DEFINIRE LO STRAINING (senza aprire il dizionario inglese-italiano)

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

È normale, di tanto in tanto, domandarsi  se, ai nostri tempi, sia sempre necessario l’utilizzo di termini anglofoni. Sostenitore o meno della questione, il giuslavorista spesso è chiamato a dare il corretto significato a parole esotiche che profondamente incidono nella materia del lavoro.
Tra queste, senz’altro, vi è lo “straining”, che impatta e certo impatterà, sempre più fortemente,
nella gestione e amministrazione dei lavoratori. Dare il corretto significato al termine “straining”
è tuttavia opera certamente complessa e meticolosa, da non relegare a processi meramente
traduttivi.
Il termine, infatti, trova la sua reale definizione giuridica1 soprattutto prater legem: tramite questioni e orientamenti prettamente giurisprudenziali, che, susseguendosi in un crescente e inarrestabile perfezionamento, ne disegnano i (prima sfumati, poi sempre più marcati) confini.
Tali orientamenti dapprima ne consegnano il significato generale: lo straining “si definisce come una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (quindi non rientranti nei parametri del mobbing) ma tale da provocarle una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa” e “può essere provocato appositamente ai danni della vittima con condotte caratterizzate da intenzionalità o discriminazione […] e può anche derivare dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro disagevole, per incuria e disinteresse nei confronti del benessere lavorativo”2; per poi intervenire, con maggior precisione, per definirne minuziosamente la portata.
In particolare, ad oggi e fino al prossimo tassello, tra i molti aspetti, è possibile chiarire che, affinché si configuri lo straining:

  • “è sufficiente […] anche un’unica azione ostile purché essa provochi conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima percepisca di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori”3
  • è necessario siano rispettati dei parametri di individuazione4, tra cui “ambiente lavorativo; frequenza e durata dell’azione ostile” e che “le azioni subite appartengono ad una delle categorie tipizzate dalla scienza (che sono: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni, attacchi contro la reputazione della persona, violenza o minacce di violenza)” 5;
  • non è necessaria la presenza di “una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli”  6 da parte del datore di lavoro, che laddove perpetrati comporterebbero la confifigurabilità del mobbing, considerato appunto che, per parte degli orientamenti giurisprudenziali 7, “lo straining altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie” 8;
  • non rileva il rapporto conflittuale tra le parti, laddove “non riferibile in via esclusiva a comportamenti tenuti dal solo datore di lavoro” 9 ossia da suoi “comportamenti stressogeni scientemente attuati” 10;
  • non rilevano i pregiudizi che “derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa […] o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili” 11;
  • è necessario che “il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative stressogene”, non avendo rilevanza alcuna, invece, la “situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa […] determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l’intera azienda” 12;
  • non è sufficiente “l’esistenza di un disagio lavorativo”, ma è necessaria l’“esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati” utilizzati da parte del datore di lavoro, anche laddove i contrasti comportino lo “sfociare in una malattia del lavoratore”13. 

Chiarito che incombe sul “lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno” 14.

La giurisprudenza, come visto, nella sua ondivaga immediatezza, tramite i suoi orientamenti imperterrita prosegue nell’attribuire significato allo straining.

Piacciano o non piacciano gli anglicismi, il datore di lavoro oggi è avvisato: tra i suoi must (o, se preferito, doveri) vi è, ufficialmente, “l’obbligo datoriale di assicurare, anche ai sensi dell’art. 2087 c.c., un ambiente idoneo allo svolgimento sicuro della prestazione, che dunque potrebbe non escludere l’inadempimento se il lavoro si manifesti in sé nocivo per la connotazione indebitamente stressogena” 15 . E, com’è noto, il suddetto inadempimento è foriero di risarcimento dei danni, tanto di tipo patrimoniale quanto di tipo non patrimoniale 16.

 

  1. Sebbene, come sancito dalla Corte di Cassazione, con sentenza 19 febbraio 2016, n. 3291, “le nozioni di mobbing e straining sono nozioni di tipo medico-legale, che non hanno autonoma rilevanza ai fini giuridici e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro”.
  2. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291. A titolo informativo, una delle prime tracce di straining a livello giurisprudenziale è contenuta in una sentenza assai più risalente: la n. 286 del 21 aprile 2005 del Tribunale di Bergamo.
  3. Nuovamente, Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291.
  4. I parametri sono stati inizialmente teorizzati dal Professor Harald Ege, Psicologo specializzato in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, e sono i seguenti: l’ambiente lavorativo, ovvero che il conflitto si svolga sul posto di lavoro; la frequenza, ovvero che le conseguenze dell’azione ostile debbano essere costanti; la durata, ovvero che il conflitto sia in corso da almeno sei mesi; il tipo di azioni, ovvero che le azioni subite appartengano ad almeno una dellecinque categorie del “LIPT Ege”; il dislivello tra gli antagonisti, ovvero che la vittima sia in una posizione di costante inferiorità; l’andamento secondo fasi successive, ovvero che la vicenda abbia raggiunto almeno la II fase (“Conseguenza percepita come permanente”) del Modello Ege di Straining a quattro fasi; l’intento persecutorio, ovvero nella vicenda devono essere riscontrabili uno scopo politico e un obiettivo discriminatorio. Cfr. Harald Ege, Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro.
  5. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291.
  6. Cass. 11 novembre 2022, n. 33428.
  7. Si fa riferimento alla sentenza n. 7844 della Corte di Cassazione, che ammette lo straining “anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio”, ovvero in presenza di una mera responsabilità colposa da parte del datore di lavoro.
  8. Cass.,10 luglio 2018, n. 18164.
  9. Cass., 5 dicembre 2018, n. 31485.
  10. Cass., 11 novembre 2022, n. 33428.
  11. Cass., 23 maggio 2022, n. 16580.
  12. Cass., 28 ottobre 2022, n. 32020.
  13. Cass. 06 ottobre 2022, n. 2905
  14. Cass. 04 ottobre 2019, n. 24883.
  15. Cass., 06 ottobre 2022, n. 29059.
  16. Cass. 29 marzo 2018, n. 7844.

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Analisi del fenomeno dello STRAINING*

Luca di Sevo, Consulente del Lavoro in Bollate (Mi)

Caterina Mazzanti si confronta con le criticità nel definire lo straining e nel dimostrare l’esistenza di un pregiudizio a carico del lavoratore

L’autrice affronta il tema dello straining per il quale vi sono notevoli difficoltà da parte del lavoratore nel dimostrare l’esistenza di un pregiudizio alla salute o alla sua sfera esistenziale per comportamenti anomali del datore di lavoro in violazione dell’art. 2087 c.c., prendendo spunto dalla sentenza Cass. civ., sez. Lavoro Ord., 04 febbraio 2021, n. 2676. Per ottenere un risarcimento del danno da straining non è sufficiente provare il demansionamento, ma è necessario accertare anche la presenza di un comportamento vessatorio del datore di lavoro.

Sono stati evidenziati diversi fenomeni legati alla sfera lavorativa: il semplice “mal d’ufficio” (amplificazione da parte del lavoratore delle normali difficoltà sul luogo di lavoro), il mobbing, lo straining e il demansionamento. Tutti questi risultano molto vicini tra loro e spesso difficili da individuare; laddove esiste un’intenzione vessatoria il demansionamento costituisce uno dei possibili volti dello straining e del mobbing.

Lo straining è stato definito come una forma di “mobbing attenuato” dotato, cioè, di un grado di conflittualità lavorativa di minor intensità ma comunque fonte di responsabilità del datore di lavoro a titolo contrattuale ed extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 2043 c.c.. Lo straining è caratterizzato dall’istantaneità dell’evento: il comportamento scorretto del datore di lavoro si esaurisce in un unico episodio isolato che genera un disagio nel lavoratore, oppure è costituito da più azioni tra loro scollegate.

Il riconoscimento giuridico dello straining è dettato dal timore che i comportamenti isolati, restino impuniti: l’isolamento relazionale o professionale del dipendente, la privazione degli strumenti necessari allo svolgimento dell’attività lavorativa, lo svuotamento delle sue mansioni e l’assegnazione di mansioni inferiori possono tuttavia rientrare anche nelle ipotesi di mobbing o di demansionamento o di dequalificazione. La sentenza oggetto del lavoro di ricerca ha tuttavia stabilito che l’illegittima adibizione a mansioni inferiori per poter acquisire “l’etichetta di straining” deve essere sorretta dall’intento persecutorio, oggetto di specifica prova.

È comunque innegabile che una persona isolata e professionalmente svilita per un lungo periodo di tempo, soffra intensamente a livello di autostima, di socialità, di qualità di vita, riportando un danno esistenziale, relazionale e professionale in accordo con l’idea per cui il lavoro non rappresenta soltanto una fonte di guadagno, ma anche il mezzo attraverso il quale esprimere la propria personalità (artt. 2, 3 e 4 Cost.).

La giurisprudenza ha cercato di tracciare i confini tra le situazioni di “eu-stress” o stress positivo e quelle di “di-stress”, o stress negativo, entro le quali sono riconducibili le figure del mobbing e dello straining. Ciò ha consentito di distinguere tra i pregiudizi meritevoli di ricevere una tutela risarcitoria e quelli non risarcibili, come ad esempio il “mal d’ufficio”. Tuttavia, allo stato attuale, il rischio è quello di non garantire al lavoratore una tutela risarcitoria, in casi come quello analizzato in cui non si tiene adeguatamente conto della condizione di debolezza della persona che ha subito lo straining la quale, diversamente da quella discriminata, non beneficia di alcun supporto a livello processuale: ad esempio, può essere difficile ottenere testimonianze “genuine” nel corso del giudizio da parte dei colleghi che temono possibili reazioni ritorsive del datore di lavoro, fenomeno con cui si devono confrontare giornalmente gli avvocati e per cui è auspicabile un intervento del Legislatore.

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in LG, 1/2022 dal titolo L’incerto confine tra straining, mobbing e “mal d’ufficio. 

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