Sentenze

Illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore

Cass., sez. Lavoro, sentenza 23 giugno 2023, n. 18070

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del  licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore. Ha condannato il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria liquidata in dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita oltre interessi legali dalla risoluzione del rapporto al soddisfo.
Il giudice di Appello, per quanto interessa, ha ritenuto che le violazioni contestate dal datore al dipendente, che aveva consapevolmente disatteso le procedure dettate per le operazioni eseguite, erano gravi non essendo consentito al lavoratore di contrastarle e modificarle e restando irrilevante il fatto che da tali comportamenti non era stato tratto alcun vantaggio personale essendo peraltro stato accertato che aveva comunque avvantaggiato dei terzi.
Tuttavia, ha accertato l’intempestività della contestazione di addebito, intervenuta a distanza di tempo dalla data in cui il fatto era stato pienamente accertato.
Il lavoratore ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, controricorso del datore.
La Corte adita, con giurisprudenza costante (cfr. tra le tante Cass., 20/06/2006 n. 14115, Cass., 12/05/2005 n. 9955 e anche recentemente Cass., n. 23068 del 2021), ha ritenuto che il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo non solo da rendere difficile la difesa del dipendente ma anche di perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto (che nello specifico è stato accertato che si era protratto per tutto il tempo senza alcuna iniziativa anche di  carattere cautelare).
Una nozione, quella dell’immediatezza della contestazione, da intendere in maniera relativa, correlata al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, procedendo ad un adeguato  accertamento e una precisa valutazione dei fatti (cfr. Cass., n. 29480 del 2008, n. 22066 del 2007, n. 1101 del 2007, n. 14113 del 2006 e n. 4435 del 2004) e da valutare con riferimento al tempo in cui i fatti sono conosciuti dal datore di lavoro, e non a quello in cui essi sono avvenuti.
La conoscenza deve tradursi nella ragionevole configurabilità dei fatti oggetto dell’inadempimento, inteso nelle sue caratteristiche oggettive, nella sua gravità e nella sua addebitabilità al lavoratore (cfr. al riguardo oltre alla già citata Cass., n. 16683 del 2015 le sentenze ivi richiamate Cass., 27/02/2014, n. 4724 e 26/03/2010, n. 7410).
In tale contesto ben può il datore di lavoro procedere a verifiche preliminari necessarie (cfr. Cass., 08/03/2010, n. 5546, 17/12/2008 n. 29480). La valutazione dei fatti del giudice di merito il quale, come nella specie è avvenuto, abbia accertato la tardività della contestazione di addebito tenendo conto dei  parametri sopra indicati e ancorando la sua decisione ad elementi oggettivamente riscontrati non è censurabile in Cassazione; a questa Corte è preclusa ogni ulteriore indagine.
La Corte di merito ha proceduto all’esame dei fatti contestati, pacifici nella loro materialità, e ne ha correttamente desunto la giusta causa di licenziamento sottolineando che, ai fini della sua gravità  specificatamente del notevole inadempimento), ciò che rileva non è tanto e soltanto il danno arrecato quanto piuttosto l’idoneità della condotta a ledere il vincolo fiduciario da valutare tenuto conto del tipo di mansioni svolte. In tale prospettiva il giudice di secondo grado ha esattamente valorizzato l’elemento soggettivo della condotta, consapevole e volontaria (dolo generico), e la circostanza della consapevolezza di agire in contrasto con specifiche e cogenti direttive datoriali.
In sostanza questi non solo era inadempiente ma con piena consapevolezza voleva esserlo.
La circostanza che il fatto tardivamente contestato comporti l’illegittimità del licenziamento non implica di per sé che lo stesso sia insussistente.
La tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4 citato è applicabile ove il fatto contestato sia insussistente. In tale nozione è compresa l’ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto che, pur sussistente, sia tuttavia privo del carattere di illiceità ma non anche il caso in cui difetti un elemento necessario per poter applicare una sanzione, qual è appunto l’inosservanza di un tempo ragionevole per intraprendere il procedimento disciplinare.
Come già ritenuto da questa Corte (cfr. Cass., 10/02/2020, n. 3076), infatti, la tutela applicabile va individuata solo una volta che sia stata accertata l’assenza di una giusta causa di licenziamento che si compendia anche dell’aspetto connesso alla tempestiva reazione all’inadempimento del lavoratore.
Nel caso in esame, l’esistenza di un ritardo notevole e non giustificato nell’avviare il procedimento disciplinare deve trovare applicazione l’art. 18, comma 5 della Legge n. 300 del 1970, così come modificata dal comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 (in questo senso si veda Cass., 27/12/2017, n. 30985). L’intempestività della contestazione connota il comportamento datoriale che viola i canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. i quali governano anche l’esercizio del potere disciplinare il quale deve essere improntato alla massima trasparenza poiché incide sulle sorti del rapporto e sulle relative conseguenze giuridiche ed economiche.
Per l’effetto la sentenza deve essere cassata con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione che rivedrà le conseguenze della tardiva contestazione alla luce dei principi sopra esposti.


Somministrazione illecita di manodopera e assenza di rischi d’impresa

Cass., sez. Lavoro, sentenza 4 maggio 2023, n. 18530

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Ancora un caso di somministrazione illecita di manodopera la cui illiceità è stata rilevata sulla base delle deposizioni dei testi escussi e dei verbali ispettivi.
A sua difesa la società fornitrice di manodopera  sosteneva l’apparente regolarità e adeguatezza di ogni attività posta in essere, nonostante in verità fosse emerso, durante le deposizioni dei testi e gli accertamenti ispettivi, che oltre a non aver titolo a fornire manodopera, la società aveva operato una concreta lesione dei diritti dei lavoratori, essendo stato rilevato che gli stessi erano stati sotto inquadrati,
che le denunce Inps riportavano dati imponibili inferiori rispetto a quelli esposti sul libro unico e che addirittura, in caso di cessazione del lavoratore, non veniva elaborato e pagato il cedolino paga relativo al trattamento di fine rapporto oltreché alle competenze finali.
Tutto questo aveva indotto i giudici del merito a ritenere sussistente l’elemento a fondamento della norma incriminatrice, ovvero la finalità dei contraenti di eludere norme inderogabili di legge o di  contratto collettivo.
Nessuna lettura alternativa poteva essere eseguita sul caso di specie, nonostante questa fosse la richiesta oggetto del ricorso per Cassazione promosso dalla società “somministratrice”.
In primo luogo perché non consentita in sede di legittimità una revisione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, ma poi perché l’apparato argomentativo non presentava profili di irrazionalità, e soprattutto perché la valutazione del materiale probatorio non poteva che condurre alla ricostruzione eseguita dai giudici di primo e secondo grado.
Per tale ragione il presente ricorso è stato cassato con addebito delle spese alla parte soccombente.


Licenziamento per giusta causa: i parametri contenuti nel Ccnl non sono vincolanti

Cass., sez. Lavoro, sentenza 30 maggio 2023, n.  15140

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Forlì con la quale erano state respinte le domande del lavoratore contro la Società cooperativa agricola, di cui era dipendente con contratto a termine, di accertamento della nullità del licenziamento per giusta causa e di condanna del datore di lavoro alla riassunzione e/o al risarcimento dei danni.
In particolare, il lavoratore, con mansioni di addetto all’eviscerazione presso il reparto macello tacchini, già dipendente della cooperativa con numerosi precedenti contratti stagionali, con mansioni di scaricatore di casse e successivamente di mulettista-carrellista, dichiarato poi parzialmente idoneo con limitazioni e ricollocato per tale ragione presso il reparto macello tacchini, era stato licenziato.
Il provvedimento espulsivo era stato adottato in conformità alle previsioni del Ccnl applicabile al rapporto di lavoro: “per non aver estratto correttamente il pacco intestinale ai tacchini”, previa  contestazione di recidiva specifica, essendo stato lo stesso addebito motivo di 3 precedenti sanzioni  disciplinari.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi: i giudici di merito avrebbero dovuto qualificare il licenziamento del lavoratore come licenziamento per scarso rendimento e non per giusta causa; un omesso esame della condotta delle parti alla luce delle prescrizioni mediche e della mancata ammissione di CTU; la violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità tra fatto contestato e provvedimento di licenziamento, con riguardo alle circostanze concrete e alle modalità soggettive della condotta del lavoratore.
La Suprema Corte non accoglie i motivi confermando la sentenza impugnata che aveva ritenuto di rilievo disciplinare, e dimostrate, le violazioni poste alla base della contestazione disciplinare, giustificando il
licenziamento, anche alla luce della recidiva specifica. Inoltre, non appare neppure dimostrata, prosegue la Suprema Corte, la violazione dell’art. 2087 c.c. in riferimento all’accertamento di conformità dell’assegnazione del lavoratore al reparto macello tacchini, sulla base delle risultanze delle valutazioni
sanitarie del medico competente e della descrizione dettagliata delle mansioni assegnate, in rapporto al peso del materiale da trattare, ai movimenti da svolgere e alla postura.

La Suprema Corte ha più volte affermato che rientra nell’attività “sussuntiva e valutativa del giudice di merito” la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del Ccnl. Il giudice non deve limitarsi a verificare la riconducibilità dei fatti concreti a fondamento del licenziamento alla fattispecie prevista dalla contrattazione collettiva, ma deve valutarne la gravità e proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro, ponendo altresì
attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.
Il ricorso è respinto.


La genuinità di un rapporto di collaborazione deve essere valutata sulla base della normativa vigente al momento della stipula del contratto

Cass., sez. Lavoro, 26 maggio 2023, n. 14744

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

È illegittimo giudicare un rapporto di collaborazione sulla base di una normativa successivamente  vigente rispetto al momento della sua stipula.
É a questo il principio a cui perviene la Corte di Cassazione nel caso di una collaboratrice che, dapprima in forma di collaborazione coordinata e continuativa, e successivamente di lavoro autonomo, ha ricevuto comunicazione di rescissione contrattuale da parte dell’azienda cooperativa per cui lavorava.
La vicenda prende avvio dal ricorso di una lavoratrice nei confronti dell’azienda per la quale aveva avuto una serie di rapporti di collaborazione (specificatamente contratti di collaborazione coordinata dal 28.5.2002 al 22.10.2004 e contratti autonomi a partita IVA dal 23.10.2004 al giorno 8.7.2014). La
lavoratrice chiede l’accertamento della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato, la illegittimità della risoluzione del rapporto ed il ripristino dello stesso con condanna della convenuta al pagamento della retribuzione globale di fatto spettante dalla messa in mora al ripristino.
In primo grado viene esclusa la subordinazione, il rapporto viene qualificato come collaborazione coordinata e continuativa regolata dal D.lgs. n. 276/2003 e viene applicato l’art. 69 del D.lgs. n.  276/2003 convertendo il rapporto in uno subordinato a tempo indeterminato sul rilievo che le prestazioni non fossero riconducibili ad un progetto. Si appella la società, ed in secondo grado, la Corte
d’Appello di Roma ha dichiarato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a far data dal 28 maggio 2002 ed ha condannato la società a ripristinare il rapporto e a pagare alla lavoratrice un’indennità, ex art. 32, co. 5, L. n. 183/2010.
Ricorre in appello la società basandosi su 3 motivi.
Nel primo, sostiene il principio del “tempus regis actum”, art.11 delle disposizioni di legge relative all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. Nel secondo motivo, ad avviso della ricorrente, erroneamente era stata ritenuta  inammissibile la censura con la quale in appello era stata denunciata l’erroneità della pronuncia
di primo grado che aveva escluso l’esistenza di un progetto sebbene i fatti sottostanti fossero stati tutti tempestivamente allegati sin dal primo grado e dunque, d’ufficio, anche in grado di appello, il giudice
avrebbe dovuto tenerne conto senza che possa ritenersi maturata alcuna decadenza.
Con il terzo motivo si sostiene il carattere innovativo dell’intervento normativo del 2012 che non si pone come interpretazione autentica della precedente disciplina avente effetto retroattivo ma piuttosto come disposizione proiettata al futuro ed applicabile solo ai nuovi contratti stipulati dal 18 luglio 2012 in poi.
Gli Ermellini rigettano il secondo ed il terzo motivo e ritengono ammissibile il primo. Infatti, risulta pacificamente accertato che tra le parti sono intercorsi due distinti rapporti. Uno che trae origine da un contratto di collaborazione coordinata e continuativa iniziato il 28.5.2002 e proseguito fino al  22.10.2004 quando era cessato. Un altro contratto di lavoro autonomo dispiegatosi nel periodo dal
23.10.2004 all’8.7.2014. La Corte ha qualificato entrambi i rapporti come collaborazioni coordinate e continuative ma ritiene tuttavia il Collegio che, per quanto concerne il rapporto iniziato nella vigenza
della Legge n. 196 del 1997 e proseguito nella vigenza del D.lgs. n. 276 del 2003, fino al 22 ottobre del 2004, la legittimità del contratto andava verificata alla luce delle disposizioni dettate per le  collaborazioni coordinate e continuative  dalla Legge n. 196 del 1997.
La Corte costituzionale ha ritenuto che riconoscendo il rapporto alla luce della L. n. 92/2012, si sacrificavano interessi che le parti avevano regolato nel rispetto della disciplina dell’epoca, irragionevolmente e contraddittoriamente con la ratio del decreto, che era quello di “aumentare i tassi di occupazione e di promuovere la qualità e la stabilità del lavoro”. Pertanto, viene ribadito che è al momento della genesi del contratto che si definisce il regime del rapporto con esso instaurato ed è in tale
regime contrattuale che il lavoratore può chiedere che si accerti comunque che il rapporto di lavoro autonomo, pur legittimamente istaurato come collaborazione continuativa e coordinata, si sia diversamente atteggiato come rapporto di lavoro subordinato stante l’inserimento stabile nell’ organizzazione del destinatario della prestazione, l’assoggettamento al suo potere disciplinare ed alle sue direttive, tratto tipico quest’ultimo della subordinazione che è riscontrabile anche quando il potere direttivo del datore di lavoro viene esercitato de die in diem, consistendo, in tal caso, il vincolo della subordinazione, nell’accettazione dell’esercizio del suddetto potere direttivo di ripetuta specificazione della prestazione lavorativa richiesta in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore stesso.

 

Preleva l’articolo completo in pdf    

Sentenze

Legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo fondato sul rifiuto del lavoratore di prestare lavoro straordinario

Cass., sez. Lavoro, sentenza 20 aprile 2023, n. 10623

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Ancona, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato la legittimità del licenziamento (“convertito” dal giudice del reclamo da licenziamento per giusta causa, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo) intimato al lavoratore e condannava la società al pagamento, in favore dello stesso, dell’indennità di mancato preavviso.

Il licenziamento era stato conseguente alla contestazione fatta al lavoratore per la mancata effettuazione del lavoro straordinario, nel periodo dal 9 al 27 maggio 2016, in spregio alla direttiva aziendale con la quale era stato stabilito l’aumento dell’orario di lavoro per ragioni produttive, considerando la recidiva nella quale era incorso il lavoratore per fatti puniti già con sanzione conservativa. Il dipendente ha proposto ricorso in Cassazione basandosi prevalentemente sulla deduzione di violazioni del Ccnl Industria e anche rispetto all’art. 5 del D.lgs n. 66/2003, con riferimento alla libertà datoriale di imporre prestazioni di lavoro straordinario. In particolare, il lavoratore contesta l’interpretazione del Ccnl nel senso di consentire alla società di disporre ad libitum delle prestazioni di lavoro straordinario nei confronti dell’indistinta platea dei lavoratori, anche se contenuta nel limite di 82 ore annue. Dall’esame dei motivi contenuti nel ricorso, la Suprema corte ricorda come l’art. 5 del D.lgs n. 66/2003 rimette espressamente alle parti collettive la regolamentazione dei limiti del ricorso al lavoro straordinario, confermando così la correttezza dell’interpretazione della Corte di Appello. Il datore di lavoro ha la possibilità di richiedere al lavoratore prestazioni di lavoro straordinario nei limiti della c.d. quota esente, senza preventiva consultazione o informazione alle organizzazioni sindacali, nel rispetto dei limiti di 2 ore giornaliere e 8 ore settimanali e con un preavviso di almeno 24 ore. La Suprema corte conferma l’operato e la valutazione di proporzionalità in relazione agli aspetti oggettivi e soggettivi del fatto accaduto, ritenendo giustificata la sanzione espulsiva anche a prescindere dalla contestazione della recidiva. Le stesse considerazioni sono riferite alle giustificazioni inviate dal lavoratore, in quanto inidonee ad incidere sui fatti accertati.

La Corte rigetta il ricorso.


Nel pubblico impiego privatizzato il termine per la conclusione del procedimento decorre dalla contestazione dell’addebito da parte dell’UPD

Cass., sez. Lavoro, 18 aprile 2023, n. 10284

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

Il termine per la conclusione del procedimento da parte dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari non decorre più dalla conoscenza dell’illecito in capo al responsabile della struttura di appartenenza, ma da quando l’ufficio predetto abbia ricevuto la segnalazione di tale illecito, sicché a tal fine i tempi intercorsi prima di quella trasmissione non hanno rilievo, se non quando ne risulti irrimediabilmente  compromesso il diritto di difesa del dipendente.
È questo il principio che gli Ermellini stabiliscono, in base alla Legge Madia, nell’esame del merito del caso di cui sono investiti. Venuto a conoscenza nel 2017 di un uso anomalo della carta carburante per il proprio dipendente, il Comune di C.S. procede intimando il licenziamento disciplinare nei suoi confronti.
La Corte d’Appello di Palermo, riformando la sentenza del Tribunale di primo grado, ha accolto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato dal Comune, ricostruendo il momento in cui doveva ritenersi che il responsabile del servizio cui era addetto il dipendente avesse avuto contezza dell’illecito, ha ritenuto che fosse stato violato il termine di dieci giorni per la comunicazione dei fatti all’Ufficio per i procedimenti disciplinari (di seguito, UPD) e, a seguire, i termini stabiliti per lo svolgimento e la conclusione del procedimento disciplinare, circostanze tutte da cui essa faceva derivare l’illegittimità del licenziamento, con condanna del datore alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Il Comune ha proposto ricorso per cassazione resistiti dal lavoratore con controricorso.
Gli Ermellini rilevano quattro motivi fondati ed il loro accoglimento manda assorbite le restanti censure.
L’illecito contestato, concernendo comportamenti sia anteriori, fin dal 2015 o comunque dal 2016, sia posteriori ad agosto 2017, e alle modifiche introdotte all’art. 55-bis, D.lgs. n. 165/2001, nell’ambito di un procedimento unitario riguardante il protratto uso anomalo di una carta carburante di servizio, ricade nella disciplina procedimentale successiva che prevede che la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività.
Vale dunque il consequenziale principio secondo il quale in tema di illeciti disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, la violazione del termine di dieci giorni per la trasmissione degli atti dal responsabile del servizio all’ufficio per i procedimenti disciplinari non comporta la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, a meno che ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente.
Ne consegue che il richiamo della norma al principio di tempestività va inteso nel senso che anche la rilevanza di eventuali violazioni del termine per la trasmissione degli atti va misurata in ragione della violazione del diritto di difesa, tenendosi conto che il pregiudizio rispetto a quest’ultimo è di regola più probabile quanto più ci si allontani nel tempo dal momento dei fatti.
È dunque errato il ragionamento della Corte territoriale che ha fatto discendere la decadenza dal solo mancato rispetto del termine  per la trasmissione degli atti, senza altra diversa verifica sulla violazione del diritto di difesa in ragione delle particolarità e specificità del caso concreto. Il termine per la contestazione, sia prima che dopo la riforma c.d. Madia, va calcolato dal momento in cui l’UPD riceve gli atti dal responsabile della struttura.
Mentre, tuttavia, prima della menzionata riforma,  il termine per la conclusione del procedimento aveva comunque decorrenza dalla conoscenza dell’illecito da parte del responsabile della struttura (art. 55-bis, co. 4, penultimo periodo), per effetto della riforma stessa, come detto qui applicabile, esso, della durata di centoventi giorni, decorre dalla contestazione dell’addebito da parte dell’UPD.
Gli Ermellini accolgono pertanto il ricorso del comune, e rimettono la causa alla medesima Corte territoriale che procederà alla disamina anche della questione sulla tempestività e decadenza.


Il lavoratore che rifiuta la trasformazione del rapporto a tempo parziale può essere licenziato?

Cass., Ord. 9 maggio 2023, n. 12244

Patrizia Masi, Consulente del Lavoro in Milano

Con questa ordinanza la Cassazione consolida l’importante principio che vuole che, in caso di rifiuto di trasformazione del rapporto da full-time a part-time, il dipendente può essere legittimamente licenziato se il recesso non è intimato a causa del diniego opposto, ma a causa dell’impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno.
A seguito della cessione del ramo d’azienda i tre soci della società cessionaria decidono di prestare direttamente attività lavorativa e, per far fronte all’esubero pari ad una unità, propongono ai tre dipendenti assunti a full time la disponibilità alla riduzione dell’orario lavorativo.
A seguito di rifiuto di due dei tre lavoratori, l’azienda sceglie di licenziare per giustificato motivo oggettivo per riduzione di personale, la lavoratrice impiegata nel reparto ortofrutta, mantenendo le altre due figure a tempo pieno. La lavoratrice impugna. In primo grado, il Tribunale dichiara illegittimo il licenziamento con condanna della società a riassumere la dipendente oppure a corrisponderle un’indennità liquidata in cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.
La lavoratrice impugna chiedendo alla Corte, in secondo esame, il riconoscimento della natura ritorsiva o in subordine l’inefficacia del licenziamento, oltre al diritto del risarcimento del danno.
La Corte d’Appello esclude il motivo ritorsivo e legge la scelta della società di mantenere full-time i due lavoratori in quanto addetti al reparto salumeria, sacrificando la lavoratrice addetta al reparto ortofrutta, oggettiva, nell’alveo di un bilanciamento delle esigenze organizzative, che spetta al datore di lavoro.
La lavoratrice impugna nuovamente basando l’istanza su cinque motivi i quali vengono tutti respinti.
Gli Ermellini rilevano che, benché l’articolo 8, co. 1, del Decreto legislativo n. 81/2015 statuisca che il rifiuto della trasformazione a tempo parziale del contratto di lavoro non costituisce un giustificato motivo di licenziamento, non viene preclusa la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part-time. In tal caso occorre che sussistano e siano dimostrate dal datore di lavoro:
– le effettive esigenze economiche ed organizzative tali da consentire il mantenimento della prestazione solo con l’orario ridotto;
– la proposta al dipendente di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale e il rifiuto del medesimo;
– l’esistenza di un nesso causale tra le esigenze di riduzione dell’orario e il licenziamento.
Per quanto sopra, la Cassazione respinge il ricorso della lavoratrice condannadola alla rifusione delle spese.

Preleva l’articolo completo in pdf    

Sentenze

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e licenziamento individuale plurimo

Cass., sez. lavoro, 12 aprile 2023, n. 9754

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Con sentenza 16 luglio 2020, la Corte d’Appello di Potenza ha rigettato l’appello proposto dal lavoratore  avverso la sentenza di primo grado, che aveva rigettato le domande, nei confronti della società  cooperativa A e di B s.r.l., del socio – lavoratore della cooperativa:
a) di impugnazione del licenziamento intimatogli dalla prima il 17 marzo 2018, siccome illegittimo per nullità della procedura prescritta dalla Legge n. 223/1991, insussistenza del giustificato motivo oggettivo su cui esso era fondato, violazione dell’art. 2112 c.c. e conseguente condanna risarcitoria delle due società;
b) di accertamento del trasferimento d’azienda tra le due società e del suo diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro con la cessionaria, da condannare al relativo ripristino.
Nella condivisione del ragionamento argomentativo del Tribunale, la Corte territoriale ha ritenuto:
a) la non sussistenza di licenziamento collettivo, in assenza dei presupposti di riduzione o di trasformazione dell’attività della datrice (nell’insufficienza di quelli numerico nell’arco temporale di 120 giorni e dimensionale),
b) la sussistenza di licenziamenti plurimi oggettivi, per la cessazione incontestata, né pretestuosa e comprovata dalla sussistenza del nesso causale tra la (necessitata) soppressione di tutti i posti di lavoro e il recesso intimato.
La Corte potentina ha inoltre negato la ricorrenza di un trasferimento d’azienda (e rigettato la consequenziale domanda del lavoratore di continuità del rapporto, ai sensi dell’art. 2112 c.c. e di suo rispristino nei confronti della cessionaria).
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione con due motivi, cui hanno resistito le società con distinti controricorsi. In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quando la ragione del recesso consista nella soppressione di uno specifico servizio legato alla cessazione di un appalto e non si identifichi nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, il nesso causale tra detta ragione e la soppressione del posto di lavoro è idoneo di per sé a individuare il personale da licenziare, senza che si renda necessaria la comparazione con altri lavoratori dell’azienda e l’applicazione dei criteri previsti dall’art. 5, Legge n. 223/1991. Sono note la distinzione e l’autonomia, dopo l’entrata in vigore della Legge n. 223 del 1991, del licenziamento collettivo rispetto al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (ribadite ancora recentemente da Cass. 10 gennaio 2023, n. 407, in motivazione sub p.to 6.3), per la caratterizzazione specifica del primo in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa, al numero dei licenziamenti, all’arco temporale di loro intimazione e per il suo inderogabile collegamento al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento dell’azienda (Cass. 22 marzo 2004, n. 5794; Cass. 29 ottobre 2010, n. 22167; Cass. 22 novembre 2011, n. 24566; Cass. 22 febbraio 2019, n. 5373, in motivazione sub p.to 5.1). Sicché, in particolare, la previsione, nei licenziamenti collettivi per riduzione di personale, degli artt. 4 e 5 della Legge n. 223/1991, di procedimentalizzazione puntuale, completa e cadenzata del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale sul ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda: con la conseguenza che i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale, a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo (Cass. 26 novembre 2018, n. 30550, in motivazione). Per le ragioni su esposte il ricorso deve essere accolto.


La discrasia tra PSC e POS: rilevanza ai fini della responsabilità del committente

Cass., sez. Lavoro, ordinanza 3 aprile 2023, n. 9178

Patrizia Masi, Consulente del Lavoro in Milano

A seguito della morte per infortunio di un lavoratore avvenuta mentre montava dei moduli per la realizzazione di un forno di verniciatura parzialmente subappaltati al suo datore di lavoro, gli eredi del defunto ricorrono, a seguito del rigetto del Tribunale e della Corte d’Appello, nei riguardi delle figure terze dell’appaltante, del subappaltante al fine di avere un risarcimento dei danni.
In primo e secondo grado era stata rigettata la domanda, ritenendo che gli eredi non avessero dimostrato quale condotta avesse avuto specifico nesso di causa sull’evento e al contempo non hanno dimostrato un’ingerenza da parte della committente e del subcommittente tale da comprimere l’autonomia della azienda datrice del lavoratore. È stata rilevata una discrepanza fra il PSC (piano e sicurezza e coordinamento) ed il POS (piano operativo di sicurezza) nella parte sulle misure di sicurezza necessarie, ma erano questioni di dettaglio e tecnica tali da esulare dall’alveo della mancata sorveglianza imputata ai due soggetti coinvolti.
La Suprema Corte – ribaltando la decisione del merito – ha affermato che il dovere di sicurezza del datore di lavoro gravava anche nei confronti del committente e subcommittente, dai quali non si poteva, tuttavia, richiedere un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori.
Pertanto, al fine di determinare la responsabilità dell’appaltante è necessario verificare specificamente l’impatto delle sue azioni sulla causa dell’evento, secondo le capacità organizzative dell’impresa prescelta per l’esecuzione dei lavori, tenendo in considerazione la specificità dei lavori da eseguire, i criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, la sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera e l’agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo.
Secondo gli Ermellini, quindi, detta responsabilità è indubbia in caso di difformità tra i piani operativi di sicurezza posti in essere dalle imprese appaltatrici e la modalità operativa risultata propria del cantiere.
La Cassazione, rilevando quest’ultima circostanza nella fattispecie del caso, ha accolto il ricorso degli eredi del lavoratore.


Nullità del trasferimento del lavoratore a seguito della cessione del ramo d’azienda

Cass., sez. Lavoro, 17 gennaio 2023, n. 1293

Clara Rampollo, Consulente del Lavoro in Pavia

La vicenda riguarda la nullità del trasferimento di un lavoratore a causa dell’illegittima cessione del ramo d’azienda; il datore di lavoro impugna le sentenze della Corte d’Appello di Napoli che si era espressa per ben due volte sul caso.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato per motivi procedurali e di sostanza. Più nel dettaglio: la Corte d’Appello di Napoli aveva ritenuto illegittima l’assegnazione del lavoratore a Milano avendo accertato la continuità giuridica del rapporto di lavoro a seguito della dichiarata nullità del trasferimento del ramo d’azienda.
Occorre evidenziare che la Corte si era già pronunciata sulla vicenda nel 2012 con ordinanza n. 15657, nel 2014 con ordinanza n. 17901 ed in sede di seconda riassunzione con sentenza n. 2752 del 2016 ordinando la reintegra nel posto di lavoro del lavoratore in quanto la cessione di ramo d’azienda era stata ritenuta nulla. La Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza poi impugnata ed oggetto del giudizio di
Cassazione, aveva giudicato le motivazioni del trasferimento non idonee (digitalizzazione del servizio, soppressione di mansioni a basso contenuto professionale) e contestualmente aveva evidenziato che essendo in presenza di un ordine giudiziale di reintegra del lavoratore questi andava almeno inizialmente riassegnato alla precedente attività.
Il datore di lavoro aveva proposto ricorso per Cassazione sulla base di due motivi:
– la Corte d’Appello avrebbe omesso di portare a termine il diritto potestativo alla transazione tra il lavoratore e l’apparente cessionaria del ramo d’azienda;
– avendo contestato l’accertamento sulla nullità del contratto di cessione del ramo d’azienda, l’ordine di reintegra sarebbe diventato di difficile ottemperanza in considerazione del tempo trascorso e della mutata organizzazione aziendale.
Il primo motivo è stato ritenuto infondato in quanto già con ordinanza n. 15657 del 2012 era stata affermata l’inoperatività della transazione e che gli argomenti a fondamento non potevano essere rimessi in discussione per via della natura di res inter alios acta (una questione tra gli altri non è affar nostro) derivante da un fenomeno di nullità che rende non configurabile una prospettata solidarietà passiva estesa all’apparente cessionaria. Anche il secondo motivo è stato ritenuto non fondato accogliendo quanto già affermato con sentenza n. 17901 del 2014: ai sensi dell’art. 32 del D.lgs. n. 276 del 2003, infatti, per ramo d’azienda deve ritenersi ogni entità economica organizzata che conservi la sua identità precludendo l’esternalizzazione come una forma di espulsione di semplici reparti o uffici come articolazioni non autonome. La Corte ha quindi ribadito che non può ammettersi un trasferimento di ramo d’azienda con rifermento alla sola decisione del cedente di unificare alcuni beni e lavoratori in quanto, già sulla base delle direttive comunitarie nn. 1998/50 e 2001/23, si richiede che prima del trasferimento del ramo d’azienda si sia in presenza di un’entità economica che conservi la propria identità, ossia un assetto già formato. In particolare, in base alla direttiva n. 2001/23 è consentito agli stati membri della comunità europea di prevedere una norma che estenda l’obbligo di  mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti anche nel caso di non preesistenza del ramo d’azienda e che l’entità economica anteriormente al trasferimento deve godere di un’autonomia funzionale sufficiente.
La Cassazione, rigettando i due motivi di ricorso, ha anche accolto la sentenza della Corte di Napoli nella parte in cui riteneva illegittimo il trasferimento del lavoratore a Milano perché veniva accertata la continuità giuridica del rapporto di lavoro a seguito della dichiarata nullità della cessione del ramo d’azienda; in base alle regole dell’art. 2013 c.c. in presenza di un ordine giudiziale di reintegra del lavoratore questo andava riassegnato, almeno inizialmente, nel medesimo luogo della precedente attività lavorativa consentendogli di essere adibito alle mansioni originarie per le quali era stato assunto.
Fermo restando che il datore di lavoro ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni tecniche, organizzative e produttive che hanno determinato il trasferimento e non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto della richiesta probatoria della controparte, la Corte di Cassazione ha anche accertato la mancata dimostrazione da parte del datore di lavoro ricorrente di effettive motivazioni a giustificazione del provvedimento di trasferimento del lavoratore.
In conclusione, perché una cessione di ramo d’azienda venga considerata legittima è necessario che beni e persone costituiscano un’entità preesistente e funzionalmente autonoma e non una mera struttura creata ad hoc in occasione del trasferimento.


Licenziamento disciplinare di personale alle dipendenze della P.A.: prevalenza della legge primaria sul Ccnl applicato

Cass., sez. Lavoro, 13 marzo 2023, n. 7225

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

 Il caso oggetto di esame riguardava una lavoratrice alle dipendenze della Polizia Municipale di Teramo. La stessa era stata dapprima sospesa dal servizio,in ragione della violazione dell’art. 3, co. 4, lett.b) e co. 5, lett.b), g), i), del Ccnl Comparto Regioni e Autonomie Locali, per aver denigrato il Comandante del Corpo, per aver diffamato un collega attribuendogli comportamenti sessualmente molesti e per aver tenuto un comportamento scorretto nei riguardi di altro superiore.

Successivamente la lavoratrice aveva sporto querela denunciando il Comandante ed altri colleghi per episodi di rilevanza penale.

Il procedimento penale veniva archiviato, ma date anche le ripetute condotte di crescente gravità tali da determinare una significativa lesione del vincolo fiduciario, il Comune aveva attivato un nuovo procedimento disciplinare che si concludeva con licenziamento senza preavviso in ragione di quanto previsto dall’art. 55-quater lett.e) del Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

La lavoratrice ricorre in giudizio ritenendo il licenziamento ritorsivo oltreché infondato, ma se in prima istanza la sua domanda viene accolta, a seguito del ricorso promosso dal Comune presso la Corte d’Appello, la lavoratrice risulta soccombente.

Nella ricostruzione del caso, che ha visto un primo intervento della Corte d’Appello di L’Aquila e poi in sede di rinvio della Corte d’Appello di Ancona, i giudici hanno esaminato distintamente i due episodi specifici che avevano dato origine in un caso alla sospensione disciplinare e nell’altro al licenziamento, ritenendoli tra loro autonomi.

Mentre il primo episodio poteva legittimamente essere inquadrato all’interno della violazione prevista dal Ccnl citato, la sanzione del licenziamento disciplinare era stata correttamente applicata a seguito di episodi riconducibili a quanto previsto dall’art. 55-quater lett.e) del suddetto D.lgs. n. 165/2001: “e) reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui;”.

Seppure il Ccnl delle Regioni e Autonomie Locali prevedesse sanzioni di carattere conservativo, i giudici del merito hanno legittimamente ricondotto i fatti a fondamento del licenziamento disciplinare nell’ambito della norma primaria, prevalendo quest’ultima sulla contrattazione collettiva, che risulta certamente uno strumento orientativo ai fini delle pronunce giudiziali, ma pur sempre superabile nel caso in cui il giudice la ritenga non allineata alle previsioni normative.


Norme sulla prescrizione e procedimento disciplinare: si applicano con esclusivo riguardo alla data di commissione del fatto e non alla data di contestazione degli addebiti

Cass., sez. Lavoro, 27 marzo 2023, n. 8558

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Il procedimento trae origine da un esposto presentato al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto da soggetti che lamentavano di aver inutilmente chiesto più volte al loro avvocato, dopo la revoca del mandato, la restituzione dei documenti a lui consegnati e relativi ad una causa di opposizione a precetto, ad una opposizione all’esecuzione e ad una terza, di opposizione a sanzione amministrativa. I soggetti interessati facevano inoltre presente che, la causa di opposizione all’esecuzione non risultava iscritta a ruolo e di non aver ricevuto fattura per l’importo di euro 4.750 versato per l’esecuzione dei mandati affidatigli. Il Consiglio di Disciplina, con decisione del novembre 2017, approvava i capi di incolpazione per omessa restituzione degli atti e dei documenti ricevuti dall’avvocato dai soggetti allora rappresentati, di aver omesso di rilasciare regolare fattura per compensi professionali e di aver omesso di iscrivere a ruolo la causa di  opposizione a precetto. A fronte di ciò, il Consiglio distrettuale di disciplina applicava all’avvocato la sanzione disciplinare della sospensione per 1 mese e 15 giorni, aggravata di ulteriori 15 giorni in considerazione del pregiudizio sofferto dalla parte assistita, in conseguenza delle omissioni dell’avvocato.

Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza del 22 marzo 2022, decidendo sull’impugnazione dell’avvocato, avverso il provvedimento emesso nel 2017, in parziale accoglimento del gravame, aveva rideterminato la sanzione ritenendo congrua l’applicazione della “censura”.

L’avvocato propone ricorso in Cassazione motivando “violazione di legge in relazione alla normativa sulla prescrizione”, nello specifico la violazione dell’art. 56 della normativa in materia di prescrizione dell’illecito disciplinare prevista dalla Legge n. 247/2012, entrata in vigore il 2 febbraio 2013. Il ricorrente evidenzia che il citato art. 56 prevede che l’azione disciplinare si prescrive nel termine di 6 anni, termine che in nessun caso può essere prolungato oltre un quarto, a differenza di quanto previsto in precedenza in cui si fissava in 5 anni il termine di prescrizione dalla data di realizzazione dell’illecito. Il ricorrente invoca l’applicazione del più favorevole regime introdotto con Legge n. 247/2012 in quanto il procedimento non era in corso al momento in cui è entrata in vigore la nuova normativa poiché la comunicazione all’incolpato e al Pubblico Ministero del capo di incolpazione, approvato dal Consiglio Distrettuale di Disciplina, è avvenuta dopo l’entrata in vigore del nuovo regime della prescrizione, rientrando ogni eventuale atto precedente alla notifica, nell’alveo delle attività istruttorie informali, inidonee a costituire l’atto iniziale di un procedimento disciplinare che prevede espressamente una fase istruttoria pre-procedimentale. Per il ricorrente risulta pertanto maturato, ai sensi dell’art. 56 della Legge n. 247/12, il termine massimo di prescrizione per l’azione disciplinare pari ad anni 7 e mesi 6 dal fatto di rilievo deontologico, tenuto conto che i fatti si erano svolti nel 2012.

Per la Cassazione il ricorso è da accogliere La giurisprudenza di legittimità, con orientamento costante, ha precisato che l’individuazione della normativa applicabile alla prescrizione avviene con esclusivo riguardo alla commissione del fatto, a nulla rileva la data di contestazione degli addebiti.

L’applicabilità dell’uno o dell’altro regime di prescrizione va rapportata alla commissione del fatto, per gli illeciti istantanei, o alla cessazione della permanenza della condotta, per gli illeciti permanenti, mentre per gli illeciti omissivi ciò che rileva è la cessazione della condotta omissiva.

La sentenza impugnata è cassata dalla Suprema Corte che dichiara estinto, per intervenuta prescrizione, l’illecito disciplinare contestato all’avvocato.


RSU: è legittimo l’uso della mail aziendale per comunicazioni di contenuto sindacale purché non pregiudichi l’attività lavorativa

Cass., sez. Lavoro, 17 marzo 2023, n. 7799

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione conferma, con questa  sentenza, la linea interpretativa che vede la legittimazione dell’uso dei moderni sistemi di comunicazione anche applicati alle attività sindacali, purché tale uso non rechi pregiudizio all’attività lavorativa del datore.
La vicenda prende infatti il via da una mail aziendale inviata da un lavoratore RSU, contenente comunicazioni di carattere sindacale ed inviata durante l’orario di lavoro.
Il datore di lavoro comminava la sanzione dell’ammonizione scritta al lavoratore, adducendo a  motivazione che tale invio aveva recato pregiudizio all’azienda perché eseguito durante l’orario lavorativo.
In sede giudiziale, il giudice di primo grado annulla la sanzione, non rilevando prove dell’effettivo danno all’attività lavorativa del datore di lavoro.
Conferma il giudizio anche il giudice di Appello e il datore di lavoro arriva ad interpellare la Cassazione, adducendo:
– il fatto che non sia stato rispettato il luogo assegnato dal datore di lavoro per comunicazioni sindacali;
– l’uso improprio della mail aziendale, definita come strumento lavorativo, che quindi doveva essere usata solo a tale scopo.
Gli Ermellini dichiarano illegittimi i motivi, non rilevando le prove effettive del pregiudizio sull’uso della mail, e confermando che la distribuzione di comunicati di contenuto sindacale durante l’orario lavorativo mediante l’invio di messaggi con posta elettronica aziendale, assimilabile al volantinaggio elettronico,
costituisce attività di proselitismo ai sensi dell’art. 26, co. 1 della Legge n. 300/70 ed è, dunque, legittimo se effettuato senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività lavorativa. Inoltre, sottolinea più volte la Suprema corte, il suddetto pregiudizio deve essere effettivo, non presunto, e va provato.

 


 

 

Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Licenziamento disciplinare: la verifica in concreto della sussistenza di una giusta causa di licenziamento

Cass., sez. Lavoro, 28 marzo 2023, n. 8737

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Il dirigente impugnava il licenziamento in tronco irrogatogli deducendone la natura ritorsiva dello stesso, in quanto intimato a seguito e per effetto della rottura, all’inizio del luglio 2017, della relazione sentimentale che aveva intrattenuto sin dal luglio 2012 con la Presidente della Società, in subordine l’illegittimità del recesso per insussistenza dei fatti contestati e comunque per sproporzione della sanzione espulsiva. Il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso. In sede di opposizione, ritenuto ammissibile il ricorso, il Tribunale di Catanzaro ha affermato sussistenti, sulla base della prova testimoniale, gli episodi di insubordinazione contestati: è pertanto da escludersi la nullità ritorsiva del licenziamento, dal momento che la conflittualità esistente tra le parti, per ragioni di carattere meramente sentimentale, seppur poteva essere stata concausa del contegno assunto dalle parti e della conseguente
cessazione del rapporto di lavoro, non aveva costituito il motivo unico determinante del licenziamento, essendosi per contro venuto a creare in ambito lavorativo una situazione insostenibile.
Il Tribunale ha affermato, comunque, l’illegittimità del licenziamento sotto il profilo della proporzionalità, anche alla luce delle pregresse modalità di svolgimento della prestazione.
La Corte d’Appello, adita in sede di reclamo, ha accolto l’impugnazione incidentale proposta dalla Società nei confronti del lavoratore e ha dichiarato la legittimità del licenziamento irrogato allo stesso.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore, resiste con controricorso la Società. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta con cui ha chiesto rigettarsi il ricorso.
Il Tribunale ha affermato con esplicita statuizione che la conflittualità esistente tra le parti, per ragioni di carattere meramente sentimentale, seppur possa essere stata concausa del contegno assunto dalle parti e della conseguente cessazione del rapporto di lavoro, non ha costituito il motivo unico determinante del licenziamento, così peraltro escludendo il motivo ritorsivo.
Tale statuizione non risulta dalla sentenza di appello aver formato oggetto del reclamo principale proposto dal lavoratore, nè ciò è dedotto nell’odierno motivo di ricorso. Pertanto, sulla mancanza di motivo ritorsivo del si è formato giudicato interno.
La doglianza dell’imputabilità del licenziamento  alla relazione affettiva che sarebbe intercorsa tra il lavoratore e la Presidente del datore di lavoro già disattesa dal Tribunale, è inammissibile per il formarsi del giudicato interno e per il difetto di rilevanza.
È contestata poi la proporzionalità della sanzione espulsiva, atteso che la proporzionalità deve essere valutata avendo riguardo all’entità dell’inadempimento e della colpa, nonchè della grave incidenza di essi sull’elemento della fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre sul lavoratore ai fini della prosecuzione del rapporto.
Questa Corte ha più volte affermato (si v.,  Cass., n. 12789 del 2022) che l’art. 2119. c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto, precisando che l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass., nn. 1351 del 2016, 12069 del 2015, 6501 del 2013), poichè l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento.
La relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass., nn. 1977 del 2016, 1351 del 2016, 12059 del 2015).
I fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario e spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva,  ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente e dalla qualifica rivestita, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua particolare natura e tipologia (v. ad es. Cass. nn. 2013 del 2012).
Nella specie la Corte d’Appello, pur richiamando modalità di comportamento del lavoratore riguardanti le attività fissate per il mese di agosto, ha incentrato la sussistenza della giusta causa nella violazione dell’ordine di servizio del 24 luglio 2017, allorchè in data 31 luglio 2017, il lavoratore senza richiedere alcuna autorizzazione abbandona in via anticipata il posto di lavoro, nonostante fosse stato chiarito nella riunione di metà mese l’assoggettamento senza deroghe agli orari di entrata e di uscita indicati in contratto. Atteso che la Corte d’Appello ha dato atto che una modifica dell’orario di lavoro del ricorrente era intervenuta in modo chiaro e definitivo solo il 24 luglio, ne discende che la legittimità del recesso è stata affermato con riguardo al mancato rispetto dell’orario di lavoro in un limitato arco temporale di pochi giorni. Tale statuizione non ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati, che richiedono un più ampio vaglio di contesto oggettivo e soggettivo, ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di recesso.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo motivo nei sensi di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione.


Appalto di manodopera: quando è genuino e quando invece è illecito

Cass., sez. Lavoro, 16 febbraio 2023, n. 4828

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha confermato che, in tema di appalto avente ad oggetto la prestazione di servizi,  è fondamentale il requisito dell’autonomia di gestione e di organizzazione dell’appaltatore.
Il caso portato all’attenzione della Suprema Corte riguarda la valutazione dell’esistenza di una interposizione fittizia di manodopera tra una società appaltatrice del servizio di call center e l’appaltante con conseguente accertamento, per i dipendenti della società appaltatrice, dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della società appaltante.
Il Tribunale di Roma aveva rigettato la domanda mentre la Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto che tra le parti fosse esistente un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con le decorrenze e gli inquadramenti specificati per ciascun lavoratore.
Il Giudice di Appello aveva ritenuto che, dall’istruttoria espletata, fosse emerso che il servizio reso dai dipendenti della società appaltatrice era stato a beneficio esclusivo della società appaltante. La stessa società appaltante aveva conferito nell’appalto beni di rilevanza tutt’altro che marginale e dai quali non si poteva prescindere per il raggiungimento dello scopo dell’appalto. Inoltre, il compenso era stato parametrato alle giornate di lavoro effettuate, azzerando così il rischio economico per l’appaltatrice. I dipendenti poi, con accertamenti testimoniali, avevano confermato che il rapporto con la società appaltante aveva superato la mera collaborazione con gestione diretta da parte dell’appaltante di turni ed orari; il controllo era superiore al solo coordinamento.
Per la Suprema Corte la sentenza impugnata ha correttamente applicato i principi già affermati: l’appalto di manodopera vietato dall’art. 1 della Legge n. 1369 del 1960, va ricavato tenendo conto della previsione dell’art. 3 della stessa legge concernente l’appalto (lecito) di opere e servizi all’interno dell’azienda con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore.
L’appalto di manodopera è configurabile sia in presenza degli elementi presuntivi considerati dal terzo comma del citato art. 1 (impiego di capitale, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante), sia quando il soggetto interposto manchi di una gestione di impresa a proprio rischio e di un’autonoma organizzazione (da verificarsi con riguardo alle prestazioni affidategli) in particolare nel caso di attività esplicate all’interno dell’azienda appaltante, sempre che il presunto appaltatore non dia vita, in tale ambito, ad un’organizzazione lavorativa autonoma e non assuma, con la gestione dell’esecuzione e la responsabilità del risultato, il rischio di impresa relativo al servizio fornito. Peraltro, con riferimento agli appalti cosiddetti “endoaziendali”, che sono caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, è precisato che il richiamato divieto di cui all’art. 1 della Legge n. 1369 del 1960 opera tutte le volte in cui l’appaltatore mette a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore stesso i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa.
Ancora, la valorizzazione, al fine dell’esclusione della genuinità dell’appalto, dell’assenza di una organizzazione di impresa impiegata nello stesso e della riferibilità alla committente del concreto esercizio del potere direttivo sui lavoratori formalmente dipendenti dalla appaltatrice si pone in linea con l’insegnamento della Suprema Corte secondo il quale il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro previsto dall’art. 1 della  Legge 1369 del 1960 opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo (Cass. n. 7820 del 2013, n. 6343 del 2013, n. 19920 del 2011, n. 7898 del 2011, n. 11720 del 2009, n. 16788 del 2006).
In conclusione, il ricorso è rigettato.


È illegittimo il licenziamento del dipendente che durante i permessi ex L. 104 svolge attività a favore dei disabili, anche se non in modalità continuativa: licenziamento illegittimo 

Cass., sez. Lavoro, 13 marzo 2023, n. 7306

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La fruizione di permessi ex Legge n. 104 per l’assistenza a un familiare disabile riveste nell’ordinamento italiano una finalità ultima di rilievo costituzionale, basata sugli articoli 2 e 32 Cost. nonché sui principi di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.
Pertanto, nell’indicare che il diritto ai permessi retribuiti è riconosciuto al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, il nesso che il testo normativo pone non è di tipo strettamente temporale, cioè tra la fruizione del permesso e la prestazione di assistenza in precisa coincidenza con l’orario di lavoro, bensì funzionale, tra il godimento del permesso e le necessità, gli oneri, le incombenze che connotano l’attività di assistenza delle persone disabili in condizioni di gravità. Il contenuto dell’assistenza che legittima l’assenza dal lavoro (il permesso retribuito), quindi i tempi e i modi attraverso cui la stessa viene realizzata, devono individuarsi in ragione della finalità per cui i permessi sono riconosciuti, cioè la tutela delle persone disabili, il cui bisogno di ricevere assistenza giustifica il sacrificio organizzativo richiesto al datore di lavoro.
È a questo ultimo assunto a cui pervengono gli Ermellini investiti nel giudizio di merito sul caso di un dipendente, licenziato per avere fruito, a detta del datore di lavoro, indebitamente, dei giorni di permesso ex Legge n. 104 per assistere entrambi i genitori disabili.
La corte territoriale ha accertato durante il primo grado che il lavoratore aveva trasferito il padre presso la propria abitazione, stante l’aggravarsi delle condizioni della madre e che aveva usufruito dei giorni di permesso coordinandosi con la sorella, con cui condivideva l’onere della cura dei genitori, svolgendo si delle attività inerenti tale cura ma anche delle attività di svago personali, come la lettura di un libro per due ore, presso i giardini pubblici in orario considerato lavorativo (dalle ore 9 alle ore 17). Proprio a fronte di questi intervalli di svago si era mossa l’azienda procedendo con il licenziamento del lavoratore per giusta causa, per avere il dipendente usufruito dei permessi di cui all’articolo 33, comma 3, della Legge n. 104 del 1992, per finalità estranee all’assistenza dei genitori disabili.
Il giudice aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, sia in primo che in secondo grado, e tale interpretazione viene coerentemente confermata anche dalla Suprema corte.
La valutazione del giudice di appello ha confermato che fosse sostanzialmente garantita dal lavoratore l’assistenza ai genitori, nei sette giorni oggetto di investigazione, ed ha sottolineato come tale onere di assistenza dovesse valutarsi con la necessaria flessibilità, in modo da poter considerare anche i bisogni personali del dipendente e l’integrità del suo equilibrio psicofisico, sottoposto ad una gravosa prova per le incombenze legate alla cura dei familiari in difficili condizioni di salute; ciò secondo una interpretazione che tenga  conto dei principi costituzionali di tutela della salute e della solidarietà familiare.
Sulla base di tali premesse, escluso un utilizzo dei permessi in funzione “meramente compensativa” delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza fornita in orario extralavorativo, spetta al giudice di merito valutare se la fruizione dei permessi possa dirsi in concreto realizzata in funzione della preminente esigenza di tutela delle persone affette da disabilità grave, e nella salvaguardia di una residua conciliazione con le altre incombenze personali e familiari che caratterizzano la vita quotidiana di ogni individuo.
Nei casi in cui il lavoratore in permesso ex articolo 33, comma 3 cit., svolga l’attività di assistenza in tempi e modi tali da soddisfare in via preminente le esigenze ed i bisogni dei congiunti in condizione di handicap grave, pur senza abdicare del tutto alle esigenze personali e familiari altre rispetto a quelle proprie dei congiunti disabili e pure a prescindere dall’esatta collocazione temporale di detta assistenza nell’orario liberato dall’obbligo della prestazione lavorativa, non potrà ravvisarsi alcun abuso del diritto o lesione degli obblighi di correttezza e buona fede, quindi alcun inadempimento.


Comporto “secco” o “per sommatoria”, le differenti interpretazioni giudiziali

Cass., sez. Lavoro, 20 febbraio 2023, n. 5288

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Il tema del comporto “secco” o “per sommatoria” è stato più volte affrontato in sede giudiziale.
Il caso in esame aveva determinato la condanna alla reintegra nel posto di lavoro di un dipendente che – secondo l’interpretazione dei giudici del merito – non aveva superato nell’anno solare il periodo di comporto.
Il licenziamento veniva quindi dichiarato illegittimo e la società condannata al risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 18, Legge 20 maggio 1970, n. 300.
La Corte d’Appello era giunta alla suddetta conclusione applicando al caso di specie il concetto di “comporto secco” sulla base del combinato disposto degli articoli 175 e 177 del Ccnl Commercio del 18 luglio 2008 e giungendo alla conclusione che se ad un periodo di malattia, nello stesso anno, segue un’interruzione, comincia a decorrere un nuovo periodo di comporto.
Nello specifico, il lavoratore si era assentato per due periodi di malattia nell’arco del 2007, con soluzione di continuità tra i due eventi morbosi, e per nessuno dei due periodi si era verificato il superamento dei 180 giorni consecutivi. Per tale ragione la corte concludeva per l’illegittimità del licenziamento non essendosi determinato in nessuno dei due casi il superamento del comporto tale da giustificare il recesso dal rapporto lavorativo.
La società ricorre per cassazione ritenendo il ragionamento alla base dei giudici di merito non allineato con i criteri ermeneutici che  devono sottendere non solo alle norme di diritto, ma anche alle previsioni contrattuali contenute nei Ccnl, in particolare nel contratto collettivo citato.
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della società, afferma infatti che l’interpretazione operata dalla corte distrettuale, “ogni periodo di comporto ha durata di 180 giorni”, è una lettura isolata dal contesto delle previsioni contrattuali in cui è stata inserita.
In particolare tale previsione va ricollegata all’articolo 177 in cui si afferma che per malattia e infortunio valgono distinti ed autonomi periodi di comporto, ciascuno di 180 giorni cadauno. Ciò premesso, il concetto espresso non era certamente assimilabile al caso oggetto d’esame, in quanto nella specifica
fattispecie al lavoratore erano riferibili unicamente due periodi di assenza per malattia.
Ma la Corte di Cassazione fa ulteriori precisazioni.
In primo luogo, dall’analisi del Ccnl citato, non vi sono elementi a supporto per desumere in modo chiaro che in caso di interruzione della malattia decorra automaticamente un nuovo periodo di comporto, ed inoltre, non vi è neppure lo specifico riferimento contrattuale al carattere consecutivo, e quindi ininterrotto delle assenze per malattia.
Si aggiunga a questo che l’utilizzo del termine “periodo” in forma singolare non depone certo a favore di un’interpretazione che permetta la conservazione del posto di lavoro a fronte di più periodi di assenza per malattia che per sommatoria determino il superamento dei 180 giorni.
Per il caso in esame la Corte di Cassazione ha quindi concluso per il rinvio alla medesima Corte d’Appello in diversa composizione per una nuova pronuncia giudiziale.

 

 


Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Onere della prova in caso di repêchage

Cass., sez. Lavoro, 12 gennaio 2023 n. 749

Clara Rampollo, Consulente del Lavoro in Pavia

La vicenda riguarda un lavoratore licenziato a causa della soppressione del magazzino, al quale era adibito, il quale impugna il licenziamento intimato dall’Istituto sanitario. Si riassume, brevemente, che la Corte d’Appello di Salerno, in sede di reclamo ed in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato il 14.11.2014 in considerazione della sussistenza della ragione organizzativa e della mancanza di residue mansioni ove adibire il lavoratore.

La Corte territoriale – pacifica la soppressione del magazzino – ha ritenuto che il concorso di diversi elementi deponeva per l’insussistenza di posti ove adibire il lavoratore posto che il datore di lavoro aveva dimostrato l’assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato, etc. etc. Il lavoratore propone, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a un motivo; l’Istituto ha depositato controricorso. In particolare, con l’unico motivo il ricorrente denuncia (per violazione degli artt. 3 e 5 della Legge n. 604 del 1966 e 2697 cod.civ. (ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.), che la Corte distrettuale ha erroneamente applicato il criterio della distribuzione dell’onere della prova, addossando al lavoratore la prova inerente all’impossibilità di reimpiego in azienda.      

Il ricorso non è fondato.

Infatti, così quanto riportano gli Ermellini – secondo orientamento oramai consolidato della Corte di Cassazione, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (a seguire GMO), incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del GMO, che include anche l’impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore; incombe sul datore di lavoro l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione o al funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte;

  • la impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse costituisce elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore (Cass., n. 24882 del 2017);
  • circa l’onere di allegazione di posti disponibili per una utile ricollocazione, è stato osservato che esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all’interno dell’azienda significa, se non invertire sostanzialmente l’onere della prova (che – invece – la legge n. 604 del 1966, art. 5, pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio; invece, alla luce dei principi di diritto processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte. Infatti, chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione; – si aggiunge che, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai fini del repêchage, ove il lavoratore medesimo non indichi posizioni lavorative alternative oppure indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili ma queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repêchage; si noti che tali principi operano sul diverso piano della ricostruzione del quadro probatorio.

Tanto premesso, gli Ermellini precisano che il passaggio argomentativo contenuto nella sentenza impugnata in cui si è affermato che spetta al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’esistenza di posti di lavoro effettivamente disponibili in cui poter utilmente inserire il lavoratore si colloca nell’alveo del suddetto orientamento interpretativo. Inoltre, così ancora si legge nella sentenza, la Corte territoriale ha ritenuto provata la carenza di posti residuali nei quali adibire il lavoratore, in forza di molteplici elementi probatori (l’Istituto aveva dimostrato, depositando il L.U.L., l’assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato; etc…): l’allegazione del lavoratore è valsa, quindi, a integrare il quadro della prova presuntiva nel quadro complessivo degli elementi acquisiti al processo che la sentenza impugnata, secondo l’accertamento di merito che le era demandato, ha ritenuto utilizzabili per giungere ad escludere, nel giudizio finale e complessivo, la possibilità di ricollocazione del ricorrente in azienda, accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità. In conclusione, il giudizio espresso dal giudice di merito deve essere ritenuto conforme a diritto in quanto condotto nell’ambito della prova presuntiva del fatto negativo acquisibile anche attraverso fatti positivi, tra i quali ben possono essere inclusi i fatti indicati dal lavoratore ed acquisiti al processo. Attenzione: il principio non vale invece ad invertire l’onere della prova di cui ai principi sopra indicati, peraltro espressamente richiamati anche dalla sentenza impugnata.

 


Licenziamento ritorsivo: onere della prova

Cass., sez. Lavoro, 24 gennaio 2023, n. 2117

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

 

Con questa sentenza la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sul tema del licenziamento ritorsivo ribadendo il principio, già affermato da numerose pronunce della stessa Corte e della giurisprudenza di merito, per il quale nel caso in cui il lavoratore licenziato, per motivi disciplinari od oggettivi, alleghi la nullità del licenziamento perché ritorsivo, grava sul lavoratore l’onere della prova che l’intento ritorsivo del datore di lavoro sia determinante, cioè tale da costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale. La peculiarità della sentenza in commento deriva dal fatto che nel caso sottoposto all’esame della Corte il licenziamento impugnato dal lavoratore era stato intimato dalla società per giustificato motivo oggettivo all’esito della procedura prevista dall’art. 7 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall’art. 1, co. 40, della L. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. legge Fornero) e il lavoratore aveva addotto, tra l’altro, la ritorsività del recesso proprio per il suo rifiuto di trovare un accordo nell’ambito di tale procedura (oltre che come reazione ad una causa avviata dal lavoratore per il pagamento di differenze retributive). Il Tribunale, in sede sommaria e all’esito dell’opposizione, aveva escluso il carattere ritorsivo del licenziamento e ritenuto sussistente il giustificato motivo oggettivo posto a base dello stesso rappresentato da difficoltà economiche della società. La Corte d’appello, invece, aveva accolto il reclamo del lavoratore, ritenendo il licenziamento ritorsivo in quanto surrettiziamente giustificato da difficoltà economiche che la società non era stata in grado di dimostrare ma, secondo la Corte d’Appello, intimato come reazione al contenzioso avviato dal lavoratore. La società ha impugnato la sentenza evidenziando che il Giudice del reclamo avrebbe erroneamente valorizzato i tempi di avvio della procedura ex art. 7, L. n. 604/66 e quelli di promozione dell’azione giudiziaria da parte del lavoratore, senza considerare che il ricorso del lavoratore era stato notificato alla società solo a procedura di licenziamento già avviata. La Suprema Corte ha cassato la sentenza d’appello evidenziando che “il procedimento per l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inizia … con quella manifestazione di volontà, già delineata nei suoi contorni, che è oggetto della comunicazione che deve essere inoltrata alla commissione territoriale per attivare la preventiva procedura di conciliazione ed è a quel momento che deve in primo luogo aversi riferimento per valutare se la scelta datoriale sia improntata o meno ad un intento ritrosivo”. Nel caso in esame, invece la Corte d’Appello non aveva esaminato il contenuto e i tempi della comunicazione di avvio della procedura di conciliazione ex art. 7, L. n. 604/66, ancorché depositata dalla società, comunicazione che, secondo la Corte, può essere decisiva per stabilire “se sussista o meno un nesso di consequenzialità tra la scelta datoriale di procedere al licenziamento – manifestata proprio con tale comunicazione e perfezionatasi con il licenziamento intimato per effetto della mancata conciliazione stragiudiziale – e la successiva e in parte parallela azione giudiziaria intrapresa dal lavoratore”.

In sede di giudizio di rinvio la Corte d’Appello dovrà, dunque, riesaminare la controversia tenendo conto del dato di fatto rappresentato dalla comunicazione di avvio della procedura di licenziamento e della sua incidenza ritrosiva o meno sulla scelta del datore di lavoro verificando, in ogni caso, l’effettività delle ragioni economiche poste a base del recesso che, se dimostrate, escluderebbero il carattere ritorsivo del recesso atteso che, come già evidenziato, l’intento ritorsivo del datore di lavoro – che può essere provato anche mediante presunzioni semplici – deve essere il motivo unico e determinante del recesso.


 L’assoluzione nel procedimento penale non pregiudica il procedimento disciplinare

Cass., sez. Lavoro, 10 gennaio 2023, n. 398

Clarissa Muratori, Consulente del lavoro in Milano

La sentenza in commento si allinea a diverse altre pronunce giudiziali in cui la Corte di Cassazione ribadisce che, in caso di assoluzione del lavoratore in sede penale, il procedimento disciplinare non necessariamente ne subirà pregiudizio.

Se un fatto può non costituire reato in un giudizio penale, questo stesso può ben rappresentare una fattispecie idonea ad integrare un inadempimento sotto il profilo disciplinare, pertanto l’assoluzione del lavoratore in sede penale non determina ipso facto l’annullamento della sanzione disciplinare.

Nel caso specifico un dirigente impugnava il  licenziamento per giusta causa, comminatogli per aver intrattenuto rapporti con persone condannate per reati ai danni della società, ed in particolare chiedeva la condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità di mancato preavviso e al risarcimento del danno patito, in virtù della sua assoluzione in sede penale.
Risultato soccombente sia in primo che in secondo grado, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione sulla base del fatto che penalmente era stato assolto.
La Cassazione nell’avallare la corretta condotta tenuta dai giudici di merito durante i due procedimenti civili che vedevano confermata la sanzione del licenziamento per giusta causa con rigetto delle richieste del dirigente, torna su un aspetto molto rilevante:
in primo luogo i procedimenti penale e civile godono di reciproca autonomia, ma soprattutto è ben possibile che una fattispecie non sia idonea ad integrare un fatto di reato, ma ciononostante rappresenti un fatto perseguibile disciplinarmente.
Secondo la Cassazione il caso era stato correttamente ricostruito ed analizzato dai giudici, anche alla luce di un ulteriore e imprescindibile aspetto in tema di procedimento disciplinare: il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
Laddove, a fronte di fatti concretamente accertabili e idonei a costituire un illecito disciplinare, si spezzi l’indispensabile vincolo fiduciario tra i soggetti in causa, la circostanza non può certamente essere sottovalutata, potendo portare ad irrogare quella più grave tra le sanzioni previste dal codice disciplinare.
Nel caso oggetto di analisi quindi la sanzione espulsiva deve essere ritenuta legittima.


Licenziamento per GMO con soppressione della posizione lavorativa: tutela reintegratoria 

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2022, n. 37949

Margherita Bottino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte d’Appello di Bologna, in conformità a quanto sancito dal Tribunale della medesima città, ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato al lavoratore a seguito di un calo di fatturato nel settore delle vendite.

Contrariamente ai Giudici di prime cure ha però, in parziale accoglimento del reclamo proposto dalla società datrice di lavoro, accordato il rimedio indennitario in luogo della reintegrazione disposta in prima istanza. Secondo la Corte d’Appello, infatti, considerati i margini di equivocità delle risultanze probatorie e la parziale dimostrazione del calo di fatturato, non ricorrendo una ipotesi di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, ha ritenuto non fosse corretto il riconoscimento della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, co. 7 e 4 dello Statuto dei lavoratori, in luogo di quella indennitaria prevista dai commi 7 e 5.

Il lavoratore, ritenendo erronea l’interpretazione dell’art.18 ad opera della Corte di merito, in quanto non in linea con i precedenti interventi dalla Corte Costituzionale, decideva di adire il giudizio della Corte Suprema. La Corte di Cassazione riprendendo l’apparato sanzionatorio delineato dall’art. 18 da applicare in caso di accertamento dell’illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, così come inciso dalle precedenti sentenze della Corte Costituzionale (cfr., C. Cost. n. 59/2021 e n. 125/2022), ha ribadito quanto segue: il giudice, una volta accertata l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina – in simmetria col regime dei licenziamenti soggettivi – la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica.

Pertanto, in parziale accoglimento del ricorso promosso dalla lavoratrice cassa la sentenza e rimettendo la causa alla Corte d’Appello di Bologna.


La declaratoria di nullità del licenziamento è un fatto autonomo

Cass., sez. Lavoro, 10 gennaio 2023, n. 404

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La Cassazione si è espressa riguardo al ricorso presentato dal lavoratore licenziato prima del trasferimento dell’azienda. La sentenza impugnata aveva ritenuto che il lavoratore -licenziato dalla società cedente- che aveva contestato il licenziamento nei confronti della stessa società entro il primo termine di 60 giorni, avrebbe dovuto entro il successivo termine di 180 giorni, alternativamente depositare il ricorso oppure promuovere il tentativo di conciliazione nei confronti della stessa società cedente e non nei confronti della società già subentrata nell’azienda e in tutti i rapporti giuridici ex art. 2112 c.c..

I giudici specificano che il licenziamento, quale atto unilaterale recettizio, produce i suoi effetti estintivi nel momento in cui perviene al destinatario. La risoluzione del rapporto di lavoro, se realizzata prima della cessione dell’azienda o di un suo ramo, impedisce di ritenere immediatamente operante il principio di continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario, di cui al primo comma dell’art.2112 c.c., che presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento della cessione d’azienda. La società cedente conserva pertanto il potere di recesso e il trasferimento della società non impedisce il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In caso di licenziamento ante cessione di azienda, la garanzia offerta dall’art. 2122 c.c. opera nei riguardi di una sentenza di illegittimità del recesso con tutela ripristinatoria. In sintesi, nel caso di un licenziamento intimato anteriormente al trasferimento dell’azienda, la garanzia dell’art. 2112 c.c. opera solo a condizione che vi sia la dichiarazione di nullità o illegittimità del licenziamento, con la conseguenza di ripristino del rapporto di lavoro alle dipendenze della società cedente pertanto, “la declaratoria di nullità del licenziamento o il suo annullamento costituiscono dunque un dato pregiudizievole ed autonomo – sul piano logico e sul piano giuridico – rispetto all’accertamento del trasferimento d’azienda e dei suoi effetti”, con la conseguenza che la contestazione del licenziamento resta sottoposta alle sue proprie regole.

Il ricorso è respinto.


Lavoro ed occupazione: il fenomeno del mobbing

Cass., sez. Lavoro, 3 febbraio 2023, n. 3361

Stefano Gugliemi, Consulente del lavoro in Milano

La lavoratrice ricorreva ai sensi del Decreto Legislativo n. 198 del 2006, articolo 38,
comma 3, chiedendo l’accertamento e la repressione del comportamento asseritamente
discriminatorio tenuto dalla parte datoriale connesso alla disdetta dal contratto di apprendistato professionalizzante intimata dal datore a fronte di circa duecento apprendisti assunti a tempo indeterminato ed alle modalità di svolgimento del periodo di apprendistato-formazione; il fattore di discriminazione era individuato con riferimento alle due gravidanze portate a termine dalla lavoratrice nel corso del rapporto di apprendistato.
Il giudice di primo grado ordinava al datore di cessare il comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti reintegrando la lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato.
La Corte di Appello ha respinto la originaria domanda per essere gli elementi addotti dalla lavoratrice a sostegno del carattere discriminatorio della condotta del datore privi dei necessari caratteri di precisione e concordanza tali da fondare una presunzione di comportamento discriminatorio superabile solo in presenza di prova negativa offerta dalla parte datoriale.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la lavoratrice.
Occorre muovere dai principi che regolano la materia come ricostruiti dalla giurisprudenza della Corte ed in particolare da Cass. n. 5476/2021, secondo la quale “in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, il Decreto legislativo n. 198 del 2006, articolo 40 stabilisce un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta
solo a dimostrare una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta”.
Alla luce di tali indicazioni la lavoratrice era onerata della sola dimostrazione di essere portatrice di un fattore di discriminazione e di avere subito un trattamento svantaggioso in connessione con detto fattore.
In corrispondenza con le richiamate coordinate ermeneutiche la Corte territoriale era quindi tenuta in primo luogo a verificare sulla base di un ragionamento presuntivo la esistenza di un possibile fattore di discriminazione in relazione alla disdetta dal solo contratto di apprendistato (atteso che la Corte di merito ha logicamente congruamente motivato circa la non ravvisabilità di un fattore di discriminazione con riferimento alle ripetute proroghe del periodo di formazione)
ed, in caso di esito positivo, se la parte datoriale avesse assolto al proprio onere di allegare e dimostrare circostanze destinate a superare la presunzione di discriminazione.
Tanto non è in concreto avvenuto.
In base alle considerazioni che precedono, assorbita ogni altra censura, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio per il riesame della concreta fattispecie alla luce delle indicazioni sopra formulate.


Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Licenziamento per GMO per ragione organizzativa: nesso di causalità intercorrente tra il calo di volume di affari e il licenziamento e nuove assunzioni incoerenti con la contrazione del fatturato

Cass., sez. Lavoro, 12 gennaio 2023, n. 752

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Corte di Appello di Potenza, in riforma della sentenza del Tribunale di Matera, ha respinto la domanda di annullamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato dalla società alla lavoratrice, addetta a mansioni di estetista con orario part time pari a 24 ore settimanali, per esigenza di ridurre i costi di gestione e necessità di procedere alla riorganizzazione dell’azienda.
La Corte, esaminato preliminarmente il profilo della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo rispetto alla dedotta ritorsività del recesso, ha ritenuto sussistente la ragione organizzativa addotta dalla società.
Ha aggiunto che la scelta di licenziare la lavoratrice rispetto ad altre lavoratrici, a parità di carichi di famiglia e di qualifica professionale, appariva corretta e rispettosa dei principi di buona fede e  correttezza, a fronte del minor monte ore di lavoro svolto dalla stessa rispetto alle colleghe.
Per la cassazione di tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso. La società resiste con controricorso.
Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
La Corte distrettuale ha erroneamente valutato la prova documentale consistente nello stato  patrimoniale depositato dalla società  per gli anni 2016 e 2017: il dato da valutare per verificare l’effettiva sopravvenuta congiuntura sfavorevole era, invero, corrispondente alla comparazione degli utili ottenuti
nei due anni (sui quali influiscono i costi affrontati) e non già alla comparazione dei ricavi.
L’assunzione di tre lavoratrici, inoltre, spezza il nesso di causalità tra crisi economica e licenziamento della lavoratrice. Il ricorso è fondato per quanto di ragione.
La ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affermato che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni  inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro  sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost.; dove, però, il giudice accerti in concreto l’inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta (Cass., n. 10699 del 2017, Cass., n. 9468 del 2019).
La valutazione del nesso di causalità tra esigenze di riorganizzazione del personale riferibili alla contrazione del fatturato e il licenziamento della lavoratrice non risulta coerente con l’assunzione (aprile 2017) di due lavoratrici (di cui la Corte territoriale non precisa né il tipo di contratto stipulato, né la  qualifica rivestita, né l’orario di lavoro osservato, limitandosi a rilevare che “probabilmente” sostituivano la lavoratrice) avvenuta proprio durante l’anno (2017) che ha presentato il  calo dei ricavi (ossia del volume di affari sviluppato dalla società), assunzioni effettuate a pochi mesi dal rientro della lavoratrice in azienda (settembre 2017) e che hanno inevitabilmente determinato l’incremento dei costi del personale; le gravi lacune di indagine in ordine alla coerenza logica ed al nesso di causalità intercorrente tra l’accertato calo di volume di affari (posto che il riferimento ai ricavi rappresenta, pur sempre, un  indice per valutare l’andamento dell’impresa) e il licenziamento della lavoratrice, a fronte dell’assunzione di due lavoratrici (che, in un contesto di contrazione di attività, ha fatto lievitare i costi del personale) ha compromesso la corretta verifica della sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 3 della Legge n. 604 del 1966 che consentono al datore di lavoro di precedere al recesso.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Salerno, che provvederà altresì alle spese del giudizio di legittimità.


Riconoscimento del danno se la rotazione della CIGS è illegittima

Cass., sez. Lavoro, 16 dicembre 2022, n. 37021

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con l’ordinanza n. 37021 del 16 dicembre  2022, la Corte Suprema di Cassazione ha affermato che spetta il risarcimento del danno al lavoratore quando, in caso di accesso al procedimento di cassa integrazione
guadagni straordinaria (“Cigs”), il datore di lavoro decida discrezionalmente e senza definire i criteri di scelta la sospensione lavorativa senza un’adeguata rotazione.
I fatti di causa hanno visto un datore di lavoro ricorrere in appello dopo che, in primo grado, era stata ritenuta illegittima la sospensione in Cigs a “zero ore” di una lavoratrice.
In tale grado di giudizio, la società datrice di lavoro era stata condannata al pagamento delle differenze retributive dovute alla lavoratrice stessa per i periodi di fruizione della Cigs. Dette differenze consistevano nell’integrazione del trattamento erogato da Inps da parte della società, fino ad arrivare allo stipendio intero che la lavoratrice avrebbe dovuto ricevere se avesse prestato lavoro per tutto il periodo di sospensione a “zero ore”.
Data la conferma, da parte della competente Corte di Appello, della sentenza formatasi in primo grado, il datore di lavoro ricorreva per la sua cassazione attraverso diversi motivi di ricorso. Questi venivano tutti respinti dalla Corte di Cassazione, alla luce delle considerazioni seguenti.
In merito alla prescrizione breve delle somme richieste dal lavoratore, asserita dal datore di lavoro sulla base di quanto previsto dall’articolo 2948 c.c., i giudici di legittimità hanno ritenuto che “per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto all’ordinaria prescrizione decennale”.
Per quanto riguarda l’avvio stesso dei diversi periodi di Cigs e le motivazioni che lo hanno sorretto, la Cassazione ha osservato come gli accordi che, nel tempo, si sono succeduti propedeuticamente a ciascun avvio facessero riferimento a “esigenze tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi”.
Emergeva, dunque, come il criterio adottato dal datore di lavoro risultasse “totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnicoproduttive e, per certi aspetti, anche arbitrario”.
In sostanza, il datore di lavoro aveva “autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati – anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione”.
Nella sentenza della Suprema Corte viene chiaramente rappresentato come, durante un periodo di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale con conseguente ricorso alla Cigs, vengano in capo alla parte datoriale degli specifici obblighi in tema di indicazione e comunicazione agli organismi sindacali dei criteri di scelta del personale soggetto all’integrazione salariale, nei confronti del quale deve essere garantita un’adeguata rotazione. Se ciò non viene fatto o attuato, il provvedimento di Cigs risulta  illegittimo, in quanto al datore di lavoro non è consentita la scelta arbitraria dei lavoratori da sospendere.
Come noto, infatti, i criteri di scelta da considerare sono relativi ad anzianità aziendale, carichi di famiglia ed esigenze organizzative, e gli stessi devono essere parte integrante delle comunicazioni e dell’esame congiunto previsto dalla norma, come disposto dal comma 7 dell’articolo 1 della Legge n. 223/1991, al tempo vigente. Se questi criteri non vengono rispettati o nemmeno definiti da un accordo, il provvedimento di Cigs risulta inevitabilmente illegittimo.
In particolare, secondo gli Ermellini, il lavoratore sospeso senza che il datore di lavoro abbia attuato i criteri previsti dall’accordo sindacale ha diritto a rivendicare la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l’inadempimento della clausola di “rotazione”.
In questo caso, il datore di lavoro è responsabile secondo il principio della “mora del debitore”, ai sensi dell’art. 1218 c.c., a meno che questi dimostri che ciò non è avvenuto per cause di forza maggiore oppure per questioni organizzative a lui non imputabili.


Verbali di accertamento degli organi ispettivi: sono elemento di prova anche se presentano incolmabili lacune dimostrative

Cass., sez. Lavoro, 14 dicembre 2022, n. 36573

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Una Srl propone ricorso in Cassazione dopo che la Corte d’Appello di Catanzaro ha riconosciuto fondate le pretese dell’Inps, in relazione ad un verbale ispettivo che accertava un debito contributivo della società pari ad euro 369.519,67.
In Appello la Corte non aveva censurato la decisione del Tribunale anche se tale decisione fosse stata determinata da un verbale che in giudizio non era stato nemmeno prodotto dall’Inps, bensì dalla società stessa e i cui contenuti erano stati ritenuti efficacemente probatori.
La società, nel ricorso in Cassazione, denuncia che il giudice di merito avrebbe attribuito valore di prova legale ad un verbale ispettivo che presentava incolmabili lacune dimostrative e neppure era stato  confermato dall’Inps, che peraltro non si era neppure costituito.
Per la Suprema Corte però, può esserci la violazione dell’articolo 116 c.p.c. solo se il giudice nel valutare la prova o una risultanza probatoria, pretende di attribuire un altro o diverso valore, oppure la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione e il giudice dichiara di valutare la stessa prova secondo il suo “prudente apprezzamento”.
La Suprema Corte conferma quindi che i verbali di accertamento degli organi ispettivi, fanno piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante, come avvenuti in sua presenza e conosciuti. Detti verbali costituiscono elemento di prova che il giudice deve valutare in concorso con gli altri elementi e che può disattendere solo in caso di motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio.
In definitiva, il ricorso è dichiarato inammissibile perché il materiale istruttorio acquisito al giudizio, legittima comunque la pretesa dell’Ente previdenziale, indipendentemente dalla sua provenienza e tenuto conto degli altri documenti prodotti dall’Istituto: copia del libro matricola e scheda anagrafica aziendale.


Omissione dolosa di cautele infortunistiche

Cass., sez. Lavoro, 25 ottobre 2022, n. 40187

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

I giudici della Suprema corte di Milano si sono trovate a dirimere i motivi di un ricorso relativo alla sicurezza.
Il ricorrente, nella qualità di datore di lavoro di più società, veniva imputato per non aver adottato cautele antinfortunistiche atte a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, con riferimento a 14 autisti di più società di cui era amministratore.
In particolare, si contesta all’imprenditore di avere usato una calamita per manomettere i dati del cronotachigrafo, in un periodo dal 2010 al 2013, minacciando il loro licenziamento se si fossero rifiutati. Il giudice di primo grado aveva irrogato, all’esito di rito abbreviato, la pena di un anno e otto mesi di reclusione rigettando le richieste delle parti civili.
In secondo grado, il giudice dell’appello condanna il datore G.P.V., ma gli concede le circostanze attenuanti generiche, rideterminandone la pena irrogata in un anno, un mese e venti giorni di reclusione e concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento degli importi indicati entro tre mesi dall’irrevocabilità della sentenza.
Gli avvocati dell’imprenditore hanno presentato ricorso con alcuni argomenti sostanziali e formali, parzialmente rigettati dagli Ermellini, che ribadiscono infatti che la responsabilità dell’impresa non sia solo “commissiva”, ossia l’imposizione delle calamite, ma anche “omissiva”, evitando il controllo sul funzionamento del cronotachigrafo: il cronotachigrafo è un apparecchio per sua natura destinato alla prevenzione d’infortuni sul lavoro.
Quindi, il datore di lavoro che imponga l’alterazione di un apparecchio avente finalità di prevenzione degli infortuni, risponde del reato di cui all’articolo 437 codice penale, sulla base di numerose sentenze Europee su casi simili.
Tuttavia, a fronte di ampia riflessione condotta dalla Corte, deve essere rilevata l’intervenuta prescrizione del reato continuato ascritto.
Tenuto conto, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 157 e 160 c.p. della pena massima edittale per il reato indicato, e del fatto che esistono plurime cause interruttive del corso della prescrizione, il reato ascritto a G.P.V. è prescritto alla data del 30 novembre 2020, data alla quale deve essere aggiunto il periodo di sospensione del corso della prescrizione di 4 mesi e 30 giorni.
Deriva da quanto sin qui esposto l’annullamento senza rinvio, agli effetti penali, della sentenza  impugnata, posto che il reato continuato ascritto all’imputato è, come detto, estinto per intervenuta prescrizione.


Licenziamento per giustificato motivo e la questione dell’aliunde perceptum

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2022, n. 37946

Clara Rampollo, Consulente del Lavoro in Milano

La vicenda trae origine dal licenziamento di una lavoratrice, poi reintregrata nel posto di lavoro con conseguente condanna del datore di lavoro alla corresponsione della retribuzione globale di fatto nel frattempo maturata, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

In sede di Appello si registra una sostanziale coincidenza con la posizione espressa dal Tribunale: viene rilevato il difetto delle ragioni addotte dal datore di lavoro per giustificare il recesso e del conseguente nesso di causalità in quanto non è stata ritenuta configurabile la riorganizzazione.

In Cassazione, ove la società datrice di lavoro presenta ricorso (che viene respinto), in sintesi si riportano le seguenti posizioni che meritano di essere messe in rilievo:

– “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa: non essendo la scelta imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro, sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost. (sul punto la sentenza riprende plurime Cassazioni); sempre che, s’intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non risultando il recesso pretestuoso.”

Ciò premesso, la Corte di Appello aveva “dato conto della pretestuosità del giustificato motivo oggettivo addotto consistendo in una riduzione della figura del department manager (ovvero del responsabile di reparto) originariamente ricoperta dalla controricorrente, per effetto di una complessiva riorganizzazione aziendale intervenuta a far tempo dal febbraio 2015, ma nel punto vendita di via Borgognona, ove la lavoratrice era stata trasferita sin dall’1 luglio 2014, non era affatto presente la figura del responsabile di reparto – prevedendo l’organico di tale punto vendita esclusivamente la figura del direttore e del vice direttore, nonché di nove assistenti alla vendita. Il giudice di secondo grado ha, quindi, chiarito che la lavoratrice aveva ivi svolto l’attività di addetta alle vendite, con conseguente dequalificazione, aggiungendo che tale circostanza non era stata in alcun modo contestata dalla società, risultando, quindi, pacifica fra le parti ”;

– si riprende, infine, molto brevemente un altro passaggio della sentenza che riguarda il c.d. aliunde perceptum.

Sul punto la Cassazione ricorda che in tema di licenziamento illegittimo, il cd. “aliunde perceptum” non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, pertanto, “allorquando vi sia stata la rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata e se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato, nondimeno, gli elementi fattuali posti a fondamento dell’aliunde perceptum devono essere ritualmente allegati dalla parte che lo deduca”.

E nel caso in esame, il datore di lavoro non aveva dedotto o allegato, nella fase sommaria, ovvero in quella di opposizione, fatti o circostanze relativi a presunti redditi percepiti dalla lavoratrice dopo il licenziamento; inoltre, a tale mancata allegazione non possono supplire le istanze istruttorie avanzate dalla società (consistenti nell’interrogatorio formale e nella richiesta di documentazione all’Inps ed alla Agenzia delle Entrate), tenuto conto che le richieste istruttorie possono essere correttamente volte alla sola dimostrazione dei fatti ritualmente indicati ed allegati.


Tra subordinazione e autonomia …l’abito fa il monaco

Cass., sez. Lavoro, ordinanza 30 dicembre 2022, n. 38182

L’art. 2094 c.c. è come un abito su misura e nei dettagli risiede l’individualizzazione di uno status: con l’ordinanza n. 38182 del 30/12/2022 viene rigettato il ricorso presentato dalla ricorrente avente ad oggetto la riqualificazione in via giudiziale di un rapporto di lavoro autonomo in lavoro subordinato e la conseguente inefficacia del licenziamento orale intimato. In particolare, lo si anticipa, il ricorso viene rigettato in quanto lo stesso contiene censure che non riguardano la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, ma investono unicamente la valutazione delle risultanze processuali, attraverso ampi riferimenti alle prove testimoniali e non possono trovare ingresso in sede di legittimità. Gli elementi indiziari, così continua la Corte, evidenziati nel motivo di ricorso non sono astrattamente incompatibili con forme di lavoro diverse da quello descritto dall’art. 2094 c.c., come il lavoro accessorio, di cui agli artt. 48 e ss. D.lgs. n. 81 del 2015, nel testo ratione temporis applicabile.
Tanto premesso, l’ordinanza merita di essere annotata per aver sottolineato che l’art. 2094 c.c. individua gli elementi necessari per definire il concetto di subordinazione tra le parti, in cui un soggetto  lavoratore) presta la sua forza psico fisica ad un altro soggetto (datore di lavoro) a fronte di una controprestazione in denaro e/o in natura.
L’attività del lavoratore è parte integrante della struttura e del buon funzionamento dell’attività imprenditoriale del datore di lavoro, non un mero risultato di essa, come sottolineato dagli stessi Giudici. Tale assoggettamento, così sempre la Corte, non costituisce un dato di fatto elementare
quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze. E ove tale modalità di essere non sia agevolmente apprezzabile, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi (come, ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l’assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale),
che hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria (sul punto l’ordinanza rimanda a plurime Cassazioni). Questi elementi, lungi dall’assumere valore decisivo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, costituiscono indizi idonei ad integrare una prova presuntiva della subordinazione, a condizione che essi siano fatti oggetto di una valutazione complessiva e globale,
così conclude la Corte.

 

 


Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

E’ tenuto al pagamento dei debiti maturati nei confronti dei lavoratori cessati chi subentra per cessione di azienda nella proprietà

Cass., sez. Lavoro, 18 novembre 2022, n. 34036

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

Chi subentra nella cessione di azienda come proprietario e datore di lavoro è tenuto a farsi carico dei debiti dell’azienda ceduta, anche nei confronti dei dipendenti ormai cessati. È l’assunto ribadito dalla Suprema corte di Brescia nell’analisi del ricorso da parte della Società Cooperativa Sociale che è subentrata alla precedente Società cooperativa sociale per incorporazione. I dipendenti della precedente società hanno convenuto in giudizio la nuova proprietà, chiedendo il pagamento di differenze retributive, per mancato riconoscimento degli aumenti contrattuali nazionali e/o territoriali,  mancata applicazione degli aumenti periodici di anzianità e relativa incidenza sul calcolo delle ferie, dei permessi, dei congedi, delle festività, delle mensilità aggiuntive e dell’elemento retributivo territoriale, maturate nel periodo di lavoro alle dipendenze della cooperativa sociale incorporata dalla convenuta, quando i rapporti di lavoro in oggetto erano già cessati. Respinte le domande in primo grado, in appello i lavoratori si sono visti accordare, in parziale riforma della sentenza di primo grado, il pagamento delle somme in favore di ciascuno come in dispositivo indicate, oltre accessori, a titolo di differenze derivanti dal calcolo degli scatti di anzianità nei limiti della prescrizione.
Ricorre in Cassazione la nuova Cooperativa, con quattro motivi.
Con il primo motivo di ricorso addotto, la Società cooperativa sosteneva la violazione e falsa applicazione dell’art. 2504 bis del c.c. in combinato disposto con l’art.2112 c.c. adducendo che la fusione per incorporazione fosse regolata in tutti i suoi aspetti, anche in relazione ai rapporti di lavoro ed alle obbligazioni da essi derivanti. Tale motivo è considerato infondato.
Con il secondo motivo, anch’esso ritenuto infondato, sosteneva che mancava l’applicabilità alla fattispecie in esame, di fusione per incorporazione, del principio del rispetto dell’ordinamento comunitario da parte dei singoli ordinamenti nazionali.
Con il terzo motivo di ricorso censurava la sentenza impugnata per avere violato le disposizioni nazionali e comunitarie le quali stabiliscono la responsabilità del soggetto incorporante per i crediti del lavoratore  nell’ipotesi di rapporto di lavoro in essere al momento del trasferimento. Anche questo motivo, come i precedenti, è ritenuto infondato.
La cassazione dei primi tre motivi persegue la linea delle precedenti cassazioni, Cass. n. 30577/2021, dove si conferma che alla fusione sia collegato un generale subentro della società che da essa risulta in tutti i diritti e gli obblighi delle società ad essa partecipanti.
Il quarto motivo di ricorso, incentrato sulla violazione dell’art. 2560 c.c., è anch’esso infondato in quanto, come chiarito dalla Corte, la fusione di società realizza una successione a titolo universale, corrispondente a quella mortis causa, con la conseguenza che il soggetto risultante dalla fusione (per incorporazione) diviene l’unico e diretto obbligato per i debiti dei soggetti definitivamente estinti per effetto della fusione, debiti tra i quali vanno ricompresi quelli nascenti da rapporti di lavoro subordinato con le preesistenti società, a prescindere dai requisiti di conoscenza o conoscibilità dei debiti medesimi, sulla linea delle precedenti Cassazioni n. 13286/2015.
Pertanto, gli Ermellini respingono il ricorso e condannano la nuova cooperativa sociale alla rifusione delle spese di lite secondo soccombenza.


Comportamenti stressogeni a danno del lavoratore

Cass., sez. Lavoro, 11 novembre 2022,n. 33428

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte d’Appello di Genova ha riformato la sentenza del Tribunale di La Spezia e respinto tutte le domande proposte dal la[1]voratore contro il datore, di cui era stato dipendente da marzo 1985 al 30 aprile 2014 quale informatore scientifico del farmaco, e condannato il medesimo alla restituzione delle somme corrisposte in forza della sen[1]tenza di primo grado, nonchè alla rifusione delle spese di lite ed al pagamento delle spese della CTU espletata in primo grado. Il Tribunale spezzino, infatti, svolta ampia istruttoria testimoniale e tecnica, accertata la sussistenza di grave demansionamento e di comportamenti mobbizzanti in danno dell’informatore a decorrere da settembre 2012, in parziale accoglimento del ricorso aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno biologico temporaneo, del danno biologico permanente, del danno alla dignità ed all’immagine personali e professionali, oltre rimborso delle spese mediche sostenute ed accessori. La Corte genovese, in accoglimento dell’appello principale del datore, ha ritenuto che il Tribunale avesse assegnato rilevanza eccessiva alle attività di carattere commerciale svolte dall’originario ricorrente ai fini dell’accerta[1]mento del demansionamento, tenuto anche conto del fatto che tali mansioni erano state contestate solo con il ricorso introduttivo dopo quasi 30 anni di attività. Ha conseguentemente ritenuto assorbito l’appello incidentale del lavoratore diretto all’accertamento dell’interruzione del rapporto di lavoro alla fine del periodo di comporto per fatto e colpa del datore di lavoro, al connesso risarcimento dei danni, ad una liquidazione dei danni riconosciuti in misura maggiore e per ulteriori voci; avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione il lavoratore. La Corte d’Appello nella valutazione del demansionamento, a differenza del Tribunale, ha ricondotto all’area della percezione soggettiva la situazione lavorativa per cui è causa, venutasi a modificare da settembre 2012. Non ha, tuttavia, tenuto conto della rilevanza del fattore organizzativo – e delle connesse possibili situazioni di costrittività organizzativa – all’interno del perimetro rappresentato dal complessivo dovere di tutela della salute, anche psichica del lavoratore, ai sensi dell’obbligo datoriale di protezione di cui all’articolo 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di cui all’articolo 2103 c.c.. Il riconoscimento della rilevanza in tale ambito di tecnopatie da costrittività organizzativa è rinvenibile nella circolare Inail n. 71 del 17 dicembre 2003, intitolata “Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche”, con individuazione delle malattie derivanti da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro e riconduzione nei meccanismi propri della malattia professionale non tabellata, e nel Decreto Ministeriale 27 aprile 2004, adottato dal Ministero del lavoro, con il quale sono state inserite tra le malattie di possibile origine lavorativa per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 139, anche (Lista II – gruppo 7) le “malattie psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro”. Secondo gli orientamenti maturati nel suindicato percorso interpretativo questa Corte (come risulta da Cass. n. 15580/2022 punto 4.1 della motivazione), è pervenuta alle seguenti conclusioni: – è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass., 21 maggio 2018, n. 12437; Cass., 10 novembre 2017, n. 26684). – è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass., 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass., 29 marzo 2018, n. 7844), ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei la[1]voratori (Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291). Le nozioni di mobbing e straining hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici, e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’articolo 2087 c.c., e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291 e altre). È comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento che si ponga in nesso causale con un danno alla salute. Si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa. La causa deve essere cassata con rinvio per il riesame nel merito della domanda risarcitoria del lavoratore, tenendo conto, in diritto, del principio per cui rientra nell’obbligo datoriale di protezione di cui all’articolo 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di cui all’articolo 2103


Risarcimento del danno per licenziamento illegittimo: il trattamento pensionistico conseguito dal lavoratore non è decurtabile

Cass., sez. Lavoro, 31 ottobre 2022, n. 32130

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con la sentenza n. 32130 del 31 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione si è espressa in merito alla quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo che, a seguito del recesso, ha avuto accesso alla pensione di anzianità. In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore, dipendente con funzioni di dirigente presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, richiedere la declaratoria di illegittimità di un decreto di detto Ministero con il quale era stato risolto il suo rapporto di lavoro a far tempo dal 4 settembre 2009, sul presupposto dell’intervenuta maturazione del requisito contributivo massimo di quaranta anni a sensi dell’articolo 72, comma 11 del D.l. n.112/2008. Il giudice del rinvio, in merito, ha osservato, sulla base del principio di diritto enunciato dalla Cassazione, che il decreto ministeriale in esame (n. 342/2009) era illegittimo; quanto

to ai profili risarcitori derivanti dall’illegittima risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale, nell’operarne una quantificazione, il giudice escludeva il ristoro del danno biologico e, con riguardo al danno patrimoniale, faceva riferimento, da un lato, alle retribuzioni perdute nel periodo tra il 3 settembre 2009 e il 31 ottobre 2010, data di scadenza del biennio di trattenimento in servizio, e, dall’altro, alla “maggiore indennità di buonuscita”. I relativi importi venivano quantificati da un CTU opportunamente incaricato. A dire del giudice, non poteva invece essere riconosciuta, neanche sotto forma di perdita di chance, in difetto di esplicita domanda in tal senso, la retribuzione di risultato, atteso che essa “postula(va) una positiva verifica circa il conseguimento, da parte del dirigente, degli obiettivi prefissati”. Senonché, dal complessivo importo spettante a titolo di risarcimento andavano decurtate le somme che il lavoratore, nel medesimo arco temporale, aveva comunque percepito come pensione d’anzianità, e ciò in quanto, mancando nella specie un dictum giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro che avrebbe reso ripetibili le somme erogate dall’Inps, a dire del giudice si sarebbe verificata, in difetto di detrazione dell’aliunde perceptum, un’indebita locupletazione del lavoratore stesso. Rispetto alla sentenza di secondo grado sopra descritta, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, cui il Ministero resisteva con controricorso. Tra i vari motivi, il ricorso del dirigente verteva sulla indebita detrazione di quanto corrisposto medio tempore a titolo di pensione di anzianità dal risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, effettuata dal giudice di appello. Secondo il ricorrente, infatti, solo il compenso da lavoro percepito durante il c.d. periodo intermedio (i.e., intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di annullamento) può comportare la riduzione del risarcimento per il principio della compensatio lucri cum damno, mentre il trattamento pensionistico non sarebbe in alcun modo ricollegabile al licenziamento illegittimo e non sarebbe detraibile anche qualora vengano, come nella specie, a cristallizzarsi gli effetti del licenziamento per effetto della mancata reintegra in servizio. Detto motivo di ricorso è stato ritenuto fon[1]dato da parte dei giudici della Corte di Cassazione. In particolare, tra i motivi di accoglimento del ricorso, i giudici evidenziano di aver “più volte affermato il principio, da cui non v’è ragione di discostarsi, che non è detraibile come aliunde perceptum il trattamento pensionistico, potendosi considerare compensativo (quale aliunde perceptum) del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa”. La Corte di Cassazione evidenzia, altresì, come le Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 12194/02) abbiano, già in epoca risalente, precisato che “il diritto a pensione discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, prescinde del tutto dalla disponibilità di energie lavorative da parte dell’assicurato che abbia anteriormente perduto il posto di lavoro, né si pone di per sé come causa di risoluzione del rap[1]porto di lavoro (cfr. Cass. 28 aprile 1995, n. 4747), sicché le utilità economiche che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae dipendono da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo causalmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito e si sottraggono per tale ragione all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno”. Pertanto, le relative somme non possono configurarsi come “un lucro compensabile col danno”, ossia come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore, in quanto “a fronte della loro percezione sta un’obbligazione restitutoria di corrispondente importo”. Detta compensazione, inoltre, non può riconoscersi quando “il medesimo rapporto si ponga, invece, in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, giacchè in tali evenienze la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto che eroga la

più di recente, le Sezioni Unite (sent. n. 12564/2018) abbiano osservato che “quando la condotta del danneggiante costituisce semplicemente l’occasione per il sorgere di un’attribuzione patrimoniale che trova la propria giustificazione in un corrispondente e precedente sacrificio, allora non si riscontra quel lucro che, unico, può compensare il danno e ridurre la responsabilità”. Pertanto, pare sussistere una ragione giustificatrice che non consente il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall’illecito, poiché detto trattamento previdenziale “non è erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponde a un diverso disegno attributivo causale, che si pone quale causa del beneficio individuabile nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente”. La perdita di interesse del lavoratore alla ricostituzione del rapporto, anche de facto, mediante un provvedimento di reintegra e per effetto del raggiungimento del termine biennale di trattenimento in servizio, non esclude che vi sia la prosecuzione de iure dello stesso, considerato l’accertamento giudiziale dell’illecita risoluzione del rapporto. Dal ciò consegue – a dire della Suprema Corte e unitamente alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, sul quale permane l’obbligo contributivo – la ripetibilità delle somme erogate nel biennio di riferimento a titolo pensionistico da parte dell’Inps. È seguito, pertanto, l’accoglimento del motivo di ricorso avanzato dal lavoratore da parte della Corte di Cassazione.


Protezione del lavoratore contro i licenziamenti intimati per ragioni inerenti l’attività produttiva

Cass., sez. Lavoro, 18 novembre 2022, n. 3405

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

In riferimento alla domanda presentata dal lavoratore, intesa all’accertamento della nullità/illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice di primo grado aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro e aveva condannato l’Associazione/datrice di lavoro al pagamento dell’indennità risarcitoria, commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto nella misura di 16 mensilità, oltre accessori, respingendo le ulteriori domande di demansionamento e mobbing. La Corte di Appello di Roma, pronunciandosi sugli appelli proposti da entrambe le parti, rigettava quello della datrice di lavoro e accoglieva parzialmente quello del lavoratore. Il giudice, esclusa la natura discriminatoria del recesso, escluso il demansionamento e svuotamento di mansioni così come esclusa la configurabilità di una condotta mobbizzante (per essere gli episodi denunciati riconducibili all’ambito della fisiologica dinamica dei rapporti di lavoro), ha ritenuto effettiva e non simulata la riorganizzazione attuata dal nuovo Direttore Generale della società, espressione della libertà di iniziativa economica. In giudizio, la parte datoriale aveva fornito sufficiente ed adeguata dimostrazione dell’effettività di tale causale, rappresentata dal riassetto organizzativo del settore Comunicazioni, offrendo ulteriore, seppur non necessaria, dimostrazione dell’esigenza di ridurre i costi, attraverso la redistribuzione di una parte di attività tra altri soggetti mentre, le attività di relazioni istituzionali sarebbero state affidate ad una società esterna. In merito al “repêchage”, il giudice di appello aveva rilevato che le contestazioni presentate dalla datrice di lavoro erano del tutto generiche ed inadeguate a contrastare le prove presentate dal lavoratore circa l’assunzione di altri dipendenti, la presenza di altre società facenti capo all’Associazione/ datrice di lavoro. Il giudice, in parziale accoglimento dell’appello del lavoratore, confermando nel resto la decisione di primo grado, aveva condannato la società al pagamento dell’ulteriore risarcimento del danno, collegato alla modalità di risoluzione del rapporto, quantificato in via equitativa nella somma di 15.000 euro, oltre accessori. Per la cassazione della decisione propone ricorso il lavoratore; la parte intimata resiste con tempestivo controricorso con il quale propone ricorso incidentale. Il lavoratore deposita controricorso avverso il ricorso accidentale. Dall’esame dei motivi di ricorso principale ed incidentale, la Suprema Corte accoglie le censure sollevate dal lavoratore in merito alla tutela reintegratoria perché la società non aveva dimostrato l’impossibilità di un’utile ricollocazione lavorativa del lavoratore. La Suprema Corte rammenta che il testo dell’art. 8, comma 7, Legge n.300/1970, qua[1]le risultante all’esito degli interventi della Corte Costituzionale, comporta che, in ipotesi di insussistenza del fatto alla base del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il giudice deve applicare la tutela di cui al comma 4 dell’art.18 quale risultante dalla novella della Legge n.92/2012, implicante la reintegra del lavoratore ed il pagamento di un’indennità risarcitoria nei liniti definiti dal comma medesimo. Per orientamento consolidato della Suprema Corte, riaffermato anche nel vigore della modifica al testo dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, il fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo è rappresentato sia dalle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia all’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. repêchage ). La protezione del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi, con riferimento al licenziamento intimato per ragioni inerenti l’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, deve includere anche l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore.

La Suprema Corte accoglie pertanto il primo motivo di ricorso principale e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per il riesame della tutela applicabile per l’ipotesi di illegittimità del licenziamento.


Una volta contestato, il fatto di addebito può essere integrato?

Cass., Sez Lavoro, 19 ottobre 2022, n. 30850

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

A seguito dell’impugnazione da parte del lavoratore del licenziamento intimatogli, tanto il Giudice di primo grado, quanto la Corte d’Appello decidevano parallelamente nel rigetto delle doglianze del dipendente. Innanzitutto, veniva riconosciuto che, anche sulla base delle norme del Ccnl di settore, il provvedimento espulsivo era perfettamente efficace, non essendo maturata la decadenza per l’irrogazione del medesimo. Quanto alla pretesa genericità della contestazione disciplinare, la Corte d’Appello rilevava che essa fosse stata redatta per iscritto e nel rispetto del canone di specificità, peraltro coadiuvata dall’allegazione dei documenti richiamati. A tale lettera di addebito disciplinare non seguiva alcuna censura da parte del lavoratore, ragione per cui si poteva legittimamente ritenere che essa fosse coperta da giudicato. Inoltre veniva deciso che il requisito dell’immutabilità non poteva ritenersi violato dall’integrazione successiva della contestazione, volta a specificare adeguatamente i fatti addebitati nonché comunque pervenuta in momento precedente alla consegna dell’atto conclusivo della procedura disciplinare. Il lavoratore decideva quindi di proporre ricorso per Cassazione. Proprio in ragione della particolare posizione di soggezione del dipendente rispetto all’esercizio datoriale del potere disciplinare, la giurisprudenza ha da sempre valorizzato il diritto di difesa del lavoratore. Secondo tale prospettiva in via generale il datore dovrebbe procedere alla contestazione non appena abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, atteso che il ritardo nella contestazione lede il diritto di difesa del lavoratore e, in particolare, il suo affidamento sulla mancanza di rilievo disciplinare attribuito dal datore di lavoro alla condotta inadempiente. La tempestività e l’immutabilità della contesta[1]zione rappresentante le primarie garanzie che integrano il principio cardine di tutta la disciplina della contestazione dell’inadempimento, che dev’essere determinata, specifica e tempestiva. Con specifico riguardo, poi, al principio di immutabilità, la Suprema Corte è ferma nel ravvisare la funzione dello stesso di evitare una concreta menomazione del diritto di difesa dell’incolpato, qualora il datore di lavoro proceda negli atti successivi alla contestazione disciplinare a un diverso apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo. Coerentemente con detto orientamento giurisprudenziale la pronuncia in esame della Cassazione ha ritenuto che l’addebito iniziale integrato nelle successive occasioni di specificazione da parte del datore di lavoro rimane legittimamente contestato se non si registra una diversa qualificazione del fatto né un suo diverso apprezzamento. In dettaglio per la Suprema Corte “il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze in fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una effettiva menomazione del diritto alla difesa dell’incolpato”. Alla luce della giurisprudenza riportata, può concludersi che principio della immutabilità della contestazione non deve essere inteso in senso estremamente rigido. Per poter considerare che il suddetto canone sia stato rispettato dal datore di lavoro, è necessaria la piena identità tra la ricostruzione dell’addebito così come operata nella contestazione e l’addebito preso nel suo complesso che è sotteso alla sanzione applicata, così da non ledere, salvaguardandolo, il diritto di difesa del lavoratore resosi manchevole. Sono pertanto consentite tutte le modifiche dei fatti contestati che – non configurandosi come elementi aggiuntivi di una condotta, pur potenzialmente disciplinarmente rilevante, appartenga ad una fattispecie diversa e più grave quella contestata, risolvendosi quindi in nuove circostanze prive di valore identificativo della originaria fattispecie – non ostacolano la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa dallo stesso forniti a seguito della contestazione dell’addebito. Può quindi ritenersi opportuno – peraltro frequente nella prassi – che, nel corso di un procedimento disciplinare, la contestazione venga arricchita di circostanze che, non aggiungendo nuove imputazioni, si ritengono però idonee a suffragare la gravità o comunque a consentirne una più precisa valutazione.

 


Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Licenziamento disciplinare del dirigente per comportamenti vessatori e denigratori nei confronti dei sottoposti

Cass., Sez, Lavoro, 7 ottobre 2022, n. 29332

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

La sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta ha affermato che i “comportamenti vessatori e denigratori” del dirigente inflitti nei confronti dei suoi sottoposti, causando un sistema di “sopraffazione e condizionamento psicologico”, fanno scattare la sanzione espulsiva a suo carico. Inoltre, è assicurato il diritto di difesa esercitato dai collaboratori, qualora la consegna della relazione da questi sottoscritta avvenga prima dell’audizione disciplinare al dirigente.
La contestazione di addebito aveva ad oggetto comportamenti gravemente lesivi del vincolo fiduciario, di cui a ripetute segnalazioni ed a dettagliata relazione sottoscritta da diversi collaboratori, concernenti problemi di gestione della struttura complessa di Genetica medica, consistiti, in particolare, in “sistematici comportamenti vessatori e denigratori nei confronti  dei medici e biologi” qualificati come “dittatoriali”, ripetutamente “tesi a ridicolizzare l’operato dei lavoratori”, decisioni arbitrarie in ordine ai soggetti da includere nelle pubblicazioni a prescindere dall’effettiva partecipazione al lavoro, comportamenti volti ad ostacolare la comunicazione e l’interazione lavorativa tra medici e biologi, mancato utilizzo di apparecchiature in dotazione al laboratorio di UOS Citogenetica, dichiarazioni lesive dell’immagine del presidente e dell’ente.
Ancora, all’insegna del divide et impera, il dirigente ostacolava la comunicazione e l’interazione fra i dipendenti, finendo per non utilizzare apparecchiature che pure sono in dotazione al reparto. Il dirigente medico aveva instaurato nei dipartimenti un sistema di «sopraffazione e condizionamento psicologico».
Tale sistema era specificato nella relazione di cui alla contestazione, consegnata in copia al ricorrente prima dell’audizione.
Tali condotte oggetto di contestazione erano idonee a giustificare il licenziamento disciplinare irrogato, quantunque la condotta di dichiarazioni lesive dell’immagine del legale rappresentante dell’Associazione non fosse stata confermata.
La Suprema Corte, nel confermare la sentenza di secondo grado e il licenziamento, ha affermato che la contestazione dell’addebito deve essere specifica, non osservare schemi rigidi e prestabiliti e, soprattutto, deve fornire al dipendente incolpato le indicazioni necessarie  per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati; ne consegue la piena ammissibilità della contestazione per relationem.
Il giudice può apprezzare le suddette caratteristiche secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti unilaterali. Analogamente il giudice può vagliare l’immediatezza della contestazione per la quale vanno considerate anche le ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa. I giudici di merito hanno inoltre ritenuto provati i fatti contestati nella loro materialità di comportamenti vessatori nei confronti dei collaboratori e sottoposti, in contrasto con i doveri connessi all’incarico ricoperto ed alla corretta gestione della struttura.
La Corte respinge il ricorso condannando la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.


Gestione artigiani: determinazione della base imponibile sulla quale parametrare l’obbligo contributivo

Cass., ordinanza 3 ottobre 2022, n. 28572

Patrizia Masi, Consulente del lavoro in Milano

L’Inps sostiene che i redditi percepiti da F.N., quale partecipazione agli utili della società di capitale di cui è fondatore, debbano essere qualificati come redditi di lavoro autonomo (e non come redditi di capitale) e come tali devono essere inseriti nella base imponibile sulla quale parametrare l’obbligo contributivo.
In prima istanza, e successivamente in Appello, viene respinto il ricorso presentato dall’Istituto che, infine, ricorre in Cassazione basando la sua impugnazione su un unico motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 3 bis della Legge n. 438/1992 di conv. con modifiche del D.l. n. 384/1992 e in connessione con la Legge n. 223/1990, dell’art. 53, co. 2, lett. d) del D.P.R. n. 917 (TUIR) e dell’art. 10 del D.lgs. n. 241 del 1997, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c..
La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso poiché il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e perché l’esame dei motivi non ha offerto elementi validi per mutare l’orientamento della stessa.
Secondo la Corte, infatti, se è vero che il TUIR distingue la natura della partecipazione agli utili del socio fondatore da quella del socio non fondatore, definendo la prima reddito di lavoro autonomo e la seconda reddito di capitale, non di meno tale distinzione non “conviene” alla posizione dell’Inps nella fattispecie in esame, poiché quella operata dal TUIR è una fictio iuris destinata a spiegare effetti a fini fiscali, ma non anche ad incidere sulla qualificazione dei relativi redditi ai fini contributivi.
Infine, a parere del Collegio, la richiesta dell’Inps è infondata anche dal punto di vista della qualificazione del “socio fondatore”. A questa domanda è già stata data risposta in giurisprudenza (Cass., n. 21540 del 2019; Cass., n. 18765/2022; Cass., n. 10969/2022): il reddito per la partecipazione a società di capitali va incluso nella base imponibile contributiva solo qualora tale quota parte rientri tra i redditi d’impresa, nell’accezione contenuta nell’art. 3 bis del D.l. n. 384/1992.


Nessun margine di discrezionalità del datore di lavoro nei licenziamenti collettivi

Cass., sez. Lavoro, 15 novembre 2022, n. 33623

Patrizia Masi, Consulente del lavoro in Milano

Il lavoratore ha impugnato il licenziamento inflittogli a seguito di un procedimento di licenziamento collettivo. Secondo il lavoratore,  infatti, è illegittimo l’accordo raggiunto tra azienda datrice di lavoro e sindacato nel quale si afferma che i “lavoratori saranno valutati dal responsabile dell’area aziendale, tenuto conto delle professionalità formazione e servizi quali-quantitativi, al fine di mantenere i lavoratori con le competenze professionali necessarie per continuare efficacemente l’attività dell’impresa”. La Corte d’Appello, in riforma alla pronuncia di primo grado, ha accolto la domanda di cui sopra, assumendo che i criteri di selezione non siano oggettivamente verificabili e controllabili, lasciando quindi ampia discrezionalità al datore di lavoro.
La Suprema Corte, confermando il rilievo della Corte d’Appello, ha affermato che al fine di garantire la trasparenza della procedura di licenziamento collettivo, i criteri designati per l’individuazione dei lavoratori da licenziare devono essere oggettivi e non possono essere applicati arbitrariamente. In altre parole, si è ribadito che i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità devono essere, tutti ed integralmente, basati su elementi oggettivi e verificabili.
Il criterio elaborato nella fattispecie è stato ritenuto “non oggettivamente verificabile e controllabile”
pertanto, sulla base di tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società, affermando l’illegittimità del licenziamento contestato e condannando la ricorrente alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre che al risarcimento del danno in misura pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con accessori e spese.


Infarto per il troppo lavoro richiesto in azienda: onere della prova

Cass., sez. Lavoro, 28 novembre 2022, n. 34968

Stefano Guglielmi, Consulente del lavoro in Milano

lavoratore ha agito presso il Tribunale di Roma nei confronti del Ministero della Giustizia esponendo di avere lavorato dapprima presso l’Amministrazione penitenziaria e poi, dal 1981, presso l’Ufficio automezzi di Stato della Direzione Affari Civili, ove il personale era carente, al punto che i ritmi di lavoro cui egli era stato sottoposto risultavano insostenibili, mancando qualsiasi pianificazione e distribuzione dei carichi e dovendosi svolgere, in ambiente disagiato, mansioni inferiori e superiori ed al punto che, a partire dall’anno 2002 aveva maturato sintomi depressivi finendo per essere ritrasferito nel novembre 2000, in esito ad un accentuato malore, all’Amministrazione penitenziaria, patendo poi un infarto nel gennaio del 2001 (questo quanto si legge testualmente dalla sentenza).
Il lavoratore aveva quindi agito nei confronti del Ministero per il risarcimento del danno biologico subito per violazione dell’art. 2087 c.c. e delle pertinenti norme del D.lgs. n. 626 del 1994, oltre ai danni alla professionalità, insistendo in subordine per il riconoscimento dell’ascrivibilità della patologia cardio-vascolare a causa di servizio con accertamento del diritto al pagamento del c.d. equo indennizzo.
Il Tribunale ha riconosciuto solo il diritto all’equo indennizzo, mentre ha rigettato la domanda risarcitoria, con pronuncia poi confermata dalla Corte d’Appello di Roma. Si concludeva per l’assenza di prova delle violazioni che il lavoratore assumeva essere imputabili al Ministero, essendovi necessità di dimostrazioni dell’elemento soggettivo della colpa, non potendosi ipotizzare una responsabilità oggettiva e dovendosi considerare come il nesso etiologico proprio del riconoscimento del c.d. equo indennizzo si basasse su presupposti differenti rispetto a quelli propri del risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., i quali presuppongono anche la dimostrazione dell’elemento soggettivo, rispetto al quale il ricorrente non aveva fornito elementi probatori sufficienti.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione.
È indubbio che l’azione dispiegata dal ricorrente si riporti ad una fattispecie di responsabilità contrattuale, con essa essendosi inteso denunciare l’inadempimento datoriale rispetto all’assicurazione di condizioni di lavoro idonee a preservare la salute degli addetti, il richiamo della Corte territoriale all’art. 2043 c.c. è in sé errato (v., per i criteri distintivi nella presente materia, Cass., S.U. 8 luglio 2008, n. 18623).
Il lavoratore che agisca ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha l’onere di provare l’esistenza del danno subito, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro.
Nel caso di specie riguardante il verificarsi di un c.d. “superlavoro” ed in cui la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione, lo svolgimento di un lavoro che non sia in sé vietato dalla legge rende fisiologico – e quindi non imputabile a responsabilità datoriale – un certo grado di usura o pregiudizio, variabile sotto il profilo fisio-psichico a seconda del tipo di attività (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028).
In tema di demansionamento, che appunto consiste in un’attribuzione di mansioni inadeguate rispetto a quelle contrattualmente dovute, si è consolidato l’indirizzo, mutuato dall’originario e generale impianto di Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533, per cui il lavoratore “allorquando da parte di un lavoratore
sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro… è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 c.c., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766, e più di recente Cass. 20 aprile 2018, n. 9901; Cass. 18 gennaio 2018, n. 1169; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211). È ben vero che, secondo Cass., S.U., n. 13533/2001, cit., un tale assetto probatorio vale solo per le obbligazioni di “fare”, mentre rispetto a quelle di “non fare” l’onere di provare l’inadempimento grava sul creditore.
In realtà l’obbligazione di sicurezza si materializza in un intreccio indissolubile di fattori “di fare” e di “non fare”, ma essa va colta nella sua unitarietà come dovere di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di pregiudizio per il lavoratore e quindi come obbligazione di fare consistente nell’obbligo di attribuire, pretendere e ricevere dal lavoratore una qualità e quantità di prestazione che sia coerente “con la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica”, in modo che non derivi pregiudizio alla  integrità fisica” ed alla “personalità morale del lavoratore” (così, esplicitamente, proprio l’art. 2087 c.c.).
Il nesso eziologico tra l’infarto e l’attività lavorativa in concreto svolta è poi pacifico ed attestato dal riconoscimento ormai incontestato dell’equo indennizzo per causa di servizio. Può anche definirsi il seguente principio: “in tema di azione per risarcimento, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per danni cagionati dalla richiesta o accettazione di un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità,
il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive ed a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno, mentre spetta al datore di lavoro, stante il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrare che viceversa la prestazione si è svolta, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali,
congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore”.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.


Se formalmente il rapporto di lavoro era individuato come autonomo, la prescrizione dei crediti del lavoratore successivamente indicato come subordinato non decorre

Cass., sez. Lavoro, 13 ottobre 2022, n. 29981

Elena Pellegatta, Consulente del lavoro in Milano

La vicenda prende avvio con il ricorso degli eredi del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, azienda edile, per ottenere il riconoscimento della sussistenza, fra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato in luogo dell’assenza di formalizzazione dello stesso dal 2 gennaio 2000 al 30 settembre 2002 e della configurazione quale contratto di collaborazione professionale per il periodo successivo
all’1 dicembre 2012, con le connesse differenze retributive. Il giudice di secondo grado, riesaminando i risultati della attività istruttoria esperita in primo grado, ha ritenuto di non condividere l’iter motivazionale del primo giudice e, pertanto, ha reputato configurabile un rapporto di lavoro subordinato fra le parti sin dall’inizio del rapporto, con le conseguenze economiche connesse a tale statuizione.
La vicenda viene portata davanti agli Ermellini, che confermano la corretta valutazione del giudice di secondo grado, ritenendo non ammissibili i tre motivi del ricorso.
Il primo motivo, ossia l’errata configurazione del rapporto come subordinato invece che autonomo, non è ammissibile. Le risultanze testimoniali, pacificamente acclarate in appello, indicavano chiaramente come il lavoratore fosse sottoposto alle direttive dei dirigenti della azienda non solo quanto al luogo ma anche quanto alle modalità e direzione del taglio dello sbanco ed ha concluso per lo stabile inserimento nell’organico aziendale del lavoratore alla luce della circostanza che dettava disposizioni agli operai, che a lui gli stessi si rivolgevano quanto a richieste inerenti ferie e malattie; inoltre gli indici riscontrati deponevano per l’assenza di rischio e per la messa a disposizione da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative in relazione delle quali veniva corrisposta la retribuzione, in luogo del risultato conseguito.
Ha osservato, pertanto, il giudice di secondo grado, che soltanto nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, allo scopo della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel particolare contesto, significativo, occorre far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore, desunto anche dalla eventuale concomitanza di altri rapporti di lavoro. In mancanza delle suddette autonomie organizzative, viene confermato il rapporto di lavoro subordinato.
Anche il secondo motivo di impugnazione, ossia la prescrizione dei crediti da lavoro dipendente, è giudicato infondato.
La Corte ha affermato, con riguardo a tale domanda, che il rapporto di lavoro tra il lavoratore e la società non era assistito da stabilità  reale, in quanto senza formalizzazione nel periodo dal 2.1.2000 al 30.9.2002 ed in forza di contratto di lavoro autonomo dall’1.10.2002 al 26.9.2009.
La Suprema Corte ha affermato che la prescrizione dei crediti del lavoratore non decorre in costanza di un rapporto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia stata successivamente riconosciuta la natura subordinata con garanzia di stabilità reale in relazione alle caratteristiche del datore di lavoro.
Come emerge da quanto oggetto del presente giudizio, il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, negata dalla parte ricorrente fino al giudizio di legittimità, è stata proprio oggetto della vicenda sub judice, e contrasterebbe con la richiamata giurisprudenza di legittimità la previsione della possibilità di far decorrere la prescrizione in costanza di un rapporto privo di qualificazione professionale per il primo periodo ed in prosieguo configurato in termini di lavoro autonomo, con una conseguente inammissibile compressione dei diritti retributivi del prestatore.
Il terzo motivo di impugnazione, indicato come la violazione del contratto collettivo nazionale lapidei in ordine all’errata determinazione dei conteggi relativi alla tredicesima mensilità ed al trattamento di fine rapporto, è altresì inammissibile. Su tale assunto infatti il datore di lavoro non ha portato alcuna prova che potesse dimostrare il contrario al giudice di secondo grado; e l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione qualunque sia il tipo di errore (“in procedendo” o “in iudicando”) per cui è proposto, non può essere assolto “per relationem” con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata.


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, perdita dell’appalto: nullità e tutele reintegratorie

Cass., sez. Lavoro, 13 ottobre 2022, n. 30167

Andrea di Nino, Consulente del lavoro in Milano

Con la sentenza n. 30167 del 13 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso  presentato da un datore di lavoro a seguito del riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inflitto ad un lavoratore.
La Corte distrettuale, inoltre, aveva rilevato che al lavoratore fosse stata assegnata una mansione riconducibile ad un livello di inquadramento inferiore rispetto alla propria qualifica, in violazione dell’art. 2103 del Codice civile.
In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore che, da capoturno di pattuglie di guardie giurate, veniva licenziato a seguito della perdita di un appalto.
I motivi su cui si è basata la decisione della Suprema Corte si rinvengono nella “manifesta insussistenza” del fatto che ha originato il licenziamento, il quale – a seguito dell’istruttoria svolta nei diversi gradi di giudizio – non è risultato legato da un nesso causale alla soppressione del posto di lavoro cui il lavoratore è stato assegnato in forza di un atto nullo. A fronte di ciò, ha trovato applicazione la tutela
reintegratoria, come previsto dal comma 7 dell’art. 18 della Legge n. 300/1970 e l’azienda è stata condannata, inoltre, al pagamento delle spese della lite.
Il datore di lavoro ha presentato ricorso articolato per sei motivazioni, le quali hanno riguardato  principalmente la “manifesta insussistenza” del fatto e l’eccessiva onerosità della reintegrazione, prevista dal menzionato articolo 18.
In particolare, l’azienda ha denunciato la violazione, da parte della Corte distrettuale, del principio di diritto espresso dalla Cassazione in sede di annullamento con riguardo alla ricostruzione ermeneutica del concetto di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento (ai sensi dell’art. 18, comma 7 della Legge n. 300 del 1970), la quale sarebbe stata effettuata “senza l’indagine sia sulla “evidente e facilmente verificabile” carenza del nesso di causalità tra assegnazione (nulla) alla postazione e successiva soppressione del posto sia sulla eccessiva onerosità della reintegrazione”.
La ricorrente, inoltre, ha dedotto omesso esame di un fatto decisivo discusso tra le parti, avendo la Corte distrettuale trascurato – ai fini della valutazione della “eccessiva onerosità della reintegrazione” – che presso la centrale operativa cui il lavoratore era addetto non vi erano posizioni di capoturno disponibili
e che in base alla declaratoria del 3° livello di cui al Ccnl Vigilanza non potevano essere più assegnate mansioni di capoturno.
Tanto rappresentato dall’azienda ricorrente, la Suprema Corte ha comunque ritenuto infondati i diversi motivi di ricorso. In particolare, questa ha illustrato come l’art. 18, comma 7, della Legge n. 300/1970 – che regola l’apparato sanzionatorio da applicare in caso di accertamento della illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – sia stato “inciso da due recenti sentenze della Corte costituzionale, successive alla pronuncia rescindente, proprio con riguardo ai requisiti per l’applicazione
della tutela reintegratoria”.
In particolare, la Corte costituzionale, con la  sentenza n. 59 del 1° aprile 2019, ha dichiarato l’illegittimità del comma 7 dell’art. 18 della Legge n. 300/1970, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma; la sentenza n. 125 del 2022, altresì, ha dichiarato l’illegittimità del medesimo comma ove si prevede l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, limitatamente al termine “manifesta”.
In virtù di quanto espresso dalla Corte costituzionale, la Cassazione ha evidenziato che laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, debba essere sentenziato l’annullamento del licenziamento e ordinata la reintegrazione del lavoratore,
“senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica”. Pertanto, l’apprezzamento
della sussistenza dei vizi denunciati con il ricorso dev’essere fatto con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità.
Sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato che la valutazione della fondatezza o meno del ricorso per cassazione deve farsi con riferimento “alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi, atteso che gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo”.
Posto che i primi cinque motivi di ricorso vertono tutti sulla ricorrenza di due requisiti attinenti al regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non sono più vigenti, i suddetti motivi sono stati rigettati.
La Corte distrettuale ha, inoltre, rilevato che l’accertamento circa la illiceità del fatto posto a fondamento con il recesso era da ritenersi definitivo, in quanto deve ritenersi totalmente insussistente il fatto materiale che ha determinato il licenziamento dipendente, posto come non vi sia stata una lecita adibizione dello stesso all’appalto, non potendo perciò un fatto illecito essere posto a fondamento,
in un vincolo di causalità, con il recesso per giustificato motivo oggettivo.
In altre parole, il fatto “perdita dell’appalto” – a dire della Suprema Corte – non può giustificare il licenziamento del lavoratore che non poteva esservi assegnato. Da questo è conseguita la piena integrazione dell’unico requisito richiesto dall’art. 18, comma 7, della Legge n. 300/1970 (nel testo a seguito dei due interventi della Corte costituzionale) per l’applicazione della tutela reintegratoria.
Il datore di lavoro è stato dunque condannato a pagare a favore del lavoratore indennità e contributi dovuti per il periodo intercorso tra la risoluzione del rapporto e la reintegrazione effettiva, fino a un massimo di dodici mensilità.

 

 

 


Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Inammissibilità del ricorso in Cassazione per violazione del principio di specificità dei motivi

Cass., sez. Lavoro, Ord. 7 settembre 2022, n. 26399

Patrizia Masi, Consulente del Lavoro in Milano

Premesso che la società L.P.M. Srl cede un ramo di azienda alla società  L.P.G.M. LTD di cui fa parte la lavoratrice M.M., davanti al Tribunale di Bologna la stessa ricorre contro le due società per i seguenti motivi:
• far dichiarare nulla e/o inopponibile la clausola che la estromette dalla cessione facendola rimanere in capo alla cedente;
• far dichiarare nullo il licenziamento disposto dalla cedente determinato da motivi discriminatori e ritorsivi.
In prima istanza e successivamente in Appello viene respinto il ricorso della lavoratrice; le motivazioni sono legate all’assenza della prova di un intento ritorsivo che reggesse il licenziamento impugnato in quanto gli elementi allegati non consentono di ritenere comprovata, anche presuntivamente, la rimarcata ritorsività e/o discriminatorietà.
Ricorre in Cassazione la lavoratrice, basando la sua impugnazione su sei motivi di cui cinque (1°, 2°, 3°, 4° e 6°) sono stati dichiarati inammissibili.
Secondo gli Ermellini, è inammissibile un ricorso che non consenta – come nella specie – di individuare in che modo e come le numerose norme invocate sarebbero state violate nella sentenza impugnata.
Il rispetto del principio di specificità dei motivi, del ricorso per cassazione,  deve comportare infatti l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito, in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della  impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura.
Dichiara invece fondato il quinto motivo con il quale si denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c., in quanto sorretta da motivazione apparente e perplessa, e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., dal momento che la Corte d’Appello non si sarebbe pronunciata sulla domanda della ricorrente avente ad oggetto la declaratoria di nullità della clausola contrattuale che aveva estromesso la lavoratrice dalla cessione. Pertanto, la Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, respinge tutti gli altri e rinvia alla Corte di Appello di Bologna, che si uniformerà a quanto statuito pronunciando sulla questione della nullità e/o inopponibilità alla  ricorrente della clausola del contratto su menzionato.


Nullità delle dimissioni a firma del lavoratore e inefficacia del licenziamento orale intimato

Cass., Sez. Penale, 7 ottobre 2022, n. 29329

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato la nullità delle dimissioni a firma del lavoratore datate 08/11/2007 e l’inefficacia del licenziamento orale intimato dalla società il 12/11/2007, e condannato detta Società a risarcire il lavoratore del danno conseguente al recesso, oltre accessori, ed alla rifusione delle spese dell’intero giudizio e della CTU svolta in primo grado.
Il lavoratore aveva convenuto in giudizio la società innanzi al Tribunale di Rimini per sentir accertare l’inefficacia del licenziamento orale intimatogli mediante l’utilizzazione, in data 8/11/2007, di un atto di dimissioni sottoscritto al momento dell’assunzione e con data in bianco.
Il Tribunale, con sentenza parziale, aveva dichiarato l’inefficacia del recesso  con condanna della società al ripristino del rapporto ed al risarcimento del danno.
La Corte d’Appello di Bologna, in accoglimento del gravame della società,  aveva, invece, respinto l’azionata domanda, ritenendo che il lavoratore non avesse adempiuto alla prova relativa alle deduzioni circa la sottoscrizione in bianco delle dimissioni all’atto dell’assunzione e che le modalità di trasmissione previste dalla contrattazione collettiva non fossero prescritte a pena di nullità.
La Corte enunciava così il seguente principio di diritto: l’atto di dimissioni, dichiarazione di volontà unilaterale e recettizia con cui il lavoratore recede dal  contratto di lavoro, è soggetto al principio della libertà di forma, a meno che le parti non abbiano espressamente previsto nel contratto, collettivo o individuale, una diversa forma convenzionale, quale la forma scritta; in tal caso, la forma convenzionale si presume voluta per la validità delle dimissioni, ex art. 1352 c.c., applicabile anche agli atti unilaterali, e si estende alle modalità di comunicazione di tale volontà, quando per essa le parti abbiano previsto un mezzo particolare al fine di evitare, nell’ interesse del lavoratore, manifestazioni di volontà non adeguatamente ponderate. Conseguentemente la sentenza della Corte d’Appello di Bologna inter partes veniva cassata con  invio alla Corte d’Appello di Firenze, la quale statuiva nei termini di cui sopra, procedendo a rivalutare il merito alla luce del ridetto principio di diritto.
Avverso tale sentenza la Società propone ricorso per cassazione, cui resiste con controricorso il lavoratore. La questione della prova della firma di dimissioni “in bianco” in epoca antecedente la data di risoluzione del rapporto è, nel caso di specie, irrilevante, perché nella sentenza rescindente si è chiarito che, nella specifica materia, il contratto collettivo prevede una determinata forma delle dimissioni del lavoratore ad substantiam,con conseguente nullità della lettera di dimissioni in atti nel caso concreto, pacificamente non rispondente ai requisiti di cui alla contrattazione collettiva (come chiarito nella sentenza rescindente e ribadito nella sentenza qui impugnata).
Si respinge il ricorso e si condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio.


Illegittimo il licenziamento in caso di mancata affissione del regolamento aziendale 
 
Cass., Ord. , sez. Lavoro,11 agosto 2022, n. 24722

Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con l’ordinanza n. 24722 dell’11 agosto 2022, la Suprema Corte di Cassazione
ha rigettato il ricorso contro una sentenza della Corte d’Appello di Roma che ha dichiarato inefficace il licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore senza la previa affissione del codice disciplinare.
I fatti contestati riguardano il licenziamento di un lavoratore, il quale aveva  lavorato alle dipendenze di un datore di lavoro sin dal 1993. Dal 2010, il dipendente era stato addetto in via esclusiva all’infilaggio di tubi di rame all’interno dei diaframmi di plastica costituenti una struttura portante  denominata “castelletto”.
Negli anni dal 2011 al 2013, il lavoratore aveva ricevuto varie contestazioni disciplinari per scarso rendimento e provvedimenti disciplinari di sospensione dal servizio e dalla retribuzione. In data 7 novembre 2013, lo stesso era stato licenziato con preavviso a seguito di una contestazione disciplinare con cui gli si addebitava “una voluta lentezza nello svolgere la mansione affidata”, unitamente alla recidiva specifica.
Il tribunale, sia in fase sommaria che nella successiva fase di opposizione, aveva rigettato la domanda, avendo accertato rendimenti del lavoratore (invalido civile al 50% ma giudicato idoneo alla mansione assegnatagli) pari o inferiori al 50% rispetto alla media produttiva del reparto dove questi era assegnato.
I giudici di appello, pertanto, hanno rilevato come “la contestazione  disciplinare avesse ad oggetto la violazione, non di doveri fondamentali del  lavoratore o del c.d. minimo etico”, che devono presumersi conosciuti da tutti, “bensì di una specifica regola tecnica di produttività”, legata ad un determinato standard medio fissato dall’azienda in base alla propria organizzazione produttiva e alla media raggiunta dagli altri dipendenti con identiche mansioni. In ragione di tali caratteristiche, dunque, il datore di lavoro avrebbe dovuto preliminarmente informare i lavoratori della rilevanza disciplinare della violazione della citata regola di produttività, mediante affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti.
La società, in sua difesa, avendo ricevuto nei precedenti gradi di giudizio tale contestazione ai sensi dell’art. 7, comma 1, della Legge n. 300/1970, ovverosia di non aver affisso il regolamento aziendale, ha richiesto l’ammissione della prova testimoniale, a integrazione del contradittorio, ma in entrambi i giudizi non è stata accolta l’eccezione della parte convenuta. I giudici di ultima istanza, con l’ordinanza, hanno ritenuto legittimo il giudizio del giudice precedente e condannato la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Nullo il licenziamento se non è decorso il periodo di comporto

Cass., sez. Lavoro, 28 luglio 2022, n. 23674

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione ha ribadito che è nullo il licenziamento intimato nei confronti del lavoratore assente per motivi di salute e avvenuto nell’ultimo giorno del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva. Nel caso in esame la Cassazione, non concorde con quanto inizialmente  stabilito dalla Corte d’Appello, ha considerato tale licenziamento illegittimo in quanto irrogato l’ultimo giorno del comporto. Secondo tale sentenza, l’interpretazione dell’art. 2110, comma 2, c.c. non consente soluzioni diverse, trattandosi di norma imperativa volta a tutelare il diritto al lavoro ed alla salute. Infatti, per la sentenza, la salute non può essere protetta nel modo  adeguato se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore,  ammalatosi o infortunatisi, possa avvalersi delle opportune terapie senza
il timore di perdere il posto di lavoro.
Sulla base delle suddette motivazioni, la Suprema Corte ha quindi accolto il ricorso della lavoratrice dichiarando nullo il licenziamento.


Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: definizione dello “stato di bisogno”

Cass., sez. Penale, 20 settembre 2022, n. 34600

Angela Lavazza, Consulente del lavoro in Milano

 

Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Pavia, l’Amministratore di una società ricorre contro il sequestro preventivo e, in mancanza di capienza della società, alla confisca diretta della somma qualificata come profitto del reato di caporalato. Il procedimento aveva preso avvio inizialmente dalle presunte irregolarità (turbata libertà degli incanti e frode nelle pubbliche
amministrazioni) della gara di appalto deliberata dall’ASST di Pavia, la cui aggiudicazione aveva condotto all’assunzione di servizi di trasporto sanitario presso vari presidi ospedalieri, disseminati su tutto il territorio nazionale.
Nel proseguo delle indagini, vennero altresì raccolti elementi deponenti per l’attività di caporalato, nell’esecuzione dei servizi di trasporti sanitari, nei confronti del personale impiegato in detti servizi.
Il ricorrente, tra i motivi del ricorso, contesta, sotto il profilo della violazione della legge penale, il fumus del reato di caporalato (art.603-biscod. pen.) lamentando che il Tribunale del riesame aveva confuso l’elemento dell’indice di sfruttamento con l’altro distinto elemento, dell’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori sfruttati.
Il Collegio pavese, secondo il ricorrente, avrebbe omesso di considerare la nozione di “stato di bisogno”, non derubricabile a qualunque situazione di “bisogno di lavorare per vivere” ma, necessariamente connessa a condizioni di oggettiva indigena materiale, tale da rendere la vittima oggettivamente e particolarmente vulnerabile. Secondo l’interpretazione del ricorrente, la gravità delle sanzioni previste per il reato di caporalato dovrebbe rendere evidente la necessità di non estendere il perimetro della norma oltre la lettera e lo spirito della norma stessa.
La Suprema Corte però evidenzia come nell’ordinanza impugnata sono presenti numerose dichiarazioni di lavoratori dipendenti che depongono sia per una condizione di oggettivo sfruttamento, soprattutto sul piano dell’orario di lavoro a fronte del salario corrisposto e a quello previsto dal Ccnl, delle poche giornate libere e dell’assenza di retribuzione per lavoro straordinario oltre a marcati scostamenti rispetto alle condizioni pattuite, sia per la sussistenza di condizioni di oggettivo bisogno dei lavoratori.
La Suprema Corte configura il fumus commissi delicti,la probabilità di effettività del reato e pertanto conferma quanto disposto nell’istanza impugnata ai fini cautelari.
Conferma inoltre che, ai fini dell’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea,
tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni di lavoro particolarmente svantaggiose. Il ricorso è rigettato.


In caso di infortunio è compito del datore di lavoro vigilare per evitare che si instaurino prassi contra legem

Cass., sez. Lavoro,21 settembre 2022, n. 34968

Elena Pellegatta, Consulente del lavoro in Milano

È comunque condannabile il datore di lavoro che, nell’infortunio del proprio dipendente, non si è adoperato a prevenire prassi contra legem, causa dell’infortunio, pur essendone a conoscenza.
A tale assunto arrivano gli Ermellini della suprema corte di Aosta nel valutare l’evento occorso al dipendente della ditta s.n.c. che si sarebbe procurato le lesioni, dalle quali conseguiva una malattia di durata stimata in 133 giorni, cadendo da una scala ove era salito per prelevare un profilato in PVC lungo 650 cm. e del peso di circa 9,5 kg. L’addebito mosso al datore di lavoro é di avere agito con negligenza, imprudenza, imperizia nonché con violazione dell’art. 37 del D.lgs. n. 81/2008, non avendo fornito al dipendente  un’adeguata informazione sull’utilizzo corretto della scala. Il Tribunale aostano di appello aveva escluso, in realtà, che potessero imputarsi al datore di lavoro condotte omissive in punto di informazione sull’impiego della scala in quanto il lavoratore era caduto dalla scala nell’espletamento di mansioni esulanti dai suoi compiti e si era posizionato in modo scorretto sulla scala su indicazioni di altro soggetto.
Nel giudizio d’appello, instauratosi a seguito di impugnazione del Procuratore generale territoriale, si affermava la penale responsabilità dell’azienda datrice di lavoro, valorizzando il fatto che per il lavoratore salire sulla scala era una consuetudine, pur al di fuori delle sue mansioni; e che tale consuetudine era certamente conosciuta dal datore di lavoro che non aveva mai interdetto al lavoratore l’uso della scala.
Contro la sentenza impugna il datore di lavoro adducendo tre motivi in valutazione ai giudici. Con il primo motivo, la ricorrente ditta denuncia il fatto che al dipendente era occorso un precedente infortunio in occasione di attività sportiva, praticato in passato, con conseguenze lesive sullo stesso ginocchio del lavoratore, che aveva comportato un prolungamento dello stato di malattia. Tale motivo viene giudicato infondato, in quanto già trattato dalla
Corte di merito, con argomentare logico e coerente, e la presunta influenza aggravante sul ginocchio leso viene definita come puramente congetturale e non dimostrata.
Con il secondo motivo la deducente lamenta vizio di motivazione con riguardo all’assunto secondo il quale la stessa avrebbe mostrato disinteresse verso le procedure operative seguite dai suoi dipendenti. Anche questo motivo viene considerato infondato, in quanto in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve vigilare per impedire l’instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori e che il formarsi di tali prassi, conosciute o conoscibili da parte dello stesso datore di lavoro, determina la responsabilità dello stesso per gli incidenti eventualmente occorsi ai lavoratori in dipendenza di esse.
Con in terzo motivo, nuovo, la ricorrente lamenta violazione di legge per la  mancata concessione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, deducendo che vi erano tutte le condizioni per il riconoscimento  dell’istituto. Anche questo motivo è inammissibile, proprio in quanto nuovo. Infatti i motivi dell’impugnazione davanti agli Ermellini devono consistere nei capi o nei punti della decisione impugnata già investiti dall’atto di impugnazione originario, ed il requisito della novità deve essere attinente ai motivi (vale a dire alle ragioni che illustrano ed argomentano il gravame, in relazione ai singoli capi o punti della sentenza impugnata, già censurati nel ricorso) e non deve servire ad introdurre nuovi capi o punti di impugnazione,
in spregio al termine temporale previsto per la presentazione del ricorso.
Pertanto, viene confermata la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’ammenda e delle spese processuali.

 


Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Lavoratore privo del permesso di soggiorno e infortunio sul lavoro: reato di lesioni personali e responsabilità per colpa del datore

Cass., sez. Penale, 30 agosto 2022, n. 31879

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Con sentenza emessa il Tribunale di Crema, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato l’imputato responsabile dei reati di cui agli artt. 22, comma 12, D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (capo A), e 590, secondo e terzo comma, c.p. (capo B), per avere, in qualità di legale rappresentante della E.A.C. Srl, occupato alle proprie dipendenze un cittadino
indiano privo di permesso di soggiorno e per avere cagionato allo stesso, per colpa consistita nella violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, lesioni personali dalle quali derivava una malattia
di durata superiore ai 40 giorni e l’indebolimento permanente della mano destra. C., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle circostanze aggravanti di cui all’art. 590 c.p., era
stato condannato alla pena – condizionalmente sospesa – di mesi tre, giorni dieci di reclusione ed euro 2.800,00 di multa per il reato di cui al capo A) e alla pena di mesi due di reclusione per il reato di cui al capo B), nonché al risarcimento dei danni patiti dall’Inail, parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio. Il Tribunale aveva individuato quale profilo di colpa specifica la violazione da parte dell’imputato  dell’art. 18, D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, norma che pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di formazione e informazione del dipendente, obbligo considerato non adempiuto nella specie, posto che il lavoratore era risultato impiegato in nero presso l’azienda da circa un mese, senza essere stato istruito in ordine ai rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa e, segnatamente, circa l’uso della macchina spaccalegna, la cui lama aveva cagionato  una grave lesione al braccio del lavoratore.
Dopo il verificarsi del fatto, il lavoratore era stato accompagnato presso il Pronto soccorso dell’Ospedale di Crema da un pick-up di colore nero, immediatamente dileguatosi. Il cittadino indiano presentava una significativa ferita al braccio e i suoi indumenti erano intrisi di “residui di materiale legnoso”.
All’esito della visione dei filmati delle telecamere del presidio medico, i Carabinieri risalivano al proprietario del pick-up, risultato appartenente alla E.A.C. Srl, il cui titolare aveva  poi ammesso di avere accompagnato la persona
offesa, la quale, secondo quanto dichiarato dall’imputato, sarebbe apparsa nel piazzale della ditta provenendo dai terreni dello zio dell’imputato. Quest’ultimo, tuttavia, aveva negato di conoscere il lavoratore infortunato,
aggiungendo che il nipote era solito assumere saltuariamente qualche indiano. A sua volta, la persona offesa aveva dichiarato di essere stato reclutato a lavorare presso l’azienda dell’imputato da circa un mese e che,
il giorno del fatto, egli stava tagliando un  pezzo di legno di grandi dimensioni avvalendosi dell’apposito macchinario ma, nel procedere alla sistemazione del pezzo, aveva premuto inavvertitamente il pedale della macchina,
provocando la discesa della lama, che gli aveva procurato lo schiacciamento della mano destra e l’amputazione di un dito.
La sentenza di primo grado era stata appellata dalla difesa dell’imputato, che aveva evidenziato la contraddittorietà delle dichiarazioni della persona offesa, la quale, al momento dell’ingresso in Pronto soccorso, era risultata
odorare di alcool, l’assenza di testimoni a riscontro della dinamica dell’infortunio, l’inverosimiglianza
della ricostruzione fornita dal lavoratore, nonché la mancanza di una prova certa circa il rapporto di lavoro intercorso tra quest’ultimo e la E.A.C. Srl. All’esito del giudizio di impugnazione, la Corte di Appello di Brescia, con la sentenza in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del datore di lavoro in ordine a entrambi i reati, per essersi i medesimi estinti per la sopravvenuta prescrizione, non accogliendo l’istanza di proscioglimento nel merito formulata dall’appellante,  ha confermato le statuizioni civili e ha condannato l’imputato al pagamento delle ulteriori spese in favore della parte civile.
Quanto all’evenienza degli elementi costitutivi del primo reato, nel respingere le doglianze difensive relative alla mancata prova del rapporto di lavoro, la Corte territoriale ha affermato che la sussistenza del suddetto rapporto poteva desumersi da plurimi elementi, primo fra tutti l’essersi verificato l’infortunio all’interno dello stabilimento dell’azienda. Inoltre, sono stati evidenziati la presenza di materiale legnoso sugli  indumenti del lavoratore al momento del suo arrivo in ospedale e il rilievo che, se la persona offesa fosse veramente sbucata improvvisamente
dai terreni dello zio dell’imputato, non ci sarebbero state ragioni per giustificare la fretta dell’imputato nell’abbandonare il lavoratore davanti al pronto soccorso. Inoltre, i giudici di appello hanno aggiunto
che, una volta assodata l’assenza della somministrazione della previa formazione al lavoratore, anche un’ipotetica disattenzione o imprudenza del lavoratore non avrebbe potuto comunque escludere la responsabilità del datore di lavoro, in questo caso del legale rappresentante della società datrice di lavoro. Avverso la suddetta pronuncia ricorre per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando due motivi.
Per ciò che concerne l’asserita insussistenza del rapporto di lavoro tra l’impresa societaria amministrata dall’imputato e la persona offesa, la Corte di Appello ha fatto riferimento – oltre che ai residui di “materiale legnoso” sugli indumenti del lavoratore – anche alle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo e al contributo dichiarativo del teste, dipendente dell’E.A.C. Srl. I giudici di appello – lungi dall’appiattirsi acriticamente sulle dichiarazioni della persona offesa – ne hanno operato un’accurata valutazione, motivando le ragioni di apparente contraddittorietà
nella successione delle sue affermazioni, segnalando il ragionevole timore che avvinceva il lavoratore, riconnesso alla sua condizione di immigrato privo di permesso di soggiorno, e traendo dalle medesime l’essenza genuina del relativo narrato con argomentazioni esenti da vizi logici. Sul tema, si ricorda che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da
sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni
di qualsiasi testimone, con la specificazione che, laddove la persona offesa si sia costituita
parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U., n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214 – 01; fra le successive, Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 – 01).
Nel caso di specie, la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società amministrata dall’imputato (e non con lo zio) è stata accertata anche in virtù delle convergenti dichiarazioni rilasciate dal teste, il quale ha riferito
di aver notato il lavoratore infortunato in azienda – non solo nel giorno dell’infortunio, ma – anche in precedenti occasioni, precisando, altresì, che il suddetto si trovava nei pressi della macchina spaccalegna proprio qualche istante prima del sinistro.  A conclusioni non dissimili deve pervenirsi per quel che concerne il profilo della colpa specifica dell’imputato e dell’eventuale interruzione del nesso di causalità conseguente a un asserito
comportamento abnorme del lavoratore. Sull’argomento, è, del resto, fondata l’osservazione svolta nella memoria della parte civile, laddove si osserva che la ritenuta configurazione della colpa specifica in capo all’imputato
espressa nella sentenza impugnata non presta il fianco a critiche, nel senso che, pur ipotizzando – per assurdo – che l’imputato non avesse occupato il lavoratore infortunato in qualità di lavoratore subordinato, l’averlo comunque
addetto a qualsiasi diverso titolo alla mansione del taglio del legname, senza fornirgli alcuna formazione e/o istruzione in merito ai lavori da eseguire con l’uso della macchina “sega spaccalegna”, che fossero volti a
salvaguardarne l’incolumità e la salute, determina in ogni caso la responsabilità del datore, atteso che il sistema prevenzionale tutela tutti  i lavoratori, a prescindere dalla tipologia contrattuale che li lega al datore stesso, ai sensi
dell’art. 3, D.lgs. n. 81 del 2008.
In concreto, quindi, il legale rappresentante della società datrice di lavoro è stato, secondo la motivata conclusione dei giudici di merito, raggiunto rettamente dall’accertamento di responsabilità, nulla avendo il medesimo predisposto a protezione del lavoratore, d’altronde assunto contra legem. Secondo il corretto riferimento operato nella contestazione, invero, l’art. 18, D.lgs. n. 81 del 2008 contempla fra gli obblighi del datore di lavoro quello, nell’affidare i compiti ai lavoratori, di tener conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro
salute e alla sicurezza, quello di prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico,
nonché quello di adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37 dello stesso D.lgs. (obblighi finalizzati ad assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente
ed adeguata in materia di salute e sicurezza). Per il resto, il datore di lavoro che non adempie gli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell’espletamento delle proprie mansioni, ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, né l’adempimento di tali obblighi è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore.
Per quanto attiene, poi, alla denunciata abnormità  della condotta della persona offesa, i giudici del merito hanno escluso tale evenienza formulando uno scrutinio adeguato e non illogico degli elementi di prova acquisiti
in merito alla mancata dimostrazione dello stato di alterazione alcolica del lavoratore. In conclusione, l’impugnazione deve essere, nel suo complesso, rigettata, restando intatta l’accertata responsabilità civile dell’imputato. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali.


Lavoro durante il congedo straordinario: è legittimo il licenziamento

Cass., sez. Lavoro,8 luglio 2022, n. 21773

Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con la sentenza n. 21773 dell’8 luglio 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente sorpresa, durante il periodo di congedo straordinario
concessole (per assistere la figlia portatrice di handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’art. 42, comma 5, D.lgs. n. 151/2001), a lavorare presso il negozio di cui era titolare il compagno, anch’egli dipendente della società.
In particolare, la Corte d’Appello di Bologna aveva respinto, in secondo grado, il reclamo proposto dalla lavoratrice, confermando la sentenza di primo grado con cui la donna si era vista rigettare l’impugnativa del licenziamento
per giusta causa intimato dal datore di lavoro per il motivo di cui sopra. La dipendente era stata colta sul fatto da parte di un investigatore privato, incaricato dalla società datrice di lavoro di pedinare il compagno della stessa, anch’egli proprio dipendente. Quest’ultimo, in particolare, era stato sorpreso a lavorare presso il medesimo negozio
– di cui era titolare – nel corso di un’assenza per malattia. A seguito del licenziamento e avverso le pronunce
dei primi due gradi di giudizio, dunque, la lavoratrice ricorreva in Cassazione con diversi motivi di doglianza.
Nel dettaglio, la dipendente riteneva che non fosse stato effettivamente individuato l’oggetto dell’onere probatorio in merito alla giusta causa di licenziamento, che la sentenza impugnata ha ritenuto essere stato assolto dal datore
di lavoro. Inoltre, la lavoratrice lamentava lo scarso approccio critico della Corte d’appello ai vari elementi di prova raccolti dal datore di lavoro: a dire della donna, infatti, la Corte d’appello avrebbe recepito “senza il necessario apprezzamento critico le relazioni investigative, le foto e i filmati alle stesse allegati, nonché le dichiarazioni
rese dagli investigatori escussi come testimoni, senza neppure rilevare le contraddizioni in cui questi ultimi sarebbero incorsi”.
Nell’ambito del terzo grado di giudizio, la Suprema Corte ha ritenuto inammissibili i motivi avanzati dalla lavoratrice e ha rigettato il ricorso. Nel dettaglio, i giudici hanno ritenuto che, in secondo grado, i giudici di merito non abbiano considerato gli elementi suddetti come facenti piena prova, bensì abbiano valutato gli stessi “unitariamente agli
altri dati probatori acquisiti”, ritenendo che fossero, nel complesso, adatti a dare dimostrazione della condotta contestata alla lavoratrice mediante il licenziamento.


Legittimo il licenziamento del dipendente che si rifiuta di effettuare le visite mediche obbligatorie

Cass., sez. Lavoro, 13 luglio 2022, n. 22094

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione di Bologna conferma la legittimità del licenziamento comminato ad una dipendente che si è rifiutata di sottoporsi alle visite mediche obbligatorie. La vicenda prende il via dal primo esame della Corte di Appello di Bologna, che confermava la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede.
L’azienda datrice di lavoro licenziava la lavoratrice dipendente, in forza presso la società dal 10.11.2000 con mansioni di impiegata amministrativa livello 4°.
Il recesso era stato adottato, con missiva dell’11.10.2007, per giusta causa con riferimento alla lettera di contestazione disciplinare del 20.9.2017 in cui le era stato ascritto di essersi rifiutata di effettuare la visita medica
nelle giornate del 12.9.2017 e del 19.9.2017, nella prima circostanza adducendo l’inidoneità del luogo di svolgimento del controllo e, nel secondo caso, omettendo di presentarsi nel luogo ed orario del previsto espletamento. La lavoratrice impugna il licenziamento e si rivolge agli Ermellini, denunciando in primis la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 20 e 41 del D.lgs. n. 81/2008, in relazione all’art. 32 Cost., all’art. 2103 c.c. e all’art. 1460
c.c., ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3, c.p.c., per avere la Corte distrettuale erroneamente interpretato le suddette disposizioni che impongono al datore di lavoro di sottoporre il dipendente ad accertamenti sanitari in ipotesi di
cambio di mansioni e al lavoratore di sottoporvisi.
Sostiene, in primo luogo, che la visita medica disposta dall’azienda aveva la sola finalità di accertare l’idoneità della lavoratrice non allo svolgimento delle mansioni già assegnate e in corso di svolgimento, come previsto dall’art. 5 della Legge n. 300/70, bensì l’idoneità a svolgere le nuove mansioni di addetta alle pulizie assegnatele illegittimamente.
In secundo, la lavoratrice adduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per non avere considerato la Corte di merito,
ai fini dell’accertamento della sussistenza della giusta causa, da un lato, l’elemento soggettivo del comportamento connotato da buona fede e, dall’altro, la sproporzione della sanzione inflitta rispetto alla condotta contestata.
La Suprema Corte, nell’analisi delle motivazioni portate dalla lavoratrice, ritiene il primo infondato, in quanto la sorveglianza sanitaria comprende l’obbligo, per il datore di lavoro e per il lavoratore, di visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l’idoneità alla mansione specifica.
Essendo quindi la visita medica di idoneità in ipotesi di cambio delle mansioni prescritta per legge, la richiesta di sottoposizione a visita, da parte del datore di lavoro, prima della assegnazione alle nuove mansioni, come correttamente sottolineato dalla Corte distrettuale, non è censurabile e, anzi un adempimento dovuto.
Pertanto, il rifiuto della lavoratrice a non sottoporvisi, perché rivolto a contrastare un illegittimo demansionamento, è stato illegittimo. Nel ragionamento esposto dagli Ermellini, viene infatti sottolineato che la visita medica disposta era preventiva e prodromica all’assegnazione delle nuove mansioni; l’omissione di detta visita avrebbe costituito un colposo e grave inadempimento di parte datoriale. La reazione della lavoratrice non è giustificabile ai sensi dell’art. 1460 c.c. perché, da un lato, il datore di lavoro si era limitato ad adeguare la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell’espletamento delle mansioni
loro assegnate e, dall’altro, la dipendente avrebbe ben potuto impugnare un eventuale esito della visita, qualora non condiviso, ovvero l’asserito illegittimo demansionamento, innanzi agli organi competenti.
Il secondo motivo è altresì giudicato inammissibile, in quanto la giusta causa di licenziamento, integra una clausola generale che richiede che l’interprete la renda concreta tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi
alla coscienza generale. La buona fede, nel rifiuto a sottoporsi a tali visite mediche, non è stata rilevata dalla ricostruzione dei fatti documentale, e soprattutto dall’illegittimità del comportamento omissivo della dipendente,
punito anche con sanzioni penali, e lo scopo della condotta del datore di lavoro, finalizzata alla prevenzione rispetto alla sicurezza e salubrità nei luoghi di lavoro.Pertanto, il licenziamento viene confermato.


Obbligo di repêchage e dichiarazione di illegittimità in ordine alla tutela reintegratoria

Cass., sez. Lavoro, 6 luglio 2022, n. 21470

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Brescia, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra la società M.A.s.r.l. ed il lavoratore S.M. . Secondo i giudici di appello il licenziamento, derivando dalla perdita di un appalto di servizi e dalla necessità quindi di un’operazione di riorganizzazione del personale in forza da parte dell’azienda, era stato correttamente intimato per giustificato motivo oggettivo. Tuttavia, sempre secondo i giudici del merito, la società non aveva utilmente adempiuto all’obbligo di repêchage del lavoratore.
Come noto la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo comporta per il datore di lavoro la necessità di provare la sussistenza delle ragioni che portano alla risoluzione del rapporto di lavoro e l’inutilizzabilità
del lavoratore in altre mansioni analoghe a quelle precedentemente svolte.
Se sul primo aspetto i giudici ammettevano la sussistenza dei motivi di licenziamento (perdita dell’appalto), sul secondo, l’obbligo del repêchage, ritenevano che la società non avesse tenuto una condotta sufficientemente adeguata. In primo luogo, vi erano state nuove assunzioni di personale ad un livello di inquadramento e di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte dal lavoratore, senza che al dipendente fosse stata fatta alcuna proposta di demansionamento  al fine di evitare il licenziamento, ma oltre tutto S.M., all’epoca del recesso, svolgeva mansioni
non soppresse dalla cessazione dell’appalto. Sulla base di analoghi precedenti di legittimità ed in conformità alla reale sussistenza della perdita dell’appalto veniva dichiarato legittimo il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, ma con la condanna della società al pagamento di 16 mensilità della retribuzione globale di fatto.
Propone ricorso il lavoratore per la cassazione della sentenza, ricorso che viene accolto con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in diversa composizione. L’accoglimento del ricorso deriva dal fatto che “con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo
comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42,  lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente  alla parola «manifesta»;”.
Nel giudizio di cassazione, la dichiarazione di illegittimità di una norma di legge deve essere tenuta in conto qualora il giudizio di cassazione si fondi su norme modificate o addirittura espunte dall’ordinamento nel periodo
temporale tra la deliberazione della decisione e la pubblicazione della sentenza.In ragione di ciò il capo della sentenza impugnata che aveva negato la tutela reintegratoria deve essere cassato, onde permettere al giudice
del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il nuovo quadro normativo.


Anche se manca il verbale di accertamento contributivo la cartella esattoriale per omissioni contributive e lavoro in nero è valida

Cass., sez. Lavoro, 30 giugno 2022, n. 20825

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Si tratta del ricorso proposto da una impresa individuale avverso il giudizio di opposizione alla cartella esattoriale per omissioni contributive, in riferimento ad un maggior numero di lavoratori rispetto a quanto intimato, ritenendo
sussistente l’obbligazione contributiva per le ore di straordinario retribuite in nero. La parte ricorrente richiede la nullità della sentenza sostenendo che la Corte di merito avrebbe erroneamente ammesso dall’opponente l’identificazione di alcuni lavoratori non accorgendosi che gli stralci del ricorso recavano in realtà riferimenti a soggetti diversi. La Corte di merito aveva ritenuto identificati i lavoratori sulla scorta di atti e attività ispettive,
omettendo tuttavia di esaminare le puntuali allegazioni, fin dall’atto introduttivo, dimostrative che mai i predetti lavoratori sarebbero stati sentiti e individuati. Ancora, la parte ricorrente deduce l’omesso esame di un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, avendo la Corte di merito ritenuto la pretesa contributiva pari a 21 ore straordinarie effettuate nell’aprile 2006, omettendo di esaminare le censure incentrate sulla deduzione che il
predetto lavoratore non avesse mai ricevuto somme in nero. Pertanto è da ritenersi nulla la sentenza, in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare il motivo principale del gravame, incentrato sulla contestazione in
toto dello svolgimento del lavoro in nero. Ciò premesso, la pronuncia della Cassazione, concentrata in modo spiccato su questioni processuali, si annota in quanto mette in evidenza che i Giudici di merito avevano (invece)
tenuto in debita considerazione gli atti compiuti da tutti gli operatori in fase di accertamento ispettivo. Infatti, così si legge nell’ordinanza, “in ogni caso, la Corte di merito ha dato atto della dichiarazione del finanziere che aveva
proceduto agli accertamenti ispettivi unitamente agli ispettori degli enti previdenziali e valorizzato, altresì, la documentazione da questi, per relationem, richiamata, contabile ed extracontablie, quale il registro presenze con solo nome e storico dei dipendenti richiesti ai centro per l’impiego,  dando forma, pertanto, all’apprezzamento proprio del giudice del merito e al relativo convincimento formatosi sul compendio probatorio, insindacabile
in questa sede di legittimità”. La corte pertanto rigetta il ricorso.

 

 

 

 

 

Preleva l’articolo completo in pdf