Senza filtro – A PROPOSITO DI adempimenti inutili e costosi…

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Ti capita a volte di imbatterti in norme la cui ragione sfugge, a meno che (il sospetto è legittimo) non vi sia qualcuno che attraverso di esse persegue interessi particolari. Ora permetterete l’argomento un po’ particolare e forse anche fuori tema rispetto a questa Rivista (ma in tema ci torneremo in un attimo) ma vorrei parlare degli adempimenti di “trasparenza e pubblicità” previsti dalla L. n. 124/2017, art. 1, commi 125-129 (come sostituito dall’art. 35 del D.l. n. 34/2019, ed eventuali modifiche ed integrazioni – che quelle non mancano mai). Tranquilli, non facciamo come il legislatore, che ti spara in faccia 27 riferimenti di legge e poi ti lascia lì come un pesce appena pescato a boccheggiare tramortito fra Gazzette Ufficiali e banche dati per capire cosa diavolo voglia dalle nostre povere vite.

Le norme in questione prevedono, in due parole, che – per “adempimenti di trasparenza e pubblicità” di cui sfugge a prima vista la ragione sostanziale – i soggetti che avessero ricevuto nel 2022 dalle Autorità Pubbliche dei contributi, delle sovvenzioni e/o dei vantaggi non aventi carattere generale, se non sono tenuti alla redazione della nota integrativa, sono obbligati entro il 30 giugno 2023 a segnalare la cosa nel proprio sito web. Se il sito web non ce l’avessero, la medesima segnalazione può essere fatta nel portale digitale “dell’associazione di categoria di appartenenza”. Pena una non risibile sanzione amministrativa. Ora, sono necessarie alcune annotazioni. La prima è che con un pensiero ingenuo un’anima semplice come quella che scrive sarebbe istintivamente portata a pensare che a tale proposito è stato istituito un “Registro nazionale degli aiuti di Stato” (www.rna.gov.it/RegistroNazionaleTrasparenza). Uno riceve uno o più aiuti – o come dice la norma “sovvenzioni, sussidi, contributi o aiuti, in denaro o in natura, non aventi carattere generale e privi di natura corrispettiva, retributiva o risarcitoria” – e la cosa viene annotata in quel posto apposito. Chiunque nel pubblico corrisponda una provvidenza del genere ad un soggetto, lo iscrive nel registro suddetto e il gioco (cioè la trasparenza) è fatto. Ma chissà, forse non è così e i fiumi, fiumicelli, rivoli e rigagnoli degli aiuti si dipanano come una foce a delta, e così, senza obbligo da parte di chi li corrisponde di segnarli nel registro, qualcosa si perde per strada. Ora i casi sono due: o chi eroga questi contributi è obbligato a segnarli nel registro (e se non lo fa è una mancanza dell’erogatore, e non del beneficiato) oppure questo obbligo per taluni enti non sussiste (e allora è una mancanza del legislatore). Anche perchè trasparenza vorrebbe che tutti questi aiuti fossero lì, belli in evidenza e consultabili da chiunque in un pubblico registro. Dopo di che, un’annotazione nella nota integrativa – se un soggetto è tenuto a redigerla – sembra un fatto normale, quasi scontato: nel rendere conto delle particolarità di gestione sicuramente avere ricevuto contributi del genere è una cosa che sembra opportuno evidenziare. Ma il resto?

Per quale motivo si deve inserire questa informazione (sia pure se i contributi superano i 10.000 euro nell’anno) in un portale web aziendale? A chi giova questa informazione e come e quanto è reperibile e consultabile in tal modo? Ora a pensar male si farà anche peccato, ma visto che molte aziende, soprattutto quelle di piccole dimensioni, la nota integrativa non sono tenute a farla e del sito web non sono provviste, ecco che arriva il salvataggio: pubblica il dato (inutile) sul portale web della tua categoria. La tua associazione ti salva, ti protegge, pensa a te (sembra la pubblicità della Coop): te lo dicono le norme. Che ogni tre per due sulle associazioni di categoria spingono, attraverso di esse ti è suggerito di fare molte cose, dalle richieste di cassa integrazione alla rappresentanza in questo o quel consesso o alla presentazione di una domanda (guarda un po’) per l’ottenimento di contributi (magari anche con un qualche canale privilegiato). Assòciati, ti dice la legislativa manina amica (delle associazioni), è più utile e conveniente. Qui si possono offrire molte riflessioni. La prima è che la libertà di associazione è anche, costituzionalmente, una libertà negativa. Ma oggi sempre di più si spingono le aziende ad associarsi. Che sia un bene o un male non so dire, che sia quasi un obbligo mi pare una cosa un po’ poco democratica. Un non associato deve godere degli stessi diritti e delle medesime facilitazioni di un associato, se no è discriminazione (oggi va di moda dire così, ormai la discriminazione da questione seria è diventato il “prezzemolo giuridico”) . La seconda è una mera curiosità: con quale criterio si indica la possibilità di indicarle sul sito dell’associazione di categoria? Cos’ha in più un sito di un’associazione rispetto ad un altro sito? Mettiamo che una società si occupi di agevolazioni, non potrebbe essere ugualmente efficace pubblicarle sul sito di quella società? O perché non sul sito del proprio commercialista o consulente del lavoro? Perché non sul sito della propria squadra del cuore (è più facile che cambi l’associazione rispetto a quella)? Si noti che è un’annotazione sostanzialmente poco utile (così com’è costruita), un intralcio, un orpello normativo. Però porta acqua a qualcuno che magari porta acqua di ritorno a chi ha previsto questa cosa (qualcuno lo chiama lobbismo, che non è vietato ma che non deve costringere a cose inutili/dannose). Insomma, sarà anche un momento di siccità ma quest’acqua appare un po’ sporca, non tanto buona da bere. La terza annotazione si collega alla seconda ed è che le associazioni di categoria sono primariamente un luogo di rappresentanza. Quindi chi si associa conferisce loro un mandato (e non è cosa indifferente perché poi è sostanzialmente obbligato a rispettare ciò che la sua associazione sottoscrive – un caso eclatante è la parte c.d. obbligatoria dei contratti collettivi), tuttavia le associazioni stanno sempre più diventando dei centri di affari economici, portatori di interessi privatistici – ad esempio mostruosi erogatori di servizi – e che entrano in competizione sul mercato beneficiando di spintarelle come quella di cui stiamo parlando (non è qualcosa di palese, sembra più un “effetto Nudge”, è un meccanismo subliminale di indirizzo). Il tutto nel sonno più totale dell’autorità garante, per cui “il” problema paiono essere più spesso i professionisti, specie se ordinistici.

Prendete le ricchissime casse edili (si dice al plurale, perché sono tante quanto, più o meno, le province, ed ognuna ha regole di funzionamento diverse, una vera meraviglia gestionale): sono gestite da associazioni di categoria privatissime ma stanno diventando sostanzialmente obbligatorie, pena grossi disagi e penalizzazioni per le aziende. Qualcuno si è mai preoccupato di esaminarne e regolarne il funzionamento e la gestione? Ma è un tema che riguarderebbe pure gli altri Enti bilaterali (anch’essi spinti tantissimo), e ne riparleremo un’altra volta.

La quarta ed ultima riflessione è anch’essa strettamente collegata alla terza ed è che usciti dal mondo del corporativismo (che in alcuni settori, neanche tanto mascherato, sussiste ancora) se un’associazione è fonte di lucro perché non far nascere associazioni come funghi? Ci sono tanti vantaggi, dal dumping contrattuale alla gestione di enti bilaterali farlocchi o di enti formativi altrettanto pretestuosi, ma in grado di convogliare interessantissimi fiumi di denaro. Nuove associazioni, che vanno ad  erodere un pezzettino di torta ad associazioni di categoria più tradizionali (ma sempre tutti con le mani nella torta stanno). Ma stiamo forse dicendo che le associazioni di categoria sono “il male”? No, nessun manicheismo e massimo rispetto dei ruoli. È che le associazioni di categoria (e lo stesso potremmo dire per le associazioni del lavoratori) a dispetto di tanto parlare sulla libertà sindacale, sulla responsabilità sociale, sulla rappresentanza etc. possono sostanzialmente fare ciò che vogliono (e lo fanno…), ricevono considerevoli spinte (come nel caso che ha dato il pretesto per queste righe, ma che è solo un piccolissimo esempio) spesso anche sotterranee, non particolarmente visibili, insomma non sempre brillano per specchiata gestione e trasparenza (anche quando della trasparenza  si cerca di farle, posticciamente, garanti). Tutto qui. Una qualche riflessione la meriterà prima o poi tutto questo, no?

 

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Senza filtro – IN PIEDI, entra la Corte

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

La locandina era posizionata su un cavalletto in legno sistemato all’ingresso della grande sala del Palazzo della Giustizia. Una semplice ma elegante scritta nera su sfondo bianco avorio recitava
1° Simposio Mondiale dei Sistemi Giuridici e Giudiziari
6 gennaio – 26 gennaio 2048 Sala congressi
Un incontro importantissimo, previsto ai massimi livelli, dove i più grandi esperti del settore si sarebbero confrontati sulle esperienze giuridiche dei rispettivi paesi discutendo dei vari Ordinamenti Giuridici, ossia l’insieme delle norme vigenti in uno Stato che regolano la vita di una comunità, l’organizzazione interna dello Stato e tutto ciò che riguarda i rapporti giuridici tra organi dello Stato e membri della collettività, ma anche dei diversi Ordinamenti Giudiziari, ovvero l’insieme delle norme volte a disciplinare le funzioni e i ruoli dei soggetti preposti a curare l’amministrazione della giustizia.
La scelta della sede congressuale era caduta sul Bwandwa, una piccola nazione del centro Africa nata giusto vent’anni prima, il 26 gennaio 2028, dalla inevitabile frantumazione di uno dei tanti stati i cui confini erano stati tracciati con il righello tra il 1880 e l’inizio della prima guerra mondiale, senza tenere conto delle etnie che in quei territori vi vivevano. Una scelta, la sede del convegno, operata soprattutto per l’altissima qualità del sistema giuridico di questo paese dove tutto pareva funzionare a meraviglia: le leggi, l’amministrazione pubblica, la giustizia.
In verità nessuno sapeva bene il perché di tale eccellenza e questo aumentava l’interesse per la relazione dell’esperto bwandwano che avrebbe concluso la kermesse.
Gli interventi dei relatori si erano susseguiti rapidamente nel fitto calendario di tre settimane e i lavori erano ormai prossimi alla conclusione. Avevano parlato quasi tutti i rappresentanti delle culture giuridiche più antiche di mezza Europa. Nella mattinata conclusiva era stato calendarizzato l’intervento del relatore italiano, il sottosegretario al Ministero della Giustizia. L’anziano politico sistemò per bene sul leggio una decina di fogli, alzò lo sguardo verso la platea e inforcò un paio di occhiali neri dalle spesse lenti. La voce uscì affabile ma al contempo forte e decisa.
Questa la sintesi dell’intervento come fu riassunta da un quotidiano italiano. Carissimi colleghi, il sistema italiano, e su questo non nutro alcun dubbio, deve considerarsi il migliore al mondo. Partiamo dall’iniziativa legislativa che la nostra Costituzione prevede spetti a più soggetti: Governo, Parlamentari, Corpo elettorale, Cnel e Consigli regionali. Tale varietà di attori consente di dare voce alle diverse sensibilità presenti nella nostra comunità. Al contempo impedisce che un solo organo possa legiferare e farsi quindi portavoce esclusivamente di ciò che più gli interessa o, peggio ancora, più gli conviene. Relativamente alla approvazione delle leggi, oltre alla discussione nelle varie commissioni parlamentare, è previsto un doppio passaggio, Camera e Senato, grazie al quale, a mezzo emendamenti, è possibile dare voce ai dissidenti e operare eventuali correttivi. Sulle leggi vi è poi il controllo del Capo dello Stato, che ne è l’assoluto garante. Anche la gestione nell’applicazione delle norme offre varie garanzie, in quanto i vari organi della Pubblica amministrazione, chiamati ad applicarle, possono emanare direttive, circolari e rispondere alle richieste di chiarimenti tramite lo strumento dell’interpello. Contro le loro decisioni definitive è possibile presentare ricorso ad un apposito Tribunale Amministrativo e in secondo grado al Consiglio di Stato quale giudice dell’appello. Eventuali prevaricazioni della legge sono infine gestite da un sistema giuridico molto articolato. Sono previsti due gradi di giudizio nel merito della questione: processo di primo grado e processo di appello, detto anche di secondo grado. Queste decisioni possono sempre essere impugnate per ragioni di legittimità avanti la Corte di Cassazione che può riformare la sentenza o rinviarla a diverso giudice. Altro particolare rilevante è che tutte le norme sono soggette al giudizio di conformità alla nostra Costituzione che spetta alla Corte Costituzionale i cui eletti sono tra i massimi luminari del diritto.
Seguì un vivace e piccato dibattito, soprattutto con alcuni esponenti della cosiddetta common law, durante il quale il relatore ribadì con forza la convinzione che il sistema italico restasse comunque il migliore. Dopo un break, dove fu offerto un rapido rinfresco a buffet a base di piatti locali, i lavori ripresero con l’intervento conclusivo del relatore di casa, il Presidente del Consiglio Supremo dei Giudici presso il Tribunale di Bwandtown, la capitale della Repubblica democratica del Bwandwa.
Il dottor Robert Zindwan si alzò da una delle poltrone della prima fila e salì con passo agile la scala che lo portò rapidamente al centro del palcoscenico.
Era un signore prossimo alla cinquantina, di bell’aspetto, capelli corti e ricci. Una evidente brizzolatura alle tempie dava risalto a due occhi grigi su cui trionfavano delle scure sopracciglia ad evidenziarne lo sguardo penetrante e magnetico. Elegante nel portamento e curato nel vestire senza però quell’ossessiva ricercatezza tipica di chi crede più nell’apparire che nell’essere. Un tipo assolutamente carismatico. Sistemò il microfono del leggio, alzandolo di un buon venti centimetri visto che tra lui e il relatore che l’aveva preceduto c’era una evidente differenza di altezza. Ruotò lo sguardo da sinistra a destra ad accertasi di avere l’interesse di tutti. Con un colpo di tosse richiamò l’attenzione di alcuni che ancora confabulavano tra loro. Abbozzò un mezzo sorriso fingendo di scusarsi per non essersi allontanato per tempo dal microfono. In platea in molti notarono che con sé non aveva alcun appunto. Chiaro che non avrebbe letto un testo preparato a tavolino. Un fatto assolutamente inusuale in incontri di questo livello ma proprio il parlare a braccio avrebbe dovuto far intuire lo spessore di quell’uomo. Si schiarì la voce e con un tono cordiale in un inglese fluido, senza alcuna riconoscibile inflessione regionale, cominciò. «Benvenuti cari amici, devo dire con grande sincerità che ho molto apprezzato i vostri interventi. La vostra storia, la storia dei vostri ordinamenti giuridici è secolare. A tutti i vostri sistemi riconosco la volontà, l’assoluta buona fede nella ricerca e il perseguimento della assoluta equità e della massima giustizia possibile. E peraltro è proprio dai vostri studiosi e dalle vostre esperienze che abbiamo attinto a piene mani per pensare ex novo il nostro sistema giuridico, amministrativo e giudiziario.»
Una breve pausa per risistemare il microfono. Non che fosse necessario ma serviva alla prima delle pause del suo intervento che aveva previsto nella sua mente.
«Quando la nostra nazione ha conquistato la propria autonomia ci siamo posti una serie di domande e, in primis, quale fosse la miglior forma di governo per i cittadini. La prima opzione che valutammo fu la democrazia. Un sistema che però mostrava chiari limiti, bene evidenziati, più di due millenni fa, da Platone secondo cui governare è un’arte, proprio come lo è la medicina: così come il malato non può che farsi assistere da una persona professionalmente adatta e dalle conoscenze assodate, lo stesso vale per l’arte del governare per la quale pochi hanno la giusta attitudine per gestire la “cosa pubblica”. Un rischio quindi affidare il governo dello Stato alle masse, visto che si andrebbe ad attribuire un potere immenso a chi non ha le capacità per gestirlo. Gioco forza quindi, secondo il filosofo greco, rinunciare alla democrazia per optare, se non proprio per una oligarchia, per l’altra forma di governo, l’aristocrazia, intesa come una forma di gestione dello Stato affidata agli “àristoi”, i migliori.»
Un sorso d’acqua per una seconda pausa che doveva servire a consolidare nella mente dei presenti questo primo messaggio ovvero far credere che quello sarebbe stato a suo tempo il sistema prescelto.
Sistema ovviamente fallace in quanto a rischio di democrazia.
«Ma a noi non piaceva l’idea di una aristocrazia al comando, il potere messo nelle mani di presunti migliori, che potrebbero peraltro non rivelarsi tali. E che questo avvenga molto spesso ce lo insegna la storia, anche quella più recente.
E infatti il problema è: chi li sceglie i migliori? Altri migliori? E questi “altri” scelti da chi? E poi cosa potrebbe impedire ai migliori di scegliere se stessi in quanto migliori di altri? La cosa evidentemente era troppo pericolosa.» Si accarezzò il mento. Un altro arresto per lasciare il tempo che tutti rispondessero alla domanda e concludessero che si fosse davanti ad un vicolo cieco.
«Quale soluzione quindi? Per trovarla ci siamo domandati che cosa impedisca alle masse di essere loro stesse parte dei migliori. Come avere una democrazia dove vi sia un popolo di migliori che possa eleggere i migliori? La risposta fu semplice: eliminare l’ignoranza.» Notò sui visi dei presenti serpeggiare una certa perplessità. Tutto come previsto. «Ci siamo anche posti delle domande su un concetto che è alla base di ogni democrazia:
“La legge è uguale per tutti”. Ma come attuare veramente questa che appare come una folle utopia? Cosa fa sì che una legge, una amministrazione, un sistema giudiziario, non creino disparità nell’applicazione dei diritti, che non neghino ad alcuni diritti che, ad altri nella medesima situazione, sono riconosciuti?
Quale soluzione perché una legge non venga scritta male ed applicata peggio? Anche in questo caso la risposta che ci siamo dati fu la stessa: eliminare l’ignoranza.» Altra provocazione e brusio in aumento. «Ma ci è venuta alla mente anche un’altra massima che sento citare spesso, credo in Italia.
“La legge non ammette ignoranza”.
Un precetto che dovrebbe rivolgersi non solo ai cittadini ma anche a chi li governa. Devi conoscere per scrivere una legge; devi conoscere per applicarla; devi conoscere per giudicare correttamente.
Ma soprattutto devi anche fare in modo che il cittadino sia messo in condizione di comprendere le leggi che scrivi. E come arrivare a questo? La risposta non cambia: eliminare l’ignoranza.»
Un signore in prima fila rivolgendosi al collega seduto a fianco lo definì un illuso sognatore. Esattamente ciò che il dottor Zindwan aveva immaginato.
«Per questo abbiamo puntato tutto sulla istruzione, di uomini e donne, vecchi e bambini. L’istruzione finalizzata innanzitutto ad una proprietà di linguaggio nell’espressione, sia di pensieri che di concetti, totalmente scevra della possibilità di fraintendimenti e al contempo correlata ad una capacità assoluta di comprensione dei messaggi. L’istruzione finalizzata alla cultura giuridica. Il tutto con grandissimi benefici sia nei rapporti umani ma soprattutto per il sistema legislativo, amministrativo e giudiziario e, di conseguenza, per il benessere di tutti i nostri concittadini.»
Si concesse una pausa fingendo di aver bisogno di allentare il nodo della cravatta. «Questo nostro approccio comporta dei benefici in primis nei rapporti Stato-cittadino. Dalla chiarezza delle norme consegue infatti che ognuno sa esattamente cosa può fare e cosa non può fare. Ha piena contezza di quali sono i suoi diritti e i suoi doveri, nei confronti degli altri e della comunità in generale. Sa bene quali sarebbero le inevitabili conseguenze di una eventuale violazione delle regole che ci siamo dati. E questa consapevolezza del cittadino rappresenta al contempo un vantaggio e un beneficio per lo Stato in termini di sicurezza e legalità. Vi ricordate cosa scriveva Cesare Beccaria in un fulminante paragrafo del suo Dei delitti e delle pene dal titolo “Certezza ed infallibilità delle pene”? Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più terribile ma unito alla speranza della impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre più gli animi umani. Sintetizzando possiamo dire che quando la macchina della giustizia funziona a dovere ciò porta inevitabilmente ad una diminuzione dei reati.»
Bevve un altro sorso mentre si gustava le reazioni dei presenti.
«Sia chiaro, questo processo non è stato né semplice né veloce. C’è voluto tanto impegno. Ovviamente, inizialmente, siamo dovuti scendere a dei compromessi con quella che era la nostra idea finale di ordinamento giuridico. Per qualche tempo abbiamo avuto un sistema ibrido, in parte molto simile a quello che voi ancora oggi adottate. Un regime transitorio che però, ve lo confesso, è durato molto meno del previsto.
Oggi, grazie all’impegno di tutti, abbiamo un legislatore in grado di emanare norme chiare, esattamente corrispondenti alle idee ispiratrici, compresa l’aderenza ai principi costituzionali contenuti in una Carta costituzionale formata da pochi articoli ma di una chiarezza assoluta, non diversamente interpretabili.» Ancora pausa. Lasciò che la curiosità prendesse il sopravvento sulle perplessità prima emerse. Ed assestò un nuovo colpo.
«Vi sorprenderà ma noi non abbiamo previsto una Corte costituzionale, perché la Costituzione propone principi limpidissimi e le norme vi si adeguano perché il nostro legislatore non se ne può discostare. Le questioni di legittimità costituzionale, ove ve ne fossero, vengono affrontate e risolte dallo stesso giudice di prima cura.»
Ormai aveva in pugno l’attenzione di tutti. «Allo stesso modo la pubblica amministrazione sa esattamente come applicare le norme. Non c’è bisogno di circolari esplicative, ma solo quelle, indispensabili, di tipo tecnico-applicative. Non ci sono specifici tribunali amministrativi a cui appellarsi perché i provvedimenti sono sempre aderenti alla legge, ciò grazie al fatto che le norme sono scritte in modo chiaro e puntuale. Da noi i provvedimenti della pubblica amministrazione sono sempre conformi alla legge.»
Appoggiò le lunghe dita sul bordo del leggio, quasi ad accarezzarlo. Tutto era apparecchiato per il colpo di grazia.
«E pure il potere giudiziario gode di questi benefici e quindi appare molto snello. I tribunali sono tutti monocratici, non è previsto alcun grado d’appello. Tutte le sentenze sono conformi alle precedenti, non vi è possibilità di discostarsi, semplicemente perché tutte aderiscono perfettamente ai principi giuridici generali.
E tanto meno esiste una Corte di Cassazione, e ancor meno delle Sezioni Unite, perché le sentenze sono tutte conformi alle norme, sia nel merito che nella loro legittimità.» Questa notizia, questa precisazione, investì i presenti come uno tsunami.
«Intuisco la vostra preoccupazione che in un sistema come il nostro il cittadino sia alla completa mercé di un giudice. Questo accade perché tutti voi siete convinti che solo un doppio o un triplo grado di giudizio possa tutelare un imputato o un richiedente giustizia.
Ciò è vero solo in parte.
Proviamo infatti a ragionare insieme. I gradi di giudizio successivi al primo sono fatti per correggere eventuali errori commessi in primo grado. L’appello nel merito dovrebbe essere una eccezione, non la regola. Anche una verifica sulla legittimità della sentenza dovrebbe essere un fatto raro, rarissimo. Ditemi ora, quante delle vostre cause si fermano al primo grado di giudizio? Quante vanno in appello? Quante arrivano addirittura in Cassazione? Quante volte le Sezioni Unite della Cassazione hanno dovuto ricomporre il contrasto sulla soluzione di una questione giuridica decisa in modo opposto dalle singole sezioni semplici?
Ricordate cosa ho appena detto: se qualcuno si rivolge ad un nuovo e diverso tribunale è perché crede – o così dovrebbe essere – di aver subito un torto e spera in un giudice, per così dire, più attento.
Ma è proprio nel momento in cui il giudice dell’appello ribalta una sentenza di primo grado che si palesa la fallacità di un tale sistema. Se con due sentenze, prima si dà ragione ad una parte e poi gli si dà torto, significa che uno dei due giudici ha sbagliato ad applicare la norma alla fattispecie. E questo o perché la norma è scritta in modo equivoco, prestandosi quindi a opposte letture – e la cosa è di una gravità assoluta – oppure uno dei due giudici l’ha interpretata male o secondo il proprio sentire o volere. In questo caso il problema è ancora più serio perché parliamo di una palese incapacità a svolgere il proprio lavoro. E vi pongo la questione in termini ancor più brutali: affidereste mai la vostra richiesta di giustizia ad un giudice che ha appena sbagliato in toto una precedente decisione?» L’affermazione era di una forza assoluta. Si stavano mettendo in discussione principi consolidati da secoli. E di ciò il dottor Zindwan era perfettamente consapevole.
«Mi spiego meglio. Se tutti i giudici avessero l’identica preparazione nel comprendere e nell’applicare una norma – dando come ovvio presupposto che questa sia stata scritta in modo ortodosso – il giudice dell’appello emetterebbe la medesima sentenza di condanna o di assoluzione.
Se così fosse, nessuna parte avrebbe più interesse a presentare appello nel merito o un ricorso sulla legittimità sapendo che la sentenza di primo grado verrebbe confermata. E ciò porterebbe, quale processo naturale, alla inutilità e alla dismissione dei Tribunali dell’appello.» Il ragionamento non faceva una piega. Qualcuno in sala pregustava una obiezione, un “però” che fu subito spazzato via. «Ovviamente non siamo degli sprovveduti e abbiamo considerato la, pur remota, possibilità che un giudice possa sbagliare a decidere. In questo caso è ammessa la segnalazione ad un Collegio del Riesame, composto da 3 saggi che riesaminerà la decisione e, se riterrà che il giudice ha sbagliato, avvierà un procedimento disciplinare al termine del quale, ove venisse accertata la negligenza, rimuoverà il giudice dalle sue funzioni.» Nascose un sorriso di autocompiacimento bevendo un altro sorso d’acqua. «So bene a cosa state pensando. E se il Collegio del Riesame sbagliasse a sua volta? In questo caso il giudice rimosso dalle proprie funzioni potrà presentare un ricorso al Consiglio Supremo dei Giudici, composto questo da 7 saggi, che nel caso accertasse l’illegittimità del provvedimento di rimozione procederà a reintegrare il giudice e a rimuovere dalle funzioni tutti i Giudici del Riesame, sostituendoli a loro volta. Permettetemi ora un poco di leggerezza ed una battuta: è la paura di perdere il lavoro il miglior deterrente a lavorare al meglio. Un regola che, peraltro, dovrebbe valere per tutte le professioni e in tutti i rapporti lavorativi.» L’intervento era prossimo a concludersi. Mancava il colpo finale. E lo assestò.
«E sapete quante decisioni sbagliate di giudici monocratici abbiamo avuto negli ultimi 3 anni? Zero. Lo ribadisco, zero.»
Un rappresentante di uno stato asiatico si alzò in piedi e abbozzò un applauso. Lo scroscio che ne seguì fu impressionante. Forse non furono esattamente i 92 minuti di applausi riservati al ragionier Fantozzi di lontana memoria per la battuta sul film la Corazzata Potëmkin ma di certo qualcosa che ci assomigliava parecchio.
Il giudice Zindwan fu l’ultimo ad abbandonare l’aula Congressi.
Guardò le pareti in legno scuro abbellite da splendidi intarsi in stile etnico di artisti locali e adornate da quadri ad olio raffiguranti tutti i centosettanta padri fondatori. Si fermò su quella di un uomo dagli occhi neri e profondi, lo sguardo magnetico.
La targhetta apposta sotto il quadro citava Ahmad Zindwan – 1960 / 2047.
Eh sì. Se ne era andato da pochi mesi. Guardò il padre e sottovoce sussurrò: “Abbiamo fatto un gran bel lavoro, che dici?” Il sorriso con cui era stato immortalato il genitore gli parve un cenno di assenso. Percorse il corridoio che divideva le due lunghe file di sedie fino a pochi istanti prima occupate dai congressisti. Arrivò alla porta, ne afferrò la grande maniglia in ottone e la tirò un poco a sé. Il suo sguardo si rivolse per un’ultima volta verso il palco. Ben visibile sulla parete centrale di quello che una volta era il Tribunale Supremo compariva ancora in bella vista quella scritta che riassumeva tutta la filosofia di quello splendido, grande paese africano. Era un aforisma di un italiano, apparso giusto 25 anni prima, a marzo 2023, sulla rubrica Senza Filtro della rivista online Sintesi dei Consulenti del lavoro di Milano.
Suo padre l’aveva letto durante un viaggio di piacere nel capoluogo lombardo e ne era rimasto affascinato.
Ne rilesse il testo e sorrise compiaciuto.
“OGNI CITTADINO HA DIRITTO
AD ESSERE GIUDICATO PER CIÒ CHE LA NORMA DISPONE E NON PER
COME UN GIUDICE LA INTERPRETA”.

 

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Senza filtro – LE MICROIMPRESE, I LAVORATORI OCCASIONALI E LA SICUREZZA: che pasticcio Bridget Jones!

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

“Tutti quanti voglion fare il jazz…” cantavano gli adorabili micetti de “Gli Aristogatti”. Parasfrasando, oggi tutti vogliono parlare di sicurezza. Intendiamoci, la sicurezza sul lavoro è un argomento talmente serio che sembra perfino pleonastico ribadirne l’importanza. E che se ne parli è un bene, così come capita spesso anche in questa Rivista ad opera di memorabili autori. Il campanello d’allarme scatta quando parlare di sicurezza diventa cool, quasi fosse un passaggio obbligato di qualsiasi manovra o riflessione (insieme ai giovani, alle donne, alla parità di genere, alla conciliazione vita lavoro e a temi simili, che meriterebbero, per dirla con il jingle pubblicitario in voga un tempo, “fatti, non parole”). Ancor peggio quando la sicurezza viene presa a scusa per inserire qua e là norme che magari con la sicurezza c’entrano poco.

Né vale l’obiezione che, in fondo, tutto c’entra con la sicurezza, che come concetto non sarebbe nemmeno tanto lontano dal vero, peccato però che in questo modo, a ben pensarci, quella che poi si svilisce è proprio la sicurezza vera, reale, concreta e la giustizia, che è figlia dell’equità e della ragionevolezza. Così discettano di sicurezza quelli per cui la sicurezza è stata spesso tragica merce di scambio contrattuale, quelli che dalla sicurezza si sono tenuti ben lontani perché “sono sempre questioni complicate”, ovviamente ne trattano i talebani della sicurezza (che non sanno che il radicalismo ottuso di qualunque genere è il peggior nemico del credo che si vuole difendere) e anche coloro che nella sicurezza vedono un ulteriore spunto per appioppare sanzioni e collezionare relativi punteggi-efficenza. Insomma, come è detto l’argomento è cool ma talmente cool che non si capisce perché, numeri alla mano, alla fine sono sempre troppi quelli che ce lo rimettono (il cool ).

L’occasione per riaffrontare il tema – perdonateci se sarà in chiave un po’ complessa e sfaccettata – è data dalla nota n. 162 del 24 gennaio 2023 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in tema di art. 14 del D.lgs. n. 81/2008. Com’è noto l’art. 14 è quello che prevede il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale in accertamento della carenza delle condizioni di sicurezza e comunque qualora sia riscontrata una certa percentuale di lavoratori in nero. Tale articolo 14 è stato a lungo rimaneggiato, quasi a voler far apparire (ogni volta) tutta la serietà e la determinazione del legislatore di turno a reprimere il datore che non garantisce ai lavoratori condizioni sicure. Repressione che ci sta tutta, diciamolo, ma con il giudizio e la misura che sono opportuni in ogni dove (anche se il giudizio e la misura sono argomenti silenziosi, non fanno immagine, non suscitano sensazione).

La nota Inl n. 162/2023 è, diciamolo subito, assolutamente ineccepibile e contiene un principio indiscutibile che valorizzeremo più avanti: indipendentemente dalla percentuale di lavoratori trovati in nero e dalle esclusioni del caso (che poi analizzeremo), se sussistono “gravi violazioni di natura prevenzionistica” (“ivi comprese la mancanza del DVR e della nomina del RSPP”) la sospensione dell’attività va sempre adottata. Quindi anche in caso di microimprese con un  solo lavoratore, senza altri dipendenti, in assenza delle condizioni di sicurezza, si applica la sospensione.

A questo punto però, a rischio di esser pedanti, è opportuno un po’ di cronostoria (tranquilli, recente).

Cominciamo con la versione originale dell’art. 14 in questione (la norma è dell’aprile 2008, siamo nel TUSL, Testo Unico Sicurezza sul Lavoro, meglio noto come 81/2008) che prevede la sospensione dell’attività di impresa in due casi:

  • l’impiego di personale in nero in misura pari o superiore al 20% del personale presente sul luogo di lavoro;
  • reiterate violazioni in materia di sicurezza da parte del datore di lavoro.

Soffermiamoci un attimo sulla percentuale: la norma introduce una presunzione assoluta di pericolo laddove in un posto di lavoro siano presente almeno 1/5 di lavoratori senza arte nè parte (cioè non denunciati – e quindi si suppone anche privi di formazione, DPI etc.), senza contare che per una profonda connessione fra sicurezza sul lavoro e sicurezza sociale (anche questo è un tema che riprenderemo) non è che si respiri un così grande benessere in un’azienda con una parte del personale impiegato in modo pressappochistico (per usare un eufemismo). Pochi mesi più tardi (siamo nel settembre 2008) la Direttiva Sacconi in materia di ispezioni1 (priva di applicazioni normative immediate, ma importante ed illuminata norma di indirizzo) riporta in materia quanto segue (l’evidenziazione in grassetto è a nostra cura).

“Quanto alla sospensione della attività d’impresa, peraltro, sembra opportuno un richiamo sulla opportunità di adottare tale grave provvedimento, penalmente sanzionato in caso di inottemperanza con la pena dell’arresto fino a sei mesi, in maniera tale da non creare intollerabili discriminazioni, ma anche in modo da non punire esasperatamente le microimprese. In questa prospettiva la discrezionalità dell’ispettore nella adozione del provvedimento dovrà limitarsi esclusivamente alla verifica della sussistenza dei requisiti di legge e delle condizioni di effettivo rischio e pericolo in una ottica di tutela e prevenzione della salute e sicurezza dei lavoratori. (…) D’altro canto, per quanto concerne la percentuale di lavoratori “in nero”, si ritiene che nella micro-impresa trovata con un solo dipendente irregolarmente occupato non siano di regola sussistenti i requisiti essenziali di tutela di cui al Decreto legislativo n. 81 del 2008 idonei a sfociare in un provvedimento di sospensione”.

Nell’art. 14 delle microimprese non si era mai parlato, ma a questo punto qualcuno comincia a chiedersi cosa vorrà mai significare questo passaggio criptico. Che poi a leggerlo bene così criptico non è, in altre parole la direttiva dice all’ispettore: “sospendi quando ci sono fondate ragioni di sicurezza mancante, e per l’applicazione della percentuale di lavoratori in nero guarda che nella microimpresa, ove basta ci sia un solo lavoratore per sforare la soglia (si parla di lavoratori presenti) usa il discernimento e in mancanza di altri elementi la condizione di pericolosità non darla per presupposta con la rigida applicazione della percentuale”. Anche tutte le disquisizioni dell’epoca su come identificare questa misteriosa microimpresa non avevano ragione di esistere, c’è un concetto ben preciso di microimpresa nella legislazione europea: “impresa con un numero di dipendenti inferiore a 10 e il cui fatturato o totale di bilancio annuo non superi 2 milioni di euro”. Lo spirito etico e saggio, credo ormai sepolto, che animava la Direttiva Sacconi era, lo dice la direttiva stessa, ispirare le azioni di vigilanza, e di conseguenza sanzionatorie, ad un criterio sostanziale (di repressione delle reali fattispecie a rischio) e non meramente formale (dare multe e provvedimenti a raffica, sulla base di violazioni non significative e burocratiche).  Il passaggio citato della direttiva non piacque a tanti (compreso non pochi nel corpo ispettivo) cosicchè la classica manina inserì poco tempo dopo all’art. 14 un comma, l’11/bis (oggi comma 4), che svilì del tutto il significato di quanto sopra, concedendo benevolmente che “ Il provvedimento di sospensione nelle ipotesi di lavoro irregolare non si applica nel caso in cui il lavoratore irregolare risulti l’unico occupato dall’impresa”. Il che è una doppia stupidaggine: primo perché l’indirizzo ministeriale aveva uno scopo ben differente (mentre qui vi è un’interpretazione di microimpresa così fantasiosa da far invidia ai Fratelli Grimm), secondariamente perché, se il problema è la sicurezza, ben sarà meno sicuro un dipendente di un’azienda sconosciuta e non consapevole dei suoi obblighi (e che quindi non ha messo in piedi nulla in termini di sicurezza – che è poi il concetto che la nota n. 162/2023 Inl dice in buona sostanza) rispetto ad una che invece tali obblighi ben li conosce, o dovrebbe conoscerli, in quanto già applicati per altri dipendenti.

Saltando qualche passaggio storico intermedio, veniamo alle recenti modifiche intervenute nell’art. 14, ad opera dell’art. 13 del D.l. n. 146/2021, analizzandolo nell’ultima versione, secondo le quali l’Ispettorato adotta2 la sospensione:

  1. in presenza di gravi violazioni (qui è stata tolta la necessità che siano reiterate, ed è anche giusto: prevenire non vuol dire aspettare il morto e poi intervenire la seconda volta, ma magari salvare tutti prima);
  2. quando siano stati trovati lavoratori non regolarmente denunciati in misura pari o superiore al 10 per cento (non più 20) dei lavoratori, per contare i quali si fa riferimento anche ai lavoratori autonomi occasionali (vedi D); C) per il calcolo della percentuale si fa esclusivo riferimento ai lavoratori “presenti al momento dell’accesso ispettivo”; D) viene inoltre inserito l’obbligo di comunicazione preventiva dei rapporti di lavoro occasionale.

Sulla schizofrenia dell’art. 14 latest edition, a parte altre considerazioni, ci soffermeremo sui punti B-C (in stretta connessione) e D, elencati in precedenza.

Ma non prima di aver fatto una considerazione; parliamoci chiaro, il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale costituisce una forte leva deterrente in mano all’ispettore, che se trova qualcosa che non va (magari un rapporto di lavoro di cui si contesta la natura, e su cui si potrebbe discutere) con la sospensione mette in difficoltà l’azienda (pensate ad un negozio sotto Natale, ad uno Studio, in forma di STP, in periodo di scadenza, ad un’azienda con lavorazioni a ciclo continuo), molto spesso nella valutazione puramente economica se pagare a denti stretti o ricorrere, la bilancia pende sulla prima scelta perché la seconda (per tempi e rischi) sarebbe ben meno conveniente. E proprio per questo è stata tolta qualsiasi discrezionalità all’ispettore, per proteggerlo: anche di fronte alla sospensione più inverosimile, al provvedimento di minor buonsenso, egli potrà sempre nascondersi dietro alla “obbligatorietà dell’atto dovuto”.

Una società sempre più rigida sotto il profilo normativo-burocratico è tuttavia una società inumana, ingessata, incapace di discernimento vero; poi appare inutile discutere sugli eventuali inconvenienti dell’affidamento di compiti alla “non intelligente” intelligenza artificiale, se predisponiamo in modo che anche le persone si muovano in modo automatico ed irresponsabile. E in ogni caso, sia detto con tutto il rispetto e la considerazione verso gli ispettori ed il loro compito, forse a proteggerli dovrebbero esserci norme chiare ed efficaci e buona formazione, non rigidità.

Passando ai punti B-C di cui sopra, la percentuale, come visto, si è dimezzata, penalizzando ancora di più la microimpresa (che, ricordate, avrebbe dovuto essere un po’ salvaguardata).

Eh sì perché ad un’azienda sino a 10 dipendenti (prima 5) basterà avere un lavoratore “un po’ così” (anche senza essere di Genova) per incappare nella sospensione.

Pensate ad una libreria che sotto Natale utilizzi per qualche giorno un lavoratore occasionale per confezionare i pacchetti-regalo e che gli sia sfuggita la necessità di comunicazione o che, del tutto ingenuamente, abbia tenuto in nero per quelle due settimane un proprio amico o parente a dare una mano; è del tutto evidente il deturpamento delle più elementari norme di diritto e di sicurezza che porta giustamente l’infame libraio, che palesemente mette a rischio la vita dell’amico “pacchettista”, nelle fauci della sospensione. Beninteso: la maxisanzione sul lavoro nero comunque è applicabile, e ci sta tutta, perché il lavoro nero (qualsiasi lavoro in nero) semplicemente non deve esistere, ma qui stiamo parlando di un’altra cosa, di un provvedimento di sospensione dell’attività che perde qualsiasi connotato con un’esigenza di sicurezza, diventando quasi un bis in idem.

In quella percentuale vi è poi una palese seconda ingiustizia, cioè la precisazione che la percentuale si conta sui lavoratori “presenti al momento dell’accesso”: per cui la differenza (per il raggiungimento della percentuale, diventata mero automatismo bieco) la può fare anche il fatto che uno o più lavoratori siano malati quel giorno, che qualcuno sia uscito per fare una consegna, che qualcuno sia in pausa, che qualcuno sia in permesso 104 o donazione sangue !!! Non sembra anche a voi che questa aleatorietà sia tutto tranne che qualcosa di equo e ragionevole? A svantaggio di tutti, ma, ancora una volta, mettendo a rischio soprattutto l’azienda con un numero esiguo di dipendenti.

Una piccola notazione: con notevole buonsenso la circolare Inl n. 3/2021 prevede che in caso di mancanze specifiche in tema di sicurezza (es. mancata formazione, mancata fornitura dei DPI), il provvedimento di sospensione possa essere adottato solo nei confronti dei lavoratori trovati “sprovvisti” (ovviamente con diritto a retribuzione e contribuzione per il periodo di sospensione). Anche la circolare n. 162/2023 richiama l’allontanamento del lavoratore senza provvedimento formale di sospensione dell’attività.

A questo punto, la logica potrebbe essere questa: sospendere tutti i lavoratori in qualche modo interessati da gravi violazioni in materia di sicurezza che ne mettano a rischio (in vario modo) l’incolumità, senza applicazione di percentuali (di fatto superate dai successivi interventi sulla norma) che poi, come detto, non servono a molto se non a fare cassa e a rafforzare forzosamente l’azione ispettiva.

Passiamo ora al punto D ovverosia all’inserimento nell’art. 14 dei lavoratori autonomi occasionali, ove il legislatore ha superato se stesso. Cominciamo con una piccola autoaccusa: la proposta di denuncia preventiva del lavoro autonomo occasionale è partita dal nostro Centro Studi dei consulenti del lavoro milanesi3. Gli scopi e le prospettive della nostra proposta, che prevedeva anche un’assicurazione previdenziale4, sono stati colti molto molto parzialmente, ma soprattutto il legislatore e chi lo segue, oltre a valorizzare solo la parte per così dire buro-sanzionatoria della proposta, dimostrava una notevole e reiterata mancanza di coraggio. La norma veniva infatti inserita all’interno dell’art. 14 del TUSL, dove c’entra come i cavoli a merenda; non si capisce se tale inserimento sia stato dovuto alla pusillanimità del legislatore di turno (che ha riparato il nuovo adempimento dietro il solito “lo esige la sicurezza”) o ➤ se, peggio ancora, si sia voluto far passare una norma tutto sommato amministrativa come un ulteriore passo verso la sicurezza (in mancanza di altri e ben più importanti passi). L’inserimento di tale adempimento nell’art. 14, tuttavia, ne depotenziava del tutto la portata, in quanto (lo ammette la nota Inl n. 29 dell’11 gennaio 2022) in tal modo esso si riferiva solo “ai committenti che operano in qualità di imprenditori”, mentre il fenomeno del lavoro autonomo occasionale, spesso abusato, richiedeva ben altra perspicacia di intervento. Ma la timidezza dell’intervento, gli aggiustamenti delle “manine” delle lobbies e degli interessi vari non finivano lì: con la nota in questione e con due successivi interventi (Nota n. 109 del 27/01/2022 e nota n. 393 del 01/03/2022), Inl riduceva ulteriormente l’ambito di applicazione della comunicazione, dalla quale rimanevano via via esclusi: i professionisti, gli Enti del terzo settore e le ASD, gli enti pubblici non economici, le prestazioni di natura intellettuale (fra cui ITL ricomprende, ma solo a titolo esemplificativo: le traduzioni, le guide turistiche, le consulenze scientifiche, le docenze ed attività formative, i progettisti grafici etc.) che, come tutti sanno, non sono soggette ad alcuna forma di elusione degli obblighi tipici del lavoro dipendente sotto lo scudo formale del lavoro occasionale5. Ma ancor peggio, l’errore marchiano dell’inserimento di tali prestazioni fra i lavoratori dell’art. 14 è che esso è del tutto eccentrico rispetto alla struttura stessa del D.lgs. n. 81/2008, in quanto l’autentico lavoratore autonomo occasionale non è ricompreso nella definizione di lavoratore di cui all’art. 2 ed è escluso dal computo dei lavoratori di cui all’art. 4 del D. lgs. n. 81/2008 (ai sensi della lettera i) dello stesso articolo). Ad esso semmai andrebbe applicata, in quanto esecutore di contratto d’opera, la normativa di cui all’art. 26 del TUSL.

Insomma, ritorniamo alla logica, condivisibile, della nota Inl n. 162/2023: la sospensione prevista dall’art. 14 del TUSL ha lo scopo nobilissimo di preservare i lavoratori qualora non protetti da adeguati presidi di sicurezza. Volendo pertanto applicare questo concetto integralmente e a 360 gradi, la finalità non deve pertanto essere quella di collezionare sanzioni, di rafforzare come deterrente posticcio l’attività ispettiva, di massacrare la piccola impresa con percentuali che permettono in concreto di sanzionare quasi sempre solo quella. Perché poi – in fondo il vero interrogativo è questo – in tema di sicurezza, parlare solo di sanzioni e sanzioni e sanzioni davvero aumenta la cultura della sicurezza sul lavoro e la coscienza del suo valore?

E già che si siamo, parlando di microimpresa, una piccola notazione va comunque fatta anche alla nota Inl n. 162/2023, quando sostiene che la mancanza di DVR e della nomina del RSPP (che ovviamente nell’azienda senza dipendenti non verranno trovati) automaticamente determina la sospensione dell’attività. Da tempo tutti gli operatori equilibrati ammettono che la struttura complessa dell’81/2008 mal si concilia con aziende di ridottissime dimensioni, specie per attività a basso rischio. Allora se si vuole promuovere la sicurezza e non fare cassa, sarà meglio posare la mannaia e riflettere seriamente sul concetto della Direttiva ispezioni: sanzionare e reprimere violazioni sostanziali, non concentrandosi sugli aspetti meramente formali. Il che un minimo di discrezionalità e di discernimento lo richiede, dal legislatore giù giù fino all’ultimo ispettore. O continueremo ad avere – come ora – una sicurezza sulla carta e, quindi, di carta.

 

  1. Direttiva del Ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali del 18 settembre 2008.
  2. Si noti che è stata eliminata qualsiasi discrezionalità: l’ispettore oggi adotta e non, come in precedenza, può adottare la sospensione; se il legislatore forse supponeva che gli ispettori non
    avessero capacità di discernimento o non fossero in grado di prendersi responsabilità non è che
    avrebbe fatto fare loro un figurone; ma, come vedremo, lo scopo è un altro, e ben preciso.
  1.  Cfr: A. Asnaghi, “Una proposta al mese- Lavoro Autonomo Occasionale: perche non regolarlo meglio?” in Sintesi, settembre 2020, pagg. 32-34.
  2. Abbiamo detto in premessa che sicurezza sul lavoro e scurezza sociale sono due fattispecie che
    vanno a braccetto, tanto che l’insicurezza dovuta alla mancanza di tutele assicurative o la precarietà
    sono elementi che sempre più spesso sono ritenuti fonte di stress negativo nel rapporto di lavoo; anche solo sotto il profilo sicurezza, pertanto, davvero scellerato non aver colto il senso della proposta, che peraltro era esplicito (non ci voleva un Leonardo da Vinci, bastava leggere): una norma anti elusione fiscale e previdenziale.
  3. Si è prospettata così una visione  “cantieristica” del contratto d’opera, che invece, restando ormai abbastanza residuale nelle prestazioni manuali e operative, ha una sua precisa ragione di esistere soprattutto nell’ambito di quelle intellettuali (alle quali si applica anche l’art. 2222 c.c. e che condividono con le manuali lo stesso trattamento fiscale e la stessa insipienza dal punto di vista assicurativo-previdenziale.

 

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Senza filtro – L’UOMO SEDUTO sulla riva del fiume

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

In paese l’aria era insolitamente elettrica.

Il Governo aveva annunciato la predisposizione di un disegno di legge che avrebbe fissato a 9 euro orari il salario minimo.

Quella sera al Bar de la Cadrèga, storico locale del centro, pareva si fossero dati appuntamento in molti. Dai due habitué del bianco corretto si era ben presto arrivati ad un gruppo di una quindicina di persone sedute attorno a quattro tavolini che gli avventori avevano via via avvicinato.

Come sempre c’erano gli entusiasti a prescindere e quelli contrari per partito preso. Ma questo, si sa, accade in tutte le classiche discussioni da bar, quelle dove non può mancare chi afferma di saperne più di tutti, che poi non è detto che non ne sappia veramente più di tutti.

Peccato che nel mare magnum del “voi non capite un cavolo” era difficile distinguerlo.

 

FAUSTINA, LA SINDACALISTA

La Faustina manco a dirlo era la più entusiasta. Dopo mille battaglie passate nel Sindacato fra qualche mese, finalmente, avrebbe visto emanato l’atteso provvedimento che avrebbe dato dignità al lavoro. Finalmente i padroni, gli schiavisti, avrebbero pagato il giusto ai lavoratori, che con lo stipendio da fame mica potevano tirare avanti ancora per molto, soprattutto dopo la crisi pandemica e quella energetica causata dalla guerra ancora in corso.

 

LUIGI, L’ARTIGIANO

Il Luigi era invece preoccupato. Il suo crescente nervosismo era scandito dal tamburellare di indice e medio sul tavolo.

Era da qualche anno divenuto titolare di una piccola impresa di pulizia ereditata dalla madre scomparsa all’improvviso. Aveva già le sue belle preoccupazioni di tener in piedi la ditta, occuparsi della contabilità, dei preventivi, di incassare le fatture e pure di gestire quell’unico operaio che, padre di famiglia, non si era proprio sentito di lasciare a casa.

Poco ma sicuro che in questo marasma lui non si sentiva di certo uno sfruttatore.

Spiegava che aveva fatto due calcoli con il suo commercialista e l’adeguamento ai 9 euro lordi previsto dallo Schema di decreto gli sarebbe costato 3 euro in più all’ora. Maledizione, già faceva fatica ad applicare ogni anno gli aumenti Istat di qualche punto decimale, chissà come avrebbero ora reagito le sue aziende di fronte ad un aumento di oltre il quindi per cento.

 

SANDRA, LA MANAGER

La Sandra lo aveva guardato con un sorriso tristemente accondiscendente.

Lei era la manager di un’azienda un po’ più strutturata, una sessantina o poco più di lavoratori. Pure lei non era affatto tranquilla. I calcoli se li era fatti da sola. L’aumento previsto per legge avrebbe riguardato per il momento solo i dipendenti inquadrati agli ultimi due livelli della scala contrattuale. Sette lavoratori nel suo caso.

Purtroppo, questa cosa avrebbe, presto o tardi, causato un effetto domino su tutti i dipendenti. Il rinnovo contrattuale, ormai imminente, avrebbe rideterminato le retribuzioni anche dei livelli superiori. Conosceva bene il meccanismo: le parti sociali, una volta individuata e fatta 100 la nuova retribuzione del livello di riferimento, avrebbero calcolato gli altri minimi sulla base di una scala di riferimento – i cosiddetti parametri – così da mantenere proporzionalmente invariata la differenza retributiva tra un livello ed un altro. Con il vincolo dell’ultimo livello a 9 euro l’ora. Del resto, l’articolo 36 della Costituzione non lascia via di fuga: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro …” e se uno svolge una mansione “qualitativamente” superiore a quella di un lavoratore inquadrato in un livello inferiore, mica si può accettare passivamente che il suo lavoro risulti costituzionalmente sottopagato.

GIANCARLO, L’OPERAIO

Il Giancarlo, operaio qualificato in una piccola realtà artigianale, invece stava già affilando le armi. Il livore era evidente.

In dieci anni non aveva mai avuto il meritato aumento, periodicamente richiesto e sempre “cortesemente” negato, e dal provvedimento del Governo non avrebbe tratto alcun beneficio. Giancarlo i 9 euro all’ora li superava di già, sebbene di poco. Eh no, assolutamente no. Non avrebbe mai accettato che lui, da sempre operaio di 4° livello, che prima prendeva un euro abbondante in più del suo collega di 5° livello, prendesse in pratica lo stesso stipendio di un operaio generico.

Stavolta il suo capo non avrebbe potuto dire di no alle sue legittime pretese di aumento. Se trova i soldi per pagare uno che manco sa stringere un bullone a maggior ragione li dovrà trovare per chi sa quali sono i bulloni giusti da stringere.

Così almeno sperava in cuor suo.

 

GINO DE LUCA, IL SINDACO

Il sindìc De Luca (no, nessuna parentela illustre) era al suo secondo mandato consecutivo. Il suo comune era stato tra i più floridi della provincia fino a qualche anno prima. Poi la crisi dell’unica grande azienda che di fatto dava lavoro, an che come indotto, ad una gran parte dei suoi concittadini aveva creato una certa apprensione. I proprietari stranieri parlavano sempre più apertamente di delocalizzazione. Troppo alto e non più sostenibile il costo del personale dipendente in Italia.

E ci mancava solo il nuovo Governo che, anziché ridurre il costo del lavoro, aveva sposato l’indicazione comunitaria del salario minimo. Al fine di migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’unione, recita la direttiva europea.

Già, diteglielo alle 724 persone, e rispettive famiglie, che fra qualche mese avranno perso il proprio lavoro e vivranno di pane e ammortizzatori sociali.

 

DON CASIMIRO, IL PARROCO

Don Casimiro era un ottimista di natura. La sua parrocchia pullulava di persone perbene. Il concetto di solidarietà cristiana, poi, era molto radicato nella comunità. Grazie ai tanti volontari era pure riuscito a creare una piccola mensa per i poveri, per lo più extracomunitari.

Certo, sapeva bene che l’aumento del costo di uno dei fattori della produzione, nella fattispecie quello del personale, avrebbe creato un meccanismo inflattivo e quindi un aumento generalizzato dei prezzi al consumo. Ma pareva non preoccuparsene più di tanto. La sua inscalfibile fede lo sorreggeva in ogni istante della sua esistenza. Dio vede e provvede. E se il Padre fosse stato impegnato in cose più urgenti, sapeva che i suoi parrocchiani, grazie ai soldi in più del salario minimo, non avrebbero fatto mancare il loro prezioso aiuto.

 

LUDOVICO, IL PENSIONATO

Il Ludovico era un pensionato di vecchia data e come tutti i pensionati tirava a stento campare. Si augurava solo di arrivare a fine mese senza un nuovo imprevisto: la recente rottura del semiasse del suo vecchio Pandino lo aveva già messo in croce. A ottant’anni appena compiuti nessuno doveva spiegargli nulla. Sapeva bene che in una situazione di aumento dei prezzi c’è sempre qualcuno che se ne approfitta.

E lui, con la pensione che percepiva, mica poteva permettersi un aumento della spesa mensile, anche fosse solo di una qualche decina di euro. E l’idea di passare da volontario alla mensa dei poveri di don Casimiro ad esserne il prossimo fruitore non lo faceva dormire la notte.

 

MARISTELLA, LA MILITANTE

La Mary era una che leggeva tanto e seguiva tutti i vari talk show politici.

Si interessava con ardore di questioni economiche e da brava militante si arrovellava a elabora- re tesi ed a cercare dati a sostegno delle posizioni del suo partito.

A chi le chiedeva come fosse possibile che qualcuno avesse pensato di aumentare il netto in busta dei lavoratori caricando sul datore di lavoro l’ennesimo balzello, lei rispondeva che bastava guardare alle positive esperienze fatte nel mondo in tal senso.

Lei peraltro era per interventi ancora più radicali. Sosteneva che il prossimo passo doveva essere la riduzione dell’orario di lavoro mantenendo la parità di stipendio. La settimana corta, quattro giorni di lavoro, diceva che non avrebbe inciso sulla produttività  dei dipendenti, anzi sarebbe    pure migliorata. E a chi bollava tutto questo come l’ennesima boutade, inapplicabile a molte mansioni, in primis agli addetti alla catena di montaggio, lei replicava sempre allo stesso modo: «Basta guardare a ciò che succede nel resto del mondo».
E se poi qualcuno si azzardava a dire che son tutti bravi a fare della “beneficenza elettorale” con il denaro degli altri, rispondeva stizzita che fino ad oggi la beneficenza l’han fatta gli operai alle aziende. E a chi bollava tutto questo come l’ennesima boutade, inapplicabile a molte mansioni, in primis agli addetti alla catena di montaggio, lei replicava sempre allo stesso modo: «Basta guardare a ciò che succede nel resto del mondo».  

OSCAR, IL CONSULENTE

Oscar è un Consulente del lavoro, attento giuslavorista e acuto osservatore.

Se ne stava zitto in un tavolo vicino ad ascoltare. Non ne voleva sapere di entrare nella discussione politica. La cosa lo annoiava o, meglio, lo infastidiva. Desiderava solo gustarsi in santa pace il suo Spritz.

Del resto a lui preoccupavano di più gli aspetti tecnici del salario minimo. Ragionamenti che, per gli ovvi limiti dei suoi interlocutori, aveva scelto di tenersi per sè.

Fin dalla prima proposta sul salario minimo aveva pensato all’attuale sistema retributivo che si basa sulla distinzione tra lavoratori retribuiti a ore e lavoratori mensilizzati. E aveva impiegato meno di mezzo nanosecondo per capire che ci sarebbero stati dei problemi. Dei seri problemi. Del resto, lui era solito ragionare dati alla mano, guardando la realtà. Esattamente il contrario di quello che fanno i politici quando pensano ai loro provvedimenti.

Aveva quindi preso in mano il calendario del 2023. Nel mese di febbraio aveva contato 28 giorni, 4 settimane giuste giuste.

Ragionando sulla cosa pensò: «Ecco, avessimo un lavoratore pagato ad ore, che lavora dal lunedì al venerdì e che ha un orario settimanale di 40 ore, per lui sarebbero 160 ore di lavoro. Se bisogna garantirgli 9 euro lordi all’ora la sua paga in quel mese sarà di 1.440 euro».

Girò la pagina con il mese di marzo: «Quanti sono i giorni lavorabili? 23. Se consideriamo 8 ore al giorno fanno 184 ore lavorate. Il suo stipendio in questo mese sale a 1.656 euro».

Tutto questo non faceva una piega: se uno lavora di piu’, e’  giusto che prenda di piu’.

Il problema – pensò – nasce però per i mensilizzati che, come tutti sappiamo (tranne chi legifera di salario minimo), ricevono sempre la stessa paga. Il Ccnl prevede 1.500 euro? Il lavoratore prenderà 1.500 sia a febbraio che a marzo, anche se a marzo avrà lavorato ben 24 ore in più.

«Lo so» – disse tra sé e sé – «non ha alcun senso logico, ma questa è un’altra storia».

Ora è chiaro che se si deve ragionare in termini giuridici di salario minimo orario per un di- pendente mensilizzato non si può non considerare questo fatto: il diverso metodo di paga adottato per lui.

La conseguenza è che la retribuzione mensile di fatto – da riparametrare come detto all’importo del salario minimo di 9 euro stabilito per ogni ora di lavoro – dovrebbe partire da quei mesi in cui l’orario di lavoro è il maggiore possibile. E abbiamo visto che a marzo 2023 raggiungeremo addirittura le 184 ore di presenza.

Se quindi dobbiamo rispettare i 9 euro orari per chi ne fa 184 ore, lo stipendio dovrebbe essere di ben 1.656 euro, uguale a quello del suo collega pagato a ore.

Il problema è che se lo stipendio del mensilizzato fosse previsto da contratto in 1.656 euro per tutti i dodici mesi ci troveremmo a pagare anche febbraio questo importo. Considerando le 24 ore lavorative in meno di febbraio rispetto a marzo, parliamo di 216 euro oltre il salario minimo.

E questa cosa accadrebbe anche in altri mesi, sia in quelli in cui si lavora 160 ore (aprile) che an- che per i mesi in cui se ne lavora 168 (ad esempio dicembre) o 176 (vedi ottobre). Una soluzione che comporterebbe un aumento retributivo, su base annua, solo per i lavoratori pagati a mese – discriminando quindi i salariati orari inquadrati nello stesso livello – cosa che andrebbe oltre lo spirito della norma che invece mira ad un aumento della retribuzione su base oraria per tutti coloro che sono nella medesima situazione.

Andrebbe quindi trovata una diversa soluzione tecnica che vada oltre, riscrivendole, le modalità operative fin qui utilizzate in sede contrattuale di determinazione dei minimi mensili ed orari. Impensabile, infatti, proseguire con quel meccanismo che di fatto vorrebbe garantire – seppur  su base annuale (questo il limite) – il diritto alla medesima paga a lavoratori pagati ad ore e ai mensilizzati dello stesso livello ovvero calcolare lo stipendio mensile di questi ultimi partendo dai 9 euro orari, moltiplicarli per le 40 ore setti- manali, poi ancora per 52 settimane dell’anno e dividendo infine per 12 mesi.

Questo perché così si continuerebbe a riconoscere al mensilizzato uno stipendio mensile riferito a 173,33 ore medie (2080 ore annuali diviso 12 mesi) che comporterebbe che in alcuni mesi dell’anno (quelli che prevedono 176 o 184 ore lavorabili) non si rispetterebbe il minimo di 9 euro all’ora. E nulla varrebbe l’obiezione che, lavorando tutto l’anno, operai e impiegati godrebbero della medesima retribuzione. Il salario minimo individuato per legge è per definizione orario, non sono previste compensazioni su quanto percepito nei successivi mesi. Anche perché non è affatto detto che uno abbia il tempo – parliamo di licenziati in corso d’anno – di goderne.

Oscar, da bravo consulente “sul campo”, aveva valutato una possibile soluzione. Già, perché un’alternativa ci sarebbe pure, anche se forse de- finirla tale è un poco esagerato. La classica soluzione sulla pelle delle aziende e dei loro consulenti. Di quelle che peraltro vanno a cozzare contro la tanto sbandierata semplificazione.

In pratica, pensava, si potrebbe lasciare tutte le attuali retribuzioni come sono, anche quelle mensili sotto il limite virtuale dei 9 euro orari, e imporre per legge un adeguamento nel corpo del cedolino paga: tutto ciò che si colloca sotto il salario minimo lo si integra mensilmente con un emolumento economico ad hoc.

Ma anche qui i problemi non mancano. Applicando infatti questa regola a lavoratori pagati a mese ed assunti (o licenziati) in corso mese, il conteggio non è semplice se si considerano le attuali regole di determinazione della paga oraria secondo un divisore convenzionale, peraltro diverso da Ccnl a Ccnl. E altre difficoltà per i lavoratori assenti parzialmente nel mese (per malattia, donazione sangue, permessi legge 104) situazioni per le quali bisognerebbe peraltro rivedere le regole di calcolo delle quote a carico Inps, Inail e datore di lavoro. Senza contare che la busta paga diventerebbe praticamente illeggibile. Come se non lo fosse già abbastanza. E poi ci sarebbero i calcoli da fare per adeguare le mensilità aggiuntive, tredicesima e quattordicesima, dei mensilizzati.

Ma il problema è ancora più complesso perché c’è un ulteriore aspetto operativo da tenere in giusta considerazione.

Per i lavoratori pagati a ore infatti l’adeguamento ai 9 euro cosa è abbastanza semplice: di fatto si devono integrare le 2080 ore lavorabili annue erogando la differenza tra le attuali paghe sotto i 9 euro ed il salario minimo. Tutti i mesi andremmo a calcolare l’integrazione sulla base delle ore lavo- rate o, meglio, di quelle teoricamente retribuibili. Cosa non particolarmente difficile perché comunque si ragiona sulle ore lavorabili in ciascun mese. Per i mensilizzati la questione è invece più complicata perché non è detto che l’integrazione debba esser corrisposta in ciascun mese. Potrebbe infatti risultare che la retribuzione corrente sia, in base alle ore lavorabili in un dato mese, conforme al salario minimo orario. Per esempio una paga mensilizzata di 1.550 sarebbe più che adeguata nei mesi che prevedono 160 ore lavorabili. In questo caso il lavoratore percepirebbe quasi 9,69 euro all’ora, in pratica 110 euro in più al mese rispetto al teorico garantito di 9 euro per le 160 ore.

Ed anche nei mesi con 168 ore lavorabili avremmo una differenza positiva. La paga media scende a circa 9,23 euro ma parliamo pur sempre di altri 38 euro, che non saranno molti ma sono sempre soldi che un lavoratore ad ore non vedrà mai.

A marzo, a maggio e ad agosto invece le ore lavorabili sono 184 che, corrispondo a poco più di 8,42 euro orarie. Se devono essere pagate a 9 euro l’una, portano il dovuto a 1.656 euro. In questo caso spetterebbero 106 euro di integrazione mensile.

Non ci vuole un genio della matematica per capire che integrare le sole mensilità dove il conteggio offre un saldo a favore del lavoratore e lasciare invariato lo stipendio quando esso risulta superiore al salario minimo (procedere con dei recuperi in ciascuno di tali mesi sarebbe al- quanto macchinoso) comporta che il mensilizzato in un intero anno arriverebbe a prendere più di quello che percepisce un lavoratore dello stesso livello ma pagato a ore.

Ovvio che tutto ciò confliggerebbe con l’attuale sistema che vorrebbe che il lavoratore pagato a ore e quello pagato a mese, ove inquadrati nel medesimo livello, ricevano l’identica paga su base annua. Un sistema ad ogni modo iniquo nei confronti dei lavoratori mensilizzati che prestano l’attività in un mese piuttosto che in un altro. Ma questa, lo si sa, è un’altra storia.

 

ALBERTO, IL CANTASTORIE

Alberto, sforzandoci un po’, lo potremmo defi- nire un pubblicista. Si dice in giro che scrive per passione, in verità lo fa per assecondare il proprio spirito polemico.

Concentra per lo più i suoi commenti su quelle norme e circolari che considera strampalate. Praticamente sempre.

A volte raccoglie opinioni e sentimenti.

E oggi ha ascoltato i nostri amici. La Faustina e il Luigi, la Sandra e il Giancarlo, il sindaco De Luca e Don Casimiro, il Ludovico e pure la Mariastella. E infine lui, Oscar, il Consulente del lavoro. Di queste donne e di questi uomini ci ha raccontato uno spaccato di vita reale, le loro speranze e le loro preoccupazioni.

Non aggiungerà nessun personale commento ai discorsi che avete ascoltato.

Se ne resterà in disparte a riflettere, ad osservare gli effetti che avrà questa ennesima battaglia ideologica.

Rimarrà, come si dice, seduto lungo la riva del fiume ad aspettare che, prima o poi, passi … no, per carità, nessun cadavere di qualche nemico, come si augurava Confucio.

Attenderà semplicemente gli eventi, combattuto tra la soddisfazione di poter dire e la tristezza di dover ricordare: «E sì che io ve lo avevo detto!».

 

 

 

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Senza filtro – UN GIUDICE (racconto di fantasia)

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

L’ufficio del giudice Andrea Rossi era situato al primo piano della palazzina del tribunale. Anche se nuova e costruita da poco, gli uffici erano piccoli ed essenziali. Il giudice Rossi aveva una particolare predilezione per una sobrietà quasi maniacale, l’ufficio era pertanto spoglio, quasi triste, salvo gli inevitabili faldoni e le carte delle udienze, qualche codice e nulla più. L’unico segno personale era una cornice con la foto dell’amata moglie Graziella, prematuramente mancata, in un mese se l’era portata via uno di quei brutti mali, così brutti che si è sempre refrattari a chiamarli con il nome che hanno. Quella mattina, una mattina umida ed uggiosa, come solo sanno essere certe giornate grigie novembrine a Milano, nell’ufficio del Dott. Rossi, si stava iniziando una causa singolare. Il giovane Bruno Brunelli assistito dall’Avvocato Porfirio Rubicondo e accompagnato dalla madre, avevano fatto causa al noto Liceo Tibiletti rivendicando somme a titolo di rapporto di lavoro più danni da mobbing. A difendere il Liceo era presente un avvocato che aveva già passato la mezza età da un po’, il quale faceva del silenzio e di espressioni fra l’allibito e il patetico le proprie armi migliori contro le pretenziose rivendicazioni di controparte.

L’avvocato Rubicondo, giovane rampante del famoso Studio Associato DDP (Difensori Dei Poveri), noto per il perseguimento, fra le tante, di cause pilota ed impossibili, era agghindato non proprio da tribuno popolare, con un vestitino grigio attillato, di evidente e costoso taglio sartoriale, che rivestiva un corpo magro e stizzoso come l’avvocato, dotato di una voce fastidiosamente stridula e querula e di piccoli scatti nervosi a sottolineare i concetti che riteneva essere più importanti. Anche l’orologio al polso era il controvalore di parecchi stipendi medi, e d’altronde nello Studio non era così ampia la frequentazione verso quella povertà che, forse solo ideologicamente o per vezzo, si pretendeva di difendere. La madre del Brunelli, lo sguardo fra l’avido e l’assatanato, aveva il tono e l’atteggiamento di un tifoso del Barcellona in una finale di Coppa, incitava, interrompeva e sottolineava (mancava solo che fischiasse o che si mettesse a soffiare dentro una vuvuzela). “Vediamo – interloquì il giudice – qui abbiamo una causa un po’ particolare …”. “Nulla di particolare, signor giudice – interruppe subito il baldanzoso avvocato Rubicondo – come vedrà con piena evidenza, qui siamo davanti ad un classico caso di sfruttamento, sfrut-ta-men-to (e va già bene che il ragazzo è maggiorenne) unito ad un atteggiamento persecutorio oltre ogni limite immaginabile”. “Procediamo con ordine, avvocato. Come mai rivendicate un rapporto di lavoro con uno …studente di liceo?”.

“Perché il qui presente Brunelli è stato sottoposto a diversi compiti da collaboratore scolastico, invece che fare il semplice studente!” “Sì ho letto il ricorso, qui si dice che è stato costretto più volte a pulire l’aula, e qualche volta anche i servizi, nonché a riordinare più volte il laboratorio di fisica e a spostare i banchi”. “Esatto! E anche al di fuori dell’orario scolastico, per cui rivendichiamo giustamente anche gli straordinari!”.

“La posizione della scuola – osservò il giudice, l’altro avvocato annuiva – è che queste operazioni, peraltro non quotidiane, corrispondevano a delle mancanze della classe, e del Brunelli in particolare, e che le operazioni in questione entravano in un concetto educativo e di formazione al rispetto…”.

“Tutte scuse signor giudice – interruppe nuovamente l’avvocato – leggiamo cosa dice il contratto collettivo a proposito delle mansioni del collaboratore scolastico (si, insomma, il bidello). Vede ? Riassetto dei luoghi di studio, pulizia straordinaria, spostamento dei banchi e delle masserizie scolastiche, tutte cose a cui il Brunelli è stato illegittimamente adibito!”.

“Hmmm, vedremo … E sul mobbing? Vedo accuse circostanziate”.

“Non v’è chi non veda – il Rubicondo si era improvvisamente avviluppato in una foga oratoria fuori luogo – il disegno persecutorio perpetrato ai danni di questo povero giovane! Bocciato per ben quattro volte…” “Quattro volte, però!… Ma non è per caso che non studiasse?” il giudice tentò di interrompere la filippica, ma l’altro riprese. “… Ed esposto allo scherno ed al ludibrio dei compagni, con nomignoli umilianti! C’è anche la Clinica Faciloni che ha attestato stress psico-fisico e danni alla salute e vita di relazione, con tanto di certificati. E guardi, signor giudice, che il Brunelli, abbandonato disperato il liceo, in una scuola specializzata in soli otto mesi ha recuperato quattro anni raggiungendo la maturità con successo, con spese ingenti della famiglia!” (la madre annuiva con veemenza mugugnando qua e là qualche “già, uno scandalo, un’indecenza!”; solo il ragazzo sembrava avulso da tutto ciò…).

Il giudice aveva letto il ricorso e sapeva che il miracoloso recupero era avvenuto ad opera del noto centro (faceva pubblicità anche in qualche tivù) Successi Subito s.p.a., che a fronte di rette costosissime avrebbe promosso anche il gatto dei vicini con la media dell’otto. Peraltro, il Brunelli era uscito con tutti sei, praticamente con una spinta clamorosa o, come dicono al Bar Sport, con un calcio nel sedere. “Vorrei parlare col ragazzo” – disse il giudice. Bloccò la madre che aveva preso fiato per prendere la parola. “Ho detto col ragazzo, senza interruzioni, se possibile. Dunque vediamo, Bruno, com’è andata la storia dei banchi e delle pulizie ?”

Il ragazzo cominciò timido ed impacciato “Eh.. insomma. Si mi han fatto pulire e spostare i banchi”…

“E come mai?”

“No, niente .. uhmm .. è che … insomma avevamo fatto un po’ di casino per una festa”. “Qui il liceo dice che avevate trasformato più volte l’aula in un porcile, e che avete giocato a pallone nell’aula di fisica rompendo e spostando tutto”.

“Sì ma lui che c’entra? “ sbottò la mamma. “Qui leggo che in ogni… in ogni casino, come dici tu, tu eri sempre nel mezzo, insomma una specie di artefice”.

“Eh uhmm ahhh sì, cioè no, è che .. a me mi piace poco studiare… avrebbi dovuto fare un’altra scuola, ma la mamma insisteva” (la madre fece una smorfia di disapprovazione). “Eh va beh – disse il giudice – ma spiegami: com’è che avevi quattro anche in educazione fisica? Lì non c’è molto da studiare, mi pare “. “Ce l’avevano con lui ! – interloquì la madre, ma il giudice la zittì con lo sguardo.

“Hmmm en… ehm , no, insomma … a me piaceva andare al bar o giocare con lo smartphone, ma il prof ci faceva correre e fare gli esercizi, una noia…”.

“Capisco” – disse il giudice. Ma mentre il giovane balbettava qualcosa, come in un rapido flashback al Rossi tornarono in mente gli anni del suo liceo e mille ricordi lo trasportarono al suo passato.

Tornando di colpo al caso, il giudice volle esplorare anche il resto. “Senti, leggo nel ricorso che qui i compagni ti hanno dato un soprannome”

“Uh .. eh .. ah …uhm sì, mi chiamavano con un brutto nome.” “Vuoi raccontarcelo?”,

“Mi chiamavano …il … il Capra – il ragazzo arrossì –“ per via che non capivo mai quello che spiegavano i prof”.

“Poverino- disse la madre – signor giudice, ma lei ha figli, sa che vuol dire provare pena per loro”?     No il giudice non aveva figli, lui e Graziella li avevano cercati tanto, poi si erano rassegnati, e subito dopo quella malattia che l’aveva portata via in un lampo …

“Ho capito, ma dimmi, c’erano altri soprannomi fra voi ?”

“Eh sì c’era Phantom, lo chiamavamo così perchè non veniva quasi mai a scuola, soffriva di una malattia rara, una malattia automunita”. “Si dice autoimmune” corresse pazientemente, sospirando, il giudice Rossi.

“E poi c’era Chiodino”.

“Chiodino?”

“Eh si, perché è proprio grasso…” – disse il ragazzo con un sogghigno.

Il giudice tirò un profondo sospiro. Chissà se a volte i ragazzi si rendono conto di quel che fanno. O forse in un gruppo di giovani i nomignoli sono un affettuoso segno di riconoscimento e di accoglienza, senza la malizia degli adulti. Che se invece di malizia si doveva proprio parlare, allora il ragazzo, che si lamentava del suo soprannome, ne usava di peggiori per un malato grave e appellava un altro compagno con quello che sarebbe oggi rubricato come body shaming.

“Lasciatemi un attimo, per favore. Uscite tutti, ho bisogno di riflettere”.

“Ma signor giudice – sbottò l’avvocato – non abbiamo ancora parlato del tirocinio!”.

“Va bene, va bene, avvocato, ho letto il ricorso”. Nel ricorso, la solita tiritera dello sfruttamento del tirocinio, che si aggiungeva alle richieste di riconoscimento del rapporto di lavoro. Ed in un’iperbole giuslavoristica, si sproloquiava pure di somministrazione illecita. Il tutto per una settimana di training (sapete, è l’alternanza scuola-lavoro, quella cosa che talvolta ha il sapore dell’improvvisazione ma che di per sé non è inutile, ti insegna alcuni meccanismi di comportamento e come stare al mondo, e iddio sa quanto a volte ce ne sia bisogno) presso una nota catena di paninoteche. Il giudice se lo immaginava, il Capra (ormai lo chiamava così anche lui nei suoi pensieri) a prendere ordinazioni confondendosi, o a pulire i tavoli; o forse, come faceva durante l’educazione fisica, a cercare di imboscarsi non appena poteva; e infatti, il giudizio al termine della settimana era stato “svogliato e disattento”. È che i quattro che prendi nella vita non sono come quelli scolastici, e non c’è nessun diplomificio Successi Subito a regalarti scorciatoie.

O forse no – un latente malessere esistenziale del giudice Andrea Rossi riaffiorò di colpo – forse a quelli come il Capra oggi si aprono strade impensabili un tempo, protagonisti di qualche idiota reality su un’isola strampalata o in mezzo ad una fattoria, e così diventati improvvisamente famosi, e pronti a discettare su tutto e tutti, opinion leader caserecci ed insulsi. O magari, perché no, una bella carriera politica, addirittura conquistando anche un ruolo importante, in quelle liste elettorali sempre più improvvisate e composte da personaggi di basso profilo, magari qualcuno anche volenteroso ma sostanzialmente tutti degli “scappati di casa” senza arte né parte. E non riusciva nemmeno a prendersela più di tanto col Capra, pensava agli altri, agli adulti di contorno, all’ambizioso avvocato Rubicondo, ai leader politici e alle loro liste fumose, alle Cliniche Faciloni ed ai loro giudizi tirati a casaccio (ma col dito maliziosamente puntato, spesso a sproposito), a quelli della Successi Subito s.p.a. maestri delle scorciatoie, all’isterica madre del Capra, al papà del Capra (ecco, dov’era il padre, così da impartire qualche meritato – sempre amorevole, eh – ceffone al figlio e fare da contrappeso all’invadenza petulante e distopica della madre?). Nel riflettere, il peso di un mondo a cui sostanzialmente sentiva di non appartenere più opprimeva le spalle ed il cuore del giudice Rossi. E lo appesantiva il non senso del suo lavoro, il discettare di cause strampalate come quella che si trovava di fronte, e intanto ingiustizie scorrevano nel mondo senza che nessuno le intercettasse.

Anche qualora avesse rigettato le domande attoree, come aveva intenzione di fare, che sarebbe successo se del ricorso si fosse occupato in appello il Carluzzi, quel collega che avrebbe dato un rene, forse anche due, per dar ragione alla cosiddetta parte debole sempre e comunque, a proposto e a sproposito. Perchè poi una sentenza anomala (ah no, ora si dice innovativa) fa sempre rumore, fa sempre curriculum, fa notizia, dà popolarità, ti fa entrare in giri che contano.

E già si immaginava il peggio: dopo il ricorso vinto col concorso del Carluzzi, la subitanea tronfia pubblicazione su qualche social media da parte della DDP: “Una sentenza esemplare, seguita brillantemente per lo Studio dal nostro partner Avv. Rubicondo”… e tutte quelle cose così, false e vacue, di immagine senza sostanza …

Fa niente se non si parla più di giustizia e di obiettività, fa niente se il settore si popola sempre più di persone che parlano di diritti senza avere il minimo concetto del Diritto, quello che una volta insegnavano nelle scuole vere, quello che coniugava equità e buon senso. Al di là della porta la voce stridula e fastidiosa dell’avvocato Rubicondo, che continuava a perorare la causa da solo, sembrava il perfetto contorno a questi pensieri,

Una solitudine opprimente, un senso di vuoto pervadeva da tempo il Rossi, e si ripresentò con veemenza, qualcosa che ti attanaglia lo stomaco e ti allappa la bocca. Il giudice, per cercare un’ispirazione o forse solo una caramella o un biscotto, tirò un cassetto della scrivania.

Maliziosamente, al posto del dolcetto sperato, apparve una rivoltella, un’arma dimenticata lì che il Rossi si era procurato tempo fa per difesa personale quando aveva ricevuto serie minacce per via di alcuni appalti di cui si era occupato (anche quelli, finiti in un nulla di fatto, lungaggini processuali fino in Cassazione mentre i felloni portavano ricchezze e nuove false identità all’estero). Ci sono momenti in cui la lucida follia non lascia più il posto alla poesia, in cui l’oppressione prende il sopravvento sulla speranza, lo sconforto sulla resilienza.

Momenti così… in cui Graziella, la giovinezza gli anni del liceo, gli ideali sembrano così lontani, e il Capra, il Rubicondo, una società senza padri e con madri così strampalate son lì a prendere il posto delle cose buone e giuste. E uno si sente infinitamente distante da tutto ciò, tanto che vorrebbe essere altrove, così altrove che piuttosto… nel nulla.

Lo sparo risuonò secco, amplificato dagli ampli corridoi del tribunale e sorprese i presenti. Tutto sembrò fermarsi per un attimo, lo squittio del Rubicondo, lo scalpiccio veloce degli avvocati e dei segretari, il brusìo di testimoni e imputati in attesa di esser chiamati, e, fuori, lo stridore dei tram sui loro binari, il clangore del traffico, il parlottare frenetico in mille cellulari e tutto il testo.

Ma fu solo per un momento. Quello che servì al giudice Rossi per andarsene dall’ufficio, attraversare di colpo gli astanti allibiti, immergersi nel grigio milanese che, uscito, non gli sembro poi così male. E con un senso di libertà, e la foto di Graziella sotto braccio, si allontanò dirigendosi altrove (forse al mare, dicono).

La pistola ancora fumante per il colpo sparato a salve – un segno di cambiamento, come il botto quando finiscono i fuochi d’artificio – riposava placida su due righe di dimissioni

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IL PUNTO – ERA ORA! Marina Calderone Ministro del Lavoro

Potito di Nunzio, Presidente del Consiglio dell’Ordine provinciale di Milano

La nostra Presidente Nazionale, Collega Marina Calderone, è stata nominata Ministro della Repubblica italiana con delega al Lavoro e politiche sociali. Complimenti vivissimi da tutti noi, Marina! Non devo raccontare ai lettori di questa Rivista chi è Marina Calderone, il suo passato lo conosciamo e siamo orgogliosi del coraggio che ha avuto nell’accettare l’incarico in un momento difficile come quello che stiamo vivendo.

Perché dico coraggio: perché muovere critiche al sistema è più facile; avere il coraggio (da tecnico) di mettersi a disposizione della nazione per cercare di cambiarlo (il sistema) è sicuramente più difficile e ci vuole davvero molto coraggio in un momento come questo e con questo clima di generale diffidenza e perché no, anche di odio.

Sono sfide importanti che le si presenteranno già dal giorno dopo l’insediamento. Dovrà condividere scelte difficili e qui ne elenco solo alcune:

  • Riforma delle pensioni
  • Salario minimo legale
  • Reddito di cittadinanza
  • Costo del lavoro.

Sono scelte sociali con forti risvolti economici. Certamente non potrà accontentare tutti e la mia speranza è che si smetta di ideologizzare il mondo del lavoro e si gettino le basi per una equa ripartizione delle risorse riprendendo il cammino dei doveri ancor prima che dei diritti e indirizzando le risorse verso coloro i quali possono creare ricchezza controllandoli efficacemente ma non con tecniche vessatorie. Gli aiuti a pioggia leniscono l’immediato ma non costruiscono nulla di buono per il futuro. Ci vuole una politica stabile che pensi al vero tessuto socio economico del nostro Paese  fatto di micro e piccole imprese, nelle quali l’operosità non manca anche se spesso viene limitata dall’eccesso di burocrazia e di adempimenti inutili. Una politica sociale che livelli le disuguaglianze senza creare sacche di inefficienza. In materia di occupazione bisogna eliminare gli incentivi disincentivanti, l’asfissiante cuneo fiscale, una politica di inclusione che consenta a tutti di lavorare con rafforzamento delle competenze che sono l’unica strada per combattere la disoccupazione strutturale consentendoci di essere competitivi con il resto del mondo.

Da parte nostra siamo sicuri che la nostra Presidente, ops! Il nostro Ministro del Lavoro (Marina ci permetterà “il nostro”) saprà muoversi con saggezza ed equilibrio.

A lei auguriamo ogni bene e il successo che merita. La competenza non le manca e l’esperienza neppure, inoltre sa di poter contare su 26.000 colleghi pronti a darle una mano. Ma la Categoria sarà altrettanto pronta a manifestarle il disaccordo se alcune scelte governative fossero non improntate all’equilibrio e all’equità.

Noi non le faremo mancare suggerimenti e proposte di semplificazione normativa perché è questo un altro grande obiettivo da raggiungere. Il mondo del lavoro è soffocato da eccessi di normazione, spesso contradditoria dove tutti possono dire tutto e spesso chi dovrebbe essere tutelato (il lavoratore) ne viene pesantemente danneggiato e scoraggiato nell’intraprendere qualsiasi azione perché sarebbe eccessivamente dispendioso in risorse fisiche, mentali ed economiche rispetto al diritto che vorrebbe aver tutelato. Inoltre, ci vuole una vera semplificazione della Pubblica Amministrazione, eliminando norme insensate che mettono in difficoltà qualsiasi operatore del diritto, magistrati compresi. Ricordo a tutti che il prossimo anno festeggeremo il centenario della legge sull’impiego privato anche se è stata totalmente stravolta da integrazioni e modifiche nonché da interpretazioni giudiziali che l’hanno resa obsoleta ma che comunque “tiene botta” cose si usa dire. Ma che si semplifichino le norme, abrogandole espressamente e non tacitamente; si riprenda a scrivere le norme con una tecnica legislativa degna di tale nome; si verifichi l’efficacia e l’applicabilità delle norme prima di emanarle; si smetta con il diritto “circolatorio” non degno di un paese civile che può vantare una storia di giuristi eccellenti che parte dalle codificazioni giustinianee. Cerchiamo di diventare un paese normale dove la semplicità entra nel fare quotidiano e che nessun ostacolo burocratico debba rendere infelici persone fisiche e giuridiche.

Un avvertimento però lo voglio dare a chiunque osi gettar discredito sulla nostra Categoria con illazioni e false notizie: sappiate che non solo ci difenderemo ma attaccheremo a testa bassa chiunque, perché il ruolo di noi Consulenti del Lavoro, che della legalità e della tutela dei deboli ne abbiamo fatto una bandiera, non deve essere minimamente messo in dubbio o in discussione, indipendentemente da quelle che saranno le scelte governative. Buttarla in caciara o creare discredito come qualcuno sta cercando di fare (vi prego di leggere, subito a seguire, il graffiante e condiviso articolo del Collega Andrea Asnaghi) non giova alla serenità che in questo momento tutti abbiamo bisogno.

BUON LAVORO MARINA

 

SENZA FILTRO 

Rubrica impertinente di PENSIERI IRRIVERENTI

UN MANIFESTO di stupidate

di Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

Il 21 ottobre 2022, in contemporanea con la presentazione del nuovo Consiglio dei Ministri, l’onorevole testata del Manifesto esce con un articolo di Massimo Franchi: “I tanti conflitti di interessi di Marina Calderone”, neo Ministro del Lavoro. Il breve articolo contiene una serie tale di imprecisioni, maliziosamente costruite ad arte, probabilmente per eccitare le menti sensibili di qualche lettore affezionato, che se non fossimo in una Rivista seria ma in un film di Fantozzi potremmo appellarlo come la Corazzata Potemkin. Fa specie che un giornale storico e dignitoso ricorra a mezzucci di tremenda disinformazione per conquistare, malamente, qualche interesse. Non entreremo qui nel merito degli attacchi personali a Marina Calderone e famiglia, che ha un profilo ed una capacità intellettuale perfettamente in grado di difendersi da sola contro certe insinuazioni, ma spiace particolarmente veder mettere in mezzo tutta una categoria con nozioni distorte, che rivelano la piena e palese incompetenza di chi le scrive (e quando non si sa di una cosa, sarebbe meglio discettare di altro, a meno che non si voglia semplicemente fare i … Franchi tiratori). Secondo l’articolista in questione, “negli ultimi decenni non c’è professione che abbia contribuito ad abbassare diritti e salari più dei consulenti del lavoro”, con una “propensione alla riduzione del costo del lavoro con qualsiasi mezzo” che addirittura si caratterizzerebbero per “mancanza di etica”. Ora, frasi simili non si giustificano (e difatti il nostro mica spiega il perché, siamo all’insulto libero) nemmeno dopo aver bevuto due litri di grappa fatta male in casa.

Se la professione di consulente del lavoro giustifica la sua esistenza e la sua dimensione ordinistica (lo dice la L. n. 12/79 e lo ribadisce il Codice deontologico) è proprio in funzione del ruolo delicato che viene svolto da questa attività, nel garantire che quanto riguarda adempimenti e gestione del personale sia svolto con tutti i crismi, garantendo etica e legalità. L’eventuale attenzione al costo del lavoro ed alla forbice di divario fra il netto al dipendente ed il costo finale per l’azienda è un problema comune a tutto il mondo del lavoro ed ampiamente dibattuto da qualsiasi parte sociale (sindacati dei lavoratori compresi) che si occupi seriamente e non un tanto al chilo (come il Franchi, quantomeno in questa occasione) di questioni occupazionali. Dopo una serie di illazioni sui rapporti fra la Calderone ed il mondo politico, che comunque contribuiscono a creare un alone preliminare di sospetto nell’ignaro lettore, ecco che parte la filippica contro i consulenti del lavoro che, tramite il loro Consiglio Nazionale, con vari interpelli minerebbero i diritti dei lavoratori su vari temi, come “gli appalti e la sicurezza” (ma se sugli appalti, la sicurezza e la legalità i consulenti di tutta Italia hanno fatto battaglie e proposte serie, perché non riconoscerlo? A chi diamo fastidio? O siamo solo tirati in mezzo per una critica ad un Governo che al Manifesto ovviamente non piace, così come legittimamente a molti altri?).

Beninteso: gli interpelli sono domande tecniche al Ministero del lavoro, che a sua volta fornisce risposte tecniche. Per cui al Ministero io posso chiedere qualsiasi cosa (cum grano salis, ovviamente), ma ciò che conta è ciò che risponde il Ministero, in linea con le norme vigenti (lo so che voi lo sapete, lo sto spiegando al Franchi che o non lo sa, oppure lo sa ma dice una cosa per un’altra). Secondo il Franchi, per il quale evidentemente le sciocchezze sono come le ciliegie (una tira l’altra) il Durc in edilizia (“in vigore dal 1° novembre 2021”) sarebbe “lo strumento principe per evitare le assunzioni post-datate in caso di incidenti”. Qui dobbiamo fare i complimenti al Franchi perché in due righe tante imprecisioni simultanee sono da Guinness dei primati. Il Durc in edilizia (e non solo) c’è da quasi 15 anni, quello che è entrato in vigore da poco è un particolare meccanismo di controllo che riguarda (sostanzialmente) i versamenti alle casse edili (il c.d. “Durc di congruità”) il cui meccanismo è talmente complesso e burocratico da suscitare parecchie giustificate riserve (tanto che quasi quasi giustifico anche il Franchi tanto non ci capisce nulla). E comunque non serve  ad evitare assunzioni post-datate, per quello da più di 20 anni c’è la dichiarazione di preventiva di assunzione. Preventiva vuol dire il giorno prima, Franchi, do you understand? Per cui se c’è un incidente e il lavoratore è in nero, il datore è (giustamente) nei guai. Un secondo interpello incriminato (e c’è stato) riguarderebbe la domanda (perché questo è un interpello, non è un’azione politica, è una richiesta di chiarimenti) sulla possibile esclusione dei dipendenti in smart-working dal computo dei dipendenti ai fini dell’assunzione di disabili. Per il disinformato Franchi “in pratica si usa il telelavoro per assumere meno disabili”. Guardi Franchi che la realtà è differente, in quanto attualmente il telelavoratore (che non è il lavoratore in smart-working, ma si vede che la confusione è una Sua specialità) è già escluso dal computo dei dipendenti ai fini della L. n. 68/99. Il dubbio se questa esclusione possa riguardare anche, per assimilazione, i lavoratori in smart-working era legittimo.

Vede Franchi, i consulenti del lavoro ragionano, si informano e chiedono (e poi rispettano la legge e le risposte del Ministero, in questo caso negativa); è una pratica differente da quella a cui forse è abituato Lei e certi suoi compari, per cui importante è fare caciara ed imbastire prove di forza per far passare ciò che si vuole, giusto o sbagliato che sia (anche se si pensa fastidiosamente ed acriticamente di esser sempre dalla parte del giusto). Infine, il Franchi si straccia le vesti per la richiesta dei consulenti del lavoro di poter accedere ai dati previdenziali dei lavoratori. Qui il pezzo va riportato per intero perché rischia di superare il Guinness appena conquistato poche righe prima. “In questo modo la categoria farebbe concorrenza – sleale – ai patronati dei sindacati ma – soprattutto – sarebbe in grado di poter consultare i dati con evidenti rischi per i lavoratori.

L’esempio limite rende però bene l’idea: se un’impresa di 15 dipendenti fosse in difficoltà finanziarie e decidesse di tagliare sul costo del lavoro, l’accertamento da parte dei Consulenti del lavoro che uno dei lavoratori sia vicino alla pensione, permetterebbe all’azienda di proporre una buona uscita in cambio delle dimissioni del lavoratore. Una mossa che porterebbe l’azienda a scendere sotto i 15 dipendenti con tutte le normative semplificate anche sui licenziamenti”. Santa pazienza, Franchi, ma le regole deontologiche dei Consulenti del Lavoro impongono un principio di competenza specifica, che vuol dire trattare di cose che si conoscono; non c’è una regola simile anche per l’Ordine dei Giornalisti, oppure un giornalista può dire liberamente cose a sentimento, anche senza saperne nulla? La richiesta dei consulenti, che personalmente condivido, è quella di poter trattare le pratiche previdenziali; i consulenti sono esperti e tanti lavoratori si rivolgono a loro, riconoscendone la competenza e la serietà. Concorrenza sleale ai patronati? E perché mai “sleale”? Se più soggetti possono offrire un servizio, che male c’è? I consulenti, peraltro, lo fanno con coscienza e obblighi deontologici (per esempio, se sbagliano pagano), i patronati lo fanno gratis (talvolta, mica sempre, e comunque in esenzione da qualsiasi imposta) e quando danno informazioni sbagliate (e lo fanno, oh se lo fanno…) va tutto bene. Ma comunque: anche i patronati (e figuriamoci i consulenti del lavoro, qualora potessero) non possono accedere alle posizioni di un lavoratore senza una delega specifica dello stesso. Ha compreso Franchi? Nessun gioco al massacro, chè se un lavoratore chiedesse di fare una proiezione per capire le proprie possibilità, magari ha interesse anche lui a comprendere come e quando può andare in pensione e se c’è un qualche incentivo per andare prima. Sa quanti dipendenti lo fanno? Magari sono stanchi di lavorare tanto quanto io sono stanco di leggere il Suo articolo pieno di imprecisioni, che per fortuna è finito qui. Ma davvero Lei, Franchi, ne sa qualcosa di lavoro e lavoratori?

Franchi, giusto per concludere. Questa non è una filippica osannante i consulenti del lavoro o Marina Calderone (che si è assunta un bel carico da 90 e tanti rischi). Errori o possibilità di miglioramento ci sono da tutte le parti, ma i consulenti del lavoro (il cui compito è aiutare i datori a stare nella legalità) senza legalità non avrebbero senso di esistere. Sono altri i soggetti, che i consulenti del lavoro combattono, spesso da soli, su cui puntare il dito, mi creda. Quindi niente peana sulla categoria. Ma solo la richiesta, sacrosanta, da qualcuno che di lavoro vive e sul lavoro parla con competenza ma sprattutto con passione: Franchi, parli di ciò che sa. E se vuole parlare di lavoro, cortesemente, prima si informi, due dritte, anche gratis, gliele diamo volentieri,

 

 

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Senza filtro -PIRATA È CHI PIRATA FA

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

PREMESSA (AVULSA DAL RESTO DELL’ARTICOLO)

Il Senza Filtro avrebbe voluto questo mese prendere in considerazione la vergogna, l’ignominia, l’abominio del meccanismo con cui è stato congegnato l’ormai celeberrimo “bonus dei 200 euro”. Dovessimo qualificarlo con termine assicurativo, peraltro, più che di un bonus dovremmo parlare di un malus, un sortilegio, un obbrobrio – prima giuridico, poi amministrativo e burocratico – inventato probabilmente come arzigogolo per fare impazzire consulenti del lavoro già stanchi di loro, stremati da anni di pandemia riccamente condita da idiozie normative. Il fatto è che tale disposizione è talmente sfuggente, labirintica, vacua e continuamente mutevole che è davvero difficile dirne qualcosa di sensato, specie pensando che il decreto cambierà ancora mille e mille volte, cercando di raddrizzare questa mala pianta nata da subito sotto il pessimo degli auspici. È un po’ come leggere un libraccio, uno di quei gialli intricati in cui lo scenario ed i personaggi cambiano continuamente e ti confondono, non già per la maestria dell’autore ma per la sua conclamata cialtroneria (e quindi in modo confuso e contraddittorio); come fai, non dico a capire chi sarà infine l’assassino, ma anche solo a raccontarne la trama? (E comunque mi dicono che l’amico e collega Albero Borella, da vero amante del brivido, si cimenta su questo numero a tentare di districare la matassa, con la consueta rara maestria che lo contraddistingue).

Per ora una sola cosa ci è chiara, e questa sola diremo: l’istituzione, da parte di Inps, del mese di “giuglio”, un mese che se lo guardi in un modo è giugno ma se lo guardi un po’ più inclinato è luglio, un po’ come quelle figurine a doppio riflesso, o stampa lenticolare che dir si voglia (chissà se, a questo punto, conseguentemente invece di fare un UniEmens istituiranno un DuEmens, dichiarazione bifronte). Vedremo (che Dio ci protegga. E anche che – sia pur  “leggerissimamente” – li strafulmini!). Fine della premessa, avulsa ma doverosa.

Oggi invece vorremmo prendere in considerazione i cosiddetti “contratti pirata”, quelle contrattazioni collettive, normalmente di non elevata rappresentatività, che sono così definite per alcune loro proprietà poco simpatiche. Noi dobbiamo forse intenderci prima sul termine di “pirata”, che troppo spesso nella letteratura  assume un significato nobile, di antieroe buono, simpatico e battagliero (solo formalmente dalla parte sbagliata) in nome di una qualche giustizia. A quelli della mia età (o oltre) sicuramente non sfuggirà il riferimento ai racconti di Salgari, Sandokan in testa ma anche il Corsaro nero (con tanto di figlia e colorazioni varie), generazioni successive hanno seguito l’astro-bucaniere Capitan Harlock o il Jack Sparrow della saga de “i Pirati dei Caraibi” (spero che a questo punto nessuno tiri fuori “Soy un pirata soy un senor” di Julio Iglesias).. Tuttavia, pirata ha un’accezione indubbiamente negativa: i film e i cd riprodotti illegalmente sono “piratati”, la pirateria informatica è quella che ti ruba le password o ti spara virus sul pc, chi si muove in un certo modo nel mondo della finanza è definito un pirata. I pirati del mare esistono anche oggi e molte navi cargo o da crociera se ne devono difendere (e non è mica così simpatico e romantico imbattersi in qualcuno che ti mitraglia senza troppi problemi).

Insomma, un pirata è uno che ruba, che uccide, che fa scorrerie, un fuorilegge, un bandito.

Ma parlando di contrattazione pirata, ecco intervenire subito il fine esegeta, il giuslavorista accademico, a sostenere in linea di diritto (con diverse buone ragioni, peraltro) che il termine “pirata” è, oltre che offensivo, del tutto improprio. L’art. 39 della Costituzione italiana sancisce l’assoluta libertà sindacale (e quindi di contrattazione)  e quindi in forza di ci  qualsiasi contratto avrebbe pari dignità di fronte alla legge. Se la legge volesse – come di fatto fa – condizionare benefici normativi o versamento della contribuzione al rispetto dei livelli di trattamento economico-normativo dei contratti costituiti da parti sociali di maggior rappresentatività, dovrebbe primariamente stabilire i criteri per come conteggiare e definire la rappresentatività. Ma siccome questo non viene fatto e rimane tutto in un sistema di confini incerti, parlare di pirateria contrattuale non si puo’ . Viviamo pertanto in una situazione di “entropia normativa” (la definizione è di un amico collega), una specie di notte in cui tutte le vacche sono nere, o bianche, o marroni, tanto è notte e ognuno vede il colore che vuole vedere.

Permettetemi una digressione, a questo punto. La nostra è una repubblica fondata sul lavoro. Ma anche se non fosse intervenuto l’art. 1 a dircelo graziosamente, la vita della maggior parte di noi è fondata sul lavoro, che occupa buona parte del nostro tempo e condiziona l’accesso delle persone alle risorse necessarie a condurre una vita libera e dignitosa (che è un diritto, come ci ricorda sempre la Costituzione). Qui interviene la legislazione sul lavoro, in Italia particolarmente corposa, la cui applicazione molto spesso per  poggia sulle declinazioni fatte dalla contrattazione collettiva. Che viene fatta dalle parti sociali. Che sono libere nel modo più assoluto e di cui non si puo’  valutare o regolare il funzionamento (se no che libertà sarebbe?) né la rappresentatività (perché le parti sociali “non ci tengono” poi così tanto a misurarsi).

Quindi, al di là di alcune norme confine basilari, questa cosa così importante che è il lavoro è regolata da ciascuno un po’ come gli pare. Ora, non si offenda il mitico Roberto Benigni, ma siamo arrivati ad un circolo vizioso in cui sostenere che la nostra Costituzione sia “la più bella del mondo” è un po’ azzardato (oltre che un tantino campanilista…). Ma alla fine, sapete qual è il problema vero? Che la legge vorrebbe far accedere alle agevolazioni contributive sono coloro che fanno le cose per bene, che hanno a cuore i diritti dei lavoratori. E pertanto guarda con disfavore chi i lavoratori li tratta meno bene. Per  ritorniamo da capo (chi decide chi tratta bene chi?). Tanto che qualcuno suggerisce che le agevolazioni siano concesse senza limitazioni, una specie di “tana libera tutti” (Paolo Conte canterebbe “libertà e perline colorate”). Qualcun altro invece propugna una legge sul trattamento minimo, per  siccome “lassù” di gente che capisce non ce n’è tantissima, le proposte sul valore dell’importo di questo trattamento minimo oscillano fra valori da fame – quindi assolutamente inutili – e valori altissimi, marziani, e quindi impraticabili; e peraltro si parla di trattamento minimo orario, cioè una cosa di vetustissima applicazione (e non facile comparazione)  rispetto ad un mondo del lavoro che sempre meno bada alle ore come misurazione del compenso. Se ne discute da anni. E i problemi aumentano.

Allora potrebbe essere interessante un criterio empirico, molto pragmatico, quasi forrestgumpiano: andare a vedere la quantificazione pratica di questo trattamento. Con un criterio abbastanza semplice. Pirata è chi il pirata fa. Chi mette le mani nelle tasche delle persone e/o dello Stato. Pirata è chi paga di meno e sfrutta. Se normalmente la contrattazione in voga ha una paga da 9 e tu dai 7, qualcosa non va. Pirata è chi evade, anche con mezzi pseudo-legali.

Ecco per  che tanti anni di letture salgariane cominciano a fare il loro effetto: il pirata in realtà si ribellerebbe a questo sistema marcio di cui quelli della “triplice” sono complici, quasi correi. E quindi la contrattazione pirata è una sorta di liberazione, un evadere dal maglio e dalle tenaglie di sindacati intrisi di potere e di connivenza col sistema. Come Sandokan contro il governatore James Brooke, rappresentante del potere di sfruttamento inglese attraverso la Compagnia delle Indie.

Ma qui vorrei introdurre ancora il tema che, tagliente come il rasoio di Occam, abbiamo posto a criterio. In tutto questo, chi ci guadagna e chi ci perde?

Perché a me piacerebbe vedere, davvero mi piacerebbe, una contrattazione minore (diciamo, meno rappresentativa) che avesse il coraggio di pagare non dico di più ma almeno tanto quanto quella che va per la maggiore, magari anche come trattamento complessivo. Una contrattazione che avesse a tema il welfare e la formazione, la sussidiarietà e la bilateralità (quelle vere, non di facciata o ancor peggio di business squallido1). Invece non è così, è drammaticamente il contrario: siamo onesti, ci sono contratti collettivi che devono il loro successo solo e soltanto al brutale risparmio in termini di costo del lavoro (cioè paghe minori). E attraverso di loro e con i meccanismi di esternalizzazioni più o meno azzardate il mondo del lavoro gioca al ribasso. Sulla pelle di chi  provate un po’ ad immaginare. Ecco la pirateria negativa. E se in un ultimo sussulto di pseudo dignità il pirata per giustificarsi) dovesse tirare fuori il costo del lavoro, lo Stato ladrone e sprecone, i politici etc etc. io chiederei: e quindi? Perché questo prezzo lo devono pagare i lavoratori? Quando e come siamo diventati una società che invece che progredire e cercare soluzioni intelligenti scatena meschine guerre fra poveri? E poi, che senso ha la proliferazione, anche fra le sigle maggiori, di così tanti contratti collettivi? Perché un contabile di un settore prende più o meno di uno che fa lo stesso lavoro in un altro settore? E la solidarietà sociale? Ah no, c’è la libertà economica.

Eh già, la libertà.

Alla nostra generazione, fin da giovani hanno insegnato che libertà non puo’  essere distinta dalla responsabilità, insomma che la libertà ha un prezzo da pagare se vuole essere dignitosa e non velleitaria o pretestuosa. Così ci dicevano che nessuno dettava i tempi e i modi per studiare (oggi, con lo smart working, anche per lavorare) bastava che i risultati arrivassero.  Anche perché,  se poi i risultati non arrivano, la libertà è solo un’occasione sprecata ed un pretesto per fare altro.

E allora se vuoi essere libero e dignitoso, paga bene e fai cose intelligenti senza abbassare tutele e stipendi.

Non discutiamo, va bene, su chi è pirata o chi no. Domandiamoci piuttosto se c’è un’etica pubblica e privata nel pagare poco e meno le persone che lavorano, nel generare enti bilaterali farlocchi, nel drenare risorse ed energie pubbliche e private.

È probabile, diciamolo en passant, che al vaglio di alcune di queste domande non sfuggirebbero nemmeno le parti sociali c.d. maggiormente rappresentative. Alle quali è riconosciuto un grande potere. E quindi hanno grandi responsabilità.

Torna ancora questa parola: responsabilità. E io mi chiedo, per fare qualche esempio, come si possa esser responsabili se da maggior forza sindacale (o presunta tale) dei lavoratori invece di promuovere contrattazioni collettive che individuino meccanismi di regolarità degli appalti si promuove un referendum (è successo nel 2016) per togliersi del tutto questa possibilità, d’altronde mai usata o tentata dal sindacatone nei dieci anni in cui è rimasta in vigore.

La complessità del mondo del lavoro è tanta e quindi ci si dovrebbe chiedere se è responsabile un approccio meramente ideologico alla legislazione sul lavoro, che ingessa il mondo del lavoro e con la sua rigidità apre la porta a vie di fuga disonorevoli, dal nero a fattispecie contrattuali improbabili.

Né riesco a capire le Centrali Cooperative, che attraverso il loro osservatorio costituito dalle maggiori organizzazioni sindacali, sono arrivate ad affermare che le cooperative spurie sono quelle che non applicano le contrattazioni maggiormente rappresentative (cioè le loro); niente di più illogico, le cooperative spurie sono quelle in cui i soci non partecipano direttamente ed attivamente alla gestione ed alle decisioni della cooperativa. E ce ne sono tantissime che pure sotto l’egida di una tessera o di una protezione politico-sindacale così autentiche non sono. E anche qui, chi ha la responsabilità della proliferazione di tanto sottobosco cooperativo?

Quindi tutto è ancora una volta marcio e siamo nell’entropia più assoluta? Niente affatto, diciamo che se nessuno pu  arrogarsi il diritto di ergersi su di un piedistallo e dare del pirata agli altri, se nessuno puo’  fare la morale, tutti possiamo usare il criterio di capire chi e come e quando qualcuno fa il pirata: quando rubi, imbrogli, ordisci, evadi, paghi meno sei un pirata. Se usi un contratto collettivo che ti fa risparmiare pagando meno i tuoi lavoratori, non importa quali buchi normativi abbia il sistema italiano: sei un pirata. Oppure chiamati come vuoi, semplicemente non sei una brava persona o una brava azienda E meriti tutti gli inciampi possibili sulla tua strada perversa.

Ricordando sempre, in ogni caso, che i pirati non viaggiano mai da soli, e che la complicità o lo strizzamento d’occhio ai pirati arriva da affaristi, politici e non ultimi, anche purtroppo da qualcuno del mondo professionale.

Comunque, alla fine, ragionando di pirati, un piccolo aggancio rispetto alla premessa avulsa di questo articolo  l’ho trovato. Perché di fronte a tanta astrusità normativa, sia quella dei 200 euro sia l’incapacità di governare le dinamiche salariali frenando le vie al ribasso, un moto di ribellione istintivo, quasi piratesco (ma nel  senso nobile) un po’ al consulente del lavoro viene. E certo non ci vedo entrare in qualche ufficio pubblico o istituzionale brandendo il kampilang 2 a mutilare funzionari spesso incolpevoli: ma qualche azione dissuasiva anche pesante contro una legislazione sempre più assurda  e inefficace sarebbe davvero doverosa.

Per  non confondiamoci mai: ribelli sì, ma coi pirati nessuna connivenza.

 

 

 

1.  Per il business squalliduccio, si puo’  far riferimento al Senza Filtro dello scorso numero, L’uomo che sussurrava ai professionisti.

2. Nella narrazione salgariana, il kampilang (o kampilan) è l’arma prediletta usata dai pirati malesi, un pesante arnese, una specie di via di mezzo fra una spada ed una scimitarra.

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Senza filtro -L’UOMO CHE SUSSURRAVA ai professionisti

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

L’uomo che sussurrava (in realtà pare che sussurri ancora, purtroppo) ai professionisti si materializza in Studio una mattina, preceduto da una mail ed una serie di telefonate insistenti per proposte, a suo dire, interessanti e di prospettiva per lo Studio.

Quando arriva, assieme ad un segretario che nulla dirà in tutto il corso dell’incontro, nel look e nei modi di fare manifesta immediatamente il classico proto-tipo fisico del rampante.

Il nostro sussurrante si manifesta come responsabile di una società che per mantenere il riserbo qualificheremo qui d’ora in poi come SAA (nome di fantasia, acronimo di Società Assolutamente Anonima) e la prima presentazione magnifica le attività della SAA (compreso paventare presunti accreditamenti vari, fra cui Compagnia delle Opere dell’Insubria, il CNO dei Consulenti del lavoro per corsi in materia di sicurezza, l’Ordine dei Commercialisti di Milano con convenzioni e corsi etc.). Una società, insomma, che si dà da fare in modo (apparentemente) qualificato occupandosi di varie attività.

“Ma non è per queste cose che siamo qui, ma per una grande opportunità per il Suo Studio” esordisce il sussurratore, che per comodità d’ora in poi chiameremo Al (come Al Pacino o Al Capone, tanto per dire; vedete voi a quale Al accostare il nostro sussurratore). E già l’inizio è un po’ da imbonitore da fiera, immaginatevi il tono, tipo “non siamo qui per vendere, siamo qui per regalare”.

Ma qui Al, prima di arrivare al punto, si lancia in una lunga premessa: parla degli Enti Bilaterali, dell’insoddisfazione delle aziende per questi “carrozzoni” a cui si versano tanti soldi, in cambio dei quali arrivano prestazioni risibili e di cui anche molti professionisti sono perplessi, chiedendosi come potrebbero essere spese meglio tali risorse. Cerca anche più volte una sorta di assenso da parte mia, come se parlasse di cose scontate e non di un nervo scoperto che certo richiede un affronto meno superficiale.

“Ma finalmente – qui Al cambia sapientemente tono, un po’ come quando in TV arriva la pubblicità roboante e devi abbassare il volume – siamo in grado di proporre alle aziende un Ente Bilaterale che si rispetti, e che eroga prestazioni davvero interessanti ed utili per i lavoratori!”. Freno alla tentazione di chiedergli cosa c’entri lui con un Ente Bilaterale, ma gli faccio la seconda domanda possibile e cioè quali sarebbero queste fantastiche prestazioni.

La risposta è francamente sconcertante: “Le prestazioni le può trovare tranquillamente sul sito, ma non parliamo di quello adesso, ora Le spiego perché Lei non potrà non essere interessato da quanto stiamo dicendo”.

[prima notazione: non puoi, proprio non puoi, se vuoi avere un minimo di credibilità, comportarti così; se magnifichi le prestazioni dell’Ente – così come di qualsiasi altra cosa che stai proponendo – devi essere in grado di dirmene almeno qualcuna, se invece non consideri la cosa tanto interessante il punto è un altro, come infatti vedremo].

Segue un altro preambolo in cui Al spiega che gli Enti Bilaterali, per poter divulgare la propria opera, a suo dire hanno legittimamente – cioè pare sia previsto nelle regole di istituzione di tali entità – la possibilità di destinare parte dei propri introiti ad azioni di “propaganda e proselitismo” (usa proprio questi termini). E qui arriva al punto. Sfruttando questa quota di proselitismo, la SAA sta visitando molti professionisti proponendo loro di far iscrivere le aziende propri clienti a questo Ente Bilaterale, contando (se il datore non è iscritto ad alcuna associazione di categoria) sulla libertà di scelta di Ente Bilaterale (cioè non condizionata dal Ccnl adottato) sancita da diverse sentenze ed anche da prassi del Ministero del Lavoro (cfr. circ. n. 43/2010 e nota n. 80/2010). Diciamo subito, qui il nome sarà opportuno metterlo in chiaro, che l’Ente Bilaterale in questione è l’E.BI.L.P.

Per non rischiare di dire cose inesatte copiamo dal sito dell’Ente e dalla brochure che Al ci ha lasciato la sua presentazione.

E.BI.L.P. – ENTE BILATERALE DELLE LIBERE PROFESSIONI E DEL SETTORE PRIVATO – è un Ente Bilaterale nato dalle interazioni fra diverse Parti Sociali, quella Datoriale, rappresentata da FISAPI (Confederazione Generale Professioni Intellettuali) e quella Sindacale rappresentata da CONFSAL e da FISALP CONFSAL. In applicazione dei contratti collettivi nazionali (CCNL) stipulati fra le parti, E.BI.L.P. eroga servizi e prestazioni per i datori di lavoro ed i lavoratori con lo scopo di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti e favorire la crescita e lo sviluppo delle imprese. E.BI.L.P. è uno strumento mediante il quale si assegnano ruoli, compiti e funzioni finalizzati ad offrire un sistema plurimo di servizi qualitativi che, in coerenza con gli obiettivi richiamati nei C.C.N.L. – Studi Professionali e Intersettoriale –, è rivolto a tutti gli addetti (datori e lavoratori) che operano nei settori delle attività Professionali e delle attività del Commercio, Terziario, Distribuzione, Servizi, Pubblici Esercizi E Turismo. Inoltre costituisce lo strumento per lo svolgimento delle attività individuate dalle Parti stipulanti in materia di occupazione, mercato del lavoro, formazione e qualificazione professionale.

E.BI.L.P. è anche un Sistema di Organizzazioni che opera su tutto il territorio nazionale, e consente agli operatori che lavorano a livello territoriale di proporre un’ampia offerta di servizi e opportunità per rappresentare e assistere tutte le categorie del mondo dell’impresa e del lavoro.

E.BI.L.P opera su tutto il territorio nazionale  attraverso un Sistema di Organizzazioni  che consente agli operatori  di assistere capillarmente  livello locale  tutte le categorie del mondo dell’impresa e del lavoro:

  • Ente bilaterale (EBILP)
  • Caf e patronato (CONFSAL-INPAS)
  • Confederazione Generale Professioni    Intellettuali  (FISAPI)
  • Sindacato dei lavoratori e dei pensionati   (FISALP CONFSAL)
  • Fondo di Assistenza Sanitaria   Integrativa (SANISP)
  • Fondo Interprofessionale per la   Formazione Continua (FONARCOM)

 

Aggiungiamo per completezza solo le quote di adesione, anche qui copiamo pedissequamente dal sito

• Per i SETTORI LAVORATORI PRIVATI, l’adesione ad E.BI.L.P. è pari ad euro 22,00 mensili, per 12 mensilità, di cui euro 10,00 (euro 6,00 a carico del datore di lavoro ed euro 4,00 a carico del dipendente) sono destinati ai servizi offerti dall’Ente ed euro 12,00 (interamente a carico del datore di lavoro) sono destinati alle prestazioni sanitarie integrative al SSN, gestite dal FONDO SALUTE SANISP.

• Per il SETTORE LAVORATORI STUDI PROFESSIONALI l’adesione ad E.BI.L.P. è pari ad euro 16,00 mensili, per 12 mensilità, di cui euro 4,00 (euro 2,00 a carico del datore di lavoro ed euro 2,00 a carico del dipendente) sono destinati ai servizi offerti dall’Ente ed euro 12,00 (interamente a carico del datore di lavoro) sono destinati alle prestazioni sanitarie integrative al SSN gestite dal FONDO SALUTE SANISP.

  • PER ENTRAMBI I SETTORI, E’ PREVISTO, IN FASE DI ADESIONE, IL VERSAMENTO DI UN CONTRIBUTO UNA TANTUM, pari ad euro 20,00 a dipendente.

Ora, cosa offra di diverso, alternativo e migliore questo Ente rispetto agli altri il simpatico Al proprio non vuole dirlo (vorrà non svelare la sorpresa?) ma in compenso assicura che allo Studio che indirizzerà o dirotterà all’E.BI.L.P. i propri clienti (e conseguentemente i dipendenti degli stessi) verrà riconosciuta una “provvigione” mensile pari ad euro 2 iva compresa per ogni dipendente iscritto (a E.BI.L.P.).

[E qui parte il secondo interrogativo, nel cuore della questione: ma gli Enti Bilaterali (art. 2, D.lgs. n. 276/03) non sono quegli  “organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro”? E se sono costituiti da organizzazioni rappresentative, e se le organizzazioni più rappresentative hanno degli associati che vi aderiscono in forza, appunto, del riconoscimento della loro rappresentatività – che vuol dire rappresentare gli interessi degli associati – perché mai gli Enti Bilaterali, che di tutta questa rappresentatività e fiducia sono il fulcro, avrebbero necessità di fare “proselitismo”? Non sono mica oggetti di mercato, non è che all’uscita del supermercato qualcuno ti ferma, come in una vecchia pubblicità, offrendoti due Enti Bilaterali contro il tuo, al che tu rifiuti perché “il mio Ente lava così bianco che più bianco non si può”. E giustamente rifiuteresti, dato che il tuo Ente Bilaterale è quello costituito dall’associazione di cui ti fidi e che su ogni tavolo parla per te. O c’è qualcosa che non comprendo?]

Ma proseguiamo. Nel disvelamento della proposta, mi e gli (al nostro Al) pongo ancora un paio di quesiti (oramai ho deciso di stare al gioco e di capire fino in fondo cosa succede, invece di aderire al primo istinto e cacciare seccamente Al e il suo segretario). Il primo riguarda la contrattualizzazione e corresponsione di tale prebenda provvisionale: come avviene?

La seconda è che non mi appare così facile convincere i clienti a passare ad un misterioso Ente Bilaterale caduto dal cielo, già sono diffidenti sugli Enti “classici”, oltre che su qualsiasi cosa ci sia da pagare (il secondo quesito, lo confesso, è perché spero ardentemente che almeno adesso Al mi disveli i magnificati servizi dell’Ente, ma niente da fare; andrò per curiosità a vedermeli io dopo l’incontro – sul sito – non trovando niente di così mirabolante, anzi, e soprattutto davvero poche cose verso i lavoratori).

La risposta alla prima domanda sta in un modello che esce dalla nutrita brochure con cui Al accompagna la sua presentazione: una lettera di incarico professionale da parte della SAA allo Studio (“su incarico diretto del Presidente Nazionale dell’ E.BI.L.P.” – che suona un po’ pomposo, quasi un “by appointment of Her Majesty”) per consulenza varia (sul lavoro, per analisi e fabbisogni del mercato del lavoro, sicurezza, bilateralità, conciliazioni, welfare aziendale e tante altre cosucce) ovviamente senza nessun preventivo accertamento delle qualifiche e/o competenze con cui potrei svolgere tutte queste attività. Ma niente paura, dice Al, questo è solo un artificio formale per poter fatturare le provvigioni suddette: “noi SAA fatturiamo in questo modo ad E.BI.L.P. e quindi riceviamo identica fattura da voi professionisti”. Mi chiedo ad alta voce se non si profili in tal modo una fattispecie di fatturazione inesistente, ma qui Al subito invita a sdrammatizzare, non usiamo parole grosse, in fondo la consulenza è qualcosa di impalpabile e poi i professionisti la consulenza la fanno, no? Chi vuoi che vada a questionare entrando nel merito di cosa sia stata la consulenza effettiva…

La risposta al secondo dubbio (sul convincimento dei clienti) Al la cava fuori sempre dalla brochure: ovviamente “è solo un consiglio”, ma si tratta di una lettera fac-simile da mandare ai clienti in cui li si informa che dal prossimo mese lo Studio li farà aderire ad E.BI.L.P. e “in mancanza di diverse indicazioni, si proseguirà con l’adesione”, una sorta di silenzio-assenso. E qui Al sfodera una perla di pseudo-saggezza: tanto, quanti clienti leggono le circolari che mandate? Quindi con questa comunicazione voi li avete informati e tutto procede (e, soprattutto, voi cominciate ad intascare i due euro a dipendente). La chiacchierata si chiude con un “a risentirci” da parte mia per concludere il mesto incontro (la mia intenzione reale sarebbe stata quella di organizzare un secondo incontro con tanto di Ispettorato e GDF a vedere se tutto fili così liscio come l’espressione raggiante di Al faceva intendere, appuntamento che più volte Al ha sollecitato, poi impegni e casi della vita hanno avuto il sopravvento) e con Al che mi mostra “a convincimento” un discreto pacco di cartelline, a suo dire adesioni già ricevute da altri professionisti (e purtroppo temo anche sia vero).

Tutto quello che vi ho raccontato fin qui è vero e perfettamente documentabile, anzi forse per brevità ho omesso qualche altro particolare raccapricciante. Lo riassumo, per vostra comodità, in poche righe:

  • una società che si occupa di molte cose importanti e che vanta presunti importanti accreditamenti si occupa di propagandare un Ente Bilaterale, sputando addosso agli (altri) Enti Bilaterali in quanto tali;
  • la propaganda consiste non nella bontà di tale Ente, ma più prosaicamente nel contattare professionisti proponendogli una provvigione se faranno aderire i loro clienti (e conseguentemente ai dipendenti degli stessi) a tale Ente Bilaterale;
  • come modalità dell’adesione del cliente propone una via “poco trasparente” (eufemismo);
  • come modalità della percezione della provvigione si propone una contrattualizzazione altrettanto “poco trasparente” (secondo eufemismo).

Ma ora, con il solito vizio del pensiero (come direbbe il Guccini) vorrei sottoporvi alcune riflessioni; confesso anzi che mi piacerebbe che queste riflessioni coinvolgessero non solo gli affezionati lettori di questa Rivista (sì, potete scriverci e potremmo pubblicare le vostre mail in un dialogo continuo), magari mi farebbe piacere che a dialogare fossero gli artefici, individuali o collettivi, di queste architetture sbilenche (confrontandomi con altri colleghi ho scoperto che in un meccanismo simile sono coinvolti anche altri Enti Bilaterali; inoltre qualcuno mi ha sussurrato che a suggerire questo meccanismo perverso sarebbero anche nomi noti), ma chissà che ne pensano anche i fautori delle relazioni industriali e della bilateralità come panacea universale, i professionisti abbraccianti questa e altre proposte; non disdegnerei di conoscere il parere dell’Ispettorato Nazionale o della Guardia di Finanza, ma pure degli Ordini (nazionali o provinciali) che “darebbero corda” a certi soggetti.

La prima domanda è questa: ma quale razza di idea della bilateralità emerge da queste pratiche poco ortodosse? Un obolo da pagare, senza grosse speranze (in fondo) sul suo significato o la sua utilità, e con un giro di affari sicuramente depauperante le risorse dell’Ente (facciamo due conti: non considerando la parte sulla sanità, l’adesione costa 10 o 4 euro al mese – di cui rispettivamente 4 o 2 sono a carico del dipendente, ma di cui 2 vanno come provvigione al professionista e si suppone altrettanta quota vada ad Al e alla sua società. Cosa resta? Insomma, un business fine a sé stesso).

Eppure se uno credesse a quello che c’è scritto sulle leggi, a quello che ha ideato chi ha pensato alla bilateralità come a una cosa buona e giusta, il concetto sarebbe diverso. Proviamo a scorrere fino in fondo la definizione di Ente Bilaterale del D.lgs. n. 276/03: “organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro attraverso: la promozione di una occupazione regolare e di qualità; l’intermediazione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro; la programmazione di attività formative e la determinazione di modalità di attuazione della formazione professionale in azienda; la promozione di buone pratiche contro la discriminazione e per la inclusione dei soggetti più svantaggiati; la gestione mutualistica di fondi per la formazione e l’integrazione del reddito; la certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità o congruità contributiva; lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento”.

Non è solo che gli E.B. possono fare tante cose, è che a tutta questa roba è affidato un importante compito regolatorio del mercato del lavoro che tocca aspetti importanti, anzi cruciali: la sicurezza, la formazione, la certificazione dei contratti, la regolarità contributiva, l’inclusione di soggetti svantaggiati etc. Ed ecco perché quando si parla di sicurezza, ad esempio, i tecnici tengono subito ad evidenziare la distinzione fra Enti Bilaterali ed Organismi Paritetici, ecco perché l’Ispettorato Nazionale (vedi circ. n. 4/2008) è costretto ogni tre per due a ricordare che certificazioni ed altre azioni messe in campo da E.B. non rappresentativi non valgono una cicca: perché ci sono in giro Enti Bilaterali di dubbia formazione e di altrettanto dubbia rappresentatività (non dico quello di cui parliamo oggi, ci mancherebbe, già da come viene presentato – pardon, propagandato – se ne deduce l’estrema serietà ed il rigore, facciamo un discorso in generale). Qui parte la seconda riflessione, sul tema della rappresentatività e dei mille e passa contratti collettivi nazionali registrati al Cnel e degli infiniti rivoli associativi attraverso cui, con mezzi e mezzucci, organizzazioni poco rappresentative si conquistano fette di rappresentatività con prebende varie: dal campo della sicurezza a quello della formazione, con attestati per così dire compiacenti, dalla promozione di contratti collettivi di chiara finalità di dumping retributivo e normativo, fino ad arrivare a promuovere o legittimare (internamente o esternamente, magari con qualche certificazione di  comodo) catene e filiere di intermediazione o caporalato. Il tutto al grido della libertà sindacale.

Abbiamo pertanto una rappresentatività ed una contrattazione collettiva (ed in genere un mercato del lavoro, nei suoi aspetti tipicamente più garantisti, almeno sulla carta) sporcati da interessi di dubbio profilo. Che poi qualche mossa poco simpatica talvolta si osservi anche in sindacati particolarmente rappresentativi non dovrà stupirci: nella giungla l’unica legge è quella del più forte, di quello che grida di più, oppure del più furbo, di quello che usa gli stratagemmi più efficaci. Al di là di tante lodevoli e pregevoli eccezioni, davvero pensiamo che si esca da questa palude con il metodo delle relazioni, se prima non si mettono le regole e, anche attraverso di esse, non si tenta di pulire un mercato “sacro” in cui però si affacciano troppi mercanti del tempio?

La terza riflessione dobbiamo porcela, con estrema onestà intellettuale, noi professionisti. Qual è il nostro ruolo nel mercato del lavoro? Quello di agenti (e magari fossimo almeno agenti proattivi di buone relazioni, in certi meccanismi appariamo piuttosto squallidi lacchè pagati con prebende – soldi o vantaggi che siano – non pulite) di questo universo di falsa rappresentanza? I modi sono tanti, non solo quello che ha preso lo spunto dell’articolo, si può anche diventare, che so:

  • ufficio di zona della tal categoria misconosciuta (ovviamente se convinci le aziende ad associarsi, magari forte della proposizione di un Ccnl pirata o simil-pirata, acquisirai nuovi clienti, oppure speri che te li porti l’associazione);
  • procacciatori a provvigione di Enti Bilaterali, di Enti di formazione, di Sicurezza sul lavoro, di Sanità integrativa, di Organizzazioni che procurano bandi, finanziamenti posizioni, conoscenze (la cosa drammaticamente fondamentale è che gli scopi ideali dei finanziamento, della formazione , delle relazioni rimangono, per così dire, sottotraccia, l’importante è cosa ci si ricava economicamente);
  • prestanomi di servizi di associazioni di categoria, sotto lo scudo di un’interpretazione troppo compiacente della L. n. 12/79;
  • fornitori (per mezzo di tali Enti) di servizi di certificazione, asseverazione, qualità un po’ compiacenti (eufemismo);
  • ultimamente – vista sui social – la possibilità di diventare anche “conciliatore sindacale”, “operatore di patronato” o qualche altra attribuzione, più o meno sballata, giusto per portare a casa le briciole di qualche pagnotta il cui prezzo è pagato da lavoratori e, non di rado, anche da aziende.

Pensate al caso qui esposto: ma con quale coraggio, con quale dignità tu professionista vai a distribuire al cliente una circolare, che non leggerà, in cui lo informi (senza informarlo) che stai per iscriverlo ad un Ente Bilaterale che costerà a lui ed ai suoi dipendenti qualche soldo, che poi viene intascato da te e dai faccendieri come Al e la sua società? E comunque, con quale fegato lucri su queste cose?

E per finire: abbiamo qui forse una chiave di lettura per capire perché in Italia quando parliamo di formazione professionale, di tirocini, di domanda-offerta del mercato del lavoro, di contrattazione, di certificazione, di sicurezza sul lavoro abbiamo sempre la sensazione di girare in tondo, in un circolo vizioso, come una vite senza fine in cui si vedono poche cose efficaci (al di là di tanti convegni e bla bla, anche sponsorizzati dalle Parti Sociali simil-rappresentative, perché un tono e un’immagine bisogna pur darseli!) e tanta, tanta elusione, tanto fumo e poco arrosto? Poi arriva qualcuno, ogni tanto, che non avendo la minima idea di quello di cui si sta occupando, butta via il bambino insieme con l’acqua sporca, perché non ha i mezzi intellettuali e materiali per distinguerli (vedi ultima stretta sui tirocini, tanto per fare l’ultimo esempio).

Noi professionisti non possiamo, ammesso che lo vogliamo, risolvere tutto. Ma dal momento che un ruolo importante nel Paese ce l’abbiamo (e quelli che vorrebbero negarcelo, guarda caso, hanno parentele molto strette con i furboni che vendono fumo per arrosto e sono pronti a spartirsi le attività che vorrebbero sottrarci)  e che la maggior parte di noi ha onestà intellettuale e si merita la fiducia che i nostri clienti ripongono in noi, cominciamo per primi a  non cedere a facili lusinghe e a mettere alla porta, insieme ai tanti abusivi, chi  – magari talvolta anche dietro una patina pseudo-ordinistica  – propugna o accetta soluzioni indegne e mercantilistiche.

O, ancora, mi sfugge qualcosa?

 

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Senza filtro – COMUNICAZIONE E LIBERAZIONE (ovvero: tutti i mali del D.M. n. 205/2021)

Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Il D.M. n. 205 del 29 ottobre 2021 impone nuovi obblighi ai datori di lavoro i cui lavoratori siano coinvolti in un contratto di rete fra imprese – stipulato ai sensi dell’art. 3 del D.l. n. 5/2009 – attraverso gli istituti del distacco e della codatorialità.

Riassumiamo sinteticamente tali obblighi:

  1. comunicazioni di “inizio, trasformazione, proroga e cessazione” dei rapporti di lavoro in codatorialità e distacco conseguenti ad un contratto di rete sono effettuate al Ministero del Lavoro attraverso il nuovo modello “Unirete” disponibile sul sito servizi.lavoro.gov.it;
  2. individuazione, da parte delle imprese retiste, di un “soggetto” unico incaricato alle comunicazioni suddette; solo e soltanto in capo a questo oggetto, in caso di inadempimento alle comunicazioni, saranno applicabili le sanzioni (le medesime previste per la mancata o tardiva comunicazione di modelli UniLav);
  3. indicazione, nella suddetta comunicazione, dell’impresa a cui imputare il rapporto di lavoro del lavoratore in regime di codatorialità; d. obbligo di adeguare il versamento della contribuzione alla maggiore retribuzione imponibile desumibile dal contratto applicato dall’impresa presso cui il lavoratore in codatorialità ha svolto prevalentemente la propria attività;
  4. obbligo di iscrizione del lavoratore sul libro unico del lavoro dell’impresa di cui al punto c) che precede (quella che in pratica lo ha assunto) però con le annotazioni che evidenzino separatamente l’impiego orario del lavoratore in codatorialità presso ciascun datore di lavoro.

La lettura del suddetto decreto dovrebbe esser resa obbligatoria in qualsiasi facoltà in cui si studi il diritto e la sua formazione per la quantità, tutto sommato in poche righe, di tutto ciò che normativamente si dovrebbe non fare: ripetuto eccesso di delega, sciatteria di scrittura, illogicità e ridondanza degli adempimenti, inefficacia degli stessi rispetto ai fini che si propone la norma. Data la prevedibile incredulità verso un’affermazione così perentoria, cominciamo dunque l’esame, che purtroppo non sarà breve, e partiamo dal principio con un po’ di normativa.

L’art. 3, comma 4-ter del D.l. n. 5/2009 ha previsto la possibilità di instaurazione del contratto di rete, un’ottima possibilità per le imprese, soprattutto quelle piccole e medie (e dopo la L.n. 81/2017 anche per i lavoratori autonomi, professionisti compresi, sia pure con alcuni limiti), per fare sinergie con la finalità di crescere e/o di difendersi sul mercato.

“Con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa”.

 

Al riguardo, il D.l. 28 giugno 2013, n. 76 ha aggiunto all’art. 30 del D.lgs. n. 276/03, disciplinante il distacco di personale, il comma 4-ter (attenti a non confondervi col 4-ter di prima) che prevede un’ulteriore e peculiare possibilità di distacco, proprio per le imprese legate da un contratto di rete. Vale la pena citarlo per intero.

4-ter. Qualora il distacco di personale avvenga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa che abbia validità ai sensi del Decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla Legge 9 aprile 2009, n. 33, l’interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete, fatte salve le norme in materia di mobilità dei lavoratori previste dall’articolo 2103 del codice civile. Inoltre per le stesse imprese è ammessa la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso.

Il D.l. n. 34/2020 ha invece introdotto all’art. 3 del D.l. n. 5/2009 alcuni commi (da 4-sexies e 4-octies) per disciplinare il contratto di rete con specifica finalità di solidarietà occupazionale in vista dell’emergenza pandemica (e non solo).

4-sexies. Per gli anni 2020 e 2021, il contratto di rete può essere stipulato per favorire il mantenimento dei livelli di occupazione delle imprese di filiere colpite da crisi economiche in seguito a situazioni di crisi o stati di emergenza dichiarati con provvedimento delle autorità competenti. Rientrano tra le finalità perseguibili l’impiego di lavoratori delle imprese partecipanti alla rete che sono a rischio di perdita del posto di lavoro, l’inserimento di persone che hanno perso il posto di lavoro per chiusura di attività o per crisi di impresa, nonchè l’assunzione di figure professionali necessarie a rilanciare le attività produttive nella fase di uscita dalla crisi. Ai predetti fini le imprese fanno ricorso agli istituti del distacco e della codatorialità, ai sensi dell’articolo 30, comma 4-ter, del Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, per lo svolgimento di prestazioni lavorative presso le aziende partecipanti alla rete. 4-septies. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentiti gli enti competenti per gli aspetti previdenziali e assicurativi connessi al rapporto di lavoro, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono definite le modalità operative per procedere alle comunicazioni da parte dell’impresa referente individuata dal contratto di rete di cui al comma 4-sexies necessarie a dare attuazione alla codatorialità di cui all’articolo 30, comma 4-ter, del Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. 4-octies. Ferme restando le disposizioni di cui al presente articolo, ai fini degli adempimenti in materia di pubblicità di cui al comma 4-quater, in deroga a quanto previsto dal comma 4-ter, il contratto di rete di cui al comma 4-sexies deve essere sottoscritto dalle parti ai sensi dell’articolo 24 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al Decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, con l’assistenza di organizzazioni di rappresentanza dei datori di lavoro rappresentative a livello nazionale presenti nel Consiglio nazionale dell’ economia e del lavoro ai sensi della Legge 30 dicembre 1986, n. 936, che siano espressione di interessi generali di una pluralità di categorie e di territori.

 

 

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Senza filtro – Dipendente 451 (storia di fantasia)

Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

L’ispettore del lavoro Mario Rossi pigiò con risolutezza il tasto n. 16 del lussuoso ascensore del lussuoso palazzo della lussuosa zona del centro, preparandosi per la consueta entrata in scena in azienda con cui era solito iniziare l’accertamento.

All’apertura della porta dell’ascensore, tuttavia, si trovò direttamente all’interno dell’ufficio reception e lo colse un leggero senso di stordimento. Una luce diffusa, diafana, nell’ambiente dominato dai colori bianco azzurrognoli delle pareti e dell’arredamento, coordinatissimo nei minimi dettagli, dava la sensazione di essere in un ambiente fantascientifico. L’aria aveva il sentore di una fragranza impercettibilmente balsamica, che più avanti l’ispettore avrebbe scoperto ricavata dalla corteccia della rarissima sequoia nana dell’Oregon. Una musica senza struttura si espandeva a basso volume nello spazio, un fastidioso mix strumentale fra una fusion elettronica ed una melodia orientale. Con il suo impermeabile color kaki e la borsa marrone in similpelle, all’interno di quel contesto l’ispettore sembrava il Tenente Colombo catapultato nell’astronave di Star Trek.

Ma quello che colpì di più l’ispettore fu la figura dietro il bancone: sopra una tuta intera unisex, perfettamente coordinata coi colori dell’ambiente, a coprire interamente il volto e il capo troneggiava la maschera a testa intera di Paperino. Una voce vagamente elettronica gracchiò dalla maschera.

Buongiorno sono dipendente 451. Posso esserle utile?

Buongiorno sono un ispettore, dovrei esaminare la vostra azienda. Ma mi perdoni, c’è per caso una festa in atto?”

No, perchè?”, rispose Paperino.

La maschera, anzi le maschere …”

Da dietro la vetrata della reception, infatti, si apriva un illuminato open space di persone nelle tute coordinate, tutte identiche nella foggia e nel colore, che indossavano maschere. All’ispettore nel marasma di figure in movimento parve di riconoscere Zagor, Snoopy, Batman, Mafalda, Rat-man ed altri.

 “Mi scusi, lei non ha sentito parlare di privacy, GDPR, pseudonimizzazione?”

 “Sì certo ma che c’entra …”

Nella nostra azienda, sempre all’avanguardia non solo nei servizi offerti ai nostri clienti – la voce metallica sembrava ripetere una cantilena – abbiamo semplicemente applicato il concetto in modo serio ed efficace. Dopo un sondaggio di gradimento fra dipendenti, abbiamo pensato che le tute indifferenziate e le maschere dei personaggi dei fumetti rendessero bene il senso di appartenenza aziendale (sa, ci occupiamo di grafica), e garantissero la piena disidentificazione personale”.

Ma quindi … fra di voi … vi chiamate coi nomi dei fumetti?”  disse l’ispettore mentre dal corridoio laterale osservava passare velocemente un Alan Ford con un faldone sotto il braccio.

Assolutamente no. Siamo identificati con un numero. Vede il cartellino? Come le ho detto all’inizio, sono dipendente 451”.

Ma che voce ha, scusi? Sembra che stia parlando con un microfono…”

Pseudonimizzazione vocale – sospirò Paperino con una certa impazienza che la voce metallica non riuscì a coprire del tutto –. Nelle maschere abbiamo un deformatore che impedisce qualsiasi tentativo di identificazione personale o riconoscimento attraverso il timbro della voce”.

Ma infatti! E io come faccio? Io non riesco a capire nemmeno se lei sia un uomo o una donna! Anche se, con la maschera di Paperino, posso immaginarlo …”

Con gesto istantaneo, dipendente 451 estrasse dalla tasca della tuta un piccolo taccuino nero ed un lapis bicolore blu-rosso e scrisse qualcosa con la punta blu.

Ma cosa sta scrivendo?”

Annoto sul <taccuino personale dei fatti e delle espressioni inappropriate> quanto appena successo: lei ha usato l’espressione “uomo o donna” cercando anzitutto di carpire il riferimento alla mia persona e quindi con un chiaro tentativo di violazione della nostra policy di pseudonimizzazione sessuale (tra l’altro, la tuta serve proprio per quello) ed inoltre dando una polarizzazione di genere assolutamente discriminatoria verso le altre diverse categorie (esempio i transgender). E comunque le dico subito che il tipo di maschera non è identificativo del genere: Paperino non deve necessariamente essere “un” Paperino.”

Ma è assurdo! Ma mi dica un’altra cosa, perché indossa i guanti?”

Questi sono guanti particolari, caro signore, in lattice di caucciù amazzonico (prodotti nel rispetto delle regole ambientali e del lavoro, vede il logo di garanzia della Rainforest Foundation?). Impediscono il rilascio di impronte digitali o altri elementi fisici che potrebbero subitaneamente portare ad una possibile identificazione personale”.

Va bene, senta mi chiami cortesemente un responsabile”.

Taccuino e lapis balenarono nelle mani guantate di Paperino – 451.

Cos’ho detto di male stavolta?” chiese l’ispettore, visibilmente intimorito.

Mi perdoni, con l’espressione “un” responsabile lei ha sottinteso che a dirigere questa azienda fosse un individuo di sesso maschile. Ciò è evidentemente altamente discriminatorio ma siccome ritengo vi fosse anche una dose di involontarietà ho annotato la cosa con la punta blu – disse compunto Paperino che, mentre parlava, batteva dei tasti sul computer ed esaminava con soddisfazione la risposta sullo schermo – Dirigente 111 sarà da lei fra 120 secondi.

Ma senta, mi faccia capire. – insistè l’ispettore – Mica andrete in giro così anche fuori, no? Dovrete pur cambiarvi per andare a casa … e lì fatalmente cadranno le maschere e tutto il resto…”

Ci sono degli spogliatoi collegati direttamente all’entrata e all’uscita, che procedono a scaglionamento di tre minuti. Ha presente gli spogliatoi delle sale radiografiche, a doppia porta? Entriamo, lasciamo lì tuta e maschera, che ritroviamo il giorno dopo e usciamo dall’altra parte. Fuori è fuori, dentro non sappiamo nulla l’uno dell’altro. È molto meglio, no? Niente personalizzazioni, niente discriminazioni, niente molestie, solo fasci di competenze e ruoli”.

“E vabbè ma se uno si appropria della maschera di un altro? Poi, come sarebbe possibile identificarvi esattamente?”

È assolutamente impossibile che ciò avvenga, ma l’identificazione è molto facile” disse una voce ugualmente metallica alle spalle dell’ispettore che si girò spaventato.

“Diabolik!”

Prego, sono dirigente 111” disse la figura che effettivamente indossava la maschera del noto criminale a fumetti, porgendogli la mano.

Mi scusi, è stata la suggestione – disse l’ispettore, stringendo la mano –  ma mi sembrano un po’ cose da pazzi”.

Diabolik e Paperino tirarono fuori il taccuino.

Perdoni” spiegò Diabolik – 111 “ma con l’espressione <pazzi> lei ha evidentemente usato un tono dispregiativo verso una disabilità cognitiva, emozionale e/o relazionale, adoperando un’espressione sdoganata fin dai tempi della Legge 13 maggio 1978, n. 180”.

La legge Basaglia” disse l’ispettore, che non voleva mostrarsi impreparato.

La prego, abbandoni questa usanza barbara di battezzare la legge con il nome dell’ispiratore” esclamò Diabolik!

Eh così almeno uno si ricorda nel tempo chi è il genio (o il cretino) che ha fatto certe norme – pensò l’ispettore (ma non lo disse). Vedendo invece l’alacre immancabile annotazione sospirò:

“E annotate tutto sul vostro taccuinoMa a che vi serve?”

Per la riunione di confronto settimanale con i GATTI” si inserì 451 con orgoglio.

I … gatti?”

I Grandi Ambasciatori della Tolleranza Trasversale Impersonale” precisò enfaticamente 451.

Sono persone esperte nella comunicazione e nella team disidentification – intervenne dirigente – 111 – ci aiutano a slegarci da pregiudizi intellettuali e comunicativi, che come vede sono radicati nella nostra cultura, nell’intento di arrivare ad una totale, pacifica e liberante spersonalizzazione”.

Torniamo all’identificazione … È possibile?” disse l’ispettore che stava per essere invaso da un senso di stordimento e voleva tornare su qualcosa di concreto.

Ma certamente. Vede questo quadratino sul cartellino di ognuno di noi? – l’ispettore individuò, seguendo il gesto diaboliko, un piccolo quadratino di puntini e svirgoli neri – È un QR code che può essere letto con uno scanner di nostra ideazione, questo. Glielo lascio”.

Diabolik tirò fuori di tasca una specie di telefonino piccolo e lo porse all’ispettore.

Sì ma, e se i dipendenti si scambiano maschera e cartellino?” affondò l’ispettore.

Come le dicevo, è impossibile. Sia maschera che cartellino contengono un chip elettronico in grado di leggere dal contatto epidermico (attraverso peli o sudore o quant’altro) il DNA di ciascun dipendente, che abbiamo diligentemente raccolto in fase di assunzione. Una volta assegnati, cartellino e maschera non sono più intercambiabili né indossabili da qualcun altro. D’altronde abbiamo calcolato che la produzione fumettistica e cartoonistica mondiale ci assicura oltre 350.000 possibili personaggi, senza contare quelli in continua evoluzione” nel frattempo stava passando un Pokemon Bulbasaur.

Ma …”

“Lo so già cosa mi sta chiedendo, abbiamo ottenuto ovviamente l’autorizzazione preventiva del Garante alla raccolta ed al trattamento di questi dati genetici e di profilazione, visto lo scopo di ridurre significativamente l’impatto identificativo. Anzi, insieme all’autorizzazione abbiamo ricevuto una lettera di elogio, sia dal Garante che dalla Direzione Generale di Roma del Ministero a cui lei appartiene, sa?”

Sì, tanto quelli dei piani alti non ci dicono mai nulla” pensò l’ispettore …

Purtroppo però ora la devo lasciare perché ho un appuntamento per un colloquio scolastico” disse Diabolik 111.

A questo sprazzo inatteso di umanità, il viso dell’ispettore si illuminò.

Eh i figli … ne ho due anch’io, una meraviglia guardi – disse con orgoglio estraendo lo smartphone di cui proprio qualche giorno prima aveva imparato ad utilizzare la cartella “foto” e mostrandole a Diabolikguardi, guardi …”

Mi scusi ma lei mi sta sottoponendo immagini di minori con il volto non oscurato …” disse con tono inorridito Diabolik – 111 indietreggiando e brandendo il taccuino.

“Sono i miei figli …” balbetto l’ispettore

“… e potenzialmente pedopornografiche …” continuò Diabolik (l’ispettore notò l’annotazione con la punta rossa).

“Ma è la mia bambina di 4 anni in spiaggia!”protestò.

Va bene, va bene, ma ora devo proprio andare – si riprese frettolosamente DiabolikIn qualità di genitore 2 di familiare 4, che è anche discente 27, devo andare a colloquio con docente 72, che insegna la materia 8. Ho un appuntamento in aula 16 dalle 11.30 ed essendo il numero 3 sono già in ritardo. Se viene domattina alla stessa ora identifichiamo tutti, va bene?”

D’accordo” disse con un filo di voce l’ispettore a cui la girandola di numeri aveva procurato un impegnativo capogiro.

 Ma mentre stava per congedarsi, si risvegliò per un attimo il suo istinto investigativo.

“Le mani!” esclamò.

Prego?” disse Diabolik.

“Nel salutarmi all’inizio lei mi ha stretto la mano. – disse trionfalmente l’ispettore – La mano nuda. E mi ha dato lo scanner. Con sopra le sue impronte. Non siete completamente spersonalizzati. Potrei attivare delle azioni per identificarla, in fondo”.

Mio caro signore – rispose amabilmente Diabolik – 111 (all’ispettore sembrò che sorridesse in modo inquietante ma forse era solo l’espressione fissa della maschera) – è vero, noi dirigenti non indossiamo i guanti. D’altronde, lei capirà, dovendo avere particolari e frequenti rapporti interpersonali esterni, anche importanti, parrebbe brutto indossare qualcosa che ci fa sembrare distanti, distaccati. Tuttavia alla mattina, al nostro arrivo in ufficio, immergiamo le mani in una speciale soluzione chimica, ovviamente anallergica, di nostra invenzione, che rilascia sulle mani una sottile pellicola, la quale sortisce il medesimo effetto dei guanti. Oltretutto ci protegge dai microbi. Pertanto, non troverà impronte. La saluto”.

Anche dipendente 451 fece col capo un cenno freddamente cortese di commiato. Chissà se sorrideva, sotto la maschera.

Uscendo dall’edificio, l’ispettore fu colto da un senso di freddo pungente. Forse era il novembre umido di questa benedetta pianura lombarda, forse il vento. O forse chissà cosa … Istintivamente rialzò il bavero e si strinse nell’impermeabile notando il cielo plumbeo che racchiudeva la città in un senso di oscurità crepuscolare malgrado fosse solo mattino avanzato. Le nubi nere e minacciose che minacciavano tempesta sembravano la metafora di qualcosa che incombeva sul mondo.

 

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