Senza filtro – VADO AL MINIMO

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

“Vado al massimo, vado a gonfie vele”. Così cantava un quasi giovane Vasco Rossi nel 1982 a Sanremo. Evidentemente quando non si pensa al top ma ci si preoccupa del minimo, forse di gonfie vele non se ne vedono poi così tante. Purtroppo.

Oggi il dibattito sul salario minimo infiamma, con toni da tifosi del wrestling da una parte e dall’altra, ma la sensazione è che buona parte dei discorsi non siano seri, non tanto nelle intenzioni (ci mancherebbe, non ci permetteremmo mai) ma come metodo. Si va per slogan, per tentativi, per emozioni, si sbandierano numeri che sembrano messi lì a perorare la propria causa, ma si sa che i numeri a seconda di come li guardi danno ragione a chi sostiene una tesi e a chi dice il contrario.

Ora la questione è stata congelata per due mesi; è un periodo di tempo utile a schiarirsi le idee, forse verrebbe maliziosamente da pensare che qualcuno speri che intanto sorgeranno altri temi di interesse.

Proviamo invece a non perdere la concentrazione e a riflettere su alcune questioni, con la solita seria leggerezza.

IL CALCOLO DI RAFFRONTO

Chiedendo scusa per la domanda molto tecnica, ma se proprio volessimo fare un confronto (fra Ccnl ad esempio), potremmo chiederci come calcolare questa benedetta paga minima oraria. Il problema non è da poco, soprattutto perché la maggior parte dei contratti collettivi ragionano su una paga mensilizzata, qualcuno ha un divisore orario che è stato contrattualizzato un tanto al chilo e, soprattutto, ci sono trattamenti che si dipanano per tutto l’anno e di cui è difficile dare una valutazione in termini orari. D’altronde, mica ce la si puo’ cavare con qualche frasetta ambigua (tipo: “indennità contrattuali fisse e continuative”, che se mettete insieme 100 bravi consulenti del lavoro non sanno cosa voglia dire in termini concreti – e peraltro chi lo propone lo sa ancor meno) o addirittura confondendo lordo con netto come se fossero termini fungibili, mentre sono parecchio distanti. Ovviamente non ha alcun senso parlare di netto, viste le variabili fisco-previdenziali in cui si incappa, ma questo – tranne qualche sprovveduto- lo capiscono quasi tutti.

C’è chi propone di inserire nel computo due scatti (ma non si capisce perché per arrivare al salario minimo un lavoratore dovrebbe aspettare 4, o talvolta 6, anni); c’è chi propone di inserirvi il TFR, ma anche in tal caso si prende una posta che ha una funzione previdenziale per dargli una veste retributiva (e pure questo non è tanto bello).

Volendo fissare un termine abbastanza fermo, per fare una valutazione trasversale fra Ccnl si potrebbe ragionare sulla seguente formula (abbastanza semplice da calcolare – le variabili devono esser poche e di facile recupero)

M x m

________________

[(52x H)-Fs-Fe-P]

Ove M è la retribuzione mensile dell’ultimo livello di un Ccnl e m è il numero di mensilità (di solito 13 o 14) previste dal contratto, H è l’orario settimanale previsto dal Ccnl e Fs, Fe e P sono rispettivamente le ore di festività, ferie e permessi retribuiti fissi stabiliti dal contratto per il livello e l’anzianità di ingresso del lavoratore (per i non addetti ai lavori, si tratta di dividere la retribuzione teorica annua per il numero delle ore effettivamente lavorabili previste da ciascun contratto). Mettendo con questa formula a confronto molti Ccnl si avrebbe un lordo orario superiore ai 9 euro. Ma non è questo il punto. Il punto è che qualsiasi sia la base minima che si vuole fissare (8, 9 o 10 euro, lordi mi raccomando) va individuato lo strumento che faccia da efficace e concreto termine di paragone fra i vari contratti (o trattamenti, in assenza di contratto).

E poi, ogni tanto, bisognerebbe ricordarsi di rivalutare il minimo stabilito (non fare come gli importi dell’art. 51 TUIR, che sono disperatamente fermi a 25 anni fa).

UN NUCLEO DI DIRITTI

Essendo il computo precedente abbastanza “asciutto” (che per  è il suo vantaggio, quello di avere pochi parametri ma cruciali), insieme ad esso si potrebbe individuare una serie di diritti minimi: un certo numero di ferie annuali, un divisore orario congruo, una maggiorazione minima per lavoro straordinario, un trattamento minimo in caso di malattia, infortunio, (e relativi periodi di comporto), un’indennità minima di trasferta etc.. Perché fare tutto questo? Semplicemente per assicurare condizioni minime di lavoro uniformi. Non sarebbe male ripensare in chiave di questa uniformità anche le forme di previdenza ed assistenza obbligatorie per legge: ad esempio, perché qualcuno è coperto per malattie e infortuni e qualcun altro no?

I CONTRATTI COLLETTIVI

Qualcuno pensa che l’introduzione di un salario minimo (e quindi, lo pensa anche per stabilire un nucleo minimo di diritti?) comprimerebbe l’autonomia delle parti sociali nella contrattazione. Tuttavia, al contrario, senza modificare la propensione allo stimolo (che deve restare) verso il riferimento alla contrattazione di maggiore rappresentatività, si tratterebbe unicamente di individuare una linea sotto la quale chi ci va sta risparmiando (e fa male) sulle risorse umane.

Certo, il nucleo di tutele individuate (salario minimo orario compreso) deve essere fissato in modo equilibrato; una volta individuato, per , proposte che vedrebbero l’incentivazione fiscale dei contratti emergenti dalle paludi del “sottobosco retributivo” appaiono senza pudore. Piuttosto si potrebbero promuovere fiscalmente forme di welfare vero (“vero” nel senso che il reale vantaggio non stia nei fornitori di welfare ma nelle provvidenze che arrivano alle persone) magari partendo dalle attenzioni ai redditi economicamente più deboli ed evitando fughe in avanti verso trattamenti de luxe a chi non ne avrebbe effettivamente chissà quale bisogno. Fissati i paletti minimi, anzi, ecco che la creatività della contrattazione collettiva (compresa quella di secondo livello ed aziendale) avrebbe maggiori possibilità di promozione sociale. E magari anche l’iniziativa individuale, chè nelle piccole aziende funziona senza interventi posticci di qualche sindacalista raccattato per strada (e magari pure “retribuito” per questo). Insomma lo scopo vero sarebbe tagliar fuori il mercato dei furbi, di qualunque genere e profilo, non di competere con la contrattazione seria e i trattamenti adeguati.

IL LAVORO AUTONOMO, I CONTRATTI SPURI, LE ESTERNALIZZAZIONI, IL DUMPING

Parlando di furbi, tuttavia, come non ricordare la pletora di sistemi e sistemini oggi presenti sul mercato del lavoro, con cui si cerca di evadere ed eludere (non usiamo il termine risparmiare, che ha un’accezione positiva, perché risparmiare sulla pelle di chi lavora è fondamentalmente rubare) oneri e tutele. Quanto lavoro autonomo è veramente tale? Perché non eliminare contratti “falsi autonomi” con un’azione che coniuga semplificazione a legalità? Come funziona (e come si contrasta) il dumping, interno ed esterno? Quali tutele per i lavoratori esternalizzati (guarda caso i contratti collettivi al ribasso prosperano in certe filiere)? Come si intercetta un’illegalità diffusa che non viene toccata dalla contrattazione collettiva e dal salario minimo, perché lì le tutele vengono proprio saltate a piè pari? Come si smascherano le false cooperative, le false onlus, i falsi contratti di rete e tutti gli orpelli messi in atto da geni del male (se professionisti, veri e propri traditori della deontologia)?

Anche apprezzando, per i motivi esposti sopra, l’idea di un salario minimo (ragionato), senza un ribaltamento di alcune tendenze borderline – se non del tutto illegali – dell’attuale mercato del lavoro non si arriva da nessuna parte. C’è chi avverte – e non va troppo lontano dal vero – su possibili derive di fuga rispetto ad un aumento del costo del lavoro (ci sono adesso, non ci saranno dopo?). Senza un’azione di promozione della legalità e di contrasto efficace ai fenomeni elusivi il problema esce dalla porta per rientrare (di soppiatto, che è anche peggio) dalla finestra. Qualcuno parla di rivalutare il 603/bis c.p. ampliando il concetto di sfruttamento, qualcuno di collegarlo più energicamente con la responsabilità di impresa ed i modelli organizzativi ex D.lgs. n. 231/01. Che fare impresa abbia un orizzonte etico e debba rispettare e promuovere equità ci sembra quasi ovvio, ben vengano per  obblighi e controlli, magari anche preventivi, a rafforzare il concetto finchè diventi cultura acquisita. Sul lavoro autonomo, poi, alcune proposte oggi in campo vorrebbero utilizzare il salario minimo orario o il corrispettivo della retribuzione di pari livello dei contratti più rappresentativi (quali siano, forse un giorno qualcuno ce lo dirà) come trattamento minimo del lavoro autonomo. Ma la proposta è sostanzialmente irreale. Per quale motivo un effettivo (e non sfruttato) lavoratore autonomo dovrebbe accontentarsi del medesimo trattamento di un dipendente, non avendo le stesse tutele (anzi, non avendole del tutto…) ed avendo a suo carico l’alea del rischio e quasi sempre l’intero onere previdenziale? Sembra un ribasso nel rialzo, una foglia di fico per non affrontare il vero problema di ci  che autonomo non è, ma si continua a trattarlo come tale.

 

LA QUESTIONE ECONOMICA

Sullo sfondo, nemmeno a dirlo, c’è sempre la questione economica. Arrivare ad un’economia sostenibile vuol dire rispettare le risorse che si impiegano; abbiamo attenzione crescente per l’ambente, vogliamo trascurare le risorse umane (cioè le persone)? L’obiezione che un aumento delle retribuzioni possa aumentare alcuni prezzi complessivi e avere effetti negativi sul costo della vita puo’  avere qualche senso, ma stiamo parlando di retribuzioni infime e non dignitose. Perché non tornare allora alla schiavitù (sicuramente molto conveniente e senza rischi di innescare fenomeni inflattivi)? Dobbiamo piuttosto chiederci, in effetti, se tutto ci  che oggi è spreco, superfluo, posticcio, inutile non debba lasciar spazio a modelli di sviluppo e di consumo più responsabili. Un avere meno che è un avere meglio, dove il “meglio” passa anche per la condivisione e la solidarietà. È un concetto troppo grande per poter esser affrontato in poche righe, tuttavia una riflessione sistemica, finanche sui modelli di vita e comportamento, va fatta. Ed è quello che riguarda anche temi precedenti che con il trattamento minimo potrebbero sembrare non aver parentele. Senza una visione ecologica (nel senso di olistica), almeno in prospettiva, l’idea di un salario minimo, per quanto apprezzabile, rischierebbe di essere solo un tassello spaiato con contraccolpi di vario effetto, la solita bandierina di conquista ideologica dove tutto cambia perché tutto resti come prima (se non peggiore). Come ogni azione che vuol essere davvero efficace, per dirla con altre parole, il salario minimo va situato ed accompagnato. Sullo sfondo una Europa che deve fare propria questa riflessione sui modelli culturali e di scelta, e sulla loro condivisibilità in un territorio che vede profonde differenze; è necessario, se vogliamo essere costruttori di cattedrali, che non siano … ridicole e pretenziose cattedrali nel deserto.

Abbiamo offerto qualche concetto senza particolari pretese di esaustività, come spunti di riflessione.

Intanto il dibattito sul salario minimo continua ed appassiona le piazze (anche televisive), speriamo che un’esigenza di equità e legalità sociale non duri solo fino alla prossima trovata emozional-elettorale (vuoi vedere che forse di chi non va a gonfie vele non è che gliene freghi poi molto a tanti?).

Vedremo. Anzi, usiamo la stessa canzone anche per chiudere: “Voglio proprio vedere, sì voglio proprio vedere come va a finire”.

 

 

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Senza filtro – IL PROCESSO

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

In un’aula come tante, in un giorno come tanti, davanti ad un giudice come tanti e con l’assistenza di avvocati come tanti si discuteva una causa come tante.

Le carte, le parole, i fatti, le questioni, il tempo scorrevano come un grande fiume placido, impercettibile ma inarrestabile, innocuo ma invincibile, senza sussulti ma travolgente. La Ferroesudore srl, piccola officina meccanica dell’hinterland milanese, aveva licenziato il Gino, bravo ed esperto operaio, in forza di una crisi (improvvisa ma in prospettiva, purtroppo non temporanea) che aveva costretto a limitare pesantemente i costi. Forse, ho detto forse, non era estranea alla decisione di licenziare il fatto che il Gino fosse sì un valente operaio (in certe narrazioni campate per aria, come il cervello di chi le propina, pare che la massima libidine di un datore di lavoro sia quella di licenziare, ma avviene esattamente il contrario: uno, i bravi, di solito se li tiene stretti) ma era anche uno libero ed indipendente, che non le mandava a dire, non come certi lacchè di cui è pieno il mondo: gli errori dell’azienda li faceva notare, non ultimo quello di inserire da qualche anno a dirigere il lavoro il figlio del titolare, viziato, pigro ed inesperto, che senza la sacrosanta gavetta prendeva decisioni a sentimento sostenute scioccamente a spada tratta dal padre, fondatore dell’impresa; la mela era, ahimè, caduta molto lontana dall’albero ed era uno di quei casi – non rari purtroppo – in cui il cieco affetto genitoriale è il peggior viatico per la strada del figlio (e, se siamo in ambito imprenditoriale, anche per l’azienda stessa). Non era in discussione, invero, il momento di crisi della Ferroesudore: numeri alla mano, sapientemente documentati nella difesa aziendale, la flessione c’era ed era sensibile; e in un’aziendina di 15 dipendenti anche uno stipendio in più o in meno poteva fare una certa differenza. Semmai, cio’ di cui si discuteva era il perché la mannaia fosse caduta proprio sul Gino, che, forte dei suoi anni di esperienza e padre di tre figli e con moglie a carico forse, almeno apparentemente, non sembrava proprio “il primo della lista” sacrificabile, secondo i benedetti principi di buona fede ed oggettività. E difatti di cio’ si dibatteva: su 15 cristiani, perché il Gino?

Il quale Gino, a dispetto del consiglio di parenti ed amici, avrebbe voluto ricorrere e presentarsi all’udienza da solo, forte di poter sostenere le proprie ragioni senza l’assistenza di nessuno, o come diceva lui, di “vedere a che punto siamo giunti con la giustizia in Italia” (sono parole sue, che riportiamo fedelmente sine glossa). Solo alla fine aveva di cattivo grado accettato di farsi seguire in causa da un lontano cugino della moglie, giovane abogado diventato avvocato dopo l’iter di validazione, cooptato alla causa più per parentela che per esperienza.

“Vede, sig. Giudice – arringava l’Avv. Gecosulvetro, difensore dell’azienda – abbiamo ampiamente documentato come la scelta del licenziamento del ricorrente fosse l’unica possibile. E lo dimostreremo anche qui con ampia evidenza. Cominciamo col dire che dei 15, tre sono impiegati: una è l’amministrativa e due sono disegnatore/progettista tecnico, figure uniche e percio’ ampiamente insostituibili nel risicato panorama aziendale”. “Va bene – rispondeva il giudice Sbadiglioni – ma gli altri?”

Il Gecosulvetro non aspettava altro per proseguire: “Poi abbiamo il quadro, responsabile di produzione (NDR si tratta del figlio degenere e pasticcione) ed inoltre il capofficina, espressioni stesse del titolare e ad un livello superiore”. “Capisco, e così togliamo anche quelli. Ma ne rimangono pur sempre 10”.

“Continuiamo con escludere anche il dipendente Ambrosetti: egli è stato assunto un annetto fa,

quando la ditta aveva 15 dipendenti e fu costretta ai sensi della L. n. 68/99 ad assumere un disabile (NDR era un disabile c.d. “di lusso”, persona del tutto normale ma che per via di un diabete di lunga memoria – che fortunatamente non gli creava particolari disagi – aveva ottenuto il punteggio all’uopo necessario). Poi, un operaio è andato in pensione ma l’azienda ha comunque 15 dipendenti ed è soggetta all’obbligo del collocamento obbligatorio. Ora sig. Giudice, Lei sa bene che in caso di riduzione di personale, non pu  essere intaccata la quota di riserva obbligatoria per legge – e quindi togliamo anche quello”.

“D’accordo avvocato” – disse lo Sbagìdiglioni, il quale già si spazientiva; si stava allungando la cosa e non voleva certo arrivare in ritardo al pranzo offerto proprio quel giorno a lui ed altri colleghi dalla casa editrice Cartacanta s.p.a.: chissà che non ci scappasse qualche incarico, qualche articolo o studio, portatori di un po’ di gloria e/o pecunia – vada avanti, La prego”. “Poi abbiamo la sig.ra Gloriani, appena rientrata dalla maternità obbligatoria, intoccabile per legge fino al compimento di un anno di vita del bambino. E la Ferrosudore mica puo’  aspettare 9 mesi per ridurre i costi, ammesso che poi sia così facile il licenziamento anche dopo. Sa, qui fra norme antidiscriminazione e parità di genere agire sull’unica dipendente neo-mamma dell’azienda diventa altamente rischioso e controproducente, e poi magari si perdono gli accessi ad agevolazioni importanti o ad appalti interessanti.

Lo stesso caso riguarda i sigg.ri Ferrucci e Gagliardi”.

“Avvocato, non mi dica che anche questi sono in maternità !”- sbotto’  il giudice. “Maternità no, ma paternità sì. Entrambi hanno avuto un figlio dalle rispettive compagne ed hanno richiesto di fruire del congedo di paternità per qualche giorno. Anche per essi scatta pertanto il divieto di licenziamento, sa il Decreto legislativo n. 105/2022 …”. “So tutto” – disse uno Sbadiglioni sempre più inquieto.

“E poi ci sono le signore Quagli e Fagiani che hanno appena annunciato di voler convolare felicemente a nozze, ed hanno effettuato le pubblicazioni in Municipio. Certo, è giugno e loro pensano di sposarsi una in ottobre, l’altra forse in novembre forse l’anno prossimo, ma come Lei ben sa, signor giudice, sussiste per le lavoratrici un divieto di licenziamento dal giorno delle pubblicazioni (NDR senza limite rispetto alla data del matrimonio) fino ad un anno dalla celebrazione del matrimonio”.

Qui peraltro l’Avvocato ometteva di considerare, cosa che il Gino aveva fatto presente nel ricorso, che il Gagliardi era un impenitente donnaiolo, che si diceva aver seminato figli un po’ in giro per il mondo, ma che vista la malparata aziendale (e considerando le minacce di azioni legali, e non solo, dei parenti dell’ultima ragazza inguaiata) aveva riscoperto un improvviso senso di paternità. E che le due signore nubende, già in età e senza figli, in realtà convivevano da parecchi anni coi rispettivi partner, ma che, consigliate maliziosamente da un sapiente consulente amico di una delle due, avevano messo in piedi l’escamotage del matrimonio per uscire dalla conta dei licenziabili (d’altronde, se Parigi val bene una messa anche un posto di lavoro val bene una cerimonia in Comune, peraltro oggigiorno facilmente revocabile se le cose poi non andassero bene). “E poi – proseguì il Gecosulvetro – c’è il caso Tomboloni. Sa, signor giudice, il Tomboloni è stato assunto pochi mesi fa a tempo determinato per 12 mesi (quando ancora non si sapeva della crisi improvvisa). E sono passati solo tre mesi. Come Lei ben sa, il lavoratore a tempo determinato puo’ essere licenziato solo per giusta causa (e qui siamo palesemente in un motivo oggettivo). Non solo, all’atto dell’assunzione il Tomboloni ha preteso non so quali e quante informazioni – anche in modo un po’ strumentale, mi lasci dire, è che su queste lettere non si sapeva più cosa scrivere – appellandosi al Decreto legislativo n. 104/22. Ne è nata una disputa risolta con una disposizione ed una sanzione emanate da un fin troppo zelante Ispettorato territoriale; Lei capisce bene che un licenziamento a questo punto, oltre che non consentito per quanto detto prima, potrebbe esser considerato palesemente ritorsivo.

E chi si arrischia oggi?”.

Il giudice annuì. E sospiro’ … “Ma rimangono ancora due prima del ricorrente”. “Quella degli ultimi due, che per privacy non abbiamo voluto menzionare in ricorso, è una storia un po’ particolare. Vede, signor giudice, qui… il tornio è stato galeotto. Riccardo e Roberto, dopo qualche anno di lavoro insieme, hanno scoperto … diciamo, una loro dimensione affettiva e sono convolati ad unione civile giusto poco prima del licenziamento del ricorrente. Lei converrà, signor giudice, che in questa situazione, la probabilità che in caso di licenziamento si appellino a principi di non discriminazione e, inoltre, di oggettivo riporto del caso al divieto di licenziamento in caso di matrimonio (già qualche sentenza ci ha provato) ha sconsigliato l’azienda di prenderli in considerazione. “Insomma – sbotto’ a questo punto, e infelicemente, l’avvocato-fu-abogado, che fino a quel momento era stato zitto – il mio cliente viene licenziato perché è l’unico caso normale in azienda! “Lei non si deve permettere – interruppe urlando lo Sbadiglioni, non si sa se per intima convinzione o perché le cose stavano andando troppo in là per i suoi gusti (e i suoi impegni) – di usare questa parola, con tutto il carico di giudizio implicito e di discriminazione che comporta. Chè qui stiamo parlando di diritti civili, non di bruscolini. E qualificare qualcuno in ragione di una sua presunta diversità è davvero meschino e riprovevole!” (il giudice, fino allora palesemente annoiato e distante, si era improvvisamente rianimato ed era diventato furibondo, quasi paonazzo…).

Fu lì che il Gino si alzo’.

“Chiedo la parola” – disse, e nessuno si sogno’ di negargliela. C’era in lui, e incuteva rispetto, un senso di dignità e rassegnazione, umile ma anche decisa al tempo stesso. Con il cappello fra le mani e l’espressione mansueta ma ferma, la giacca stropicciata, di evidente acquisto antico, diventata stretta e portata come chi non è uso indossarla, sembrava uscito da un mix di quadri famosi, un po’ “Il quarto stato” di Pellizza da Volpedo, un po’ “L’Angelus” di Millet. “Chiedo anzitutto scusa per l’espressione usata dal mio “avvocato”, che io non volevo nemmeno, ma questa è una cosa di cui poi parlero’ con mia moglie… È vero, concordo con Lei, signor Giudice. Non c’è nessuno anormale o normale, e anzi se davvero c’è qualcuno di anormale qua sono proprio io. Sposato da giovane con la donna che amavo ed amo ancora, abbiamo fatto tre figli e dal secondo in poi abbiamo deciso, fra mille sacrifici, che uno di noi avrebbe fatto il genitore a tempo pieno; la scelta è caduta su mia moglie perché nel frattempo aveva perso il lavoro e io credevo che il mio qui fosse sicuro. Ho seguito con attenzione il dibattimento di oggi e, come disse una volta Mourinho -sì, sono anche interista, forse è un’anomalia pure questa…- non sono un pirla. Ho visto come annuiva, signor giudice, alla dotta esposizione dell’altro avvocato e mi aspetto già il responso finale, che non attendere. Pero’ mi è apparsa chiaramente una cosa. Sa, è curioso, mi è tornata in mente una frase di un libro che lessi tanti anni fa. Al mondo non c’è nessuno di anormale, è vero, siamo tutti diversi ed unici, ognuno ha la sua storia e merita rispetto e considerazione; ma oggi ho capito che se tutti siamo, a nostro modo, normali, per una serie di cose che non so giudicare c’è qualcuno … più normale degli altri.

Vi ringrazio e vi saluto”.

E da in piedi com’era se ne ando’.

Nella stanza calo’ un silenzio surreale.

 

 

 

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Senza filtro – Legge o BRAINSTORMING?

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Anche se mi secca usare parole straniere, voi tutti sapete cos’è il brainstorrming: la tempesta cerebrale non è una malattia rara, anzi… altro non è che una riunione in cui si condividono a ruota libera idee, suggerimenti, proposte. La regola fondamentale del brainstorming è proprio l’assoluta libertà, direi quasi la licenza, di sparare (anche, eventualmente) stupidaggini; si buttano lì cose, anche le più assurde (apparentemente, poi a volte si scopre che non lo sono) e tutti assieme si cerca di dargli una dimensione, un volto, un costrutto. Proprio per questo, in partenza non si butta via nulla, non si trascura nessuna intuizione, eventualmente verranno via via scartate le ipotesi fuori pista, quelle che non reggono alle obiezioni, quelle che vengono superate da idee migliori. Infatti, poi alla fine si decide. Nessuno, di solito, si sente umiliato o sacrificato, tutti hanno concorso al bene anche con suggerimenti sbagliati, che per  hanno aiutato a correggere il tiro. In questa operazione, frequente in azienda, specie in quelle dove è più alta la necessità creativa, non c’è nulla di male. Ora – benchè penso ne converremo tutti al punto da far sembrare banale l’osservazione – fra l’operazione poc’anzi descritta e una legge dello Stato corre una forte differenza: quest’ultima è immediatamente precettiva ed indirizza l’agire delle persone nei campi di cui si occupa; per questo deve fornire certezza, equilibrio, sicurezze. Probabilmente nasce anch’essa da qualche brainstorming, ma poi si cristallizza in qualcosa di compiuto.

Certo, sappiamo bene che l’iter parlamentare di una legge o di un decreto riserva soprese. Qualche pentimento dell’ultima o penultima ora, qualche manina interessata, qualche azione di lobby, insomma talvolta a livello normativo quello che era partito come un abito da sera di Prada finisce per trasformarsi in un costume di Arlecchino. E di questo l’estensore della norma ha colpe relative.

Tuttavia da parecchio tempo assistiamo ad uno strano fenomeno: viene varata una norma, la gente comincia a leggerla, comincia ad annotarsi le cose che stridono, fa più volte la punta alla matita perché le cose che stridono sono parecchie; finite le annotazioni, i più esperti, oppure i pubblicisti (non sempre le cose coincidono) cominciano a scrivere e a commentare (sulle riviste, sui social, nei convegni); sui social lo fanno anche i professionisti qualunque, dove “qualunque” spesso non vuol dire che ne sanno di meno ma solo che non scrivono libri. Gli stili sono diversi, c’è chi si genuflette davanti alla norma o chi la critica acriticamente (di solito per questioni di parte, ormai i commenti sulla res publica sono a livello di bar sport nell’occasione di un derby calcistico), chi prende le distanze con moderazione e classe, chi usa il sarcasmo ed anche chi è palesemente imbufalito e non si fa una ragione del come possano scriversi certe cose.

In passato, anche recente, abbiamo assistito a diverse leggi marziane – e questa Rubrica ne ha dato conto, tanto da coniare il termine di “prestilegislatore” a significare l’improvvisazione fantastica (nel senso di vaneggiante e campata per aria) di regolazioni, a voler essere gentili, senza capo né coda.

Ma anche quando il legislatore sa di ci  che scrive, per qualche strano motivo pochi giorni dopo la pubblicazione di un Decreto legge cominciano a girare le voci più disparate, poi rilevatesi spesso vere, su possibili emendamenti (quasi avessero emanato non delle statuizioni compiute ma dei brogliacci “da brainstorming, appunto).

Sgombrato il campo da interventi  smaccatamente politici, sulle modifiche puramente tecniche (del tipo ma hai pensato a questo o a quello, perché hai scritto queste cose in questo modo, cosa vogliono dire, la norma è comprensibile o ambigua, l’applicazione pratica è semplice o mostruosa? E domande simili), su tutto ci  viene da chiedersi: ma non ci si poteva pensare prima?

E su tante cose che vengono modificate, è abbastanza evidente che la modifica è perché qualcosa è stato pensato un po’ …superficialmente.

E’ una questione di metodo.

Proviamo a trasporlo a livello imprenditoriale: pensate ad un’azienda che produce casseforti, dove un giorno il board si riunisce e poi il boss annuncia che verrà avviata la costruzione di … lampadari. E subito l’intelligente popolazione aziendale comincia a fare legittime domande: abbiamo il know-how sufficiente? Facciamo articoli semplici o di design? Gli agenti sono stati informati? Il magazzino dove lo facciamo? Abbiamo la capacità finanziaria per comprare i macchinari necessari? Il “break even” quando pensiamo di raggiungerlo? E così via … Se di fronte a tutte queste domande l’annunciatore annaspasse, cominciasse ad improvvisare, a rettificare, a cambiare strada… e ad un certo punto l’azienda decidesse di fare non più lampadari ma… carrozzine per bambini (sicuramente dal contenuto ben più prezioso delle casseforti e da cui escono sorrisi che illuminano ben più dei lampadari), che idea si farebbe la gente che lavora lì? Ora se penso al D.l. n. 48 – ma non in quanto tale, solo come ultimo arrivato e al quale sarebbe ingiusto buttare addosso le colpe di altre leggi che in qualche modo sta cercando di migliorare – la tentazione di pensare che poteva essere ideato subito meglio mi viene. Sgombro subito l’obiezione che mi è stata ricordata qualche tempo fa da un amico: il meglio è nemico del bene, se pensi che, in fondo, tutto pu  essere migliorabile e perfettibile, ti blocchi in attesa del meglio e non farai mai nulla (e quindi , nemmeno nulla di buono).

Sono assolutamente d’accordo, ma un minimo di senso critico va adoperato lo stesso. Anche perché oramai capita di non capire più nulla, chi parla dell’annunciato, chi parla del testo, chi parla del forse-emendamento, chi parla di quel che ha compreso, con tanta fatica e con una discreta crisi di rigetto; anche perché dietro c’è una nazione che non sa cosa fare, che soffre i tentennamenti, che deve scegliere oggi per oggi ma in assenza di certezze si affida al caso, al destino, alla provvidenza; welfare sì, no, forse; smart working prorogato per figli che oramai sono diventati genitori a loro volta, tempo determinato ma non troppo, per  ancora un po’ (sono tre etti e venti, lascio?); le imprese sono come gente che ha acquistato pinne e boccaglio e si trova sul Cervino, oppure pile  da alta montagna e poi viene mandata in vacanza a Taormina. In ogni caso, mi piacerebbe che in quanto al metodo, si affermassero alcuni principi:  evitare gli annunci (le anticipazioni, le slides, i comunicati stampa): una norma è tale quando viene pubblicata sulla Gazzetta (Ufficiale, non dello Sport), prima le ipotesi nemmeno dovrebbero circolare, oppure dovrebbero farlo in modo discreto e segreto, per quello che diremo dopo; tra l’altro si eviterebbero fiumi di articoli-ipotesi dei sempre-bene-informati (che su questa informazione trasversale spesso costruiscono parte della loro fortuna), ma soprattutto si eviterebbero richieste agli studi che cominciano con le frasi tipo: “ho sentito al telegiornale che …”, “ho letto delle slide secondo cui …”, all’azienda di mio cugino è arrivata una circolare che …” (circolare scritta dal professionista parente povero del sempre-bene-informato, per il quale l’importante è arrivare prima, non si sa bene a dire cosa, ma prima); – rinunciare ai sensazionalismi: una legge è buona se funziona e fa funzionare le cose, non se eccita gli animi (in un senso o nell’altro), ad esempio non c’è bisogno di un data precisa o di un evento di risonanza nazionale per la sua pubblicazione (anche perché, talvolta, il sensazionalismo è alla base della redazione della S norma, e così non si va troppo lontano);

  • evitare, quando possibile, di nominarla riferita all’estensore, o il presunto tale: Biagi fu ucciso (d’accordo, la legge prese il suo nome dopo, ma ancora oggi viene ricordato – a torto e con ignominia – da qualche sempliciotto disinformato come il padre del precariato), Fornero venne additata a lungo come l’affamatrice di generazioni di esodati, solo Renzi se la cava  ancora discretamente per via del bonus (ma su altro pagò  pegno anche lui);
  •  evitare, contemporaneamente, nomi ridicolmente altisonanti: il decreto trasparenza (tutto
    fuorchè trasparente), il non dignitoso decreto dignità, il decreto rinascita (meno male che non l’han chiamato decreto ricrescita, molte signore attempate si sarebbero allarmate) e via discorrendo;
    usare il benedetto principio di fallibilità: fare gli “avvocati del diavolo” sulla propria idea, praticamente guardare ad una norma, come si fa con una teoria, chiedendosi quali siano i lati deboli, i punti di caduta, anche pratici, quindi individuarli ed emendarli prima;  chiedersi anche come si muoverà la folta categoria degli escapologi (anche se ora usano un nome leggermente più professionale), quelli che fatta una legge trovato un inganno, anzi due o tre);
    perseguire la gratuità: non considerare chi ci guadagna e chi perde, ma a cosa serve, se è utile,
    se migliora le cose, se aiuta, se semplifica;
    perseguire la chiarezza: significa non aver bisogno, dopo, di inutili (e inefficaci) circolari interpretative, oppure dibattiti dottrinali e diatribe giurisprudenziali, per carpire un significato che se è scritto semplice rende superfluo il chiacchiericcio in più e ha una piana e certa applicazione, da subito (verrebbe da dire: non scrivere le leggi come si scrivono certi contratti collettivi);
    usare i saggi: professionisti, esperti, studiosi (magari dei team ad hoc) a cui sottoporre le leggi, prima, ho detto prima, assolutamente prima, disperatamente prima (e se sbagliano di brutto… cambiare saggi);
    difendere la norma dalle manine che la stravolgono: se ci si crede, se si ha una maggioranza forte e coesa, si può fare.
    E poi, essere disposti al miglioramento. E in questo vediamo ultimamente svilupparsi una certa sensibilità prima sconosciuta. Perché in passato, anche di fronte alle cose peggiori, ai decreti più astrusi, alle norme più invereconde, l’ostinazione di certi legislatori o di certi esecutivi (o la presunzione di aver fatto la cosa giusta solo perché acclamata a furor di popolo, che poi magari era soltanto una piccola schiera di simpatizzanti imbesuiti) ha portato a schiantarsi contro il muro senza nemmeno accorgersi, tanto poi certe persone cadono sempre in piedi.
    Noi che al miglioramento ci crediamo sempre e sempre scommetteremo su di esso, gli emendamenti (se intelligenti, che non è sempre detto) li salutiamo comunque con favore. Però
    pensarci prima è meglio ancora.

 

 

 

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Senza filtro – IL PRIMO MAGGIO: una festa o solo un’occasione di visibilità?

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

Puntuale è arrivato il Primo Maggio con il solito – lasciatemelo dire in tutta franchezza – stucchevole carico di polemiche.

Per carità, nulla di nuovo sotto il sole.

I motivi? Aveva cercato di spiegarceli, due anni or sono, l’amico e collega Andrea Asnaghi che così osservava: «la Festa in questione più che una festa del lavoro appare una festa dei lavoratori. Una festa di lotta, e pertanto in qualche modo divisiva, una rappresentazione di uomini “contro”. E quando si dice lavoratori si parla di quei lavoratori lì, e solo di quelli lì, degli operai, degli sfruttati, in ogni caso dei proletari. Una festa, scusate la parola forte, “comunista”. Prettamente e radicalmente comunista».1 Inevitabili pertanto, in questo clima, le tensioni tra i contrapposti schieramenti alla ricerca di una posizione politica di vantaggio sfruttando appunto la grande visibilità data dalla Festa del Primo Maggio.

Quest’anno però si è davvero esagerato.

Da un lato abbiamo assistito al consueto Concertone durante il quale sono saliti sul palco, ovviamente invitati, alcuni personaggi per trattare temi sociali ma con un taglio politicamente di sinistra. Qui il fuoco di fila della maggioranza di Governo è apparso finanche sopra le righe considerando il fatto che il Concerto del Primo Maggio è organizzato dai Sindacati, per l’esattezza la cosiddetta Triplice, e non certo dalla Presidenza della Repubblica. E in effetti il Concertone mica è la commemorazione ufficiale della Festa del Lavoro, o dei Lavoratori che dir si voglia.

È un evento che è sì un simbolo ma resta un evento organizzato da una certa parte “politica” che nel tempo se ne è appropriata e non intende certo rinunciare a questa esclusiva. Partendo da questo dato di fatto di sicuro non si poteva pretendere che si invitasse sul palco un sostenitore dei contratti a termine o dei voucher.

Non sono poi mancati gli strali delle opposizioni che hanno ritenuto propagandistica la scelta del Governo di convocare un tavolo di lavoro con i Sindacati proprio il giorno della Festa del Lavoro. Nei fatti un’accusa di sciacallaggio mediatico. Anche qui non si capisce la polemica. La Festa del lavoro è ad appannaggio esclusivo della “sinistra” che, in questo giorno, può solo lei manifestare o esternare dei pensieri sul tema? Certo che no.

Ma forse sta proprio qui la spiegazione: la paura che quella parte politica, che da questa festa ha sempre ricavato visibilità, la possa perdere a favore di altri.

Infine, è arrivato Landini. Anche lui approfittando legittimamente della visibilità della ricorrenza per rimarcare le proprie idee critiche contro l’operato dell’esecutivo, censurando in primis la scelta del Governo di convocare un tavolo di lavoro con i Sindacati proprio il giorno della Festa del Lavoro ritenendo «non troppo rispettoso decidere di fare un Consiglio dei ministri il Primo Maggio. Pensare al lavoro, ai  lavoratori, vuole dire mettere al centro il lavoro non un giorno all’anno, ma tutti i giorni.». A dire il vero non si capisce bene cosa volesse intendere il Segretario generale della CGIL. Sta forse dicendo che, poiché il Governo non si è mai occupato di lavoro durante l’anno (affermazione tutta da dimostrare: un progetto di legge non si fa in un giorno), non potrebbe farlo proprio il 1° Maggio? Ma poi, irrispettoso di chi e di che? Perché si chiede ai rappresentanti dei lavoratori di lavorare per i lavoratori? Oppure voleva soltanto dire che la Festa del lavoro, pardon la Festa dei Lavoratori, è una sorta di festa pagana durante la quale, sulla falsa riga di certe religioni, non si può andare a lavorare altrimenti si fa peccato? Secca la replica della Premier che, sfruttando l’ambiguità delle parole del Segretario, ha ribattuto sarcastica che «Se Landini pensa davvero che sia diseducativo lavorare il primo Maggio, allora il concerto la triplice dovrebbe organizzarlo in un altro giorno».

Questo, piaccia o no, il livello dialettico.

Certo, si tratta di polemiche, in linea con quello che è il mondo di oggi dove l’apparire conta più dell’essere.

Dove la risonanza mediatica dello slogan conta più della sostanza dell’operare. Dove per apparire diversi, per non confondersi con gli “altri”, è necessario dire sempre che «noi la pensiamo diversamente.».

Come si diceva, nulla di nuovo sotto il sole della politica italiana.

Sarebbe però ingiusto ridurre il confronto a puerile polemica populista. Se è vero che i toni polemici servono per la “pesca” di voti o di consenso, a monte c’è sempre uno scontro tecnico: la convinzione, per taluni, che un contratto a tempo indeterminato sia sempre meglio di uno a termine in un’ottica di stabilità del rapporto.

Che detta così pare pure condivisibile. Ma vista la cosa da un’angolazione diversa queste certezze vacillano. È incontestabile il fatto che, in linea teorica, un contratto a tempo indeterminato può essere sempre e comunque risolto, oltre che per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, anche per un motivo oggettivo. E questo in ossequio al principio di libera iniziativa economica stabilita dall’art. 41 della nostra Costituzione. Se pertanto una ditta vuole chiudere – e quante ne abbiamo viste ultimamente con i tanti lavoratori invitati ai vari talk politici – a cosa serve un contratto stabile? Se un imprenditore vuol convertire la produzione, automatizzando alcuni processi e ridurre il personale, o trasferirsi all’estero, a che serve un contratto a tempo indeterminato? Idem se si tratta di un lavoratore che ha rubato o più semplicemente è un fannullone.

La domanda che allora ci poniamo è perché un’impresa dovrebbe aver timore ad assumere a tempo indeterminato?

Ad esempio, se io fossi un imprenditore e vivessi in un paese pienamente garantista dell’art. 41 della Carta Costituzionale, preferirei assumere tutti a tempo indeterminato. La motivazione è semplice: una assunzione a termine di un anno garantisce di regola uno stipendio per dodici mesi mentre un contratto a tempo indeterminato potrebbe essere risolto per “riduzione di personale” il mese dopo con il rispetto del solo periodo di preavviso. Ove quindi incontrassi nei prossimi mesi delle difficoltà produttive gestirei un’eventuale riduzione di personale con più facilità.

Eppure questa mia scelta non è condivisa nel nostro sistema produttivo e un perché lo dobbiamo trovare.

La risposta sta nel fatto che oggi la disciplina sui licenziamenti, continuamente stravolta da interpretazioni giurisprudenziali – con il Jobs Act fatto a pezzi un po’ alla volta – è divenuta un vero e proprio deterrente anche per chi ha un valido motivo per un licenziamento disciplinare. Le certezze di aver operato correttamente son sempre meno. E ormai è diventato più facile divorziare dalla moglie che “separarsi” da un proprio dipendente.  E, di contro, perché i Sindacati spingono per limitare il ricorso a contratti precari, in primis i contratti a termine? Perché tutto questo astio nei confronti dei voucher?

La giustificazione che ho sentito dare è che i giovani, senza un contratto a tempo indeterminato, non hanno una tranquillità economica e quindi non possono accedere ad un mutuo, rinunciano a sposarsi e ad avere dei figli. Questo perché un contratto a tempo indeterminato è stabile.

Fosse così semplice basterebbe che lo Stato si facesse garante verso le banche per i lavoratori con contratto a termine.

Ma si è anche detto che il nuovo Decreto lavoro alimenta la precarietà a causa della rivisitata disciplina dei contratti a termine e le modifiche alla disciplina dei voucher. Per inciso, non ho sentito parlare in modo altrettanto critico della somministrazione a tempo determinato dove le proroghe possono essere il doppio rispetto ad un contratto a termine stipulato direttamente con l’azienda. Qui nessuna precarietà? La cosa che comunque desta le mie perplessità è sentire ancora oggi, ribadita anche da alcuni esponenti sindacali, l’idea che il lavoro stabile lo si ottiene abolendo i voucher o addirittura i contratti a termine. Niente di più ideologicamente sbagliato.

La precarietà si sconfigge non con leggi che precludono il ricorso a contratti precari, ma con norme che creano opportunità di occupazione e soprattutto un clima sereno, di certezza, per quegli imprenditori che, dopo un picco produttivo, decidano di ridurre il personale, anche quello a tempo indeterminato, o che vogliano eliminare le “mele marce” dalla loro azienda. Invece si continua a spingere i contratti stabili con una sorta di mazzetta di stato: «Se offri il posto fisso ad un mio amico disoccupato ti regalo qualche migliaio di euro».

Ma consideriamo soprattutto il fatto che una azienda che ha necessità di integrare saltuariamente o temporaneamente il proprio organico non è affatto detto che con una eventuale abolizione dei contratti precari si metterebbe ad assumere a tempo indeterminato. Sarebbe come dire che vietando i contratti a tempo parziale tutti assumerebbero a tempo pieno. Più facile che, vietandoli, questi rapporti finiscano, o tornino, nel lavoro nero. Del resto i contratti “precari” genuini rispondono a esigenze che non possono essere ignorate. Se vogliamo solo contratti a tempo indeterminato l’alternativa sarebbe fare come ha fatto la Spagna – in questa diatriba impropriamente citata dai critici del decreto come esempio da seguire – dove hanno sì limitato i contratti a termine ma allentato le conseguenze economiche per i licenziamenti illegittimi nei contratti a tempo indeterminato. Dove, tanto per intenderci, non esiste la reintegrazione nel posto di lavoro come prevista in Italia. Altro e diverso discorso è invece combattere severamente gli utilizzi impropri di questi strumenti, cosa che le vigenti regole mi pare cerchino di fare. Vogliamo migliorarle? Inasprirle? Ok, si discuta del come.

Ma evidentemente queste considerazioni non convincono i Sindacati che continuano a preferire i contratti a tempo indeterminato e anche qui un perché lo dobbiamo trovare. La verità è di fatto la stessa che abbiamo dato per giustificare la preferenza dei datori di lavoro verso i cosiddetti contratti precari. Oggi – complice una disciplina sui licenziamenti, continuamente stravolta da interpretazioni giurisprudenziali, divenuta un vero e proprio deterrente anche per chi avrebbe un motivo valido per un licenziamento disciplinare – si pensa che il contratto a tempo indeterminato sia un simil posto fisso del pubblico impiego tanto caro a Checco Zalone.

In pratica, una volta ottenuta la conferma in servizio nessuno ti licenzia più, la tua stabilità non te la toglie nessuno e se ci provasse ci pensa un giudice a trovare un motivo per dire che non si poteva fare. E questa cosa, ove fosse vera, non mi pare sia qualcosa che faccia bene all’economia.

Del resto lo vediamo bene come funziona la nostra Pubblica Amministrazione dove di fatto non esiste precarietà.

Ed allora vi invito ad una considerazione partendo dal fatto che il datore di lavoro pubblico non è come quello privato, un “cattivone” che licenzia uno bravo per sostituirlo con un incapace a basso costo.

Ora, se nel settore pubblico tutti i contratti fossero a termine e venissero rinnovati solo a coloro che lavorano bene, scommettiamo che le cose andrebbero meglio? Discorso populista? Forse, ma di certo non ho cominciato io per primo.

Non perdiamo però di vista che questa rubrica si intitola Senza Filtro e non sarebbe tale senza un pensiero irriverente.

E oggi le nostre punzecchiature le vogliamo rivolgere a Maurizio Landini, un capopopolo con il fare antipatico da maestrina. Quante volte lo abbiamo sentito urlare il suo, condivisibile, grido di battaglia contro il lavoro povero, quello sottopagato?

Deve essere sfuggita al Segretario generale della CGIL la recente Sentenza del Tribunale di Milano dello scorso 30 marzo che ha dichiarato irrispettoso del dettato costituzionale dell’art. 36 – quello che dispone che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa – un Ccnl che prevedeva una paga oraria effettiva di 3,96 all’ora, ben al di sotto della soglia di povertà stimata dall’Istat.

Sapete chi ha firmato questo vergognoso contratto? Ma che sorpresa: proprio la CGIL di Landini insieme alla CISL!

E che dire poi delle critiche al lavoro precario, quello dei contatti a termine e delle prestazioni occasionali a voucher.

Questi contratti vengono osteggiati in quanto bollati da una certa parte politica quale incentivo alla precarietà oltre che causa di sfruttamento dei lavoratori.

Ecco, a proposito di sfruttati e di sfruttatori mi piacerebbe che qualcuno mi togliesse una curiosità ovvero se la macchina organizzatrice ha utilizzato, per la kermesse del Primo Maggio, Concertone compreso, dei volontari. Già, i volontari, quelli che lavorano gratis quando qualche padre di famiglia si prenderebbe volentieri anche uno sporco voucher per dare da magiare ai propri bambini. Ecco, questo lo trovo poco “rispettoso”. Utilizzare, per la Festa dei LAVORATORI, un qualcuno che, non essendo in stato di bisogno, è disposto a lavorare benevolentiae vel affectionis causa, al posto di chi, un paio di centinaia di euro, farebbero davvero comodo.

Certo, li capiamo gli organizzatori: l’utilizzo di un volontario rende più semplice la gestione della prestazione. Volete mettere il dover appaltare il servizio o l’assumere direttamente un lavoratore con annessa lettera assunzione nel rispetto del Decreto Trasparenza, Centro impiego, COB, busta paga e Libro Unico, Uniemens, versamento con F24, stipula contratti a termine con l’obbligo della causale in caso di rinnovo, Certificazione Unica. Per non dire gli adempimenti in materia di sicurezza. Ma vorrei anche che mi si dicesse che non sono stati affidati appalti ad aziende che utilizzano, o hanno in precedenza utilizzato, prestazioni pagate con i voucher.

Vorrei che mi si dicesse che sono stati utilizzati – in modo diretto o indiretto – durante tutta la manifestazione solo lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato. Un po’ come capita per quelle imprese che si rifiutano di collaborare con aziende che ricorrono allo sfruttamento del lavoro infantile. Ecco, questo sarebbe un grande segnale di coerenza.

E perché non dal prossimo anno, urlandolo a gran voce dal palco del Concertone. Magari invitando il grande Umberto Tozzi a cantare: «Primo Maggio, su coraggio …».

 

1. Si veda A. Asnaghi, Il Primo Maggio: Festa dei lavoratori o del Lavoro? in questa Rivista, aprile 2020, pag. 4

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Senza filtro – A PROPOSITO DI adempimenti inutili e costosi…

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Ti capita a volte di imbatterti in norme la cui ragione sfugge, a meno che (il sospetto è legittimo) non vi sia qualcuno che attraverso di esse persegue interessi particolari. Ora permetterete l’argomento un po’ particolare e forse anche fuori tema rispetto a questa Rivista (ma in tema ci torneremo in un attimo) ma vorrei parlare degli adempimenti di “trasparenza e pubblicità” previsti dalla L. n. 124/2017, art. 1, commi 125-129 (come sostituito dall’art. 35 del D.l. n. 34/2019, ed eventuali modifiche ed integrazioni – che quelle non mancano mai). Tranquilli, non facciamo come il legislatore, che ti spara in faccia 27 riferimenti di legge e poi ti lascia lì come un pesce appena pescato a boccheggiare tramortito fra Gazzette Ufficiali e banche dati per capire cosa diavolo voglia dalle nostre povere vite.

Le norme in questione prevedono, in due parole, che – per “adempimenti di trasparenza e pubblicità” di cui sfugge a prima vista la ragione sostanziale – i soggetti che avessero ricevuto nel 2022 dalle Autorità Pubbliche dei contributi, delle sovvenzioni e/o dei vantaggi non aventi carattere generale, se non sono tenuti alla redazione della nota integrativa, sono obbligati entro il 30 giugno 2023 a segnalare la cosa nel proprio sito web. Se il sito web non ce l’avessero, la medesima segnalazione può essere fatta nel portale digitale “dell’associazione di categoria di appartenenza”. Pena una non risibile sanzione amministrativa. Ora, sono necessarie alcune annotazioni. La prima è che con un pensiero ingenuo un’anima semplice come quella che scrive sarebbe istintivamente portata a pensare che a tale proposito è stato istituito un “Registro nazionale degli aiuti di Stato” (www.rna.gov.it/RegistroNazionaleTrasparenza). Uno riceve uno o più aiuti – o come dice la norma “sovvenzioni, sussidi, contributi o aiuti, in denaro o in natura, non aventi carattere generale e privi di natura corrispettiva, retributiva o risarcitoria” – e la cosa viene annotata in quel posto apposito. Chiunque nel pubblico corrisponda una provvidenza del genere ad un soggetto, lo iscrive nel registro suddetto e il gioco (cioè la trasparenza) è fatto. Ma chissà, forse non è così e i fiumi, fiumicelli, rivoli e rigagnoli degli aiuti si dipanano come una foce a delta, e così, senza obbligo da parte di chi li corrisponde di segnarli nel registro, qualcosa si perde per strada. Ora i casi sono due: o chi eroga questi contributi è obbligato a segnarli nel registro (e se non lo fa è una mancanza dell’erogatore, e non del beneficiato) oppure questo obbligo per taluni enti non sussiste (e allora è una mancanza del legislatore). Anche perchè trasparenza vorrebbe che tutti questi aiuti fossero lì, belli in evidenza e consultabili da chiunque in un pubblico registro. Dopo di che, un’annotazione nella nota integrativa – se un soggetto è tenuto a redigerla – sembra un fatto normale, quasi scontato: nel rendere conto delle particolarità di gestione sicuramente avere ricevuto contributi del genere è una cosa che sembra opportuno evidenziare. Ma il resto?

Per quale motivo si deve inserire questa informazione (sia pure se i contributi superano i 10.000 euro nell’anno) in un portale web aziendale? A chi giova questa informazione e come e quanto è reperibile e consultabile in tal modo? Ora a pensar male si farà anche peccato, ma visto che molte aziende, soprattutto quelle di piccole dimensioni, la nota integrativa non sono tenute a farla e del sito web non sono provviste, ecco che arriva il salvataggio: pubblica il dato (inutile) sul portale web della tua categoria. La tua associazione ti salva, ti protegge, pensa a te (sembra la pubblicità della Coop): te lo dicono le norme. Che ogni tre per due sulle associazioni di categoria spingono, attraverso di esse ti è suggerito di fare molte cose, dalle richieste di cassa integrazione alla rappresentanza in questo o quel consesso o alla presentazione di una domanda (guarda un po’) per l’ottenimento di contributi (magari anche con un qualche canale privilegiato). Assòciati, ti dice la legislativa manina amica (delle associazioni), è più utile e conveniente. Qui si possono offrire molte riflessioni. La prima è che la libertà di associazione è anche, costituzionalmente, una libertà negativa. Ma oggi sempre di più si spingono le aziende ad associarsi. Che sia un bene o un male non so dire, che sia quasi un obbligo mi pare una cosa un po’ poco democratica. Un non associato deve godere degli stessi diritti e delle medesime facilitazioni di un associato, se no è discriminazione (oggi va di moda dire così, ormai la discriminazione da questione seria è diventato il “prezzemolo giuridico”) . La seconda è una mera curiosità: con quale criterio si indica la possibilità di indicarle sul sito dell’associazione di categoria? Cos’ha in più un sito di un’associazione rispetto ad un altro sito? Mettiamo che una società si occupi di agevolazioni, non potrebbe essere ugualmente efficace pubblicarle sul sito di quella società? O perché non sul sito del proprio commercialista o consulente del lavoro? Perché non sul sito della propria squadra del cuore (è più facile che cambi l’associazione rispetto a quella)? Si noti che è un’annotazione sostanzialmente poco utile (così com’è costruita), un intralcio, un orpello normativo. Però porta acqua a qualcuno che magari porta acqua di ritorno a chi ha previsto questa cosa (qualcuno lo chiama lobbismo, che non è vietato ma che non deve costringere a cose inutili/dannose). Insomma, sarà anche un momento di siccità ma quest’acqua appare un po’ sporca, non tanto buona da bere. La terza annotazione si collega alla seconda ed è che le associazioni di categoria sono primariamente un luogo di rappresentanza. Quindi chi si associa conferisce loro un mandato (e non è cosa indifferente perché poi è sostanzialmente obbligato a rispettare ciò che la sua associazione sottoscrive – un caso eclatante è la parte c.d. obbligatoria dei contratti collettivi), tuttavia le associazioni stanno sempre più diventando dei centri di affari economici, portatori di interessi privatistici – ad esempio mostruosi erogatori di servizi – e che entrano in competizione sul mercato beneficiando di spintarelle come quella di cui stiamo parlando (non è qualcosa di palese, sembra più un “effetto Nudge”, è un meccanismo subliminale di indirizzo). Il tutto nel sonno più totale dell’autorità garante, per cui “il” problema paiono essere più spesso i professionisti, specie se ordinistici.

Prendete le ricchissime casse edili (si dice al plurale, perché sono tante quanto, più o meno, le province, ed ognuna ha regole di funzionamento diverse, una vera meraviglia gestionale): sono gestite da associazioni di categoria privatissime ma stanno diventando sostanzialmente obbligatorie, pena grossi disagi e penalizzazioni per le aziende. Qualcuno si è mai preoccupato di esaminarne e regolarne il funzionamento e la gestione? Ma è un tema che riguarderebbe pure gli altri Enti bilaterali (anch’essi spinti tantissimo), e ne riparleremo un’altra volta.

La quarta ed ultima riflessione è anch’essa strettamente collegata alla terza ed è che usciti dal mondo del corporativismo (che in alcuni settori, neanche tanto mascherato, sussiste ancora) se un’associazione è fonte di lucro perché non far nascere associazioni come funghi? Ci sono tanti vantaggi, dal dumping contrattuale alla gestione di enti bilaterali farlocchi o di enti formativi altrettanto pretestuosi, ma in grado di convogliare interessantissimi fiumi di denaro. Nuove associazioni, che vanno ad  erodere un pezzettino di torta ad associazioni di categoria più tradizionali (ma sempre tutti con le mani nella torta stanno). Ma stiamo forse dicendo che le associazioni di categoria sono “il male”? No, nessun manicheismo e massimo rispetto dei ruoli. È che le associazioni di categoria (e lo stesso potremmo dire per le associazioni del lavoratori) a dispetto di tanto parlare sulla libertà sindacale, sulla responsabilità sociale, sulla rappresentanza etc. possono sostanzialmente fare ciò che vogliono (e lo fanno…), ricevono considerevoli spinte (come nel caso che ha dato il pretesto per queste righe, ma che è solo un piccolissimo esempio) spesso anche sotterranee, non particolarmente visibili, insomma non sempre brillano per specchiata gestione e trasparenza (anche quando della trasparenza  si cerca di farle, posticciamente, garanti). Tutto qui. Una qualche riflessione la meriterà prima o poi tutto questo, no?

 

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Senza filtro – IN PIEDI, entra la Corte

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

La locandina era posizionata su un cavalletto in legno sistemato all’ingresso della grande sala del Palazzo della Giustizia. Una semplice ma elegante scritta nera su sfondo bianco avorio recitava
1° Simposio Mondiale dei Sistemi Giuridici e Giudiziari
6 gennaio – 26 gennaio 2048 Sala congressi
Un incontro importantissimo, previsto ai massimi livelli, dove i più grandi esperti del settore si sarebbero confrontati sulle esperienze giuridiche dei rispettivi paesi discutendo dei vari Ordinamenti Giuridici, ossia l’insieme delle norme vigenti in uno Stato che regolano la vita di una comunità, l’organizzazione interna dello Stato e tutto ciò che riguarda i rapporti giuridici tra organi dello Stato e membri della collettività, ma anche dei diversi Ordinamenti Giudiziari, ovvero l’insieme delle norme volte a disciplinare le funzioni e i ruoli dei soggetti preposti a curare l’amministrazione della giustizia.
La scelta della sede congressuale era caduta sul Bwandwa, una piccola nazione del centro Africa nata giusto vent’anni prima, il 26 gennaio 2028, dalla inevitabile frantumazione di uno dei tanti stati i cui confini erano stati tracciati con il righello tra il 1880 e l’inizio della prima guerra mondiale, senza tenere conto delle etnie che in quei territori vi vivevano. Una scelta, la sede del convegno, operata soprattutto per l’altissima qualità del sistema giuridico di questo paese dove tutto pareva funzionare a meraviglia: le leggi, l’amministrazione pubblica, la giustizia.
In verità nessuno sapeva bene il perché di tale eccellenza e questo aumentava l’interesse per la relazione dell’esperto bwandwano che avrebbe concluso la kermesse.
Gli interventi dei relatori si erano susseguiti rapidamente nel fitto calendario di tre settimane e i lavori erano ormai prossimi alla conclusione. Avevano parlato quasi tutti i rappresentanti delle culture giuridiche più antiche di mezza Europa. Nella mattinata conclusiva era stato calendarizzato l’intervento del relatore italiano, il sottosegretario al Ministero della Giustizia. L’anziano politico sistemò per bene sul leggio una decina di fogli, alzò lo sguardo verso la platea e inforcò un paio di occhiali neri dalle spesse lenti. La voce uscì affabile ma al contempo forte e decisa.
Questa la sintesi dell’intervento come fu riassunta da un quotidiano italiano. Carissimi colleghi, il sistema italiano, e su questo non nutro alcun dubbio, deve considerarsi il migliore al mondo. Partiamo dall’iniziativa legislativa che la nostra Costituzione prevede spetti a più soggetti: Governo, Parlamentari, Corpo elettorale, Cnel e Consigli regionali. Tale varietà di attori consente di dare voce alle diverse sensibilità presenti nella nostra comunità. Al contempo impedisce che un solo organo possa legiferare e farsi quindi portavoce esclusivamente di ciò che più gli interessa o, peggio ancora, più gli conviene. Relativamente alla approvazione delle leggi, oltre alla discussione nelle varie commissioni parlamentare, è previsto un doppio passaggio, Camera e Senato, grazie al quale, a mezzo emendamenti, è possibile dare voce ai dissidenti e operare eventuali correttivi. Sulle leggi vi è poi il controllo del Capo dello Stato, che ne è l’assoluto garante. Anche la gestione nell’applicazione delle norme offre varie garanzie, in quanto i vari organi della Pubblica amministrazione, chiamati ad applicarle, possono emanare direttive, circolari e rispondere alle richieste di chiarimenti tramite lo strumento dell’interpello. Contro le loro decisioni definitive è possibile presentare ricorso ad un apposito Tribunale Amministrativo e in secondo grado al Consiglio di Stato quale giudice dell’appello. Eventuali prevaricazioni della legge sono infine gestite da un sistema giuridico molto articolato. Sono previsti due gradi di giudizio nel merito della questione: processo di primo grado e processo di appello, detto anche di secondo grado. Queste decisioni possono sempre essere impugnate per ragioni di legittimità avanti la Corte di Cassazione che può riformare la sentenza o rinviarla a diverso giudice. Altro particolare rilevante è che tutte le norme sono soggette al giudizio di conformità alla nostra Costituzione che spetta alla Corte Costituzionale i cui eletti sono tra i massimi luminari del diritto.
Seguì un vivace e piccato dibattito, soprattutto con alcuni esponenti della cosiddetta common law, durante il quale il relatore ribadì con forza la convinzione che il sistema italico restasse comunque il migliore. Dopo un break, dove fu offerto un rapido rinfresco a buffet a base di piatti locali, i lavori ripresero con l’intervento conclusivo del relatore di casa, il Presidente del Consiglio Supremo dei Giudici presso il Tribunale di Bwandtown, la capitale della Repubblica democratica del Bwandwa.
Il dottor Robert Zindwan si alzò da una delle poltrone della prima fila e salì con passo agile la scala che lo portò rapidamente al centro del palcoscenico.
Era un signore prossimo alla cinquantina, di bell’aspetto, capelli corti e ricci. Una evidente brizzolatura alle tempie dava risalto a due occhi grigi su cui trionfavano delle scure sopracciglia ad evidenziarne lo sguardo penetrante e magnetico. Elegante nel portamento e curato nel vestire senza però quell’ossessiva ricercatezza tipica di chi crede più nell’apparire che nell’essere. Un tipo assolutamente carismatico. Sistemò il microfono del leggio, alzandolo di un buon venti centimetri visto che tra lui e il relatore che l’aveva preceduto c’era una evidente differenza di altezza. Ruotò lo sguardo da sinistra a destra ad accertasi di avere l’interesse di tutti. Con un colpo di tosse richiamò l’attenzione di alcuni che ancora confabulavano tra loro. Abbozzò un mezzo sorriso fingendo di scusarsi per non essersi allontanato per tempo dal microfono. In platea in molti notarono che con sé non aveva alcun appunto. Chiaro che non avrebbe letto un testo preparato a tavolino. Un fatto assolutamente inusuale in incontri di questo livello ma proprio il parlare a braccio avrebbe dovuto far intuire lo spessore di quell’uomo. Si schiarì la voce e con un tono cordiale in un inglese fluido, senza alcuna riconoscibile inflessione regionale, cominciò. «Benvenuti cari amici, devo dire con grande sincerità che ho molto apprezzato i vostri interventi. La vostra storia, la storia dei vostri ordinamenti giuridici è secolare. A tutti i vostri sistemi riconosco la volontà, l’assoluta buona fede nella ricerca e il perseguimento della assoluta equità e della massima giustizia possibile. E peraltro è proprio dai vostri studiosi e dalle vostre esperienze che abbiamo attinto a piene mani per pensare ex novo il nostro sistema giuridico, amministrativo e giudiziario.»
Una breve pausa per risistemare il microfono. Non che fosse necessario ma serviva alla prima delle pause del suo intervento che aveva previsto nella sua mente.
«Quando la nostra nazione ha conquistato la propria autonomia ci siamo posti una serie di domande e, in primis, quale fosse la miglior forma di governo per i cittadini. La prima opzione che valutammo fu la democrazia. Un sistema che però mostrava chiari limiti, bene evidenziati, più di due millenni fa, da Platone secondo cui governare è un’arte, proprio come lo è la medicina: così come il malato non può che farsi assistere da una persona professionalmente adatta e dalle conoscenze assodate, lo stesso vale per l’arte del governare per la quale pochi hanno la giusta attitudine per gestire la “cosa pubblica”. Un rischio quindi affidare il governo dello Stato alle masse, visto che si andrebbe ad attribuire un potere immenso a chi non ha le capacità per gestirlo. Gioco forza quindi, secondo il filosofo greco, rinunciare alla democrazia per optare, se non proprio per una oligarchia, per l’altra forma di governo, l’aristocrazia, intesa come una forma di gestione dello Stato affidata agli “àristoi”, i migliori.»
Un sorso d’acqua per una seconda pausa che doveva servire a consolidare nella mente dei presenti questo primo messaggio ovvero far credere che quello sarebbe stato a suo tempo il sistema prescelto.
Sistema ovviamente fallace in quanto a rischio di democrazia.
«Ma a noi non piaceva l’idea di una aristocrazia al comando, il potere messo nelle mani di presunti migliori, che potrebbero peraltro non rivelarsi tali. E che questo avvenga molto spesso ce lo insegna la storia, anche quella più recente.
E infatti il problema è: chi li sceglie i migliori? Altri migliori? E questi “altri” scelti da chi? E poi cosa potrebbe impedire ai migliori di scegliere se stessi in quanto migliori di altri? La cosa evidentemente era troppo pericolosa.» Si accarezzò il mento. Un altro arresto per lasciare il tempo che tutti rispondessero alla domanda e concludessero che si fosse davanti ad un vicolo cieco.
«Quale soluzione quindi? Per trovarla ci siamo domandati che cosa impedisca alle masse di essere loro stesse parte dei migliori. Come avere una democrazia dove vi sia un popolo di migliori che possa eleggere i migliori? La risposta fu semplice: eliminare l’ignoranza.» Notò sui visi dei presenti serpeggiare una certa perplessità. Tutto come previsto. «Ci siamo anche posti delle domande su un concetto che è alla base di ogni democrazia:
“La legge è uguale per tutti”. Ma come attuare veramente questa che appare come una folle utopia? Cosa fa sì che una legge, una amministrazione, un sistema giudiziario, non creino disparità nell’applicazione dei diritti, che non neghino ad alcuni diritti che, ad altri nella medesima situazione, sono riconosciuti?
Quale soluzione perché una legge non venga scritta male ed applicata peggio? Anche in questo caso la risposta che ci siamo dati fu la stessa: eliminare l’ignoranza.» Altra provocazione e brusio in aumento. «Ma ci è venuta alla mente anche un’altra massima che sento citare spesso, credo in Italia.
“La legge non ammette ignoranza”.
Un precetto che dovrebbe rivolgersi non solo ai cittadini ma anche a chi li governa. Devi conoscere per scrivere una legge; devi conoscere per applicarla; devi conoscere per giudicare correttamente.
Ma soprattutto devi anche fare in modo che il cittadino sia messo in condizione di comprendere le leggi che scrivi. E come arrivare a questo? La risposta non cambia: eliminare l’ignoranza.»
Un signore in prima fila rivolgendosi al collega seduto a fianco lo definì un illuso sognatore. Esattamente ciò che il dottor Zindwan aveva immaginato.
«Per questo abbiamo puntato tutto sulla istruzione, di uomini e donne, vecchi e bambini. L’istruzione finalizzata innanzitutto ad una proprietà di linguaggio nell’espressione, sia di pensieri che di concetti, totalmente scevra della possibilità di fraintendimenti e al contempo correlata ad una capacità assoluta di comprensione dei messaggi. L’istruzione finalizzata alla cultura giuridica. Il tutto con grandissimi benefici sia nei rapporti umani ma soprattutto per il sistema legislativo, amministrativo e giudiziario e, di conseguenza, per il benessere di tutti i nostri concittadini.»
Si concesse una pausa fingendo di aver bisogno di allentare il nodo della cravatta. «Questo nostro approccio comporta dei benefici in primis nei rapporti Stato-cittadino. Dalla chiarezza delle norme consegue infatti che ognuno sa esattamente cosa può fare e cosa non può fare. Ha piena contezza di quali sono i suoi diritti e i suoi doveri, nei confronti degli altri e della comunità in generale. Sa bene quali sarebbero le inevitabili conseguenze di una eventuale violazione delle regole che ci siamo dati. E questa consapevolezza del cittadino rappresenta al contempo un vantaggio e un beneficio per lo Stato in termini di sicurezza e legalità. Vi ricordate cosa scriveva Cesare Beccaria in un fulminante paragrafo del suo Dei delitti e delle pene dal titolo “Certezza ed infallibilità delle pene”? Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più terribile ma unito alla speranza della impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre più gli animi umani. Sintetizzando possiamo dire che quando la macchina della giustizia funziona a dovere ciò porta inevitabilmente ad una diminuzione dei reati.»
Bevve un altro sorso mentre si gustava le reazioni dei presenti.
«Sia chiaro, questo processo non è stato né semplice né veloce. C’è voluto tanto impegno. Ovviamente, inizialmente, siamo dovuti scendere a dei compromessi con quella che era la nostra idea finale di ordinamento giuridico. Per qualche tempo abbiamo avuto un sistema ibrido, in parte molto simile a quello che voi ancora oggi adottate. Un regime transitorio che però, ve lo confesso, è durato molto meno del previsto.
Oggi, grazie all’impegno di tutti, abbiamo un legislatore in grado di emanare norme chiare, esattamente corrispondenti alle idee ispiratrici, compresa l’aderenza ai principi costituzionali contenuti in una Carta costituzionale formata da pochi articoli ma di una chiarezza assoluta, non diversamente interpretabili.» Ancora pausa. Lasciò che la curiosità prendesse il sopravvento sulle perplessità prima emerse. Ed assestò un nuovo colpo.
«Vi sorprenderà ma noi non abbiamo previsto una Corte costituzionale, perché la Costituzione propone principi limpidissimi e le norme vi si adeguano perché il nostro legislatore non se ne può discostare. Le questioni di legittimità costituzionale, ove ve ne fossero, vengono affrontate e risolte dallo stesso giudice di prima cura.»
Ormai aveva in pugno l’attenzione di tutti. «Allo stesso modo la pubblica amministrazione sa esattamente come applicare le norme. Non c’è bisogno di circolari esplicative, ma solo quelle, indispensabili, di tipo tecnico-applicative. Non ci sono specifici tribunali amministrativi a cui appellarsi perché i provvedimenti sono sempre aderenti alla legge, ciò grazie al fatto che le norme sono scritte in modo chiaro e puntuale. Da noi i provvedimenti della pubblica amministrazione sono sempre conformi alla legge.»
Appoggiò le lunghe dita sul bordo del leggio, quasi ad accarezzarlo. Tutto era apparecchiato per il colpo di grazia.
«E pure il potere giudiziario gode di questi benefici e quindi appare molto snello. I tribunali sono tutti monocratici, non è previsto alcun grado d’appello. Tutte le sentenze sono conformi alle precedenti, non vi è possibilità di discostarsi, semplicemente perché tutte aderiscono perfettamente ai principi giuridici generali.
E tanto meno esiste una Corte di Cassazione, e ancor meno delle Sezioni Unite, perché le sentenze sono tutte conformi alle norme, sia nel merito che nella loro legittimità.» Questa notizia, questa precisazione, investì i presenti come uno tsunami.
«Intuisco la vostra preoccupazione che in un sistema come il nostro il cittadino sia alla completa mercé di un giudice. Questo accade perché tutti voi siete convinti che solo un doppio o un triplo grado di giudizio possa tutelare un imputato o un richiedente giustizia.
Ciò è vero solo in parte.
Proviamo infatti a ragionare insieme. I gradi di giudizio successivi al primo sono fatti per correggere eventuali errori commessi in primo grado. L’appello nel merito dovrebbe essere una eccezione, non la regola. Anche una verifica sulla legittimità della sentenza dovrebbe essere un fatto raro, rarissimo. Ditemi ora, quante delle vostre cause si fermano al primo grado di giudizio? Quante vanno in appello? Quante arrivano addirittura in Cassazione? Quante volte le Sezioni Unite della Cassazione hanno dovuto ricomporre il contrasto sulla soluzione di una questione giuridica decisa in modo opposto dalle singole sezioni semplici?
Ricordate cosa ho appena detto: se qualcuno si rivolge ad un nuovo e diverso tribunale è perché crede – o così dovrebbe essere – di aver subito un torto e spera in un giudice, per così dire, più attento.
Ma è proprio nel momento in cui il giudice dell’appello ribalta una sentenza di primo grado che si palesa la fallacità di un tale sistema. Se con due sentenze, prima si dà ragione ad una parte e poi gli si dà torto, significa che uno dei due giudici ha sbagliato ad applicare la norma alla fattispecie. E questo o perché la norma è scritta in modo equivoco, prestandosi quindi a opposte letture – e la cosa è di una gravità assoluta – oppure uno dei due giudici l’ha interpretata male o secondo il proprio sentire o volere. In questo caso il problema è ancora più serio perché parliamo di una palese incapacità a svolgere il proprio lavoro. E vi pongo la questione in termini ancor più brutali: affidereste mai la vostra richiesta di giustizia ad un giudice che ha appena sbagliato in toto una precedente decisione?» L’affermazione era di una forza assoluta. Si stavano mettendo in discussione principi consolidati da secoli. E di ciò il dottor Zindwan era perfettamente consapevole.
«Mi spiego meglio. Se tutti i giudici avessero l’identica preparazione nel comprendere e nell’applicare una norma – dando come ovvio presupposto che questa sia stata scritta in modo ortodosso – il giudice dell’appello emetterebbe la medesima sentenza di condanna o di assoluzione.
Se così fosse, nessuna parte avrebbe più interesse a presentare appello nel merito o un ricorso sulla legittimità sapendo che la sentenza di primo grado verrebbe confermata. E ciò porterebbe, quale processo naturale, alla inutilità e alla dismissione dei Tribunali dell’appello.» Il ragionamento non faceva una piega. Qualcuno in sala pregustava una obiezione, un “però” che fu subito spazzato via. «Ovviamente non siamo degli sprovveduti e abbiamo considerato la, pur remota, possibilità che un giudice possa sbagliare a decidere. In questo caso è ammessa la segnalazione ad un Collegio del Riesame, composto da 3 saggi che riesaminerà la decisione e, se riterrà che il giudice ha sbagliato, avvierà un procedimento disciplinare al termine del quale, ove venisse accertata la negligenza, rimuoverà il giudice dalle sue funzioni.» Nascose un sorriso di autocompiacimento bevendo un altro sorso d’acqua. «So bene a cosa state pensando. E se il Collegio del Riesame sbagliasse a sua volta? In questo caso il giudice rimosso dalle proprie funzioni potrà presentare un ricorso al Consiglio Supremo dei Giudici, composto questo da 7 saggi, che nel caso accertasse l’illegittimità del provvedimento di rimozione procederà a reintegrare il giudice e a rimuovere dalle funzioni tutti i Giudici del Riesame, sostituendoli a loro volta. Permettetemi ora un poco di leggerezza ed una battuta: è la paura di perdere il lavoro il miglior deterrente a lavorare al meglio. Un regola che, peraltro, dovrebbe valere per tutte le professioni e in tutti i rapporti lavorativi.» L’intervento era prossimo a concludersi. Mancava il colpo finale. E lo assestò.
«E sapete quante decisioni sbagliate di giudici monocratici abbiamo avuto negli ultimi 3 anni? Zero. Lo ribadisco, zero.»
Un rappresentante di uno stato asiatico si alzò in piedi e abbozzò un applauso. Lo scroscio che ne seguì fu impressionante. Forse non furono esattamente i 92 minuti di applausi riservati al ragionier Fantozzi di lontana memoria per la battuta sul film la Corazzata Potëmkin ma di certo qualcosa che ci assomigliava parecchio.
Il giudice Zindwan fu l’ultimo ad abbandonare l’aula Congressi.
Guardò le pareti in legno scuro abbellite da splendidi intarsi in stile etnico di artisti locali e adornate da quadri ad olio raffiguranti tutti i centosettanta padri fondatori. Si fermò su quella di un uomo dagli occhi neri e profondi, lo sguardo magnetico.
La targhetta apposta sotto il quadro citava Ahmad Zindwan – 1960 / 2047.
Eh sì. Se ne era andato da pochi mesi. Guardò il padre e sottovoce sussurrò: “Abbiamo fatto un gran bel lavoro, che dici?” Il sorriso con cui era stato immortalato il genitore gli parve un cenno di assenso. Percorse il corridoio che divideva le due lunghe file di sedie fino a pochi istanti prima occupate dai congressisti. Arrivò alla porta, ne afferrò la grande maniglia in ottone e la tirò un poco a sé. Il suo sguardo si rivolse per un’ultima volta verso il palco. Ben visibile sulla parete centrale di quello che una volta era il Tribunale Supremo compariva ancora in bella vista quella scritta che riassumeva tutta la filosofia di quello splendido, grande paese africano. Era un aforisma di un italiano, apparso giusto 25 anni prima, a marzo 2023, sulla rubrica Senza Filtro della rivista online Sintesi dei Consulenti del lavoro di Milano.
Suo padre l’aveva letto durante un viaggio di piacere nel capoluogo lombardo e ne era rimasto affascinato.
Ne rilesse il testo e sorrise compiaciuto.
“OGNI CITTADINO HA DIRITTO
AD ESSERE GIUDICATO PER CIÒ CHE LA NORMA DISPONE E NON PER
COME UN GIUDICE LA INTERPRETA”.

 

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Senza filtro – LE MICROIMPRESE, I LAVORATORI OCCASIONALI E LA SICUREZZA: che pasticcio Bridget Jones!

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

“Tutti quanti voglion fare il jazz…” cantavano gli adorabili micetti de “Gli Aristogatti”. Parasfrasando, oggi tutti vogliono parlare di sicurezza. Intendiamoci, la sicurezza sul lavoro è un argomento talmente serio che sembra perfino pleonastico ribadirne l’importanza. E che se ne parli è un bene, così come capita spesso anche in questa Rivista ad opera di memorabili autori. Il campanello d’allarme scatta quando parlare di sicurezza diventa cool, quasi fosse un passaggio obbligato di qualsiasi manovra o riflessione (insieme ai giovani, alle donne, alla parità di genere, alla conciliazione vita lavoro e a temi simili, che meriterebbero, per dirla con il jingle pubblicitario in voga un tempo, “fatti, non parole”). Ancor peggio quando la sicurezza viene presa a scusa per inserire qua e là norme che magari con la sicurezza c’entrano poco.

Né vale l’obiezione che, in fondo, tutto c’entra con la sicurezza, che come concetto non sarebbe nemmeno tanto lontano dal vero, peccato però che in questo modo, a ben pensarci, quella che poi si svilisce è proprio la sicurezza vera, reale, concreta e la giustizia, che è figlia dell’equità e della ragionevolezza. Così discettano di sicurezza quelli per cui la sicurezza è stata spesso tragica merce di scambio contrattuale, quelli che dalla sicurezza si sono tenuti ben lontani perché “sono sempre questioni complicate”, ovviamente ne trattano i talebani della sicurezza (che non sanno che il radicalismo ottuso di qualunque genere è il peggior nemico del credo che si vuole difendere) e anche coloro che nella sicurezza vedono un ulteriore spunto per appioppare sanzioni e collezionare relativi punteggi-efficenza. Insomma, come è detto l’argomento è cool ma talmente cool che non si capisce perché, numeri alla mano, alla fine sono sempre troppi quelli che ce lo rimettono (il cool ).

L’occasione per riaffrontare il tema – perdonateci se sarà in chiave un po’ complessa e sfaccettata – è data dalla nota n. 162 del 24 gennaio 2023 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in tema di art. 14 del D.lgs. n. 81/2008. Com’è noto l’art. 14 è quello che prevede il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale in accertamento della carenza delle condizioni di sicurezza e comunque qualora sia riscontrata una certa percentuale di lavoratori in nero. Tale articolo 14 è stato a lungo rimaneggiato, quasi a voler far apparire (ogni volta) tutta la serietà e la determinazione del legislatore di turno a reprimere il datore che non garantisce ai lavoratori condizioni sicure. Repressione che ci sta tutta, diciamolo, ma con il giudizio e la misura che sono opportuni in ogni dove (anche se il giudizio e la misura sono argomenti silenziosi, non fanno immagine, non suscitano sensazione).

La nota Inl n. 162/2023 è, diciamolo subito, assolutamente ineccepibile e contiene un principio indiscutibile che valorizzeremo più avanti: indipendentemente dalla percentuale di lavoratori trovati in nero e dalle esclusioni del caso (che poi analizzeremo), se sussistono “gravi violazioni di natura prevenzionistica” (“ivi comprese la mancanza del DVR e della nomina del RSPP”) la sospensione dell’attività va sempre adottata. Quindi anche in caso di microimprese con un  solo lavoratore, senza altri dipendenti, in assenza delle condizioni di sicurezza, si applica la sospensione.

A questo punto però, a rischio di esser pedanti, è opportuno un po’ di cronostoria (tranquilli, recente).

Cominciamo con la versione originale dell’art. 14 in questione (la norma è dell’aprile 2008, siamo nel TUSL, Testo Unico Sicurezza sul Lavoro, meglio noto come 81/2008) che prevede la sospensione dell’attività di impresa in due casi:

  • l’impiego di personale in nero in misura pari o superiore al 20% del personale presente sul luogo di lavoro;
  • reiterate violazioni in materia di sicurezza da parte del datore di lavoro.

Soffermiamoci un attimo sulla percentuale: la norma introduce una presunzione assoluta di pericolo laddove in un posto di lavoro siano presente almeno 1/5 di lavoratori senza arte nè parte (cioè non denunciati – e quindi si suppone anche privi di formazione, DPI etc.), senza contare che per una profonda connessione fra sicurezza sul lavoro e sicurezza sociale (anche questo è un tema che riprenderemo) non è che si respiri un così grande benessere in un’azienda con una parte del personale impiegato in modo pressappochistico (per usare un eufemismo). Pochi mesi più tardi (siamo nel settembre 2008) la Direttiva Sacconi in materia di ispezioni1 (priva di applicazioni normative immediate, ma importante ed illuminata norma di indirizzo) riporta in materia quanto segue (l’evidenziazione in grassetto è a nostra cura).

“Quanto alla sospensione della attività d’impresa, peraltro, sembra opportuno un richiamo sulla opportunità di adottare tale grave provvedimento, penalmente sanzionato in caso di inottemperanza con la pena dell’arresto fino a sei mesi, in maniera tale da non creare intollerabili discriminazioni, ma anche in modo da non punire esasperatamente le microimprese. In questa prospettiva la discrezionalità dell’ispettore nella adozione del provvedimento dovrà limitarsi esclusivamente alla verifica della sussistenza dei requisiti di legge e delle condizioni di effettivo rischio e pericolo in una ottica di tutela e prevenzione della salute e sicurezza dei lavoratori. (…) D’altro canto, per quanto concerne la percentuale di lavoratori “in nero”, si ritiene che nella micro-impresa trovata con un solo dipendente irregolarmente occupato non siano di regola sussistenti i requisiti essenziali di tutela di cui al Decreto legislativo n. 81 del 2008 idonei a sfociare in un provvedimento di sospensione”.

Nell’art. 14 delle microimprese non si era mai parlato, ma a questo punto qualcuno comincia a chiedersi cosa vorrà mai significare questo passaggio criptico. Che poi a leggerlo bene così criptico non è, in altre parole la direttiva dice all’ispettore: “sospendi quando ci sono fondate ragioni di sicurezza mancante, e per l’applicazione della percentuale di lavoratori in nero guarda che nella microimpresa, ove basta ci sia un solo lavoratore per sforare la soglia (si parla di lavoratori presenti) usa il discernimento e in mancanza di altri elementi la condizione di pericolosità non darla per presupposta con la rigida applicazione della percentuale”. Anche tutte le disquisizioni dell’epoca su come identificare questa misteriosa microimpresa non avevano ragione di esistere, c’è un concetto ben preciso di microimpresa nella legislazione europea: “impresa con un numero di dipendenti inferiore a 10 e il cui fatturato o totale di bilancio annuo non superi 2 milioni di euro”. Lo spirito etico e saggio, credo ormai sepolto, che animava la Direttiva Sacconi era, lo dice la direttiva stessa, ispirare le azioni di vigilanza, e di conseguenza sanzionatorie, ad un criterio sostanziale (di repressione delle reali fattispecie a rischio) e non meramente formale (dare multe e provvedimenti a raffica, sulla base di violazioni non significative e burocratiche).  Il passaggio citato della direttiva non piacque a tanti (compreso non pochi nel corpo ispettivo) cosicchè la classica manina inserì poco tempo dopo all’art. 14 un comma, l’11/bis (oggi comma 4), che svilì del tutto il significato di quanto sopra, concedendo benevolmente che “ Il provvedimento di sospensione nelle ipotesi di lavoro irregolare non si applica nel caso in cui il lavoratore irregolare risulti l’unico occupato dall’impresa”. Il che è una doppia stupidaggine: primo perché l’indirizzo ministeriale aveva uno scopo ben differente (mentre qui vi è un’interpretazione di microimpresa così fantasiosa da far invidia ai Fratelli Grimm), secondariamente perché, se il problema è la sicurezza, ben sarà meno sicuro un dipendente di un’azienda sconosciuta e non consapevole dei suoi obblighi (e che quindi non ha messo in piedi nulla in termini di sicurezza – che è poi il concetto che la nota n. 162/2023 Inl dice in buona sostanza) rispetto ad una che invece tali obblighi ben li conosce, o dovrebbe conoscerli, in quanto già applicati per altri dipendenti.

Saltando qualche passaggio storico intermedio, veniamo alle recenti modifiche intervenute nell’art. 14, ad opera dell’art. 13 del D.l. n. 146/2021, analizzandolo nell’ultima versione, secondo le quali l’Ispettorato adotta2 la sospensione:

  1. in presenza di gravi violazioni (qui è stata tolta la necessità che siano reiterate, ed è anche giusto: prevenire non vuol dire aspettare il morto e poi intervenire la seconda volta, ma magari salvare tutti prima);
  2. quando siano stati trovati lavoratori non regolarmente denunciati in misura pari o superiore al 10 per cento (non più 20) dei lavoratori, per contare i quali si fa riferimento anche ai lavoratori autonomi occasionali (vedi D); C) per il calcolo della percentuale si fa esclusivo riferimento ai lavoratori “presenti al momento dell’accesso ispettivo”; D) viene inoltre inserito l’obbligo di comunicazione preventiva dei rapporti di lavoro occasionale.

Sulla schizofrenia dell’art. 14 latest edition, a parte altre considerazioni, ci soffermeremo sui punti B-C (in stretta connessione) e D, elencati in precedenza.

Ma non prima di aver fatto una considerazione; parliamoci chiaro, il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale costituisce una forte leva deterrente in mano all’ispettore, che se trova qualcosa che non va (magari un rapporto di lavoro di cui si contesta la natura, e su cui si potrebbe discutere) con la sospensione mette in difficoltà l’azienda (pensate ad un negozio sotto Natale, ad uno Studio, in forma di STP, in periodo di scadenza, ad un’azienda con lavorazioni a ciclo continuo), molto spesso nella valutazione puramente economica se pagare a denti stretti o ricorrere, la bilancia pende sulla prima scelta perché la seconda (per tempi e rischi) sarebbe ben meno conveniente. E proprio per questo è stata tolta qualsiasi discrezionalità all’ispettore, per proteggerlo: anche di fronte alla sospensione più inverosimile, al provvedimento di minor buonsenso, egli potrà sempre nascondersi dietro alla “obbligatorietà dell’atto dovuto”.

Una società sempre più rigida sotto il profilo normativo-burocratico è tuttavia una società inumana, ingessata, incapace di discernimento vero; poi appare inutile discutere sugli eventuali inconvenienti dell’affidamento di compiti alla “non intelligente” intelligenza artificiale, se predisponiamo in modo che anche le persone si muovano in modo automatico ed irresponsabile. E in ogni caso, sia detto con tutto il rispetto e la considerazione verso gli ispettori ed il loro compito, forse a proteggerli dovrebbero esserci norme chiare ed efficaci e buona formazione, non rigidità.

Passando ai punti B-C di cui sopra, la percentuale, come visto, si è dimezzata, penalizzando ancora di più la microimpresa (che, ricordate, avrebbe dovuto essere un po’ salvaguardata).

Eh sì perché ad un’azienda sino a 10 dipendenti (prima 5) basterà avere un lavoratore “un po’ così” (anche senza essere di Genova) per incappare nella sospensione.

Pensate ad una libreria che sotto Natale utilizzi per qualche giorno un lavoratore occasionale per confezionare i pacchetti-regalo e che gli sia sfuggita la necessità di comunicazione o che, del tutto ingenuamente, abbia tenuto in nero per quelle due settimane un proprio amico o parente a dare una mano; è del tutto evidente il deturpamento delle più elementari norme di diritto e di sicurezza che porta giustamente l’infame libraio, che palesemente mette a rischio la vita dell’amico “pacchettista”, nelle fauci della sospensione. Beninteso: la maxisanzione sul lavoro nero comunque è applicabile, e ci sta tutta, perché il lavoro nero (qualsiasi lavoro in nero) semplicemente non deve esistere, ma qui stiamo parlando di un’altra cosa, di un provvedimento di sospensione dell’attività che perde qualsiasi connotato con un’esigenza di sicurezza, diventando quasi un bis in idem.

In quella percentuale vi è poi una palese seconda ingiustizia, cioè la precisazione che la percentuale si conta sui lavoratori “presenti al momento dell’accesso”: per cui la differenza (per il raggiungimento della percentuale, diventata mero automatismo bieco) la può fare anche il fatto che uno o più lavoratori siano malati quel giorno, che qualcuno sia uscito per fare una consegna, che qualcuno sia in pausa, che qualcuno sia in permesso 104 o donazione sangue !!! Non sembra anche a voi che questa aleatorietà sia tutto tranne che qualcosa di equo e ragionevole? A svantaggio di tutti, ma, ancora una volta, mettendo a rischio soprattutto l’azienda con un numero esiguo di dipendenti.

Una piccola notazione: con notevole buonsenso la circolare Inl n. 3/2021 prevede che in caso di mancanze specifiche in tema di sicurezza (es. mancata formazione, mancata fornitura dei DPI), il provvedimento di sospensione possa essere adottato solo nei confronti dei lavoratori trovati “sprovvisti” (ovviamente con diritto a retribuzione e contribuzione per il periodo di sospensione). Anche la circolare n. 162/2023 richiama l’allontanamento del lavoratore senza provvedimento formale di sospensione dell’attività.

A questo punto, la logica potrebbe essere questa: sospendere tutti i lavoratori in qualche modo interessati da gravi violazioni in materia di sicurezza che ne mettano a rischio (in vario modo) l’incolumità, senza applicazione di percentuali (di fatto superate dai successivi interventi sulla norma) che poi, come detto, non servono a molto se non a fare cassa e a rafforzare forzosamente l’azione ispettiva.

Passiamo ora al punto D ovverosia all’inserimento nell’art. 14 dei lavoratori autonomi occasionali, ove il legislatore ha superato se stesso. Cominciamo con una piccola autoaccusa: la proposta di denuncia preventiva del lavoro autonomo occasionale è partita dal nostro Centro Studi dei consulenti del lavoro milanesi3. Gli scopi e le prospettive della nostra proposta, che prevedeva anche un’assicurazione previdenziale4, sono stati colti molto molto parzialmente, ma soprattutto il legislatore e chi lo segue, oltre a valorizzare solo la parte per così dire buro-sanzionatoria della proposta, dimostrava una notevole e reiterata mancanza di coraggio. La norma veniva infatti inserita all’interno dell’art. 14 del TUSL, dove c’entra come i cavoli a merenda; non si capisce se tale inserimento sia stato dovuto alla pusillanimità del legislatore di turno (che ha riparato il nuovo adempimento dietro il solito “lo esige la sicurezza”) o ➤ se, peggio ancora, si sia voluto far passare una norma tutto sommato amministrativa come un ulteriore passo verso la sicurezza (in mancanza di altri e ben più importanti passi). L’inserimento di tale adempimento nell’art. 14, tuttavia, ne depotenziava del tutto la portata, in quanto (lo ammette la nota Inl n. 29 dell’11 gennaio 2022) in tal modo esso si riferiva solo “ai committenti che operano in qualità di imprenditori”, mentre il fenomeno del lavoro autonomo occasionale, spesso abusato, richiedeva ben altra perspicacia di intervento. Ma la timidezza dell’intervento, gli aggiustamenti delle “manine” delle lobbies e degli interessi vari non finivano lì: con la nota in questione e con due successivi interventi (Nota n. 109 del 27/01/2022 e nota n. 393 del 01/03/2022), Inl riduceva ulteriormente l’ambito di applicazione della comunicazione, dalla quale rimanevano via via esclusi: i professionisti, gli Enti del terzo settore e le ASD, gli enti pubblici non economici, le prestazioni di natura intellettuale (fra cui ITL ricomprende, ma solo a titolo esemplificativo: le traduzioni, le guide turistiche, le consulenze scientifiche, le docenze ed attività formative, i progettisti grafici etc.) che, come tutti sanno, non sono soggette ad alcuna forma di elusione degli obblighi tipici del lavoro dipendente sotto lo scudo formale del lavoro occasionale5. Ma ancor peggio, l’errore marchiano dell’inserimento di tali prestazioni fra i lavoratori dell’art. 14 è che esso è del tutto eccentrico rispetto alla struttura stessa del D.lgs. n. 81/2008, in quanto l’autentico lavoratore autonomo occasionale non è ricompreso nella definizione di lavoratore di cui all’art. 2 ed è escluso dal computo dei lavoratori di cui all’art. 4 del D. lgs. n. 81/2008 (ai sensi della lettera i) dello stesso articolo). Ad esso semmai andrebbe applicata, in quanto esecutore di contratto d’opera, la normativa di cui all’art. 26 del TUSL.

Insomma, ritorniamo alla logica, condivisibile, della nota Inl n. 162/2023: la sospensione prevista dall’art. 14 del TUSL ha lo scopo nobilissimo di preservare i lavoratori qualora non protetti da adeguati presidi di sicurezza. Volendo pertanto applicare questo concetto integralmente e a 360 gradi, la finalità non deve pertanto essere quella di collezionare sanzioni, di rafforzare come deterrente posticcio l’attività ispettiva, di massacrare la piccola impresa con percentuali che permettono in concreto di sanzionare quasi sempre solo quella. Perché poi – in fondo il vero interrogativo è questo – in tema di sicurezza, parlare solo di sanzioni e sanzioni e sanzioni davvero aumenta la cultura della sicurezza sul lavoro e la coscienza del suo valore?

E già che si siamo, parlando di microimpresa, una piccola notazione va comunque fatta anche alla nota Inl n. 162/2023, quando sostiene che la mancanza di DVR e della nomina del RSPP (che ovviamente nell’azienda senza dipendenti non verranno trovati) automaticamente determina la sospensione dell’attività. Da tempo tutti gli operatori equilibrati ammettono che la struttura complessa dell’81/2008 mal si concilia con aziende di ridottissime dimensioni, specie per attività a basso rischio. Allora se si vuole promuovere la sicurezza e non fare cassa, sarà meglio posare la mannaia e riflettere seriamente sul concetto della Direttiva ispezioni: sanzionare e reprimere violazioni sostanziali, non concentrandosi sugli aspetti meramente formali. Il che un minimo di discrezionalità e di discernimento lo richiede, dal legislatore giù giù fino all’ultimo ispettore. O continueremo ad avere – come ora – una sicurezza sulla carta e, quindi, di carta.

 

  1. Direttiva del Ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali del 18 settembre 2008.
  2. Si noti che è stata eliminata qualsiasi discrezionalità: l’ispettore oggi adotta e non, come in precedenza, può adottare la sospensione; se il legislatore forse supponeva che gli ispettori non
    avessero capacità di discernimento o non fossero in grado di prendersi responsabilità non è che
    avrebbe fatto fare loro un figurone; ma, come vedremo, lo scopo è un altro, e ben preciso.
  1.  Cfr: A. Asnaghi, “Una proposta al mese- Lavoro Autonomo Occasionale: perche non regolarlo meglio?” in Sintesi, settembre 2020, pagg. 32-34.
  2. Abbiamo detto in premessa che sicurezza sul lavoro e scurezza sociale sono due fattispecie che
    vanno a braccetto, tanto che l’insicurezza dovuta alla mancanza di tutele assicurative o la precarietà
    sono elementi che sempre più spesso sono ritenuti fonte di stress negativo nel rapporto di lavoo; anche solo sotto il profilo sicurezza, pertanto, davvero scellerato non aver colto il senso della proposta, che peraltro era esplicito (non ci voleva un Leonardo da Vinci, bastava leggere): una norma anti elusione fiscale e previdenziale.
  3. Si è prospettata così una visione  “cantieristica” del contratto d’opera, che invece, restando ormai abbastanza residuale nelle prestazioni manuali e operative, ha una sua precisa ragione di esistere soprattutto nell’ambito di quelle intellettuali (alle quali si applica anche l’art. 2222 c.c. e che condividono con le manuali lo stesso trattamento fiscale e la stessa insipienza dal punto di vista assicurativo-previdenziale.

 

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Senza filtro – L’UOMO SEDUTO sulla riva del fiume

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

In paese l’aria era insolitamente elettrica.

Il Governo aveva annunciato la predisposizione di un disegno di legge che avrebbe fissato a 9 euro orari il salario minimo.

Quella sera al Bar de la Cadrèga, storico locale del centro, pareva si fossero dati appuntamento in molti. Dai due habitué del bianco corretto si era ben presto arrivati ad un gruppo di una quindicina di persone sedute attorno a quattro tavolini che gli avventori avevano via via avvicinato.

Come sempre c’erano gli entusiasti a prescindere e quelli contrari per partito preso. Ma questo, si sa, accade in tutte le classiche discussioni da bar, quelle dove non può mancare chi afferma di saperne più di tutti, che poi non è detto che non ne sappia veramente più di tutti.

Peccato che nel mare magnum del “voi non capite un cavolo” era difficile distinguerlo.

 

FAUSTINA, LA SINDACALISTA

La Faustina manco a dirlo era la più entusiasta. Dopo mille battaglie passate nel Sindacato fra qualche mese, finalmente, avrebbe visto emanato l’atteso provvedimento che avrebbe dato dignità al lavoro. Finalmente i padroni, gli schiavisti, avrebbero pagato il giusto ai lavoratori, che con lo stipendio da fame mica potevano tirare avanti ancora per molto, soprattutto dopo la crisi pandemica e quella energetica causata dalla guerra ancora in corso.

 

LUIGI, L’ARTIGIANO

Il Luigi era invece preoccupato. Il suo crescente nervosismo era scandito dal tamburellare di indice e medio sul tavolo.

Era da qualche anno divenuto titolare di una piccola impresa di pulizia ereditata dalla madre scomparsa all’improvviso. Aveva già le sue belle preoccupazioni di tener in piedi la ditta, occuparsi della contabilità, dei preventivi, di incassare le fatture e pure di gestire quell’unico operaio che, padre di famiglia, non si era proprio sentito di lasciare a casa.

Poco ma sicuro che in questo marasma lui non si sentiva di certo uno sfruttatore.

Spiegava che aveva fatto due calcoli con il suo commercialista e l’adeguamento ai 9 euro lordi previsto dallo Schema di decreto gli sarebbe costato 3 euro in più all’ora. Maledizione, già faceva fatica ad applicare ogni anno gli aumenti Istat di qualche punto decimale, chissà come avrebbero ora reagito le sue aziende di fronte ad un aumento di oltre il quindi per cento.

 

SANDRA, LA MANAGER

La Sandra lo aveva guardato con un sorriso tristemente accondiscendente.

Lei era la manager di un’azienda un po’ più strutturata, una sessantina o poco più di lavoratori. Pure lei non era affatto tranquilla. I calcoli se li era fatti da sola. L’aumento previsto per legge avrebbe riguardato per il momento solo i dipendenti inquadrati agli ultimi due livelli della scala contrattuale. Sette lavoratori nel suo caso.

Purtroppo, questa cosa avrebbe, presto o tardi, causato un effetto domino su tutti i dipendenti. Il rinnovo contrattuale, ormai imminente, avrebbe rideterminato le retribuzioni anche dei livelli superiori. Conosceva bene il meccanismo: le parti sociali, una volta individuata e fatta 100 la nuova retribuzione del livello di riferimento, avrebbero calcolato gli altri minimi sulla base di una scala di riferimento – i cosiddetti parametri – così da mantenere proporzionalmente invariata la differenza retributiva tra un livello ed un altro. Con il vincolo dell’ultimo livello a 9 euro l’ora. Del resto, l’articolo 36 della Costituzione non lascia via di fuga: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro …” e se uno svolge una mansione “qualitativamente” superiore a quella di un lavoratore inquadrato in un livello inferiore, mica si può accettare passivamente che il suo lavoro risulti costituzionalmente sottopagato.

GIANCARLO, L’OPERAIO

Il Giancarlo, operaio qualificato in una piccola realtà artigianale, invece stava già affilando le armi. Il livore era evidente.

In dieci anni non aveva mai avuto il meritato aumento, periodicamente richiesto e sempre “cortesemente” negato, e dal provvedimento del Governo non avrebbe tratto alcun beneficio. Giancarlo i 9 euro all’ora li superava di già, sebbene di poco. Eh no, assolutamente no. Non avrebbe mai accettato che lui, da sempre operaio di 4° livello, che prima prendeva un euro abbondante in più del suo collega di 5° livello, prendesse in pratica lo stesso stipendio di un operaio generico.

Stavolta il suo capo non avrebbe potuto dire di no alle sue legittime pretese di aumento. Se trova i soldi per pagare uno che manco sa stringere un bullone a maggior ragione li dovrà trovare per chi sa quali sono i bulloni giusti da stringere.

Così almeno sperava in cuor suo.

 

GINO DE LUCA, IL SINDACO

Il sindìc De Luca (no, nessuna parentela illustre) era al suo secondo mandato consecutivo. Il suo comune era stato tra i più floridi della provincia fino a qualche anno prima. Poi la crisi dell’unica grande azienda che di fatto dava lavoro, an che come indotto, ad una gran parte dei suoi concittadini aveva creato una certa apprensione. I proprietari stranieri parlavano sempre più apertamente di delocalizzazione. Troppo alto e non più sostenibile il costo del personale dipendente in Italia.

E ci mancava solo il nuovo Governo che, anziché ridurre il costo del lavoro, aveva sposato l’indicazione comunitaria del salario minimo. Al fine di migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’unione, recita la direttiva europea.

Già, diteglielo alle 724 persone, e rispettive famiglie, che fra qualche mese avranno perso il proprio lavoro e vivranno di pane e ammortizzatori sociali.

 

DON CASIMIRO, IL PARROCO

Don Casimiro era un ottimista di natura. La sua parrocchia pullulava di persone perbene. Il concetto di solidarietà cristiana, poi, era molto radicato nella comunità. Grazie ai tanti volontari era pure riuscito a creare una piccola mensa per i poveri, per lo più extracomunitari.

Certo, sapeva bene che l’aumento del costo di uno dei fattori della produzione, nella fattispecie quello del personale, avrebbe creato un meccanismo inflattivo e quindi un aumento generalizzato dei prezzi al consumo. Ma pareva non preoccuparsene più di tanto. La sua inscalfibile fede lo sorreggeva in ogni istante della sua esistenza. Dio vede e provvede. E se il Padre fosse stato impegnato in cose più urgenti, sapeva che i suoi parrocchiani, grazie ai soldi in più del salario minimo, non avrebbero fatto mancare il loro prezioso aiuto.

 

LUDOVICO, IL PENSIONATO

Il Ludovico era un pensionato di vecchia data e come tutti i pensionati tirava a stento campare. Si augurava solo di arrivare a fine mese senza un nuovo imprevisto: la recente rottura del semiasse del suo vecchio Pandino lo aveva già messo in croce. A ottant’anni appena compiuti nessuno doveva spiegargli nulla. Sapeva bene che in una situazione di aumento dei prezzi c’è sempre qualcuno che se ne approfitta.

E lui, con la pensione che percepiva, mica poteva permettersi un aumento della spesa mensile, anche fosse solo di una qualche decina di euro. E l’idea di passare da volontario alla mensa dei poveri di don Casimiro ad esserne il prossimo fruitore non lo faceva dormire la notte.

 

MARISTELLA, LA MILITANTE

La Mary era una che leggeva tanto e seguiva tutti i vari talk show politici.

Si interessava con ardore di questioni economiche e da brava militante si arrovellava a elabora- re tesi ed a cercare dati a sostegno delle posizioni del suo partito.

A chi le chiedeva come fosse possibile che qualcuno avesse pensato di aumentare il netto in busta dei lavoratori caricando sul datore di lavoro l’ennesimo balzello, lei rispondeva che bastava guardare alle positive esperienze fatte nel mondo in tal senso.

Lei peraltro era per interventi ancora più radicali. Sosteneva che il prossimo passo doveva essere la riduzione dell’orario di lavoro mantenendo la parità di stipendio. La settimana corta, quattro giorni di lavoro, diceva che non avrebbe inciso sulla produttività  dei dipendenti, anzi sarebbe    pure migliorata. E a chi bollava tutto questo come l’ennesima boutade, inapplicabile a molte mansioni, in primis agli addetti alla catena di montaggio, lei replicava sempre allo stesso modo: «Basta guardare a ciò che succede nel resto del mondo».
E se poi qualcuno si azzardava a dire che son tutti bravi a fare della “beneficenza elettorale” con il denaro degli altri, rispondeva stizzita che fino ad oggi la beneficenza l’han fatta gli operai alle aziende. E a chi bollava tutto questo come l’ennesima boutade, inapplicabile a molte mansioni, in primis agli addetti alla catena di montaggio, lei replicava sempre allo stesso modo: «Basta guardare a ciò che succede nel resto del mondo».  

OSCAR, IL CONSULENTE

Oscar è un Consulente del lavoro, attento giuslavorista e acuto osservatore.

Se ne stava zitto in un tavolo vicino ad ascoltare. Non ne voleva sapere di entrare nella discussione politica. La cosa lo annoiava o, meglio, lo infastidiva. Desiderava solo gustarsi in santa pace il suo Spritz.

Del resto a lui preoccupavano di più gli aspetti tecnici del salario minimo. Ragionamenti che, per gli ovvi limiti dei suoi interlocutori, aveva scelto di tenersi per sè.

Fin dalla prima proposta sul salario minimo aveva pensato all’attuale sistema retributivo che si basa sulla distinzione tra lavoratori retribuiti a ore e lavoratori mensilizzati. E aveva impiegato meno di mezzo nanosecondo per capire che ci sarebbero stati dei problemi. Dei seri problemi. Del resto, lui era solito ragionare dati alla mano, guardando la realtà. Esattamente il contrario di quello che fanno i politici quando pensano ai loro provvedimenti.

Aveva quindi preso in mano il calendario del 2023. Nel mese di febbraio aveva contato 28 giorni, 4 settimane giuste giuste.

Ragionando sulla cosa pensò: «Ecco, avessimo un lavoratore pagato ad ore, che lavora dal lunedì al venerdì e che ha un orario settimanale di 40 ore, per lui sarebbero 160 ore di lavoro. Se bisogna garantirgli 9 euro lordi all’ora la sua paga in quel mese sarà di 1.440 euro».

Girò la pagina con il mese di marzo: «Quanti sono i giorni lavorabili? 23. Se consideriamo 8 ore al giorno fanno 184 ore lavorate. Il suo stipendio in questo mese sale a 1.656 euro».

Tutto questo non faceva una piega: se uno lavora di piu’, e’  giusto che prenda di piu’.

Il problema – pensò – nasce però per i mensilizzati che, come tutti sappiamo (tranne chi legifera di salario minimo), ricevono sempre la stessa paga. Il Ccnl prevede 1.500 euro? Il lavoratore prenderà 1.500 sia a febbraio che a marzo, anche se a marzo avrà lavorato ben 24 ore in più.

«Lo so» – disse tra sé e sé – «non ha alcun senso logico, ma questa è un’altra storia».

Ora è chiaro che se si deve ragionare in termini giuridici di salario minimo orario per un di- pendente mensilizzato non si può non considerare questo fatto: il diverso metodo di paga adottato per lui.

La conseguenza è che la retribuzione mensile di fatto – da riparametrare come detto all’importo del salario minimo di 9 euro stabilito per ogni ora di lavoro – dovrebbe partire da quei mesi in cui l’orario di lavoro è il maggiore possibile. E abbiamo visto che a marzo 2023 raggiungeremo addirittura le 184 ore di presenza.

Se quindi dobbiamo rispettare i 9 euro orari per chi ne fa 184 ore, lo stipendio dovrebbe essere di ben 1.656 euro, uguale a quello del suo collega pagato a ore.

Il problema è che se lo stipendio del mensilizzato fosse previsto da contratto in 1.656 euro per tutti i dodici mesi ci troveremmo a pagare anche febbraio questo importo. Considerando le 24 ore lavorative in meno di febbraio rispetto a marzo, parliamo di 216 euro oltre il salario minimo.

E questa cosa accadrebbe anche in altri mesi, sia in quelli in cui si lavora 160 ore (aprile) che an- che per i mesi in cui se ne lavora 168 (ad esempio dicembre) o 176 (vedi ottobre). Una soluzione che comporterebbe un aumento retributivo, su base annua, solo per i lavoratori pagati a mese – discriminando quindi i salariati orari inquadrati nello stesso livello – cosa che andrebbe oltre lo spirito della norma che invece mira ad un aumento della retribuzione su base oraria per tutti coloro che sono nella medesima situazione.

Andrebbe quindi trovata una diversa soluzione tecnica che vada oltre, riscrivendole, le modalità operative fin qui utilizzate in sede contrattuale di determinazione dei minimi mensili ed orari. Impensabile, infatti, proseguire con quel meccanismo che di fatto vorrebbe garantire – seppur  su base annuale (questo il limite) – il diritto alla medesima paga a lavoratori pagati ad ore e ai mensilizzati dello stesso livello ovvero calcolare lo stipendio mensile di questi ultimi partendo dai 9 euro orari, moltiplicarli per le 40 ore setti- manali, poi ancora per 52 settimane dell’anno e dividendo infine per 12 mesi.

Questo perché così si continuerebbe a riconoscere al mensilizzato uno stipendio mensile riferito a 173,33 ore medie (2080 ore annuali diviso 12 mesi) che comporterebbe che in alcuni mesi dell’anno (quelli che prevedono 176 o 184 ore lavorabili) non si rispetterebbe il minimo di 9 euro all’ora. E nulla varrebbe l’obiezione che, lavorando tutto l’anno, operai e impiegati godrebbero della medesima retribuzione. Il salario minimo individuato per legge è per definizione orario, non sono previste compensazioni su quanto percepito nei successivi mesi. Anche perché non è affatto detto che uno abbia il tempo – parliamo di licenziati in corso d’anno – di goderne.

Oscar, da bravo consulente “sul campo”, aveva valutato una possibile soluzione. Già, perché un’alternativa ci sarebbe pure, anche se forse de- finirla tale è un poco esagerato. La classica soluzione sulla pelle delle aziende e dei loro consulenti. Di quelle che peraltro vanno a cozzare contro la tanto sbandierata semplificazione.

In pratica, pensava, si potrebbe lasciare tutte le attuali retribuzioni come sono, anche quelle mensili sotto il limite virtuale dei 9 euro orari, e imporre per legge un adeguamento nel corpo del cedolino paga: tutto ciò che si colloca sotto il salario minimo lo si integra mensilmente con un emolumento economico ad hoc.

Ma anche qui i problemi non mancano. Applicando infatti questa regola a lavoratori pagati a mese ed assunti (o licenziati) in corso mese, il conteggio non è semplice se si considerano le attuali regole di determinazione della paga oraria secondo un divisore convenzionale, peraltro diverso da Ccnl a Ccnl. E altre difficoltà per i lavoratori assenti parzialmente nel mese (per malattia, donazione sangue, permessi legge 104) situazioni per le quali bisognerebbe peraltro rivedere le regole di calcolo delle quote a carico Inps, Inail e datore di lavoro. Senza contare che la busta paga diventerebbe praticamente illeggibile. Come se non lo fosse già abbastanza. E poi ci sarebbero i calcoli da fare per adeguare le mensilità aggiuntive, tredicesima e quattordicesima, dei mensilizzati.

Ma il problema è ancora più complesso perché c’è un ulteriore aspetto operativo da tenere in giusta considerazione.

Per i lavoratori pagati a ore infatti l’adeguamento ai 9 euro cosa è abbastanza semplice: di fatto si devono integrare le 2080 ore lavorabili annue erogando la differenza tra le attuali paghe sotto i 9 euro ed il salario minimo. Tutti i mesi andremmo a calcolare l’integrazione sulla base delle ore lavo- rate o, meglio, di quelle teoricamente retribuibili. Cosa non particolarmente difficile perché comunque si ragiona sulle ore lavorabili in ciascun mese. Per i mensilizzati la questione è invece più complicata perché non è detto che l’integrazione debba esser corrisposta in ciascun mese. Potrebbe infatti risultare che la retribuzione corrente sia, in base alle ore lavorabili in un dato mese, conforme al salario minimo orario. Per esempio una paga mensilizzata di 1.550 sarebbe più che adeguata nei mesi che prevedono 160 ore lavorabili. In questo caso il lavoratore percepirebbe quasi 9,69 euro all’ora, in pratica 110 euro in più al mese rispetto al teorico garantito di 9 euro per le 160 ore.

Ed anche nei mesi con 168 ore lavorabili avremmo una differenza positiva. La paga media scende a circa 9,23 euro ma parliamo pur sempre di altri 38 euro, che non saranno molti ma sono sempre soldi che un lavoratore ad ore non vedrà mai.

A marzo, a maggio e ad agosto invece le ore lavorabili sono 184 che, corrispondo a poco più di 8,42 euro orarie. Se devono essere pagate a 9 euro l’una, portano il dovuto a 1.656 euro. In questo caso spetterebbero 106 euro di integrazione mensile.

Non ci vuole un genio della matematica per capire che integrare le sole mensilità dove il conteggio offre un saldo a favore del lavoratore e lasciare invariato lo stipendio quando esso risulta superiore al salario minimo (procedere con dei recuperi in ciascuno di tali mesi sarebbe al- quanto macchinoso) comporta che il mensilizzato in un intero anno arriverebbe a prendere più di quello che percepisce un lavoratore dello stesso livello ma pagato a ore.

Ovvio che tutto ciò confliggerebbe con l’attuale sistema che vorrebbe che il lavoratore pagato a ore e quello pagato a mese, ove inquadrati nel medesimo livello, ricevano l’identica paga su base annua. Un sistema ad ogni modo iniquo nei confronti dei lavoratori mensilizzati che prestano l’attività in un mese piuttosto che in un altro. Ma questa, lo si sa, è un’altra storia.

 

ALBERTO, IL CANTASTORIE

Alberto, sforzandoci un po’, lo potremmo defi- nire un pubblicista. Si dice in giro che scrive per passione, in verità lo fa per assecondare il proprio spirito polemico.

Concentra per lo più i suoi commenti su quelle norme e circolari che considera strampalate. Praticamente sempre.

A volte raccoglie opinioni e sentimenti.

E oggi ha ascoltato i nostri amici. La Faustina e il Luigi, la Sandra e il Giancarlo, il sindaco De Luca e Don Casimiro, il Ludovico e pure la Mariastella. E infine lui, Oscar, il Consulente del lavoro. Di queste donne e di questi uomini ci ha raccontato uno spaccato di vita reale, le loro speranze e le loro preoccupazioni.

Non aggiungerà nessun personale commento ai discorsi che avete ascoltato.

Se ne resterà in disparte a riflettere, ad osservare gli effetti che avrà questa ennesima battaglia ideologica.

Rimarrà, come si dice, seduto lungo la riva del fiume ad aspettare che, prima o poi, passi … no, per carità, nessun cadavere di qualche nemico, come si augurava Confucio.

Attenderà semplicemente gli eventi, combattuto tra la soddisfazione di poter dire e la tristezza di dover ricordare: «E sì che io ve lo avevo detto!».

 

 

 

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Senza filtro – UN GIUDICE (racconto di fantasia)

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

L’ufficio del giudice Andrea Rossi era situato al primo piano della palazzina del tribunale. Anche se nuova e costruita da poco, gli uffici erano piccoli ed essenziali. Il giudice Rossi aveva una particolare predilezione per una sobrietà quasi maniacale, l’ufficio era pertanto spoglio, quasi triste, salvo gli inevitabili faldoni e le carte delle udienze, qualche codice e nulla più. L’unico segno personale era una cornice con la foto dell’amata moglie Graziella, prematuramente mancata, in un mese se l’era portata via uno di quei brutti mali, così brutti che si è sempre refrattari a chiamarli con il nome che hanno. Quella mattina, una mattina umida ed uggiosa, come solo sanno essere certe giornate grigie novembrine a Milano, nell’ufficio del Dott. Rossi, si stava iniziando una causa singolare. Il giovane Bruno Brunelli assistito dall’Avvocato Porfirio Rubicondo e accompagnato dalla madre, avevano fatto causa al noto Liceo Tibiletti rivendicando somme a titolo di rapporto di lavoro più danni da mobbing. A difendere il Liceo era presente un avvocato che aveva già passato la mezza età da un po’, il quale faceva del silenzio e di espressioni fra l’allibito e il patetico le proprie armi migliori contro le pretenziose rivendicazioni di controparte.

L’avvocato Rubicondo, giovane rampante del famoso Studio Associato DDP (Difensori Dei Poveri), noto per il perseguimento, fra le tante, di cause pilota ed impossibili, era agghindato non proprio da tribuno popolare, con un vestitino grigio attillato, di evidente e costoso taglio sartoriale, che rivestiva un corpo magro e stizzoso come l’avvocato, dotato di una voce fastidiosamente stridula e querula e di piccoli scatti nervosi a sottolineare i concetti che riteneva essere più importanti. Anche l’orologio al polso era il controvalore di parecchi stipendi medi, e d’altronde nello Studio non era così ampia la frequentazione verso quella povertà che, forse solo ideologicamente o per vezzo, si pretendeva di difendere. La madre del Brunelli, lo sguardo fra l’avido e l’assatanato, aveva il tono e l’atteggiamento di un tifoso del Barcellona in una finale di Coppa, incitava, interrompeva e sottolineava (mancava solo che fischiasse o che si mettesse a soffiare dentro una vuvuzela). “Vediamo – interloquì il giudice – qui abbiamo una causa un po’ particolare …”. “Nulla di particolare, signor giudice – interruppe subito il baldanzoso avvocato Rubicondo – come vedrà con piena evidenza, qui siamo davanti ad un classico caso di sfruttamento, sfrut-ta-men-to (e va già bene che il ragazzo è maggiorenne) unito ad un atteggiamento persecutorio oltre ogni limite immaginabile”. “Procediamo con ordine, avvocato. Come mai rivendicate un rapporto di lavoro con uno …studente di liceo?”.

“Perché il qui presente Brunelli è stato sottoposto a diversi compiti da collaboratore scolastico, invece che fare il semplice studente!” “Sì ho letto il ricorso, qui si dice che è stato costretto più volte a pulire l’aula, e qualche volta anche i servizi, nonché a riordinare più volte il laboratorio di fisica e a spostare i banchi”. “Esatto! E anche al di fuori dell’orario scolastico, per cui rivendichiamo giustamente anche gli straordinari!”.

“La posizione della scuola – osservò il giudice, l’altro avvocato annuiva – è che queste operazioni, peraltro non quotidiane, corrispondevano a delle mancanze della classe, e del Brunelli in particolare, e che le operazioni in questione entravano in un concetto educativo e di formazione al rispetto…”.

“Tutte scuse signor giudice – interruppe nuovamente l’avvocato – leggiamo cosa dice il contratto collettivo a proposito delle mansioni del collaboratore scolastico (si, insomma, il bidello). Vede ? Riassetto dei luoghi di studio, pulizia straordinaria, spostamento dei banchi e delle masserizie scolastiche, tutte cose a cui il Brunelli è stato illegittimamente adibito!”.

“Hmmm, vedremo … E sul mobbing? Vedo accuse circostanziate”.

“Non v’è chi non veda – il Rubicondo si era improvvisamente avviluppato in una foga oratoria fuori luogo – il disegno persecutorio perpetrato ai danni di questo povero giovane! Bocciato per ben quattro volte…” “Quattro volte, però!… Ma non è per caso che non studiasse?” il giudice tentò di interrompere la filippica, ma l’altro riprese. “… Ed esposto allo scherno ed al ludibrio dei compagni, con nomignoli umilianti! C’è anche la Clinica Faciloni che ha attestato stress psico-fisico e danni alla salute e vita di relazione, con tanto di certificati. E guardi, signor giudice, che il Brunelli, abbandonato disperato il liceo, in una scuola specializzata in soli otto mesi ha recuperato quattro anni raggiungendo la maturità con successo, con spese ingenti della famiglia!” (la madre annuiva con veemenza mugugnando qua e là qualche “già, uno scandalo, un’indecenza!”; solo il ragazzo sembrava avulso da tutto ciò…).

Il giudice aveva letto il ricorso e sapeva che il miracoloso recupero era avvenuto ad opera del noto centro (faceva pubblicità anche in qualche tivù) Successi Subito s.p.a., che a fronte di rette costosissime avrebbe promosso anche il gatto dei vicini con la media dell’otto. Peraltro, il Brunelli era uscito con tutti sei, praticamente con una spinta clamorosa o, come dicono al Bar Sport, con un calcio nel sedere. “Vorrei parlare col ragazzo” – disse il giudice. Bloccò la madre che aveva preso fiato per prendere la parola. “Ho detto col ragazzo, senza interruzioni, se possibile. Dunque vediamo, Bruno, com’è andata la storia dei banchi e delle pulizie ?”

Il ragazzo cominciò timido ed impacciato “Eh.. insomma. Si mi han fatto pulire e spostare i banchi”…

“E come mai?”

“No, niente .. uhmm .. è che … insomma avevamo fatto un po’ di casino per una festa”. “Qui il liceo dice che avevate trasformato più volte l’aula in un porcile, e che avete giocato a pallone nell’aula di fisica rompendo e spostando tutto”.

“Sì ma lui che c’entra? “ sbottò la mamma. “Qui leggo che in ogni… in ogni casino, come dici tu, tu eri sempre nel mezzo, insomma una specie di artefice”.

“Eh uhmm ahhh sì, cioè no, è che .. a me mi piace poco studiare… avrebbi dovuto fare un’altra scuola, ma la mamma insisteva” (la madre fece una smorfia di disapprovazione). “Eh va beh – disse il giudice – ma spiegami: com’è che avevi quattro anche in educazione fisica? Lì non c’è molto da studiare, mi pare “. “Ce l’avevano con lui ! – interloquì la madre, ma il giudice la zittì con lo sguardo.

“Hmmm en… ehm , no, insomma … a me piaceva andare al bar o giocare con lo smartphone, ma il prof ci faceva correre e fare gli esercizi, una noia…”.

“Capisco” – disse il giudice. Ma mentre il giovane balbettava qualcosa, come in un rapido flashback al Rossi tornarono in mente gli anni del suo liceo e mille ricordi lo trasportarono al suo passato.

Tornando di colpo al caso, il giudice volle esplorare anche il resto. “Senti, leggo nel ricorso che qui i compagni ti hanno dato un soprannome”

“Uh .. eh .. ah …uhm sì, mi chiamavano con un brutto nome.” “Vuoi raccontarcelo?”,

“Mi chiamavano …il … il Capra – il ragazzo arrossì –“ per via che non capivo mai quello che spiegavano i prof”.

“Poverino- disse la madre – signor giudice, ma lei ha figli, sa che vuol dire provare pena per loro”?     No il giudice non aveva figli, lui e Graziella li avevano cercati tanto, poi si erano rassegnati, e subito dopo quella malattia che l’aveva portata via in un lampo …

“Ho capito, ma dimmi, c’erano altri soprannomi fra voi ?”

“Eh sì c’era Phantom, lo chiamavamo così perchè non veniva quasi mai a scuola, soffriva di una malattia rara, una malattia automunita”. “Si dice autoimmune” corresse pazientemente, sospirando, il giudice Rossi.

“E poi c’era Chiodino”.

“Chiodino?”

“Eh si, perché è proprio grasso…” – disse il ragazzo con un sogghigno.

Il giudice tirò un profondo sospiro. Chissà se a volte i ragazzi si rendono conto di quel che fanno. O forse in un gruppo di giovani i nomignoli sono un affettuoso segno di riconoscimento e di accoglienza, senza la malizia degli adulti. Che se invece di malizia si doveva proprio parlare, allora il ragazzo, che si lamentava del suo soprannome, ne usava di peggiori per un malato grave e appellava un altro compagno con quello che sarebbe oggi rubricato come body shaming.

“Lasciatemi un attimo, per favore. Uscite tutti, ho bisogno di riflettere”.

“Ma signor giudice – sbottò l’avvocato – non abbiamo ancora parlato del tirocinio!”.

“Va bene, va bene, avvocato, ho letto il ricorso”. Nel ricorso, la solita tiritera dello sfruttamento del tirocinio, che si aggiungeva alle richieste di riconoscimento del rapporto di lavoro. Ed in un’iperbole giuslavoristica, si sproloquiava pure di somministrazione illecita. Il tutto per una settimana di training (sapete, è l’alternanza scuola-lavoro, quella cosa che talvolta ha il sapore dell’improvvisazione ma che di per sé non è inutile, ti insegna alcuni meccanismi di comportamento e come stare al mondo, e iddio sa quanto a volte ce ne sia bisogno) presso una nota catena di paninoteche. Il giudice se lo immaginava, il Capra (ormai lo chiamava così anche lui nei suoi pensieri) a prendere ordinazioni confondendosi, o a pulire i tavoli; o forse, come faceva durante l’educazione fisica, a cercare di imboscarsi non appena poteva; e infatti, il giudizio al termine della settimana era stato “svogliato e disattento”. È che i quattro che prendi nella vita non sono come quelli scolastici, e non c’è nessun diplomificio Successi Subito a regalarti scorciatoie.

O forse no – un latente malessere esistenziale del giudice Andrea Rossi riaffiorò di colpo – forse a quelli come il Capra oggi si aprono strade impensabili un tempo, protagonisti di qualche idiota reality su un’isola strampalata o in mezzo ad una fattoria, e così diventati improvvisamente famosi, e pronti a discettare su tutto e tutti, opinion leader caserecci ed insulsi. O magari, perché no, una bella carriera politica, addirittura conquistando anche un ruolo importante, in quelle liste elettorali sempre più improvvisate e composte da personaggi di basso profilo, magari qualcuno anche volenteroso ma sostanzialmente tutti degli “scappati di casa” senza arte né parte. E non riusciva nemmeno a prendersela più di tanto col Capra, pensava agli altri, agli adulti di contorno, all’ambizioso avvocato Rubicondo, ai leader politici e alle loro liste fumose, alle Cliniche Faciloni ed ai loro giudizi tirati a casaccio (ma col dito maliziosamente puntato, spesso a sproposito), a quelli della Successi Subito s.p.a. maestri delle scorciatoie, all’isterica madre del Capra, al papà del Capra (ecco, dov’era il padre, così da impartire qualche meritato – sempre amorevole, eh – ceffone al figlio e fare da contrappeso all’invadenza petulante e distopica della madre?). Nel riflettere, il peso di un mondo a cui sostanzialmente sentiva di non appartenere più opprimeva le spalle ed il cuore del giudice Rossi. E lo appesantiva il non senso del suo lavoro, il discettare di cause strampalate come quella che si trovava di fronte, e intanto ingiustizie scorrevano nel mondo senza che nessuno le intercettasse.

Anche qualora avesse rigettato le domande attoree, come aveva intenzione di fare, che sarebbe successo se del ricorso si fosse occupato in appello il Carluzzi, quel collega che avrebbe dato un rene, forse anche due, per dar ragione alla cosiddetta parte debole sempre e comunque, a proposto e a sproposito. Perchè poi una sentenza anomala (ah no, ora si dice innovativa) fa sempre rumore, fa sempre curriculum, fa notizia, dà popolarità, ti fa entrare in giri che contano.

E già si immaginava il peggio: dopo il ricorso vinto col concorso del Carluzzi, la subitanea tronfia pubblicazione su qualche social media da parte della DDP: “Una sentenza esemplare, seguita brillantemente per lo Studio dal nostro partner Avv. Rubicondo”… e tutte quelle cose così, false e vacue, di immagine senza sostanza …

Fa niente se non si parla più di giustizia e di obiettività, fa niente se il settore si popola sempre più di persone che parlano di diritti senza avere il minimo concetto del Diritto, quello che una volta insegnavano nelle scuole vere, quello che coniugava equità e buon senso. Al di là della porta la voce stridula e fastidiosa dell’avvocato Rubicondo, che continuava a perorare la causa da solo, sembrava il perfetto contorno a questi pensieri,

Una solitudine opprimente, un senso di vuoto pervadeva da tempo il Rossi, e si ripresentò con veemenza, qualcosa che ti attanaglia lo stomaco e ti allappa la bocca. Il giudice, per cercare un’ispirazione o forse solo una caramella o un biscotto, tirò un cassetto della scrivania.

Maliziosamente, al posto del dolcetto sperato, apparve una rivoltella, un’arma dimenticata lì che il Rossi si era procurato tempo fa per difesa personale quando aveva ricevuto serie minacce per via di alcuni appalti di cui si era occupato (anche quelli, finiti in un nulla di fatto, lungaggini processuali fino in Cassazione mentre i felloni portavano ricchezze e nuove false identità all’estero). Ci sono momenti in cui la lucida follia non lascia più il posto alla poesia, in cui l’oppressione prende il sopravvento sulla speranza, lo sconforto sulla resilienza.

Momenti così… in cui Graziella, la giovinezza gli anni del liceo, gli ideali sembrano così lontani, e il Capra, il Rubicondo, una società senza padri e con madri così strampalate son lì a prendere il posto delle cose buone e giuste. E uno si sente infinitamente distante da tutto ciò, tanto che vorrebbe essere altrove, così altrove che piuttosto… nel nulla.

Lo sparo risuonò secco, amplificato dagli ampli corridoi del tribunale e sorprese i presenti. Tutto sembrò fermarsi per un attimo, lo squittio del Rubicondo, lo scalpiccio veloce degli avvocati e dei segretari, il brusìo di testimoni e imputati in attesa di esser chiamati, e, fuori, lo stridore dei tram sui loro binari, il clangore del traffico, il parlottare frenetico in mille cellulari e tutto il testo.

Ma fu solo per un momento. Quello che servì al giudice Rossi per andarsene dall’ufficio, attraversare di colpo gli astanti allibiti, immergersi nel grigio milanese che, uscito, non gli sembro poi così male. E con un senso di libertà, e la foto di Graziella sotto braccio, si allontanò dirigendosi altrove (forse al mare, dicono).

La pistola ancora fumante per il colpo sparato a salve – un segno di cambiamento, come il botto quando finiscono i fuochi d’artificio – riposava placida su due righe di dimissioni

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IL PUNTO – ERA ORA! Marina Calderone Ministro del Lavoro

Potito di Nunzio, Presidente del Consiglio dell’Ordine provinciale di Milano

La nostra Presidente Nazionale, Collega Marina Calderone, è stata nominata Ministro della Repubblica italiana con delega al Lavoro e politiche sociali. Complimenti vivissimi da tutti noi, Marina! Non devo raccontare ai lettori di questa Rivista chi è Marina Calderone, il suo passato lo conosciamo e siamo orgogliosi del coraggio che ha avuto nell’accettare l’incarico in un momento difficile come quello che stiamo vivendo.

Perché dico coraggio: perché muovere critiche al sistema è più facile; avere il coraggio (da tecnico) di mettersi a disposizione della nazione per cercare di cambiarlo (il sistema) è sicuramente più difficile e ci vuole davvero molto coraggio in un momento come questo e con questo clima di generale diffidenza e perché no, anche di odio.

Sono sfide importanti che le si presenteranno già dal giorno dopo l’insediamento. Dovrà condividere scelte difficili e qui ne elenco solo alcune:

  • Riforma delle pensioni
  • Salario minimo legale
  • Reddito di cittadinanza
  • Costo del lavoro.

Sono scelte sociali con forti risvolti economici. Certamente non potrà accontentare tutti e la mia speranza è che si smetta di ideologizzare il mondo del lavoro e si gettino le basi per una equa ripartizione delle risorse riprendendo il cammino dei doveri ancor prima che dei diritti e indirizzando le risorse verso coloro i quali possono creare ricchezza controllandoli efficacemente ma non con tecniche vessatorie. Gli aiuti a pioggia leniscono l’immediato ma non costruiscono nulla di buono per il futuro. Ci vuole una politica stabile che pensi al vero tessuto socio economico del nostro Paese  fatto di micro e piccole imprese, nelle quali l’operosità non manca anche se spesso viene limitata dall’eccesso di burocrazia e di adempimenti inutili. Una politica sociale che livelli le disuguaglianze senza creare sacche di inefficienza. In materia di occupazione bisogna eliminare gli incentivi disincentivanti, l’asfissiante cuneo fiscale, una politica di inclusione che consenta a tutti di lavorare con rafforzamento delle competenze che sono l’unica strada per combattere la disoccupazione strutturale consentendoci di essere competitivi con il resto del mondo.

Da parte nostra siamo sicuri che la nostra Presidente, ops! Il nostro Ministro del Lavoro (Marina ci permetterà “il nostro”) saprà muoversi con saggezza ed equilibrio.

A lei auguriamo ogni bene e il successo che merita. La competenza non le manca e l’esperienza neppure, inoltre sa di poter contare su 26.000 colleghi pronti a darle una mano. Ma la Categoria sarà altrettanto pronta a manifestarle il disaccordo se alcune scelte governative fossero non improntate all’equilibrio e all’equità.

Noi non le faremo mancare suggerimenti e proposte di semplificazione normativa perché è questo un altro grande obiettivo da raggiungere. Il mondo del lavoro è soffocato da eccessi di normazione, spesso contradditoria dove tutti possono dire tutto e spesso chi dovrebbe essere tutelato (il lavoratore) ne viene pesantemente danneggiato e scoraggiato nell’intraprendere qualsiasi azione perché sarebbe eccessivamente dispendioso in risorse fisiche, mentali ed economiche rispetto al diritto che vorrebbe aver tutelato. Inoltre, ci vuole una vera semplificazione della Pubblica Amministrazione, eliminando norme insensate che mettono in difficoltà qualsiasi operatore del diritto, magistrati compresi. Ricordo a tutti che il prossimo anno festeggeremo il centenario della legge sull’impiego privato anche se è stata totalmente stravolta da integrazioni e modifiche nonché da interpretazioni giudiziali che l’hanno resa obsoleta ma che comunque “tiene botta” cose si usa dire. Ma che si semplifichino le norme, abrogandole espressamente e non tacitamente; si riprenda a scrivere le norme con una tecnica legislativa degna di tale nome; si verifichi l’efficacia e l’applicabilità delle norme prima di emanarle; si smetta con il diritto “circolatorio” non degno di un paese civile che può vantare una storia di giuristi eccellenti che parte dalle codificazioni giustinianee. Cerchiamo di diventare un paese normale dove la semplicità entra nel fare quotidiano e che nessun ostacolo burocratico debba rendere infelici persone fisiche e giuridiche.

Un avvertimento però lo voglio dare a chiunque osi gettar discredito sulla nostra Categoria con illazioni e false notizie: sappiate che non solo ci difenderemo ma attaccheremo a testa bassa chiunque, perché il ruolo di noi Consulenti del Lavoro, che della legalità e della tutela dei deboli ne abbiamo fatto una bandiera, non deve essere minimamente messo in dubbio o in discussione, indipendentemente da quelle che saranno le scelte governative. Buttarla in caciara o creare discredito come qualcuno sta cercando di fare (vi prego di leggere, subito a seguire, il graffiante e condiviso articolo del Collega Andrea Asnaghi) non giova alla serenità che in questo momento tutti abbiamo bisogno.

BUON LAVORO MARINA

 

SENZA FILTRO 

Rubrica impertinente di PENSIERI IRRIVERENTI

UN MANIFESTO di stupidate

di Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

Il 21 ottobre 2022, in contemporanea con la presentazione del nuovo Consiglio dei Ministri, l’onorevole testata del Manifesto esce con un articolo di Massimo Franchi: “I tanti conflitti di interessi di Marina Calderone”, neo Ministro del Lavoro. Il breve articolo contiene una serie tale di imprecisioni, maliziosamente costruite ad arte, probabilmente per eccitare le menti sensibili di qualche lettore affezionato, che se non fossimo in una Rivista seria ma in un film di Fantozzi potremmo appellarlo come la Corazzata Potemkin. Fa specie che un giornale storico e dignitoso ricorra a mezzucci di tremenda disinformazione per conquistare, malamente, qualche interesse. Non entreremo qui nel merito degli attacchi personali a Marina Calderone e famiglia, che ha un profilo ed una capacità intellettuale perfettamente in grado di difendersi da sola contro certe insinuazioni, ma spiace particolarmente veder mettere in mezzo tutta una categoria con nozioni distorte, che rivelano la piena e palese incompetenza di chi le scrive (e quando non si sa di una cosa, sarebbe meglio discettare di altro, a meno che non si voglia semplicemente fare i … Franchi tiratori). Secondo l’articolista in questione, “negli ultimi decenni non c’è professione che abbia contribuito ad abbassare diritti e salari più dei consulenti del lavoro”, con una “propensione alla riduzione del costo del lavoro con qualsiasi mezzo” che addirittura si caratterizzerebbero per “mancanza di etica”. Ora, frasi simili non si giustificano (e difatti il nostro mica spiega il perché, siamo all’insulto libero) nemmeno dopo aver bevuto due litri di grappa fatta male in casa.

Se la professione di consulente del lavoro giustifica la sua esistenza e la sua dimensione ordinistica (lo dice la L. n. 12/79 e lo ribadisce il Codice deontologico) è proprio in funzione del ruolo delicato che viene svolto da questa attività, nel garantire che quanto riguarda adempimenti e gestione del personale sia svolto con tutti i crismi, garantendo etica e legalità. L’eventuale attenzione al costo del lavoro ed alla forbice di divario fra il netto al dipendente ed il costo finale per l’azienda è un problema comune a tutto il mondo del lavoro ed ampiamente dibattuto da qualsiasi parte sociale (sindacati dei lavoratori compresi) che si occupi seriamente e non un tanto al chilo (come il Franchi, quantomeno in questa occasione) di questioni occupazionali. Dopo una serie di illazioni sui rapporti fra la Calderone ed il mondo politico, che comunque contribuiscono a creare un alone preliminare di sospetto nell’ignaro lettore, ecco che parte la filippica contro i consulenti del lavoro che, tramite il loro Consiglio Nazionale, con vari interpelli minerebbero i diritti dei lavoratori su vari temi, come “gli appalti e la sicurezza” (ma se sugli appalti, la sicurezza e la legalità i consulenti di tutta Italia hanno fatto battaglie e proposte serie, perché non riconoscerlo? A chi diamo fastidio? O siamo solo tirati in mezzo per una critica ad un Governo che al Manifesto ovviamente non piace, così come legittimamente a molti altri?).

Beninteso: gli interpelli sono domande tecniche al Ministero del lavoro, che a sua volta fornisce risposte tecniche. Per cui al Ministero io posso chiedere qualsiasi cosa (cum grano salis, ovviamente), ma ciò che conta è ciò che risponde il Ministero, in linea con le norme vigenti (lo so che voi lo sapete, lo sto spiegando al Franchi che o non lo sa, oppure lo sa ma dice una cosa per un’altra). Secondo il Franchi, per il quale evidentemente le sciocchezze sono come le ciliegie (una tira l’altra) il Durc in edilizia (“in vigore dal 1° novembre 2021”) sarebbe “lo strumento principe per evitare le assunzioni post-datate in caso di incidenti”. Qui dobbiamo fare i complimenti al Franchi perché in due righe tante imprecisioni simultanee sono da Guinness dei primati. Il Durc in edilizia (e non solo) c’è da quasi 15 anni, quello che è entrato in vigore da poco è un particolare meccanismo di controllo che riguarda (sostanzialmente) i versamenti alle casse edili (il c.d. “Durc di congruità”) il cui meccanismo è talmente complesso e burocratico da suscitare parecchie giustificate riserve (tanto che quasi quasi giustifico anche il Franchi tanto non ci capisce nulla). E comunque non serve  ad evitare assunzioni post-datate, per quello da più di 20 anni c’è la dichiarazione di preventiva di assunzione. Preventiva vuol dire il giorno prima, Franchi, do you understand? Per cui se c’è un incidente e il lavoratore è in nero, il datore è (giustamente) nei guai. Un secondo interpello incriminato (e c’è stato) riguarderebbe la domanda (perché questo è un interpello, non è un’azione politica, è una richiesta di chiarimenti) sulla possibile esclusione dei dipendenti in smart-working dal computo dei dipendenti ai fini dell’assunzione di disabili. Per il disinformato Franchi “in pratica si usa il telelavoro per assumere meno disabili”. Guardi Franchi che la realtà è differente, in quanto attualmente il telelavoratore (che non è il lavoratore in smart-working, ma si vede che la confusione è una Sua specialità) è già escluso dal computo dei dipendenti ai fini della L. n. 68/99. Il dubbio se questa esclusione possa riguardare anche, per assimilazione, i lavoratori in smart-working era legittimo.

Vede Franchi, i consulenti del lavoro ragionano, si informano e chiedono (e poi rispettano la legge e le risposte del Ministero, in questo caso negativa); è una pratica differente da quella a cui forse è abituato Lei e certi suoi compari, per cui importante è fare caciara ed imbastire prove di forza per far passare ciò che si vuole, giusto o sbagliato che sia (anche se si pensa fastidiosamente ed acriticamente di esser sempre dalla parte del giusto). Infine, il Franchi si straccia le vesti per la richiesta dei consulenti del lavoro di poter accedere ai dati previdenziali dei lavoratori. Qui il pezzo va riportato per intero perché rischia di superare il Guinness appena conquistato poche righe prima. “In questo modo la categoria farebbe concorrenza – sleale – ai patronati dei sindacati ma – soprattutto – sarebbe in grado di poter consultare i dati con evidenti rischi per i lavoratori.

L’esempio limite rende però bene l’idea: se un’impresa di 15 dipendenti fosse in difficoltà finanziarie e decidesse di tagliare sul costo del lavoro, l’accertamento da parte dei Consulenti del lavoro che uno dei lavoratori sia vicino alla pensione, permetterebbe all’azienda di proporre una buona uscita in cambio delle dimissioni del lavoratore. Una mossa che porterebbe l’azienda a scendere sotto i 15 dipendenti con tutte le normative semplificate anche sui licenziamenti”. Santa pazienza, Franchi, ma le regole deontologiche dei Consulenti del Lavoro impongono un principio di competenza specifica, che vuol dire trattare di cose che si conoscono; non c’è una regola simile anche per l’Ordine dei Giornalisti, oppure un giornalista può dire liberamente cose a sentimento, anche senza saperne nulla? La richiesta dei consulenti, che personalmente condivido, è quella di poter trattare le pratiche previdenziali; i consulenti sono esperti e tanti lavoratori si rivolgono a loro, riconoscendone la competenza e la serietà. Concorrenza sleale ai patronati? E perché mai “sleale”? Se più soggetti possono offrire un servizio, che male c’è? I consulenti, peraltro, lo fanno con coscienza e obblighi deontologici (per esempio, se sbagliano pagano), i patronati lo fanno gratis (talvolta, mica sempre, e comunque in esenzione da qualsiasi imposta) e quando danno informazioni sbagliate (e lo fanno, oh se lo fanno…) va tutto bene. Ma comunque: anche i patronati (e figuriamoci i consulenti del lavoro, qualora potessero) non possono accedere alle posizioni di un lavoratore senza una delega specifica dello stesso. Ha compreso Franchi? Nessun gioco al massacro, chè se un lavoratore chiedesse di fare una proiezione per capire le proprie possibilità, magari ha interesse anche lui a comprendere come e quando può andare in pensione e se c’è un qualche incentivo per andare prima. Sa quanti dipendenti lo fanno? Magari sono stanchi di lavorare tanto quanto io sono stanco di leggere il Suo articolo pieno di imprecisioni, che per fortuna è finito qui. Ma davvero Lei, Franchi, ne sa qualcosa di lavoro e lavoratori?

Franchi, giusto per concludere. Questa non è una filippica osannante i consulenti del lavoro o Marina Calderone (che si è assunta un bel carico da 90 e tanti rischi). Errori o possibilità di miglioramento ci sono da tutte le parti, ma i consulenti del lavoro (il cui compito è aiutare i datori a stare nella legalità) senza legalità non avrebbero senso di esistere. Sono altri i soggetti, che i consulenti del lavoro combattono, spesso da soli, su cui puntare il dito, mi creda. Quindi niente peana sulla categoria. Ma solo la richiesta, sacrosanta, da qualcuno che di lavoro vive e sul lavoro parla con competenza ma sprattutto con passione: Franchi, parli di ciò che sa. E se vuole parlare di lavoro, cortesemente, prima si informi, due dritte, anche gratis, gliele diamo volentieri,

 

 

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