associativo e quello di lavoro, sarebbe unico il procedimento volto all’estinzione di entrambi; di modo che, adottata la delibera di esclusione, risulterebbe ultroneo un distinto atto di recesso datoriale dal rapporto di lavoro.

Date queste premesse interpretative, ne discende in punto di conseguenze sanzionatorie che l’effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall’esclusione dalla cooperativa a norma del 2° comma dell’art. 5 della Legge n. 142/2001 impedisce senz’altro, in mancanza d’impugnazione della delibera …, di conseguire il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore. In caso di impugnazione della delibera, può invece trovare applicazione la tutela restitutoria, che consegue all’invalidazione della delibera, dalla quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario, sia dell’ulteriore rapporto di lavoro: tale tutela è del tutto estranea ed autonoma rispetto alla tutela reale prevista dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori, di matrice, appunto, lavoristica.

Chiarito che è la -sola- tutela restitutoria ad essere preclusa qualora, insieme col rapporto di lavoro, venga a cessare anche quello associativo, le Sezioni Unite si premurano di precisare che l’omessa impugnazione della delibera ne garantisce … l’efficacia, anche per il profilo estintivo del rapporto di lavoro, ma tale effetto estintivo, tuttavia, di per sé non esclude l’illegittimità del licenziamento, lasciando impregiudicata l’esperibilità di tutela diversa da questa, ossia di quella risarcitoria contemplata dall’art. 8 della legge 16 luglio 1966, n. 604.

Da tali assunti deriva, infine, l’affermazione del principio di diritto in base al quale in tema di tutela del socio lavoratore di cooperativa, in caso d’impugnazione, da parte del socio, del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria non è inibita dall’omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni, afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria.

I dubbi non chiariti

Le Sezioni Unite sembrano aver optato per una soluzione di sostanziale compromesso, che tuttavia inaugura un nuovo orientamento interpretativo, dando adito a dubbi in merito alla sua applicabilità in relazione a casi non perfettamente sovrapponibili a quello oggetto della sentenza n. 27436.

Ci si può, infatti, domandare se ed in quali termini tali principi – affermati in un caso di mancata impugnazione della delibera di esclusione e di impugnazione del solo licenziamento – possano trovare applicazione nell’ipotesi di tempestiva e contestuale impugnazione della delibera di esclusione e del licenziamento (eventualmente, ma non necessariamente effettuato), fondati sulle medesime circostanze. In altre parole, può la difesa del socio lavoratore proporre in via principale la domanda rivolta all’impugnazione della delibera per ottenere la tutela restitutoria in ambito societario ed in via subordinata la domanda relativa all’impugnazione del licenziamento per chiedere la tutela risarcitoria di matrice lavoristica ex art. 8, Legge n. 604/1966? Per tutelarsi di fronte a tale possibile duplice domanda è necessario che la cooperativa giunga all’esclusione ed al licenziamento attraverso le rispettive procedure societarie e lavoristiche e rispettando i relativi adempimenti formali?

Ed ancora i principi fissati dalle Sezioni Unite sono rilevanti anche con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato dei soci lavoratori cui si applica la disciplina del D.lgs. n. 23/2015? Nei loro confronti risulta applicabile, in caso di mancata impugnazione della delibera di esclusione, l’art. 8 della Legge n. 604/1966 a prescindere dal requisito dimensionale o, invece, la disciplina del D.lgs. n. 23/2015, dal momento che l’art. 2, co. 1, Legge n. 142 esclude esplicitamente solo l’applicazione dell’art. 18 della Legge n. 300/1970 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo? Che rilievo assume al riguardo la circostanza che nel D.lgs. n. 23/2015 permangano ipotesi in cui il licenziamento è sanzionabile con la reintegrazione nel posto di lavoro?

Si tratta di questioni che in larga parte esulavano dal caso su cui erano chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite (che, pertanto, non potevano in alcun modo esprimersi puntualmente ed esplicitamente al riguardo) e su cui, tuttavia, la soluzione per così dire “intermedia” adottata nella sentenza n. 27436 non aiuta a fare chiarezza e ad offrire sicuri indirizzi interpretativi.

È senza dubbio possibile ed auspicabile che la giurisprudenza di merito e di legittimità chiamata prossimamente a decidere si conformi a tale pronuncia, adottando un’interpretazione condivisa della stessa sentenza ed approdando ad un rapido consolidamento di orientamenti univoci in tema di profili formali, sostanziali e sanzionatori dell’esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa.

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, non è improbabile che – nonostante l’intervento delle Sezioni Unite ed alla luce delle prime pronunce di merito successive a tale intervento – tornino viceversa a manifestarsi molteplici ed ondivaghi orientamenti giurisprudenziali, in considerazione delle numerose, divergenti ed ormai radicate opzioni interpretative della disciplina della Legge n. 142 e dell’art. 2533 c.c. prospettate nei quindici anni dall’entrata in vigore dell’art. 9 della Legge n. 30/2003, che ha modificato la Legge n. 142 con riferimento alla disciplina dell’esclusione e del licenziamento del socio lavoratore.

Nel caso dovesse purtroppo realizzarsi questa seconda ipotesi, non rimane, quindi, che invocare un intervento legislativo risolutivo che sappia finalmente definire sul punto in questione una disciplina chiara e semplice. Ciò soprattutto in ragione del fatto che l’attuale situazione di grandissima e palese incertezza giuridica rischia di andare a tutto vantaggio delle false cooperative, che più facilmente proliferano in tale quadro normativo e giurisprudenziale confuso e farraginoso.

In ogni caso, oggi – a molti anni di distanza dall’approvazione e dalla successiva parziale modifica della Legge n. 142 – non pare essere ancora giunto il momento della certezza del diritto nell’interpretazione ed applicazione della disciplina dell’esclusione e del licenziamento del socio lavoratore di cooperativa. Anche il fattore tempo non è evidentemente una variabile indipendente e irrilevante per la (sempre relativa) certezza del diritto.

 

 

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Ciò che autonomo non è

Andrea Asnaghi – Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano

 

Il titolo di questo contributo vuole essere simpaticamente provocatorio e tende a parafrasare il nome che gli amici di Adapt hanno dato una serie di riflessioni e convegni il cui contenuto* (senza volerne sminuire la ricchezza, come è costretta a fare una definizione sintetica) è sostanzialmente riconducibile alla domanda se l’evoluzione in atto, sulla spinta di molti fattori, nel mondo del lavoro renda ancora attuale la distinzione classica fra lavoro autonomo e subordinato, chiedendosi nel contempo se è giustificata l’ossessione dell’attuale legislatore italiano per il lavoro subordinato a tempo indeterminato come promozione dell’occupazione stabile e di qualità.
La questione posta è solo sotto un certo profilo abbastanza retorica, in quanto le risposte sono già insite nella domanda, e non possono che essere negative:

  • la subordinazione è nozione che si stempera oggi nelle mille e mille sfaccettature in cui la prestazione personale può essere svolta ed il concetto, quantomeno nella sua accezione classica, è pertanto imploso da (molto) tempo;
  • l’occupazione stabile e di qualità ha come veri fattori trainanti la formazione, una progettazione economico-industriale seria ed efficaci strumenti e strutture di ricollocazione e di reinserimento al lavoro, non certo il totem “posto fisso” che, vista anche l’estrema mutevolezza delle competenze, davvero rischia di essere una pura chimera (e lo stesso dicasi della paventata – e catastrofica – reintroduzione del vecchio art. 18).

Anche le definizioni con cui il legislatore ha tentato via via di affrontare la materia autonomia/subordinazione non hanno raggiunto risultati apprezzabili: la norma sul lavoro a progetto è, a parere di chi scrive il capitolo meno azzeccato del D.lgs. n. 276/2003 (non aderendo tuttavia all’acritica accusa ideologica, e finanche assassina, che in quel capitolo ha voluto vedere la causa di certa dilagante precarietà, e non un tentativo di arginarla); la riforma Fornero ne ha inasprito le parti più critiche, peggiorando le cose; vari progetti di riforma si sono incagliati, nel merito, su una definizione accettabile del concetto di dipendenza economica; l’art. 2 del D.lgs. n. 81/2015 nel voler fare un passo avanti ha fatto un mezzo passo indietro (con tanto di interpretazioni contrastanti e relativo contenzioso).
Tuttavia, una volta chiarito che il legislatore è ancora una volta a metà del guado (se non in mezzo ad una palude) rimane l’interrogativo su come interpretare e regolare sotto un profilo giuridico l’ibridazione (almeno apparente) fra lavoro autonomo e subordinato ricorrente in buona parte delle prestazioni odierne e sempre più attuale.
Il lavoro del futuro è un lavoro che si sposta davvero verso l’autonomia? E, soprattutto, di quale autonomia stiamo parlando? Nel panorama giuridico e lavorativo italiano, cosa possiamo permetterci?
Una certa riflessione giuslavoristica, nel riscontrare e valorizzare questa tendenza all’autonomia e le problematiche connesse nel mercato del lavoro italiano, ha proposto di arrivare ad un superamento parziale della distinzione classica attraverso l’elaborazione di uno statuto dei lavori, cioè di un corpus di norme comuni applicabili egualmente al lavoro autonomo ed al lavoro subordinato personale, professionale o meno che sia.
Le difficoltà da questo punto di vista sono molteplici e non sono mai state ad oggi risolte, in parte per la difficoltà del legislatore ad entrare in un ruolo di comprensione e definizione del lavoro autonomo, anzi direi, proprio perché il lavoro autonomo personale, in questa riflessione, non è mai stato centrato ed è stato visto piuttosto come il contraltare del lavoro subordinato classico.
I nodi di questa incomprensione sono tanti e sono sotto gli occhi di tutti; solo per ricordarne qualcuno diverso dai soliti potremmo ricordare le difficoltà odierne di classificazione (e conseguentemente del loro inquadramento anche sotto il profilo assicurativo) del ruolo dei soci che lavorano in un’impresa o degli amministratori che vi prestano attività, oppure dei familiari, o ancora dei soci di cooperativa. La dottrina la prassi ed anche l’elaborazione giurisprudenziale sembrano ben lontani dall’aver trovato punti di equilibrio. Oggi vi sono prestazioni che, nel panorama giuridico attuale, sotto un profilo meramente definitorio, spostando qualche virgola e pochi elementi fattuali, possono essere inquadrati in regime di: impresa individuale, lavoro autonomo, collaborazione personale e lavoro agile. Con tanto di apertura al contenzioso ed agli abusi, legalizzati o meno che siano.
Ma anche con il rischio di arrivare agli assurdi come quello della sentenza del 29 novembre 2017 della Corte di Giustizia europea (causa C-214/16) sul diritto di un lavoratore “autonomo” alle ferie retribuite, che non gli sarebbero state concesse dall’azienda. La domanda sorge spontanea: se la determinazione di una cosa così importante come le ferie era rimessa all’azienda, di quale autonomia stiamo parlando? Ma a tale assurdo arriveremo presto anche in Italia, con il lavoratore “autonomo” coordinato e continuativo a cui (in caso di etero-organizzazione) si applica la medesima disciplina (anche previdenziale) del lavoro subordinato: il che è corretto, infatti in tal caso l’autonomia si diluisce (ma allora perché denominarlo autonomo?).
Volendo usare un principio regolatore e discriminante, ad avviso di chi scrive sarebbe logico ribaltare il concetto e porre questo assioma: “tutto ciò che non è realmente autonomo è subordinato”.
Ora, la definizione di lavoro autonomo e di autonomia, prima ancora che giuridica, è filosofico-sociale: il lavoratore autonomo è un piccolo, anzi minimo, imprenditore di se stesso. Nel panorama economico ha scelto di stare per conto suo, in forza di un progetto professionale con il quale ritiene di poter condurre la propria attività con vantaggi dal punto di vista economico e personale, e per farlo, sceglie, adotta ed usa a proprio rischio tutti i mezzi–pochi o tanti che siano – che sono necessari alla sua attività (che non è, pertanto, una mera ”prestazione”).
Di contro, il lavoratore subordinato è uno che tale progetto non ha e che tali rischi, conseguentemente, non vuole (o non vorrebbe) assumere.
Fuori da queste definizioni, che cosa resta? Con tutta onestà, un “subordinato mascherato” , ove il nascondimento risponde a precise esigenze di natura economica volte ad eludere alcuni vincoli, oneri e costi tipicamente riferiti al lavoro subordinato o, talvolta, al lavoro autonomo (in taluni casi, con vantaggio anche del prestatore). Vincoli ed oneri dei quali la rincorsa all’elusione rappresenta una caratteristica di spicco nel nostro Paese, basti pensare agli enormi settori inquinati da terziarizzazioni fittizie, contrattazioni pirata e contratti di dubbio spessore (tanto per fare un esempio: si vuole negare che i lavoratori dei call center, senza distinzione fra inbound ed outbound, oppure fra contrattualizzati e non contrattualizzati, siano dei lavoratori subordinati a tutti gli effetti?). È quindi non scontata la domanda se ci possiamo permettere definizioni troppo ampie e vaghe, se non vogliamo trovarci ulteriormente di fronte ad avvisi di ricerca del personale del tipo “assumiamo solo con partita IVA”, che non è una mera terminologia errata ma un modo errato di pensare e riguarda peraltro non solo le partite IVA ma ingenti settori piccolo-imprenditoriali.

Vi è parallelamente l’emergere obiettivo di un tertium genus, il cui carattere definitorio non si gioca tuttavia principalmente sul divario fra autonomia e subordinazione, ma piuttosto sulla “modica quantità” ed in buona parte quindi sulla anomalia o discontinuità della prestazione: oggi tali attività sono confinate, nella espressione più nobile e fuori da contesti illeciti, nelle attività regolate dai PrestO e/o lavoro occasionale, oppure dal lavoro a chiamata (che, al di là degli aspetti definitori, non è lavoro subordinato in senso stretto difettando, almeno in quello senza disponibilità, del sinallagma classico del lavoro subordinato). A tali attività si aggiungono, e potrebbero essere ugualmente regolate in tali nicchie, quelle attività che riguardano le nuove frontiere del lavoro, soprattutto nell’ambito, vastissimo e dilagante, della sharing economy.
Fuori dalla alternativa subordinato-autonomo rimarrebbero così davvero pochi e ristretti ambiti specialistici, il cui rapporto potrebbe riguardare normazioni speciali ad hoc.
Ovviamente insistere sulla distinzione fra autonomia e subordinazione sarebbe possibile oggi solo a patto di procedere in altre due direzioni, oltre ad una coraggiosa e puntuale definizione di autonomia:da una parte, costruire un nucleo di tutele mirate (e quindi impossibili da ibridare con quelle del lavoro subordinato) sul lavoro autonomo, compreso quello professionale e piccolo imprenditoriale, volte a garantire a tali figure, spesso economicamente deboli, condizioni eque ed un minimo di protezione sociale;dall’altra, attuare una politica seria di revisione del lavoro subordinato, ampliando il concetto classico di subordinazione al punto di farvi ricomprendere una vasta area di attività che oggi presentano tratti di autonomia operativa e di assunzione di responsabilità (attraverso meccanismi di retribuzione variabile e/o legata in parte ad obiettivi) e nel contempo diminuendo in maniera adeguata costi ed oneri relativi al lavoro subordinato, anche attraverso un riequilibrio delle tutele che oggi appaiono troppo sbilanciate, peraltro a volte in un senso e a volte nell’altro.
Il tutto, ovviamente, entro un quadro di politiche economiche e lavorative che investano, ed invitino le aziende ad investire, nei fattori trainanti (formazione e ricerca), nonché con una seria attività di ricollocazione e sostegno al reddito. E magari, perché no, anche con controlli più efficaci.
Il che sarebbe quello che il legislatore del Jobs Act probabilmente si proponeva almeno in parte di fare (si pensi ad esempio alla recente L. n. 81/2017 sul lavoro autonomo e sul lavoro agile) non fosse che molti tentativi in queste direzioni si siano rivelati troppo timidi, oppure contraddittori, o ancora inefficaci, improvvisati (malgrado un’apparente organicità), e talvolta più rivolti ad un battage ideologico/pubblicitario di pronta resa che non ad un progetto mirato, o persino sensibili ad interessi ben precisi.
C’è in ogni caso e prima di tutto (di qualsiasi nuova riforma: chiediamo un periodo sabbatico!) l’urgente necessità di una presa di coscienza collettiva sul significato del lavoro e del suo spessore nel contesto umano e sociale, e lo stesso dicasi per il concetto di impresa. Tanto per fare un esempio, continuare ideologicamente a pensare che questi siano e debbano rimanere ambiti contrapposti contribuisce ad alimentare una vasta carenza di responsabilità insieme con la legittimazione, e quindi proliferazione, dei peggiori difetti ed escamotage (il tutto, da una parte e dell’altra).
Non vorremmo continuare in eterno a ripeterci, con Flaiano, che in Italia “la situazione è grave ma non è seria”.

  • Articolo pubblicato anche sul Bollettino Adapt del 18 dicembre 2017, n. 43

 

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