Una proposta al mese – RENDIAMO IL DURC veramente positivo – 2a puntata

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Nello scorso numero della nostra Rivista1 abbiamo elencato una serie di piccole, ma a nostro avviso efficaci semplificazioni, sulla gestione amministrativa del Durc on-line, in modo da renderlo maggiormente accessibile alle aziende senza snaturarne la funzione di garanzia di regolarità, ponendo rimedio agli ostacoli che attualmente lo rendono un vero e proprio strumento di tortura.

Ahinoi, non è solo in ambito amministrativo che rinveniamo delle criticità, ma anche sotto altri aspetti che possiamo definire “di merito”, le contraddizioni non sono poche.

IL CO. 1175, ART.1 DELLA L. N. 296/2006

E Durc fu.

E non solo, poiché il celeberrimo co. 1175, art. 1 della L. n. 296/2006 ha reso obbligatorio, per usufruire di qualsivoglia agevolazione contributiva, oltre al possesso del Durc regolare, anche il pieno rispetto degli altri obblighi di legge, nonché degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale che, la cui definizione attendiamo tutti con apprensione di conoscere, da che mondo è mondo, come fossimo in attesa del messia. Tralasciando la mancata individuazione dei contratti collettivi citati dal co. 1175, la cui discussione meriterebbe fiumi di inchiostro, e soffermandoci invece sulla necessità di dover dimostrare la regolarità aziendale ai fini di beneficiare degli sgravi contributivi, il punto fondamentale da evidenziare è che il Durc (come già abbiamo avuto modo di affermare nel numero precedente di questa Rivista), altro non è che una mera certificazione amministrativa della regolarità aziendale, che non costituisce elemento fondante del diritto al beneficio, ma solo condizione di mantenimento o perdita di quello stesso beneficio, qualora abbia esito irregolare. Il diritto dell’azienda a fruire degli sgravi nasce nel momento in cui essa ha tutti i requisiti stabiliti dalla norma che regolamenta lo sgravio stesso e, per tale motivo, può immediatamente usufruirne.

È a posteriori che interviene l’obbligo di Durc regolare che, se assente, preclude il proseguimento alla fruizione del beneficio, dal momento in cui si accerta l’irregolarità e fino al momento in cui la stessa viene ristabilita, come puntualmente confermato dall’Inl nella circolare n. 3/2017 che richiamava a sua volta la risposta ad interpello del Ministero del lavoro n. 33/2013.

Resta pertanto sconcertante la prassi adottata da diverse sedi Inps che, anziché limitare il recupero delle agevolazioni contributive al solo periodo di accertata irregolarità aziendale, sfruttano il limite massimo di prescrizione, per procedere al diniego degli sgravi fruiti negli ultimi 5 anni.

A tal proposito,  sarebbe quindi quantomeno opportuno un chiaro ed immediato intervento normativo che limiti una volta per tutte il recupero delle agevolazioni con esclusivo riferimento al periodo di accertata irregolarità aziendale.

Andando oltre, sarebbe opportuno riportare nel medesimo intervento normativo anche quanto previsto dalla citata circolare Inl n. 3/2017 “Va pertanto chiarito che, mentre l’eventuale assenza del Durc (che può peraltro derivare da un accertata violazione di legge e/o di contratto) incide sulla intera compagine aziendale e quindi sulla fruizione, per tutto il periodo di scopertura, dei benefici, le violazioni di legge e/o di contratto (che non abbiano riflessi sulla posizione contributiva) assumono rilevanza limitatamente al lavoratore cui gli stessi benefici si riferiscono ed esclusivamente per una durata pari al periodo in cui si sia protratta la violazione”, per evitare che il giudice eccessivamente rispettoso della gerarchia delle fonti non consideri pienamente valido tale importantissimo concetto poichè contenuto in un atto di prassi, magari ribaltando sull’intera azienda l’irregolarità accertata sul singolo lavoratore, qualora trattasi, appunto, di violazione di legge e/o di contratto senza riflessi sulla posizione contributiva.

IL DISCONOSCIMENTO DELLE COMPENSAZIONI DEI DEBITI CONTRIBUTIVI CON CREDITI DI ALTRA NATURA

Continuano inoltre a spuntare come funghi sentenze (per fortuna finora di merito), che affermano l’illegittimità della compensazione tra debiti contributivi e crediti di altra natura, argomento già trattato su questa Rivista2, e di cui anche Assonime si è preoccupata nel caso n.3/2023 pubblicato sul proprio sito. Tale preoccupante orientamento deriva da un’interpretazione distorta dell’art. 17 del D.lgs.241/1997, che recita “I contribuenti eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all’Inps e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggettirisultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Orbene, i giudici che si sono espressi in materia considerano l’espressione nei confronti dei medesimi soggetti”, riferita non al singolo contribuente, come è logico ed immediato intuire, ma ritengono invece che il legislatore si riferisca al singolo ente, precludendo, di conseguenza, compensazione tra debiti e crediti di differente natura.

Eppure, già il comma 1 dell’art.22 del medesimo D.lgs. n. 241/1997, intitolato “Suddivisione delle somme tra gli enti destinatari” afferma che “Entro il primo giorno lavorativo successivo a quello di versamento delle somme da parte delle banche e di ricevimento dei relativi dati riepilogativi, un’apposita struttura di gestione attribuisce agli enti destinatari le somme a ciascuno di essi spettanti, tenendo conto dell’eventuale compensazione eseguita dai contribuenti”, ergo, come confermato anche nell’interpretazione di Assonime, in caso di compensazione di debiti previdenziali con crediti fiscali, l’Inps riceve in accredito da parte dell’Erario l’importo portato in compensazione, con assolvimento del debito previdenziale. E pensare che la legge delega del D.lgs. n. 241/97, ovvero la L. n. 662/1996, alla lettera b), c. 134, art. 3, menziona candidamente i “versamenti unitari, anche in unica soluzione, con eventuale compensazione, in relazione alle esigenze organizzative e alle caratteristiche dei soggetti passivi, delle partite attive e passive, con ripartizione del gettito tra gli enti a cura dell’ente percettoreprevedendo chiaramente ciò che oggi i giudici di merito negano a spada tratta.

È doveroso aggiungere che nelle sentenze contro tali compensazioni (Trib. Milano n. 2207/2021 e n. 7823/2022, Trib. Brescia n. 1251 /2022), vi è un ulteriore elemento, ovvero la paventata inesistenza dei crediti portati in compensazione, dei quali l’Inps si prodiga di accertare la sussistenza e, nelle more di ciò, ,  ritiene preclusa la compensazione. Considerato quanto disposto dal citato c.1, art. 22, D.lgs. n. 241/97, nasce spontaneo il dubbio relativamente alla legittimità dell’azione diretta dell’Inps contro il contribuente nel recupero del debito previdenziale, poiché appare logico dedurre che, come confermato anche dalla circolare del Ministero delle finanze n. 101/2000, nonché dalla risoluzione Ag. Entrate n. 452/2008, la compensazione su F24 non dovrebbe risentire dell’effettiva sussistenza del credito su cui, invece, l’ente legittimato al recupero del corrispondente importo appare essere la stessa Agenzia delle Entrate, fatti salvi naturalmente i casi in cui l’Inps non abbia ricevuto dalla stessa il “giroconto” a copertura del debito. È inoltre banale ma doveroso ricordare che i crediti previdenziali possono essere compensati in F24 con qualsiasi tipologia di debito, a maggior ragione davvero non si comprende il recente accanimento contro l’operazione contraria. Per dissipare qualsivoglia dubbio, è necessario un brevissimo intervento normativo che chiarisca la piena legittimità delle compensazioni tra partite di origine diversa, confermando le regole introdotte sia dalla L. n. 662/96 nonché, visto quando accaduto con il D.lgs. n. 241/97, inserendo una maggiore rigidità nell’emanazione dei decreti attuativi delle leggi delega, che dovranno riportare in maniera pedissequa la volontà espressa nella legge delega, onde evitare pericolose

elucubrazioni nelle aule dei tribunali come nel caso in trattazione. Infine, è doverosa una riflessione finale sui 4 miliardi3 destinati ad incentivare l’occupazione nelle aree svantaggiate del nostro paese, nonché l’occupazione delle donne e dei giovani mediante il sistema degli sgravi contributivi che è sempre più complicato applicare e mantenere: una sostanziale e strutturale riduzione del costo del lavoro a fronte di riduzioni temporanee che spesso si rivelano “trappole”, anche in conseguenza delle criticità di gestione del Durc, è l’unica soluzione logica da percorrere.

Oltre ad un beneficio immediato per le aziende, anche la collettività ne tratterebbe giovamento, non solo per la maggiore propensione ad occupare nuove risorse umane, ma anche perché la riduzione del contenzioso che inevitabilmente si verrebbe a creare, comporterebbe un ingente risparmio di tempo e denaro da parte sia delle amministrazioni pubbliche (e quindi di ogni singolo cittadino), che delle imprese coinvolte.

Per la tabella delle proposte clicca qui.

 

  1. M.Baltolu, Rendiamo il Durc veramente positivo!!!, Sintesi, 1, 2023.
  2. M. Baltolu, Giù le mani dalle compensazioni, Sintesi, 3, 2022.
  3. Fonte: Piano italiano REACT-EU.

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Una proposta al mese – RENDIAMO IL DURC veramente positivo

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
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(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Compie tra poco 16 anni, ormai è quasi “maggiorenne” ma, a quanto pare, non ancora “matura” – per usare il termine scolastico che dovrebbe sancire l’avvenuta crescita cognitiva dello studente – la norma che da luglio 20071 ha subordinato la spettanza di benefici normativi e contributivi ad una serie di condizioni imprescindibili, ovvero il possesso da parte dei datori di lavoro del documento unico di regolarità contributiva – Durc con esito regolare, oltre al rispetto degli altri obblighi di legge nonché degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Sempre nel mese di luglio, nel 20152, la procedura di richiesta del Durc è stata resa completamente telematica e da diversi anni, pertanto, aziende e professionisti hanno a che fare con il “grande fratello” Durc, la cui finalità è certamente encomiabile, ovvero consentire la partecipazione a bandi ed appalti e premiare mediante facilitazioni contributive e normative solo le aziende perfettamente in regola con il pagamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi ma, purtroppo, date le molteplici criticità della procedura che porta al tanto agognato rilascio del certificato, per molte aziende e di riflesso per chi, come noi, le assiste, è diventato un vero e proprio “strumento di tortura”, che ha dato adito a numerosi procedimenti legali.
Come noto, laddove vi è un cospicuo contenzioso vi è evidentemente poca chiarezza normativa e/o farraginosità delle procedure.
Orbene, semplificare, nel senso letterale del termine “Rendere semplice o più semplice; rendere più agile e funzionale; facilitare, agevolare, alleggerire 3”, può certamente comportare una riduzione delle   controversie, con risparmio di tempo e di denaro pubblico e privato nonché, risultato ben più importante, coadiuvare le aziende, soprattutto le micro imprese che, ricordiamo, costituiscono oltre il 90% del nostro tessuto produttivo, a ristabilire la regolarità nel momento in cui si fosse perduta, per tutta una serie di motivazioni che possono andare dalla banalissima momentanea mancanza di liquidità
all’errore formale. Le imprese prive di Durc regolare non possono accedere a benefici che spesso rappresentano quella piccola ma indispensabile boccata di ossigeno nell’ambito della riduzione del costo contributivo dei rapporti di lavoro, che sappiamo bene essere nel nostro paese il secondo nell’area Ocse4, oltre ad aver preclusa la partecipazione a bandi, appalti ed affidamenti pubblici. Permettere ai datori di lavoro un accesso più semplice alla regolarità significherebbe rendere liquidi i crediti provenienti dalla pubblica amministrazione in primis, ma anche dai privati, favorendo un atteggiamento di fiducia nel futuro, che gioco-forza porterebbe ad una maggiore predisposizione agli investimenti volti alla crescita aziendale e, di conseguenza, con immancabili effetti positivi sull’intero sistema economico.
Ad oggi purtroppo, anche dal punto di vista amministrativo, i paletti sono parecchi, ma la buona notizia è che con piccoli interventi si potrebbero ottenere grandi risultati.
Tanto per cominciare, il Durc ha una validità di 120 giorni dalla data di effettuazione della verifica5, ma nella quasi totalità dei casi tale  periodo viene considerato decorrente, invece, dalla data in cui viene inoltrata la richiesta telematica. Inoltre, la richiesta non può essere inoltrata se non a partire dal giorno successivo alla scadenza del Durc precedentemente valido.
Ipotizziamo dunque che si richieda il Durc in data 1° marzo; poiché gli enti coinvolti hanno 30 giorni di tempo per il rilascio, il documento potrebbe essere emesso il 31 marzo, ma scadrà il 28 giugno (120 giorni dalla data della richiesta, cioè dal 1° marzo).
Il Durc successivo potrà essere richiesto solo a partire dal 29 giugno e, per effetto dei 30 giorni di cui sopra, potrebbe essere emesso anche il 29 luglio (ovviamente con data di validità 29 giugno e via discorrendo). In sostanza l’azienda potrebbe restare orfana di Durc dal 29 giugno al 29 luglio, e nelle dinamiche aziendali sappiamo bene cosa significa procrastinare gli incassi di un mese, ovvero non poter accedere ad agevolazioni, partecipare ad appalti ecc., con l’aggravante del particolare momento post  covid ed in costanza delle conseguenze derivanti dal conflitto russo ucraino relative al caro gas ed energia, nonché all’aumento dell’inflazione ed al conseguente rincaro del costo della vita.
In considerazione dei 30 giorni di tempo concessi agli enti per emettere il certificato, ci sembra quantomeno doveroso concedere agli utenti di poter richiedere il nuovo documento almeno 30 giorni prima della scadenza, al fine di evitare “vuoti” come descritto nell’esempio.
Tra l’altro, anche far decorrere la validità del documento dalla data di emissione e non dalla data della richiesta, dovrebbe essere una conseguenza piuttosto logica.
Soffermandoci sulle tempistiche di rilascio che, come detto, possono arrivare fino a 30 giorni, definire inadeguato il termine di 15 giorni concesso al contribuente per regolarizzare è un eufemismo, come lo è considerare tali 15 giorni di calendario anziché lavorativi, poiché siamo tutti consapevoli che enti  pubblici e banche osservano prevalentemente la chiusura nei giorni festivi e prefestivi e, pertanto, spesso riuscire a sanare eventuali scoperti diventa veramente un’impresa titanica. Per non parlare delle  situazioni in cui le aziende sono costrette a chiedere una dilazione del pagamento, dovendo in tali casi attendere obbligatoriamente i tempi di lavorazione delle pratiche, evidentemente indipendenti dalla loro volontà, che la L. n. 241/1990 fissa in 30 giorni (termine ordinario per l’emissione del provvedimento di autorizzazione al pagamento dilazionato)6, palesemente in contrasto con i 15 giorni concessi al contribuente per regolarizzare. È utile ricordare che senza la notifica del piano di  ammortamento del debito, non è possibile versare la prima rata e, quindi, accedere alla regolarizzazione.
A tal fine quindi, portare il termine della regolarizzazione a 30 giorni lavorativi pare veramente il minimo sindacale, termine che dovrebbe essere elevato a 45 giorni in caso di  richiesta di dilazione.
A sostegno di quanto proposto, se la stessa norma prevede che “L’interessato, avvalendosi delle procedure in uso presso ciascun Ente, può regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a 15 giorni dalla notifica dell’invito di cui al comma 1”, il Ministero del lavoro nella circolare n. 19/2015, ha chiarito che “tuttavia gli istituti non potranno dichiarare l’irregolarità qualora la  regolarizzazione avvenga comunque prima della definizione dell’esito della verifica che altrimenti attesterebbe una situazione – il mancato versamento di somme dovute – non corrispondente alla realtà. Conseguentemente, il rilascio del Durc terrà conto dell’avvenuta regolarizzazione, che in ogni caso dovrà avvenire prima del trentesimo giorno dalla data della prima richiesta”.
Alla luce di ciò appare ancor più ragionevole estendere tout court il termine per la regolarizzazione, oltre alla necessità di prevedere la riapertura del Durc irregolare qualora l’istruttoria sia stata ultimata ed il certificato emesso prima dei 30 giorni, ma il contribuente abbia nel frattempo regolarizzato entro tale  termine, anche se successivo all’emissione del documento, purché all’interno dei 30 giorni.
D’altronde sono note le lungaggini derivanti dalle più disparate casistiche, quali ad esempio i debiti in fase legale-amministrativa appena “ceduti” all’agente della riscossione, il cui ruolo esecutivo non sia ancora stato formato; in tale fattispecie non è possibile saldare il debito presso l’agente della riscossione, in quanto non ancora formalizzato, né presso l’istituto di previdenza, in quanto non più in fase legale- amministrativa. Anche qualora gli importi siano già iscritti a ruolo si verifica comunque un allungamento dei tempi di risoluzione della situazione debitoria, poiché l’eventuale richiesta di dilazione deve essere lavorata da un ente terzo rispetto ad Inps ed Inail; pertanto, in presenza di debiti a ruolo e non, occorre operare su due ambiti paralleli, ovvero, con l’Agenzia delle Entrate per le somme in cartella esattoriale, e con gli enti per i restanti importi.
Se poi, come spesso accade, le gestioni con esposizioni debitorie sono più di una, per fare un banale esempio, DM10, Gestione separata e Gestione autonomi artigiani, le corsie su cui lavorare si moltiplicano e vi è l’ulteriore aggravio di dover inviare a ciascuna gestione l’allegato “SC18”, con il riepilogo degli importi dovuti su tutte le altre gestioni, con esclusione di quella a cui si invia; in pratica, nel caso prospettato, è necessario produrre tre diversi “SC18”, ognuno dei quali soggiace alle tempistiche di lavorazione delle tre diverse gestioni.
Appare allora chiara l’urgenza di un sistema unitario, che permetta alle singole gestioni di comunicare e poter avere contezza in tempo reale della regolarizzazione operata anche negli altri comparti.
Altra criticità è costituita dal “periodo di osservazione” della regolarità ai fini del Durc, ovvero la verifica che gli enti devono operare che non può arrivare oltre il secondo mese precedente la richiesta7.
Questa apparente facilitazione non è però operativa in caso di domanda di dilazione che, come noto, deve comprendere tutto il debito esistente alla data di inoltro della domanda stessa, annullando di fatto il limite di verifica al secondo mese precedente la richiesta di Durc.
Sarebbe logico, pertanto, adeguare anche il sistema di dilazione alla verifica ai fini del Durc, consentendo di rateizzare solo ciò che concretamente viene esposto nel preavviso di irregolarità, senza andare oltre.
In aggiunta a ciò, molte sedi Inps esigono anche l’invio del modello Uniemens riferito all’ultimo mese di retribuzioni, nonché il relativo pagamento, anche se entrambe le scadenze non sono ancora spirate.
In pratica, per chiudere un Durc entro il giorno 10 del mese di marzo, ad esempio, viene preteso l’invio del modello Uniemens riferito a febbraio, la cui scadenza è al 31 marzo, ed il pagamento di quanto  dovuto, benché la scadenza sia al 16 di marzo.
L’intera istruttoria gioverebbe di un importante snellimento se venisse identificata un’unica dead line di riferimento dei controlli di regolarità, verosimilmente stabilita nel secondo mese precedente all’inoltro della richiesta.
Fin qui sono state esaminate le possibili modifiche di tipo amministrativo, che incidono prevalentemente sulla parte gestionale-operativa di rilascio del Durc, ma non possiamo non spendere qualche parola sulle problematiche di merito, tutte peraltro già affrontate in più round dalla giurisprudenza nonché da questa stessa Rivista.
La prima considerazione doverosa riguarda la corretta decorrenza del disconoscimento delle agevolazioni in caso di Durc irregolare. L’Ispettorato nazionale del lavoro nella circolare n. 3/2017 afferma che “L’assenza del Durc chiaramente determina il mancato godimento dei benefici di cui gode l’intera compagine aziendale per il relativo periodo, così come del resto già chiarito dal Ministero del lavoro con risposta ad interpello n. 33/2013, secondo l a quale “una volta esaurito il periodo di non rilascio del Durc l’impresa potrà evidentemente tornare a godere di benefici “normativi e contributivi”, ivi compresi quei benefici di cui è ancora possibile usufruire in quanto non legati a particolari vincoli temporali”. È quindi lapalissiano che in presenza di Durc non regolare il disconoscimento dei benefici
eventualmente spettanti potrà avvenire solo per il periodo in cui l’irregolarità sia stata accertata e fino all’avvenuta regolarizzazione, cioè per il lasso di tempo intercorrente tra l’emissione del Durc non regolare e il successivo rilascio del Durc regolare.
Ma, ahimè, tra gli operatori è tristemente nota la prassi utilizzata da molte sedi Inps che procedono al recupero di tutti i benefici fruiti nei 5 anni precedenti l’accertata irregolarità, in applicazione della prescrizione quinquennale.
Ebbene, tale applicazione restrittiva non è certamente condivisibile, poiché il beneficio contributivo
costituisce un diritto in capo all’impresa, derivante dal rispetto di determinate condizioni stabilite dalla normativa di riferimento, allorquando si stipulino determinate tipologie contrattuali, con determinate tipologie di soggetti, aventi determinate tipologie di requisiti, diritto che, evidentemente, non viene generato con l’emissione del Durc. Il co. 1175, art.1 della L. n. 296/2006, subordina la mera continuità di applicazione dei benefici alla presenza del Durc regolare, che costituisce quindi una sorta di autorizzazione al proseguimento della fruizione, assunto pienamente sposato dall’interpretazione dell’Inl.
Altro boccone amaro, fortunatamente addolcito da alcune sentenze di merito, riguarda le irregolarità
“formali”, quali, ad esempio, il mancato invio del modello Uniemens a fronte dell’avvenuto pagamento dei contributi dovuti, che spesso e volentieri ha determinato emissione di Durc con esito negativo.
Recenti pronunce8 confermano che l’assenza di regolarità che dà luogoall’emissione di Durc negativo, è determinata esclusivamente dalla condizione indicata dall’art. 3 del D.M. del M.L.P.S. del 30.01.2015 che al co. 1 recita: “La verifica della regolarità in tempo reale riguarda i pagamenti dovuti dall’impresa in relazione ai lavoratori subordinati e a quelli impiegati con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, che operano nell’impresa stessa nonché, i pagamenti dovuti dai lavoratori autonomi, scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive”.
Argomenta il Giudice romano nella sentenza del 16.03.22 che “nessuna disposizione (…..) autorizza l’Inps ad emettere, come ha fatto in questa vicenda, un Durc negativo che genera poi le conseguenze previste dall’art. 1 co.1175 in una situazione in cui nessuna omissione nei “pagamenti dovuti all’impresa” si è mai verificata”.
Tale chiosa non può che trovarci d’accordo, fermo restando che, naturalmente, su invito dell’istituto, l’azienda dovrà adempiere al mancato invio entro i 30 giorni paventati per la regolarizzazione.
Il Durc è ormai uno strumento di lavoro indispensabile, dall’indubbia valenza, ma che deve essere reso il più accessibile possibile, in modo da affiancare le aziende nel cammino verso la legalità ma, allo stesso tempo, non può e non deve diventare un ostacolo a causa delle descritte criticità che tuttavia appaiono sanabili con alcuni interventi correttivi.

Clicca qui per la tabella delle proposte.

 

 

1. Art.1, c.1175, L. n. 296/2006.

2. D.M. M.L.P.S., M.E.F. e Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione del 30 gennaio 2015.

3. Cit.: Treccani.it

4. Lucini G., Tasse, il cuneo fiscale in Italia è il quinto più alto tra i Paesi Ocse: 46,5% nel 2021, Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2022-.

5. Art.7, co.2, D.M. 30 gennaio 2015.

6. Sito web Inps – “Rateazione dei debiti contributivi in fase amministrativa”- https://www.inps.it/prestazioni-servizi/rateazione- dei-debiti-contributivi-in-fase-amministrativa.

7. Art.3, co.2, D.M. 30 gennaio 2015.

8. Tribunale di Roma 11.03.2022 e 16.03.2022.

 

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UN ANNO DI PROPOSTE di semplificazione dall’Ordine di Milano

A cura della Redazione

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(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Un altro anno è trascorso da che, lo scorso dicembre, abbiamo fatto il check delle 12 Proposte del mese che hanno caratterizzato l’attività della Sezione Semplificazione del Centro studi unitario Ordine dei Consulenti del Lavoro provincia di Milano – Ancl Up Milano, che si dedica con grande attenzione ed energie allo studio del diritto del lavoro con l’obiettivo di individuare soluzioni e/o spunti interpretativi per dirimere questioni controverse di diritto o di non facile applicazione (ma fonte di sicuro contenzioso).
L’idea è quella di mettersi al fianco di colleghi professionisti per cogliere le criticità che spesso il Legislatore crea nella concreta applicazione delle norme e anche il 2022, da questo punto di vista, non ha deluso! Archiviato, si spera, il periodo emergenziale legato alla gestione degli eventi pandemici, si sono fatti sentire dolorosamente gli effetti della guerra che da decenni non toccava più così da vicino il vecchio continente….. crisi energetica, aumento dei prezzi dei beni di consumo, ansia per il futuro…..non si può certo dire che si sia aperto un periodo di maggiore serenità …
A seguire una tabella sintetica che ripropone tutti gli argomenti trattati nell’anno corredati da un
breve e non esaustivo riepilogo delle proposte avanzate, con la possibilità di scaricare il singolo articolo attraverso link ipertestuali per permettere al lettore di approfondire i temi trattati. Chiude l’anno il contributo nel presente numero della Rivista 2999 più uno: no, semplifichiamo.

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Una proposta al mese – 2999 PIÙ UNO: no, semplifichiamo

di Manuela Baltolu, Consulente del lavoro in Sassari e Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi) 

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DUE RIFLESSIONI PRELIMINARI
Ci sono cose di cui non si sente minimamente il bisogno: una gomma bucata,
un’auto che ti schizza passando sopra una pozzanghera, l’ombrello che si inceppa nel bel mezzo di un acquazzone, la visita di un parente noioso, l’influenza a ridosso di una vacanza.
Fra di esse c’è anche un conguaglio dicembrino che si prospetta  articolarmente oneroso e complicato, come vedremo. Infatti, in seguito all’innalzamento della soglia di esenzione fiscale e previdenziale a 3.000 euro dei fringe benefit introdotta dal c. 10, art. 3 del D.l. n. 176/2022, chi già ha percepito durante tutto l’anno retribuzioni in natura (oltre i 258,23 euro fino al 9 agosto 2022, ovvero oltre 600 euro dal 10 agosto 2022 in poi per effetto dell’art. 12, D.l. n. 115/2022) e, come previsto dal c. 3, art. 51 del TUIR ha subito le prescritte trattenute previdenziali e fiscali, ora, in virtù  dell’ulteriore modifica del limite imponibile, qualora tali importi in natura non sforino l’importo di 3.000 euro avrà diritto al recupero di tutte le ritenute subite in seguito al ricalcolo del conguaglio previdenziale e fiscale cui il datore di lavoro è tenuto.
Ciò avverrà con tutte le criticità del caso, ovvero difficoltà di reperimento degli importi eventualmente percepiti in altri rapporti di lavoro, nonché gestione delle situazioni relative a rapporti di lavoro cessati prima dell’entrata in vigore del nuovo limite, per i quali si paventa l’obbligo di emissione di un cedolino
aggiuntivo con il solo conguaglio.
Fiscalmente parlando, anche la dichiarazione dei redditi potrebbe venire in aiuto degli addetti ai lavori, consentendo il conguaglio definitivo in quella sede.
Ma è la parte previdenziale che appare particolarmente complessa da gestire, poiché dover inserire nel libro unico del lavoro (LUL) un imponibile  contributivo a credito per un importo fino a 3.000 euro potrebbe comportare non solo l’azzeramento dell’imponibile del mese, ma anche, in qualche caso,
trasformarlo con segno negativo qualora fosse di importo inferiore all’imponibile del fringe benefit, condizione questa che renderebbe impossibile la trasmissione del flusso uniemens.
L’eventuale importo negativo potrebbe inoltre “trascinarsi” in periodi successivi, ad esempio nel caso di riduzione dell’imponibile previdenziale per trasformazione di contratto da full-time a part-time e situazioni similari.
Ci giunge notizia che l’Inps sta approntando una circolare con la quale comunicherà l’introduzione di un meccanismo che dovrebbe consentire comunque l’invio dei flussi, probabilmente creando un apposito codice con cui indicare l’importo a credito, ma resta da vedere come potranno essere gestite le casistiche in cui il credito non venga esaurito in un’unica mensilità.
L’alternativa può essere una sola purtroppo, ovvero la procedura di  regolarizzazione Vig, che comunque creerebbe il solito disallineamento
tra il momento dell’effettiva erogazione del rimborso delle somme a credito ai lavoratori da parte del datore di lavoro e il recupero delle stesse, oltre che moltiplicare gli adempimenti per aziende e addetti ai lavori che, nel 2022, hanno visto forse l’anno peggiore per quanto riguarda recuperi di ogni genere (vedi esonero contributivo per i lavoratori nonché quello specifico per lavoratrici madri), erogazioni di indennità una tantum moltiplicate per  due/tre  periodi a seconda dei casi, ad esempio per imponibili contributivi  azzerati in seguito ad eventi con copertura previdenziale figurativa, nonché per i lavoratori “sbadati” che non avessero consegnato la dichiarazione nei  termini, oltre a variazione di flussi già trasmessi, nonché recuperi di alcune tipologie di sgravi contributivi sostituite da altre tipologie, e quant’altro accaduto nell’anno che sta per lasciarci. Insomma, diciamocelo, variare un limite di esenzione sul rushfinale dell’anno non è stata proprio un’ideona in termini gestionali, fermo restando l’evidente vantaggio economico per lavoratori e imprese.
Sono tutte cose che sarebbe stato decisamente meglio non fare: snaturare il welfare,dare agevolazioni fisco-contributive a pioggia, raggiungendo spesso anche chi non ne aveva assoluto bisogno (che capiremmo se nuotassimo nell’oro, ma siccome le risorse sono limitate …).
Il rischio aggiuntivo che si corre è proprio quello di banalizzare la finalità  sociale del welfare aziendale che rappresenta l’elemento che giustifica la tassazione agevolata attualmente in essere per imprese e lavoratori. Una quota così elevata di fringe benefit formalizzata a poco più di un mese dalla fine dell’anno rischia infatti di scoraggiare la costruzione dei piani di welfare“puro”, ovvero incentrato sui reali bisogni sociali dei propri  collaboratori, poiché è molto più semplice e veloce erogare, ad esempio, buoni acquisto o carburante, con un impegno minimo dal punto di vista organizzativo e amministrativo. Senza contare l’assoluta discrezionalità del datore riguardo ai soggetti a cui destinare tali benefit. Ma siccome tutto questo purtroppo ci capita, un po’ ne parliamo ma poi proattivamente proponiamo. Anche perché speriamo, magari, che non ci capiti più.

LA NOSTRA PROPOSTA
Note esplicative preliminari alle modifiche proposte.
L’art. 51 cambia, rispetto all’attuale, in tre punti essenziali, relativi al terzo periodo del comma e all’aggiunta di un quarto periodo, restando invariata la modalità generale di determinazione del valore normale dei beni o delle prestazioni in natura come stabilita dai primi due periodi.
Si introduce un mero aumento del valore, prima fissato a 258,23 euro (le vecchie 500.000 lire), che viene elevato a 600 euro, in funzione dell’andamento del costo della vita dalla data di approvazione del testo originale ad oggi.
Secondariamente, tale valore viene fissato come franchigia, prevedendo la tassazione solo per la parte eccedente 600 euro. Esemplificando, se un dipendente riceve beni per 1000 euro, la parte imponibile risulta quella di 400, cioè quella oltre il valore franchigia.
Il criterio permette di avere una rapida certezza a tutte le parti in causa (datore, lavoratore, enti) della tassazione di quanto erogato. Inoltre, consente di non penalizzare enormemente sforamenti irrisori (e magari involontari o ingenui) di detto limite, andando a riprendere a tassazione quanto già acquisito come esente. Più complessa, ma egualmente informata ad un senso di giustizia, semplicità e chiarezza, è l’introduzione dell’ultimo periodo, che prevede che, ai fini del computo del raggiungimento del predetto limite, non vadano considerati beni e servizi o prestazioni in natura già soggetti a tassazione secondo il valore normale o convenzionale del bene.
Se infatti su tali prestazioni il contribuente già paga una tassazione, normale o agevolata (rectius,forfetaria) non si vede perché i valori dovrebbero essere nuovamente posti in gioco. Ciò deprimerebbe lo scopo della norma in questione, che sostanzialmente prevede una soglia minima di liberalità o benefit non tassabile. Si tratta di un’ampia gamma di ipotesi che vanno dal regalo occasionale in occasione di festività (normalmente quelle natalizie) alle  cene o gite aziendali o a prestazioni di piccoli beni/servizi occasionali interni all’azienda (ad es. il caffè, la compilazione del mod. 730 etc.), cifre irrisorie sulle quali giustamente lo Stato non intende incidere per evidenti ragioni e buona pace di tutti.
Tuttavia, nemmeno pare equo che qualora tali prestazioni siano rivolte a dipendenti che fruiscono di beni soggetti a tassazione (un caso su tutti, l’autovettura ad uso promiscuo per l’intero anno), qualsiasi benefit o liberalità sia soggetta a tassazione, magari per importi risibili.
D’altronde si rifletta per assurdo su una considerazione molto semplice: se per tali beni (poniamo di valore 4.000 euro) l’azienda corrispondesse al  dipendente un lordo del medesimo importo (4.000 euro ) come retribuzione e poi rivendesse al dipendente tali beni/servizi percependo dal lavoratore la stessa cifra (4.000) come corrispettivo, si determinerebbe una situazione per cui il dipendente pagherebbe le stesse tasse (e l’azienda la medesima contribuzione), come se il tutto fosse stato trattato come retribuzione in natura, ma il dipendente risulterebbe non aver ricevuto alcun bene dall’azienda (li ha comprati) e quindi ritornerebbe nella disponibilità di ricevere beni dall’azienda per il pieno importo (quale che sia) del comma 3 in questione.
La specifica all’art. 95 del TUIR, invece, vuole solo evitare (sembra scontato, ma sempre meglio precisare), che qualora i beni omaggiati al lavoratore siano della stessa qualità di quelli all’art. 100 (ad esempio, un biglietto di teatro o di concerto, inquadrabili teoricamente in un bene con finalità ricreativa), possa insorgere il sospetto su un limite alla loro detraibilità in funzione delle specifiche previsioni dell’art. 100.
Anche questo sarebbe tuttavia un assurdo: è di tutta evidenza che le opere o i servizi dell’art. 100 hanno una loro specifica deducibilità in funzione di una  “vocazione welfare” (lo riconosce la stessa Agenzia delle Entrate nella circolare n. 28/2016, inserendo nell’articolo 100 tutte le poste di welfare della lettera f comprese le f/bis ed f/ter) dell’art. 51, comma 2. Ora sembra a chi scrive contraddittorio che beni o servizi di cui viene riconosciuta un’utilità sociale potrebbero avere delle limitazioni di detraibilità fiscale rispetto a benefit del tutto generici.
Il dubbio appare però legittimo, in particolare in seguito all’affermazione dell’Agenzia delle entrate contenuta nella circolare n. 27/2022 relativa al bonuscarburante introdotto dall’art. 2 del D.l. n. 21/2022: “non rientrando la fattispecie in commento nelle ipotesi di cui all’articolo 100, comma 1 del TUIR, il costo connesso all’acquisto dei buoni carburante in commento sia integralmente deducibile dal reddito d’ impresa, ai sensi del richiamato articolo 95 del TUIR, sempreché l’erogazione di tali buoni sia, comunque, riconducibile al rapporto di lavoro e, per tale motivo, il relativo costo possa qualificarsi come inerente”; ergo, il bonus carburante è pienamente deducibile dal reddito d’impresa in ragione della finalità della sua erogazione, che non risulta essere di educazione, né di istruzione, né di ricreazione, né di assistenza sociale, né sanitaria o di culto.
Ecco, quindi, le modifiche che proponiamo.

In grassetto quanto modificato rispetto al testo attuale. L’art. 51, comma 3 del TUIR (D.P.R. n. 917/86) è così modificato

3. Ai fini della determinazione in denaro dei valori di cui al comma 1, compresi quelli dei beni ceduti e dei servizi prestati  al coniuge del dipendente o a familiari indicati nell’articolo 12, o il diritto di ottenerli da terzi, si applicano le disposizioni relative alla determinazione del valore normale dei beni e dei servizi contenute nell’articolo 9. Il valore normale dei generi in natura prodotti  dall’azienda e ceduti ai dipendenti è determinato in misura pari al  prezzo mediamente praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista.
Non concorre a formare il reddito il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se complessivamente di importo non superiore nel periodo d’imposta ad euro 600; se il predetto valore è superiore al citato limite, concorre a formare il reddito esclusivamente la quota eccedente dello stesso.
Ai fini del raggiungimento del predetto valore non concorrono i beni e servizi il cui valore, determinato ai sensi del presente comma, primo periodo, e del successivo comma 4, viene corrisposto dal dipendente o costituisce per esso reddito imponibile nel medesimo periodo di imposta.
L’art. 95, comma 1 del TUIR (D.P.R. n. 917/86) è così modificato:
1. Le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito comprendono anche quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori, salvo il disposto dell’articolo 100, comma 1.
Le spese per prestazioni in beni o servizi di cui all’art. 51 comma 3, nei limiti ivi stabiliti, sono altresì sempre interamente deducibili, qualunque sia la loro natura e finalità.

Ah sì ci sarebbe un’ultima cosa, ma non riusciamo a scriverla compiutamente in senso positivo, perché è una cosa che semplicemente non si dovrebbe più fare. Qualora venisse in mente a qualcuno di dare altri benefit, lasciate stare il comma 3, scrivete quel che volete ma in un’altra parte dell’art. 51. Ve ne saremo infinitamente grati.

 

 

 

 

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Una proposta al mese – UNICA DISTINTA DI CONTRIBUZIONE per tutti i fondi pensione scelti dai dipendenti

di Mariagrazia di Nunzio – Consulente del lavoro in Milano

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Una delle tante attività post paghe che impegnano tutti gli addetti all’amministrazione del personale è la predisposizione e l’invio delle distinte di contribuzione sui siti internet dei diversi fondi pensione cui aderiscono i lavoratori dipendenti.

Secondo la relazione annuale 2021 della Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), la previdenza complementare, disciplinata dal D.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, che rappresenta il secondo pilastro del sistema pensionistico il cui scopo è quello di integrare la previdenza di base obbligatoria (o di primo pilastro), conta circa 8,8 milioni di iscritti e risulta in crescita del 3,9% rispetto all’anno precedente, per un tasso di copertura del 34,7% sul totale delle forze di lavoro.

Alla fine del 2021 le 349 forme pensionistiche complementari operanti nel sistema sono costituite da 33 fondi pensione negoziali, 40 fondi pensione aperti, 72 piani individuali pensionistici di tipo assicurativo (PIP) c.d. “nuovi” e 204 fondi pensione preesistenti (vedi legenda). Le Aziende e ancor più gli studi professionali che amministrano più aziende con diversi contratti collettivi – già oberati da mille scadenze – ogni mese o ogni trimestre si trovano a dover gestire anche l’invio della distinta di contribuzione sui siti internet dei diversi fondi pensione cui i dipendenti decidono di aderire. I gestionali paghe, in alcuni casi, predispongono dei file telematici contenenti le distinte di contribuzione per i fondi negoziali che vanno uploadati sui siti internet. Invece per tutti gli altri fondi pensione è necessario compilare dei form sui singoli siti internet. In   entrambi i casi bisogna memorizzare un notevole numero di credenziali per accedere alle aree riservate dei siti internet nonché ricordarsi scadenze (mensili, trimestrali, annuali a seconda dei fondi pensione) e procedure da seguire per l’inserimento dei dati utili alla creazione della posizione previdenziale dell’aderente.

Tali distinte di contribuzione richiedono, seppur in modo differente, le medesime informazioni, quindi, perché non uniformare il file contenente la distinta di contribuzione e creare un unico portale che raccolga tutti i dati di tutti relativi ai Fondi pensione, magari utilizzando proprio il sito della Covip che in questo modo avrebbe già i dati utili per svolgere la sua attività di Vigilanza?

Una volta inviato l’unico file contenente la distinta di contribuzione al portale della Covip, i diversi fondi pensione, accedendo al portale unico, potrebbero scaricare i dati per la ricostruzione e la rendicontazione della posizione previdenziale individuale e aziendale e procedere con l’area di investimento prescelta dal dipendente.

Le aziende potrebbero ricevere all’indirizzo email indicato nella distinta di contribuzione, copia dell’ordine di bonifico da pagare contenente l’ammontare dei contributi dovuti e un estratto della posizione aziendale relativamente ai versamenti effettuati ad una determinata data.

Di seguito un esempio dei dati che l’unica distinta di contribuzione per i Fondi pensione potrebbe avere:
• Codice Covip del fondo pensione
• CF azienda
• codice ditta (se presente)
• CF aderente
• cognome e nome
• data nascita
• sesso
• data assunzione
• tipo adesione (iscritto o silente)
• data compilazione (in formato gg/mm/
aaaa),
• data valuta (in formato gg/mm/aaaa),
• periodo di riferimento (mensile o trimestrale, annuale)
• % contributi aderente
• % contributi azienda
• % di destinazione del TFR
• tot. Contributi aderente: somma di tutti i contributi a carico dagli aderenti,
• tot. Contributi azienda: somma di tutti  i contributi a carico dell’azienda,
• tot. Contributi TFR : somma di tutti i contributi tfr degli aderenti,

• TFR silente

• pdr convertito in welfare
• tot. Quote iscrizione aderente (se esistenti): somma delle quote di iscrizione versate dagli aderenti,
• tot. Quote iscrizione azienda (se esistenti): somma delle quote di iscrizione versate dall’azienda,
• tot. Generale: somma complessiva dei contributi presenti in distinta.
• dati relativi al referente (nome, e-mail, telefono)

Questa idea di semplificazione vuole essere diretta a snellire l’attività amministrativa e ridurre gli adempimenti ridondanti.

VANTAGGI DELLA PROPOSTA DI SEMPLIFICAZIONE
• Adempimento semplificato per aziende e addetti all’amministrazione del personale;
• Minore manutenzione per i fondi pensione dei propri siti internet per la ricezione delle distinte di contribuzione in caso di eventuali modifiche normative;
• Covip avrebbe con immediatezza i dati per la vigilanza sui fondi pensione.

LEGENDA QUALI SONO LE FORME PENSIONISTICHE COMPLEMENTARI

FONDI PENSIONE NEGOZIALI: sono forme pensionistiche complementari istituite nell’ambito della contrattazione collettiva (nazionale o aziendale). A questa tipologia appartengono anche i fondi pensione cosiddetti territoriali, istituiti cioè in base ad accordi tra rappresentanti di datori di lavoro e lavoratori appartenenti a un determinato territorio.
FONDI PENSIONE APERTI: sono forme pensionistiche complementari istituite da banche, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio (SGR) e società di intermediazione mobiliare (SIM). I fondi pensione aperti possono raccogliere adesioni su base individuale e collettiva.
PIANI INDIVIDUALI PENSIONISTICI DI TIPO ASSICURATIVO (PIP): sono forme pensionistiche complementari istituite dalle imprese di assicurazione. I PIP possono raccogliere adesioni solo su base individuale.
FONDI PENSIONE PREESISTENTI: sono forme pensionistiche  complementari così chiamate perché già istituite prima del decreto legislativo n.124 del 1993 che ha introdotto per la prima volta una disciplina organica del settore.

 

 

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Una proposta al mese – IL PATTO DI PROVA DEL DECRETO TRASPARENZA: superare le disparità di trattamento e le discriminazioni

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Lo dico a chiare lettere: non mi convince affatto la nuova disciplina legale del patto di prova introdotta dall’art. 7 del D.lgs. 104 del 27 giugno 2022 che, in modo troppo succinto, così lo disciplina:

Durata massima del periodo di prova 1. Nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi.

  1. Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova.
  2. In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

Questo articolo è, per buona parte, la pessima trasposizione di quanto previsto dall’art. 8 della direttiva (UE) N. 2019/1152 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.

Come si noterà la nuova disciplina della prova si basa su quattro principi:

  1. durata massima del periodo di prova;
  2. riproporzionamento della durata del patto di prova nei contratti a termine;
  3. divieto di reiterazione del patto di prova in caso di riassunzione per le stesse mansioni;
  4. prolungamento del periodo di prova in presenza di sospensione della prestazione. Ognuno di questi presenta delle evidenti criticità, specie in un’ottica di palese violazione del diritto alla parità di trattamento e di divieto di discriminazione.1

 

LA DURATA MASSIMA DEL PERIODO DI PROVA

La problematica che qui emerge è la mancanza di un periodo minimo di prova garantito ex lege, carenza che consentirà ai vari contratti collettivi di prevedere ancora durate ridicole, anche di pochi giorni. Una cosa che stride con la riconosciuta finalità del patto di prova che una consolidata giurisprudenza individua nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (Cass. n. 1099 del 14 gennaio 2022). Anche perché non va dimenticato che durante la prova può essere valutato – se espressamente previsto – non solo la capacità professionale ma anche il comportamento complessivo del lavoratore, quale è desumibile dalla correttezza e dal modo in cui si manifesta la personalità: capacità nel comunicare, entusiasmo nel lavoro, riservatezza, attitudine alla collaborazione, senso di responsabilità, spirito di iniziativa e di adattamento.

Ma soprattutto teniamo presente che la sottoscrizione del patto di prova rappresenta il mezzo con cui il neoassunto può dimostrare al futuro datore di essere lui il candidato migliore per quel posto e di meritarsi un contratto a tempo indeterminato o anche solo di concludere il contratto a termine appena sottoscritto. Rammentiamo infine che è lo stesso Considerando n. 27 della Direttiva europea a ritenere che i periodi di prova dovrebbero pertanto essere di durata ragionevole. Una ragionevolezza che, considerate le richiamate finalità del patto di prova, dovrebbe appunto riguardare sia un termine di durata massima ma, a maggior ragione, anche un termine minimo. È possibile ritenere “ragionevole” una prova di soli 5 giorni lavorativi ove considerassimo che il lavoratore dovrà sfruttare questo periodo per dimostrare non solo la sua capacità professionale ma, come sopra detto, anche le altre sue apprezzabili ed encomiabili qualità personali?

 

IL RIPROPORZIONAMENTO DEL PERIODO DI PROVA DEI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO

Qui la criticità rilevata è la codificazione del principio che nei contratti a termine deve essere operata una riduzione del periodo di prova in modo proporzionale alla durata del contratto: mi son sempre chiesto per qual motivo un lavoratore assunto con un contratto iniziale di 3 mesi dovrebbe avere, rispetto ad uno assunto per 12 mesi, meno tempo per valutare e farsi valutare, considerata l’aspirazione di tutti e due a concludere quantomeno l’iniziale rapporto di lavoro a termine. Senza contare l’imbarazzante ignoranza matematica (peraltro già emersa nella giurisprudenza di merito italiana) nel non sapere che in una equazione matematica è operazione impossibile trovare l’incognita “x” (durata della prova nel TD) quando uno degli elementi conosciuti (la durata del contratto a TI) è un valore “infinito” (o quantomeno matematicamente non definibile, dato che il rapporto può durare un’intera vita lavorativa). Non scordiamo poi che nella disciplina del contratto a tempo determinato vige, in relazione al trattamento economico e normativo, un principio di non discriminazione del lavoratore assunto con tale tipologia contrattuale rispetto ai lavoratori in forza a tempo indeterminato. Il legislatore se lo deve essere scordato.

 

IL RIPROPORZIONAMENTO DEL PERIODO DI PROVA NEI CONTRATTI A TEMPO PARZIALE

Anche qui non manca una criticità anche se in termini di mancata previsione: il legislatore europeo, e di conseguenza quello italiano, si dimentica infatti di dare indicazioni circa un eventuale riproporzionamento nei casi di contratti a tempo parziale. Ci si riempie la bocca di concetti quali la parità di trattamento, il divieto di discriminazione e poi si ammette bellamente che due lavoratori assunti il medesimo giorno, presso la stessa azienda, con le medesime mansioni, si vedano proporre la medesima data di scadenza del patto di prova senza che si tenga conto che, lavorando il primo a tempo pieno ed il secondo al 50%, il primo disporrà di un tempo doppio per dimostrare al datore di lavoro di che pasta è fatto. Rasentando praticamente il ridicolo si continua a sostenere che sarebbe proprio in base al principio di non discriminazione che al lavoratore part-time spetterebbe, pur svolgendo un orario di lavoro ridotto, gli stessi diritti previsti per il lavoratore full-time. Chiaro invece che, proprio per il richiamato principio di non discriminazione, è esattamente il contrario. Andrebbe qui magari rammentata la Direttiva europea n. 97/81/CE del Consiglio Europeo del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES ed in particolare la Clausola 4: Principio di non-discriminazione che dispone che Per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive.2 Nella fattispecie appare difficile a chi scrive ravvisare ragioni obiettive per cui per il lavoratore part-time abbia meno tempo rispetto ad un lavoratore full-time per valutare – lo abbiamo già evidenziato sopra – l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni, chiamiamole ambientali, di svolgimento del rapporto.

IL DIVIETO DI REITERAZIONE DEL PATTO DI PROVA

Anche nel negare un nuovo periodo di prova nel caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni il legislatore comunitario dimostra tutta la sua superficialità non prevedendo alcuna ipotesi derogatoria al principio di non reiterazione della prova. Il lavoratore potrebbe essere riassunto dopo 20 anni dal precedente rapporto che l’espletamento della prova non sarebbe ugualmente ammesso. Non importa se nel frattempo le mansioni hanno avuto uno sviluppo tecnologico enorme (pensiamo ad un addetto paghe o alla contabilità assunto vent’anni prima) o che l’azienda abbia modificato il proprio modo di operare, sia per l’introduzione di nuovi macchinari o di software ma anche per un cambio dirigenziale. Non importa che l’ambiente aziendale, magari in termini di organico o di clientela, sia mutato e quindi l’adattamento caratteriale alla nuova realtà potrebbe essere più difficoltoso. Se uno ha già lavorato anche un solo giorno non potrà esser sottoposto ad alcuna prova. Pensare che ciò aiuti in qualche modo il lavoratore a trovare un lavoro stabile significa non conoscere le dinamiche del mondo del lavoro.

 

IL PROLUNGAMENTO DEL PERIODO DI PROVA

Anche su questo aspetto il legislatore italiano lascia molto a desiderare. L’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 fa infatti una certa confusione tra ciò che il Considerando n. 28 auspicava ovvero che i periodi di prova dovrebbero poter essere prorogati in misura corrispondente qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, ad esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di lavoro di verificare l’idoneità del lavoratore al compito in questione e l’art. 8 della Direttiva che non indica analiticamente le varie tipologie di assenza ma si limita a suggerire che Qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell’assenza.

Il legislatore nostrano, evidentemente senza ragionare troppo, aggiunge alla malattia un gruppetto di assenze assimilabili in senso lato alla malattia, quali infortuni, maternità o paternità obbligatori.

Di contro i congedi parentali (quelli facoltativi per capirci), i permessi legge 104, i permessi sindacali, le ferie collettive, i permessi individuali, la donazione sangue, i permessi per lutto, gli scioperi non avrebbero alcuna rilevanza per un eventuale prolungamento del patto di prova. Dobbiamo infine evidenziare come il legislatore non abbia nemmeno preso in considerazione la possibile interruzione dell’espletamento della prova verificatasi nel precedente rapporto, ad esempio causa dimissioni. Nulla prevede di conseguenza in merito ad un eventuale completamento di una prova lasciata a metà ma parla solo di divieto di reiterazione.

LA NOSTRA PROPOSTA

La nuova disciplina non convince soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi di parità di trattamento e di superamento di ogni discriminazione.

In quest’ottica si ritiene necessario rimetter mano all’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 quantomeno nei seguenti termini:

1. prevedere una reale durata del patto di prova uguale per tutti diversificata esclusi vamente in funzione del livello di assunzione e quindi a prescindere che si tratti di tempi indeterminati o determinati, part-time verticali, orizzontali o misti.
Per fare questo si dovrebbe trasformare la durata massima della prova da mesi in ore: se pertanto i 6 mesi sono circa 26 settimane e ogni settimana composta (di norma) da 40 ore lavorative, la durata limite della prova potrebbe essere fissata in 1040 ore. Considerando così solo le ore di effettiva prestazione si andrebbe peraltro a superare la evidenziate criticità dell’art. 7 del D.lgs n. 104/2022 che, maldestramente, ha previsto il prolungamento solo per determinate assenze.

2. prevedere un periodo minimo di espletamento della prova per tutti i livelli previsti dalle declaratorie contrattuali.
Questo in considerazione che la prova comprende non solo la valutazione della specifica professionalità richiesta al lavoratore ma anche di un comportamento complessivo che non è riproporzionabile in base alla durata del contratto, del livello o delle mansioni: educazione e rispetto valgono in egual misura per tutti.
La durata minima potrebbe quindi essere fissata in circa un quarto del periodo massimo, diciamo 240 ore (ragionando alla vecchia maniera pari a 6 settimane a tempo pieno) per tutti i lavoratori senza distinzioni tra tempo indeterminato e a termine, tra tempo pieno e tempo parziale. La restante quota di 800 ore andrebbe riproporzionata dai contratti collettivi in base ai livelli dagli stessi previsti secondo una scala parametrale liberamente individuata dalle parti sociali.

3. prevedere la possibilità di reiterazione e di completamento di un periodo di prova già parzialmente espletato.
La questione si pone in presenza di precedenti contratti subordinati, a termine o a tempo indeterminato, con o senza prova, ma anche in somministrazione.
In questi casi volgono le seguenti regole:
a) le parti sono libere di sottoscrivere un patto di prova in assenza di prestazioni lavorative nei 12 mesi precedenti la nuova assunzione (rilevano solo quelle svolte presso lo stesso datore di lavoro).
b) in presenza di attività lavorativa potrà essere previsto il completamento della prova a suo tempo concordata considerandola superata in riferimento alle ore svolte in prova nell’anno precedente.
c) considerare, anche se esclusivamente ai fini della durata complessiva della prova, tutte le “normali” ore di lavoro svolte nei 12 mesi precedenti l’ultima assunzione come una sorta di prova informale parzialmente già svolta, da sommare eventualmente alle formali ore di prova già effettuate. In pratica un correttivo alle regole generali motivato da ragioni di equità verso tutti i lavoratori che, prova o non prova, vantano presso la medesima azienda la stessa anzianità lavorativa. In un certo senso ciò fungerebbe come una sorta di periodo transitorio considerando che, in vigenza delle attuali regole, le parti potrebbero aver rinunciato a sottoscrivere un formale patto in relazione a contratti a termine molto brevi e quindi evidenziarsi delle prestazioni lavorative senza che le parti le abbiano formalmente identificate quale prova. Ed il pensiero va qui all’assurda regola (che con questa nostra proposta si intende superare) del riproporzionamento della durata del patto nei contratti a termine che rende spesso non significativo se non addirittura irrilevante l’espletamento della prova.

 

 

 

 

1. Si veda anche: A. Borella Il patto di prova del Decreto Trasparenza: irrisolte le vecchie criticità, La circolare di lavoro e previdenza, 35/2022.

2. Per un approfondimento si veda A. Borella, Le discriminazioni contrattuali nell’accesso al tempo parziale in questa Rivista, agosto 2022, pag. 47.

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Una proposta al mese – Estendere il campo della maxi-sanzione SUL LAVORO NERO

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

E’ strano, ogni tanto, quasi un senso di déja vu, ritornare su riflessioni e proposte del nostro Centro Studi milanese, alla luce di fatti di cronaca, di novità legislative o di sentenze. Così è successo alla lettura della sentenza n. 24388/2022 della Cassazione penale. In breve, il Collegio adito ha ritenuto sussistere una fattispecie di sfruttamento di lavoro nell’assunzione e messa in servizio di alcuni lavoratori inquadrati come part-timer ma in realtà impiegati a tempo pieno, se non con un numero di ore addirittura esorbitanti.Con ciò, riteneva applicabile a tale comportamento l’art. 603/bis del codice penale introdotto dal D.l. n.138/2011, cosi come modificato dalla L. n. 199/2016.
Non è il caso qui di addentrarci nella vicenda, che ha visto i giudici di Cassazione confermare quanto già stabilito nei precedenti gradi di giudizio con motivazioni (condivisibili) inerenti il caso specifico e non automaticamente estendibili, quanto sviluppare un ragionamento parallelo.
Cassazione penale afferma che, a determinate condizioni, il sottoporre il lavoratore ad un determinato orario formalizzando però il rapporto per un orario inferiore è un possibile indice di sfruttamento della manodopera, con la realizzazione di un ingiusto profitto a carico dell’utilizzatore. Come qualcuno ha fatto acutamente
notare1, il reato di caporalato (a cui si riferiva originariamente l’art. 603/bis del codice penale) ha esteso la sua competenza andando a colpire direttamente anche solo l’utilizzatore (che, in caso di caporalato sarebbe punito in concorso con l’intermediatore).

Tuttavia, si rende arduo, sotto un determinato profilo, andare a determinare l’esatta nozione di sfruttamento, a meno di interpretare in modo palesemente estensivo quanto previsto dalla norma in oggetto; per stare al caso in questione, si tratta dell’utilizzo di manodopera “sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”, ove fra gli indi ci sfruttamento la norma prevede anche “la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
Nessun dubbio quindi che inquadrare il lavoratore con un orario inferiore possa esser sfruttamento; il punto, tuttavia, si sposta sulla dimostrazione dell’approfittamento dello stato di bisogno: in una realtà economica sempre
più complessa ed insidiosa, la tentazione è quella di considerare sempre il lavoratore costretto  a subire determinate condizioni. E quindi, penale per tutti. Si badi bene, anche in quei casi, sussistenti, in cui vi sia una qualche complicità del lavoratore, magari per interessi personali, o in ogni caso una sua tranquilla accondiscendenza alla situazione elusiva.
Con il che, tuttavia, resta sempre il fatto che sotto inquadrare, dal punto di vista dell’orario, un dipendente è un comportamento altamente riprovevole, così come pagare poste in nero. Diversi anni fa – esattamente nel 2014 – il Centro Studi e Ricerche dei Consulenti del Lavoro di Milano, nell’ambito di un progetto di proposte complessive per il mercato del lavoro, aveva  prospettato una diversa formulazione della c.d. “maxi-sanzione sul lavoro nero” che sembra davvero il caso di riproporre. Intanto focalizziamo la norma attuale (oggetto di recente rivisitazione riepilogativa da parte della nota Inl del 20 aprile 2022): viene punito l’utilizzo da parte di datori di lavoro
privati di lavoratori subordinati2 senza preventiva comunicazione di assunzione comunicata agli Enti competenti.
ll datore che occupa personale “in nero” è tenuto a pagare una pesante sanzione amministrativa pecuniaria per ogni lavoratore irregolare che dipende dal periodo di occupazione in nero (va da 1800 euro fino a 43.200 in caso di impiego in nero per oltre 60 giorni di effettivo lavoro). Sono inoltre previste maggiorazioni in caso di recidiva, nonché per l’impiego in nero di minori, di lavoratori extracomunitari privi del permesso di soggiorno o di percettori del reddito di cittadinanza.
All’utilizzo di lavoratori in nero è legato anche il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale ex art. 14 del D.lgs. n. 81/2008 (siccome in Italia ci piace fare le cose complesse, lì la casistica sul lavoro nero ha alcune  difformità rispetto alla norma sulla maxi-sanzione).
E’ di tutta evidenza, e la sentenza della Cassazione penale è solo una conferma di quanto si rileva sul campo, che per evitare la maxi-sanzione (e anche il provvedimento di sospensione dell’attività) è però sufficiente inquadrare il
lavoratore per un numero di ore anche esiguo. Più in generale, perseguire il lavoro in nero ha una matrice che non sempre si sovrappone al concetto di sfruttamento o di mancata sicurezza; ricordiamo che la maxi-sanzione nasce storicamente in ambito di normativa fiscale. Il fatto è che retribuire, in tutto o in parte, un lavoratore in nero ha anche, se non soprattutto, un significato fortemente elusivo e generatore a sua volta di elusioni a cascata, sia nella filiera economica che per quanto riguarda prestazioni o agevolazioni destinate al lavoratore.
Insomma, non dichiarare il dovuto porta con sé una serie di implicazioni assolutamente negative sul piano economico, fiscale e persino sociale e culturale, ancor di più, poi, se questa elusione riguarda il delicato rapporto
di lavoro subordinato.
Il trucchetto del sottoinquadramento orario ha portato – ad esempio – a determinare la sfortuna di alcune fattispecie, come il lavoro accessorio con i voucher, il cui ridimensionamento ha peraltro accentuato, per effetto paradosso, l’utilizzo di lavoro nero. Ecco che, sulla scorta di queste riflessioni, la proposta del nostro Centro Studi, che qui offriamo nuovamente, è quella di individuare una sanzione specifica  (una specie di maxisanzione attenuata) per tutti coloro che, ancorchè in un rapporto di lavoro oggetto di comunicazione preventiva, eludano in maniera significativa (abbiamo ipotizzato un 20 % del dovuto complessivo, ma su tale percentuale si può ragionare) l’imponibile fiscale o previdenziale dovuto.
Vi è da considerare, a tal fine, che l’elusione di cui trattasi può essere realizzata in qualsiasi modo e non sarebbe confinata al solo rapporto di lavoro subordinato, ma in tutti quei rapporti in cui fra utilizzatore/datore/committente e prestatore vi sia un vincolo – anche solo ipotetico – di natura contributiva ed assicurativa.
Ovviamente, il tutto salvo che il caso sia più grave e sia invece riconducibile realmente ad un vero e proprio sfruttamento di cui si parlava all’inizio.
L’elusione potrebbe riguardare pertanto non solo il diverso orario denunciato, ma anche parte di retribuzione (es. superminimi o straordinari) corrisposta “fuori-busta”, oppure l’utilizzo di poste improprie esenti (un classico:
indennità di trasferta o rimborsi spese fasulli).
A tal fine individuare una percentuale minima di scostamento serve a riparare il datore di lavoro dall’applicazione di una sanzione ulteriore – oltre a quelle previste per attività omissive o evasive – in caso di eventuali contestazioni o riprese che possono determinarsi per errori o leggerezze, ma tali da non incidere quantitativamente in modo massivo sull’elusione (una sorta di “franchigia” su errori, omissioni o “diversità di vedute” rispetto all’ispettore del caso).
Né si costituirebbe, con tale maxi-sanzione attenuata, una sorta bis in idem rispetto a sanzioni sul versante contributivo, assicurativo o fiscale: lo scopo preciso di tale sanzione sarebbe quello di punire il ricorso sistematico e massivo a forme di elusione che per ricorrenza ed incidenza evidenzino un preciso intento evasivo.
Potrà, forse, sembrare strano che a proporre sanzioni sia un corpo professionale che molto spesso si è lamentato per il peso della regolazione e per la vessatorietà di determinati apparati punitivi sul versante amministrativo, tuttavia, per quanto qui in argomento, la repressione dei fenomeni di evasione è un concetto culturale, prima ancora che di sicurezza sociale; non invochiamo chissà quale severità, anzi. Tuttavia, ci basterebbe ripristinare un concetto di serietà che premierebbe chi – anche con fatica – fa il possibile per stare nelle regole, contro chi le aggira allegramente.

 

1. Cfr. Riccardo Girotto, Il caporalato a tutto campo, ma senza caporale, Euroconference Lavoro del 14 luglio 2022.

2. Nella nota INL, si ricorda che oggetto di sanzione è anche l’utilizzo di prestatori con utilizzo improprio del Libretto di famiglia o di lavoratori occasionali non oggetto di preventiva comunicazione, dei quali, in caso di ispezione, venga rilevata la subordinazione.

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Una proposta al mese – LA POLITICA (IN) ATTIVA del reddito di cittadinanza

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Nel sito del Ministero del lavoro, alla sezione “reddito di cittadinanza” (di seguito r.d.c.), fa bella mostra di sé una pagina graficamente molto gradevole, con un incipit appassionato: Il Reddito di cittadinanza è la misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale che i cittadini possono richiedere dal 6 marzo 2019. Si tratta di un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e di inclusione sociale, di cui i beneficiari sono protagonisti sottoscrivendo un Patto per il lavoro o un Patto per l’inclusione sociale.”

Leggendolo, la mente ritorna alla spettacolare conferenza stampa di febbraio 2019 in cui, sul palco, l’allora Ministro del lavoro Luigi Di Maio, fiero e compiaciuto, svelava al paese la teca in vetro contenente la prima card del reddito, facendo scivolare via la candida veste che la ricopriva.

Senza discutere sull’erogazione alle persone realmente bisognose, a 3 anni dall’istituzione e operatività di questa misura, è doveroso fare una riflessione sui risultati raggiunti in materia di politica attiva, che, strategicamente, appare come primo suffisso rispetto al contrasto alla povertà nella definizione presente nel sito web del Ministero.

A dispetto dell’enfasi posta nell’affermare che il reddito di cittadinanza fosse uno strumento per creare nuovi posti di lavoro, appare curioso che, invece, nelle premesse del testo della normativa di riferimento (D.l. n, 4/2019 convertito dalla L. n. 26/2019), in cui vengono elencate le motivazioni per le quali il reddito è stato istituito, con una vasta serie di “ritenuta la straordinaria necessità di….”, lo strumento della politica attiva venga appena menzionato, precisamente al terzo paragrafo che recita: “Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di dare corso ad una generale razionalizzazione dei servizi per l’impiego, attraverso una riforma complessiva delle strutture esistenti nonchè ad  una  più efficace gestione delle politiche attive”.

L’altro riferimento all’ambito lavoro si trova al quinto paragrafo “Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di creare misure per incentivare l’assunzione di lavoratori giovani”, che, in realtà, non si capisce bene quanto sia attinente al r.d.c., dato che l’incentivo per l’assunzione dei percettori del reddito non è legato all’età, ma tant’è.

Due accenni abbastanza generici, sviluppati poi nell’art.4, con l’introduzione del patto per il lavoro: il dettato normativo condiziona infatti l’erogazione del reddito alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro (c.d. DID) da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni, e all’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti, finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale.

I beneficiari devono obbligatoriamente registrarsi sull’apposita piattaforma digitale e consultarla quotidianamente quale supporto nella ricerca attiva del lavoro, attività che, dal 1° gennaio 2022, dovrebbe essere verificata presso il centro per l’impiego con frequenza almeno mensile (non è stato esplicitato con quali modalità), e, in caso di mancata presentazione senza comprovato giustificato motivo, sarà applicata la decadenza dal beneficio. Inoltre, il percettore di r.d.c. dovrà accettare di svolgere le attività individuate nel patto per il lavoro e dovrà sostenere i colloqui psicoattitudinali e le eventuali prove di selezione finalizzate all’assunzione, su indicazione dei servizi competenti e in attinenza alle competenze certificate.

Ancora, nell’ambito dei progetti utili alla collettività, i comuni sono tenuti ad impiegare almeno un terzo dei percettori di r.d.c. residenti, a titolo gratuito, instaurando un rapporto non assimilabile né al lavoro subordinato, né parasubordinato, né di pubblico impiego. Insomma, detta così, appare una roba fantastica, sempre che, naturalmente, tutto ci  venga concretamente attivato dai servizi competenti in tempi brevi ed in maniera fattiva. I beneficiari sono quindi tenuti a rispettare tutta una serie di condizionalità per poter continuare a percepire il reddito, tra cui accettare almeno una di due offerte di lavoro “congrue”, così definite: la sede di lavoro deve trovarsi entro 80 chilometri di  distanza dalla residenza del percipiente o deve essere raggiungibile con i mezzi di trasporto pubblici in non più di 100 minuti in caso di prima offerta, mentre in caso di seconda offerta la sede potrà essere collocata in tutto il territorio nazionale senza limitazioni; in caso di rapporto di lavoro a termine o part-time, le limitazioni indicate per la prima offerta saranno valide anche per la seconda. Se il percipiente di r.d.c. accetta un’offerta di lavoro con sede a 250 km dalla propria residenza, il reddito continuerà ad essere erogato per 3 mesi a titolo di compensazione delle spese di trasferimento, incrementati a 12 mesi nel caso siano presenti nel nucleo minori o disabili. Su quest’ultimo punto magari, legare la continuità dell’erogazione all’ammontare del reddito da lavoro percepito, sarebbe stato più equo, invece che stabilire a priori i 3 o 12 mesi. Inoltre, il r.d.c. è compatibile con NASpI e Dis-Coll, fermi gli altri requisiti. Con le recenti modifiche introdotte dall’ultima Legge di bilancio, sono stati finalmente stabiliti tutta una serie di controlli, mediante triangolazione Inps/Anpal/Comuni, nonché il coinvolgimento del Ministero della giustizia, onde accertare i requisiti patrimoniali e le eventuali condanne penali dei soggetti percipienti.

Dal 1° gennaio 2022 sono entrati in vigore diversi nuovi commi all’art.5 del D.l. n.4/2019, di cui è opportuno rilevare:

  • il comma 4-bis, in cui si stabilisce che “i dati anagrafici, di residenza, di soggiorno e di cittadinanza sono preventivamente e tempestivamente verificati dall’INPS sulla base delle informazioni presenti nelle banche dati a disposizione dell’Istituto”;
  • il comma 4-ter, che istituisce l’obbligo tempestivo di comunicazione da parte dell’Inps ai comuni responsabili dei controlli, relativamente alle posizioni “dubbie” che necessitano di ulteriori accertamenti;
  • il comma 4-quater, in cui si afferma che l’esito delle verifiche è comunicato dai comuni all’Inps entro centoventi giorni, e che durante tali verifiche il pagamento delle somme è sospeso.

Pertanto, poiché fino al 31 dicembre 2021 tali verifiche preventive non erano state previste, le indebite erogazioni del reddito a carcerati, mafiosi, pregiudicati, residenti all’estero etc. hanno potuto proliferare, con un danno alle casse dello Stato quantificato nella sola città di Catania in 3 milioni di euro (alla data del 29 aprile 2022)1, e a 5 milioni di euro nel centro Italia2.                           !

In data 1° giugno l’Inps ha pubblicato un comunicato stampa in cui afferma che è finalmente operativo il protocollo con il Ministero della Giustizia per la verifica dell’esistenza nel sistema del Casellario Centrale di condanne con sentenza passata in giudicato da meno di dieci anni, al fine di revocare eventuali indebite erogazioni o respingere quelle in fase di definizione.

Non si sono avute più notizie della fantasmagorica piattaforma che avrebbe dovuto facilitare e supportare l’incontro offerta-domanda di lavoro, ex MISSISSIPPI WORKS, importata dal Prof. Mimmo Parisi direttamente dagli USA, che avrebbe dovuto rappresentare la panacea della disoccupazione nel nostro paese. Per poter supportare adeguatamente i percettori di r.d.c. nei percorsi di reinserimento al lavoro, sono stati potenziati i centri per l’impiego, affiancando la presenza di creature che, negli anni, sono divenute quasi mitologiche: i NAVIGATOR, soggetti che sarebbero dovuti diventare gli “angeli custodi” dei percettori di r.d.c., supportandoli nello svolgimento di tutte le attività propedeutiche alla ricerca di lavoro, e fornendo loro assistenza concreta anche nella scelta dell’eventuale nuovo impiego.

Non è certamente questa la sede appropriata per sparare a zero anche sui navigator che, di fatto, hanno forse l’unica colpa di aver provato a rispondere ad una specie di chiamata alle armi, mettendosi a disposizione dei centri per l’impiego per compiere la rivoluzione italiana nelle politiche attive.

Non possiamo per  certamente esimerci dal rilevare, in quanto dato consolidato, che spesso la loro funzione è stata praticamente inutile, anche se con l’attenuante della pandemia dilagata l’anno immediatamente successivo al debutto del reddito di cittadinanza, che certamente non ha agevolato la loro opera, ma in ogni caso, di fatto, si è comunque preferito puntare su queste figure “ibride”, che, a quanto risulta, non dovevano possedere competenze specifiche relative all’accompagnamento a lavoro maturate con l’esperienza sul campo, anziché, ad esempio, creare sinergie con soggetti privati esperti nel settore, peraltro già esistenti ed operativi oltre che dotati di efficienti banche dati ricche di offerte di lavoro già selezionate.

Nonostante ci , i contratti dei circa 1.900 navigator sono stati prorogati per ben 3 volte ad ogni scadenza, l’ultima delle quali datata 30 aprile 2022; l’art. 34 del D.l. n. 50/2022 ha previsto, in ultimo, la ricontrattualizzazione da parte di Anpal a partire dal 1° giugno, sia per continuare a supportare i percettori del reddito che per lavorare sul nuovo programma g.o.l. Alla fine di questo breve ma intenso excursus, possiamo affermare che il flop più eclatante della misura in trattazione, è senza dubbio relativo al mancato sviluppo del mercato del lavoro, obiettivo primario a quanto si evince dalla roboante presentazione indicata all’inizio della nostra riflessione.

Nell’anno corrente, dagli albori dell’avvio della stagione estiva nel settore turistico, telegiornali e social brulicano incessantemente di lamentele da parte delle aziende, su quanto sia complicato, se non addirittura quasi impossibile, reperire personale da occupare, e ci  non solo nel comparto turistico, in quanto il problema è ormai generalizzato e riguarda un po’ tutti i settori. Gli stessi clienti dei nostri studi confermano tale tendenza negativa, con buona pace del rapporto Anpal presentato a dicembre 2021 sugli ottimi risultati raggiunti. Si sono create fondamentalmente due correnti di pensiero sulla causa della problematica citata: la prima, afferma che il Covid ha posto in discussione un po’ tutto, stimolando un’attenta analisi delle priorità di ciascun individuo, e quindi una rivalutazione del tempo libero e da dedicare alla famiglia, nonché, per diretta connessione, dei tempi e delle condizioni di lavoro; la seconda, ritiene il reddito di cittadinanza la manifestazione di satana con tutti i suoi demoni, ovvero l’unica e sola causa della carenza di personale. Ma, poiché il nostro obiettivo non è esprimere un’opinione personale, ma cercare di sug- ! gerire un modo affinchè detta misura possa realmente funzionare, raggiungendo gli ambiziosi e giusti obiettivi che si era posta in origine, in modo che vi sia beneficio per la collettività, ci è balenata una piccola, e forse banale, proposta di modifica all’attuale assetto del sussidio, partendo da un dato di fatto: le aziende denunciano ogni giorno che molti percettori preferiscono continuare ad usufruire del sussidio anziché accettare una proposta lavorativa, ma nessun altro, oltre loro, ne viene a conoscenza. Ergo, l’azienda resta senza lavoratori, i percettori continuano ad incassare tranquillamente l’assegno mensile senza alcuna decurtazione, spesso magari “arrotondando” con qualche lavoretto irregolare.

La mancata evidenza del rifiuto del percettore alla proposta di lavoro appare quindi come la criticità principale di questo sistema. In considerazione del fatto che, tra l’altro, le assunzioni dei percettori di r.d.c. sono agevolate, da gennaio non solo se a tempo indeterminato full-time, ma anche a tempo determinato e part-time, con una riduzione contributiva interessante, pari, in linea generale, all’importo mensile del sussidio percepito dal lavoratore all’atto  dell’assunzione3, perché non porre a disposizione delle aziende interessate una semplice banca dati con l’elenco dei beneficiari?

Dal 1° gennaio 2022 è stato tra l’altro abrogato l’obbligo, in capo ai datori di lavoro che volessero assumere percettori di r.d.c., di registrare sulla piattaforma Anpal i posti di lavoro disponibili, a cui sarebbe dovuta seguire l’accettazione del beneficiario di r.d.c., sistema che, a quanto risulta, non ha mai funzionato perfettamente a causa di problematiche “tecniche”. E allora, probabilmente, sarebbe utile rendere fruibile un elenco gestito direttamente dalle piattaforme regionali del collocamento, dove ogni percettore sia codificato, senza dati sensibili, senza nemmeno il nominativo, ma con il solo profilo professionale, arricchito di tutte le esperienze formative e non, avute durante il percorso guidato dal c.p.i. L’azienda potrà scegliere sulla piattaforma il profilo che più si avvicina alle proprie esigenze, e inviare una proposta di lavoro che avrà un proprio protocollo informatico. A quel punto, anche il percettore risponderà seguendo le medesime modalità, e la risposta avrà anch’essa un protocollo.

L’esito della trattativa sarà quindi tracciato, e l’eventuale mancato successo occupazionale dovrà essere obbligatoriamente e adeguatamente motivato da entrambe le parti. Avevamo anticipato subito che si trattava di una proposta banale, talmente banale che probabilmente non sarà nemmeno necessario affidarsi a professori venuti dall’America, ma semplicemente implementare opportunamente la correlazione tra le banche dati pubbliche già esistenti.

Questo sistema, ove necessario ulteriormente affinato, potrebbe rappresentare quantomeno un modo per avere, con dati effettivi, il polso della situazione, e, soprattutto, la contezza degli effettivi rifiuti dei posti di lavoro, onde poter ritoccare o revocare tempestivamente il sussidio.

Inoltre, le motivazioni esposte per l’eventuale mancato matching, avrebbero l’ulteriore utilità di circoscrivere ulteriormente gli interventi necessari per il reinserimento lavorativo dei beneficiari, rendendoli ancora più mirati ed efficaci. Il tracciamento del rifiuto della proposta di lavoro, unito all’effettiva operatività dei controlli preventivi all’erogazione, potrebbe rappresentare una svolta importante per questa misura tanto discussa e criticata. Ma, forse, è tutto troppo scontato per essere attuato.

1. Fonte: Rai news
2. Fonte: Il Sole 24 ore del 20 aprile 2022. G. Pogliotti, Reddito di cittadinanza, restano ancora sulla carta i controlli anti furbetti.

3. Per un periodo pari alla differenza tra 18 mensilità e le mensilità già godute dal beneficiario stesso e, comunque, per un  importo non superiore a 780 euro mensili e per un periodo non inferiore a 5 mensilità; in caso di rinnovo art. 3, c. 6, D.l.. n.4/2019, l’esonero è concesso nella misura fissa di 5 mensilità.

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Una proposta al mese – CARO CONTRATTO A TERMINE, il nostro è un amore impossibile!

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

E’ senza dubbio uno degli argomenti che negli anni il nostro ordinamento ha maggiormente modificato, integrato, trasformato, ritoccato, quasi sempre bistrattato e, a volte, poche per la verità, migliorato, ma comunque reso sempre di difficilissima, complessa e rischiosa applicazione.

Di fatto, quasi ogni ministro competente ha sentito il bisogno irrefrenabile di apporre il suo “tocco personale”, per quanto, spesso ininfluente ed in alcuni casi persino dannoso. Le 34 modifiche normative intervenute nell’arco di 14 anni1 sono chiara espressione di un grande – e disturbato – amore per la materia. Eppure, a ben vedere, questa forma contrattuale, i cui paletti applicativi sempre più rigidi sono diventati politicamente il baluardo della lotta alla precarietà, con piccoli, ma incisivi ritocchi, potrebbe divenire un elemento fondamentale per gestire la flessibilità del personale, con notevole vantaggio per le aziende e, senza per questo, cagionare alcun danno al lavoratore.

Partiamo dalla Direttiva 1999/70/CE (consiglio del 28 giugno 1999), relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato che, al comma 1 della clausola n. 5 – Misure di prevenzione degli abusi – recita:

“Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma

delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a:

  1. ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
  2. la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
  3. il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.”

Secondo la allora CE, pertanto, per evitare l’abuso dei contratti a termine, sarebbe stato sufficiente adottare UNA-O- PIÙ-MISURE tra quelle proposte. Una o più… noi italiani, super efficienti, non solo ne abbiamo recepito due – le causali, di cui alla lettera a), e la durata massima, di cui alla lettera b) -, ma ne abbiamo addirittura introdotte delle altre, ovvero un limite al numero massimo di contratti stipulabili per azienda e un limite ulteriore al numero massimo di proroghe. E non solo: abbiamo anche stabilito che detti limiti debbano essere riferiti all’intera vita dei medesimi soggetti datore di lavoro – lavoratore. Fermo restando che gli abusi vanno sempre limitati e combattuti, tutta questa regolamentazione, neanche a dirlo, rende quantomeno complesso, per usare un eufemismo,  l’utilizzo di questa tipologia contrattuale, e anche quando, per una serie di fortunate congiunture astrali si riesca ad utilizzarla, meglio fare i dovuti scongiuri in quanto cadere in fallo è di una facilità estrema. Per iniziare, la prima idea che ci sovviene, è di limitare il periodo a cui riferire le verifiche del rispetto di tutti i limiti ad un tempo “congruo”, ed evidentemente congruo non può essere illimitato, come lo è attualmente. A tal proposito è intervenuta recentemente anche la Corte d’Appello di Milano ritenendo un lasso di tempo pari a 7 anni un ragionevole lasso di tempo superato il quale i rapporti a termine tra i medesimi soggetti “decadono” e non devono più essere computati nella durata massima dei 24 mesi (sentenza n. 1375/2021). Questo servirebbe ad evitare sanzioni per chi, in assoluta buona fede, dovesse malauguratamente escludere dal computo della durata massima uno o più rapporti di lavoro vetusti, magari risalenti – e non sarebbe infrequente – in tempi in cui non esistevano le comunicazioni telematiche, o i cui documenti cartacei sono stati eliminati poiché trascorsi oltre 5 anni2.

Altro paletto eccessivamente limitante è il numero massimo di 4 proroghe, soprattutto per i lavoratori stagionali, per i quali non è mai stato affermato in modo incontrovertibile che, vista la natura dell’attività svolta, non rientrino in tale casistica. D’altronde, se già abbiamo limitato la durata massima del contratto, viene spontaneo chiedersi per quale motivo debba esserci anche un numero massimo di proroghe, il primo potrebbe tranquillamente escludere il secondo. Relativamente alle proroghe, vi è anche poca chiarezza per quanto riguarda i contratti a termine stipulati per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, ed in particolare in caso di apposizione del ter

mine senza una data ben definita, ma condizionata al rientro del lavoratore sostituito. In tali casi, se l’assenza del lavoratore si protrae, siamo dinanzi ad una proroga? E se il lavoratore assente protrae la sua assenza per oltre 4 volte, e quindi, qualora considerassimo lo spostamento del termine condizionato come una proroga, arrivati alla quarta saremmo obbligati a cessare il rapporto o, in alternativa, a trasformarlo a tempo indeterminato pur non avendone alcuna intenzione, poiché la stipula è avvenuta per una necessità contingente che ha un fine ben definito? In realtà il caso specifico potrebbe essere gestito con la “modifica del termine inizialmente fissato” come una delle alternative presenti nel modello Unilav, d’altronde, se non è una modifica del termine (necessaria) questa, non si comprende quale potrebbe esserlo. In questo modo ci si libererebbe dal problema proroga, ma nessuno ha mai scritto nero su bianco tutto ciò.

In alternativa, liberalizzare la durata del contratto per sostituzione, o comunque prevedere un termine più ampio di 36 o 48 mesi, sarebbe senz’altro un’azione di buon senso. Relativamente alla sostituzione del lavoratore assente, un’altra problematica frequente si verifica allorquando il lavoratore sostituito rientra a lavoro, ma nel frattempo l’azienda ha maturato la necessità di prorogare il rapporto del lavoratore assunto in sostituzione. Ebbene, il Ministero del lavoro nella circolare n. 17/2018 ha affermato che “la proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, fatta eccezione per la necessità di prorogarne la durata entro il termine di scadenza. Pertanto, non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avviene senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.”, precludendo secondo tale assunto la possibilità di procedere alla proroga nel caso prospettato e obbligando le parti contraenti a stipulare un rinnovo, quindi con due obblighi contestuali: l’apposizione della causale al rinnovo e il rispetto dello stop-and-go, pena la trasformazione del secondo contratto a tempo indeterminato.

Si potrebbe quindi eliminare lo stop-and-go, almeno in caso di rinnovo contrattuale conseguente ad un precedente contratto a termine per sostituzione.

E, diciamolo, a fronte di tutte le limitazioni esistenti, ben si potrebbe escludere, almeno entro i 12 mesi, l’obbligo di causale agli intervenuti rinnovi, che, come nel caso analizzato, di fatto sono delle proroghe per cui è variata la motivazione.

Curiosamente, tra l’altro, la differenziazione tra rinnovo e proroga è squisitamente made in Italy, l’Unione Europea nella sua direttiva menziona infatti solo i rinnovi. Certo, tutto potrebbe essere risolto con l’identificazione della mitica causale, se non fosse che, come già approfondito in questa stessa Rivista3, le causali identificate dal Legislatore sono:

-esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività; quindi, per inciso, attività diverse da quella abitualmente svolta. L’azienda dovrebbe quindi diversificare per poter utilizzare tale causale;

-esigenze di sostituzione di altri lavoratori, con le criticità su esposte;

-esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. Non si comprende bene il senso della frase non programmabili. Giusto per fare un esempio, la vincita di una gara d’appalto è da considerarsi programmabile perché partecipando alla gara in qualche

modo ho coscienza della probabilità dell’incremento dell’attività, e quindi non potrei utilizzare l’appalto come causale per il contratto a termine o, al contrario, è da considerarsi non programmabile perché non vi è certezza di vincerla?

Sarebbe utile, anche in tal senso, chiarire meglio il concetto, o anche stabilire un limite temporale di riferimento entro il quale l’incremento di attività si possa considerare o meno programmabile.

Qualche contratto collettivo ha introdotto alcune causali, che spesso si sono però rivelate inadeguate in quanto, come da giurisprudenza consolidata, esse devono indicare in modo specifico “le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e l’utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa” (Cassazione n. 22496/2019). In buona sostanza la causale è idonea se identifica in maniera chiara e verificabile la necessità che ha reso legittima l’applicazione del termine contrattuale.

Nell’attesa che permane dal 2018, anno del decreto “Dignità”, di parti sociali impavide che individuino tali ragioni giustificatrici, perché non interviene il Legislatore onde evitare impugnazioni fin troppo facili? Si parla tanto della necessità di deflazionare il contenzioso, non a caso è in atto proprio in questi mesi la riforma del processo civile, sarebbe pertanto oltremodo propizio il momento per rendere chiaro a tutti quando il termine contrattuale sia legittimamente applicabile.

Inoltre, sarebbe opportuno prendere coscienza che, nonostante il termine, vi potrebbe essere, ahimè, la necessità di interrompere il contratto prima della scadenza da ambo le parti, e non solo per giusta causa. Perché non prevedere tale possibilità allora, magari come già da più parti proposto, stabilendo delle penali a carico del soggetto che recede, proporzionandole alla durata del contratto, o al tempo che residua dalla cessazione alla scadenza inizialmente stabilita.

Anche sul periodo di prova il Legislatore nicchia da sempre, nemmeno nello schema di decreto approvato in Consiglio dei Ministri che modifica il D.lgs. n. 152/97 è riuscito a dare una definizione certa della durata della prova nei contratti a tempo determinato. Eppure, il modo ci sarebbe, il più immediato potrebbe essere quello di rapportare il periodo di prova previsto per il contratto a tempo indeterminato alla durata del contratto a termine, identificando la durata minima e massima, ma, in effetti, così sarebbe troppo semplice… Infine, la previsione che consente di “ripartire da zero” ai fini del raggiungimento della durata massima di 24 mesi in caso di stipula di un contratto a termine con lo stesso lavoratore, ma per mansioni di livello e categoria legale differenti, non è comunque da considerarsi un rinnovo? Sarà quindi soggetto a causale pur nell’ambito dei primi 12 mesi e assoggettato alla contribuzione addizionale, che tra l’altro cresce esponenzialmente ad ogni rinnovo? Anche in riferimento a ciò, senz’altro sarebbe cosa buona e giusta chiarire la problematica, oltre che fissare una misura massima del contributo addizionale. Nell’attuale momento storico, con la condizione economica in cui versano le aziende, probabilmente sarebbe utile agevolare l’occupazione flessibile, anziché costringerle forzosamente ad utilizzare il solo contratto a tempo indeterminato.

Non dobbiamo mai dimenticare che la flessibilità iniziale spesso rappresenta il biglietto d’ingresso per la stabilità, ma a condizione che vi siano regole certe per tutti. E allora, a conclusione alla nostra riflessione, da sognatori innamorati del diritto in quanto fondamento di certezze per chi lo deve interpretare ed applicare, la semplificazione estrema, perfettamente in linea con quanto impartito dall’Unione Europea, è indicare UNA sola delle misure proposte, ovvero, ad esempio, la durata massima consentita, abolendo tutti gli altri farraginosi limiti, in attuazione anche del comma 4 della clausola 8 – Disposizioni di attuazione – della già citata direttiva CE, in cui si afferma: “Il presente accordo non pregiudica il diritto delle parti sociali di concludere, al livello appropriato, ivi compreso quello europeo, accordi che adattino e/o completino le disposizioni del presente accordo in modo da tenere conto delle esigenze specifiche delle parti sociali interessate.”

Ma si sa, quando un concetto è troppo semplice, chissà come mai, diviene automaticamente impopolare.

 

 

 

1.   Camera R., Contratto a tempo determinato: come scrivere la causale prevista dal CCNL, Qi, Ipsoa, 26 agosto 2021.

2. A tal proposito vedi Asnaghi A., Una proposta al mese: Il tempo determinato…con una memoria a tempo indeterminato?, Sintesi, ottobre 2019.

3. A tal proposito vedi A. Asnaghi, Sul tempo determinato (a partire dal Decreto Dignità), Sintesi, luglio 2018.

 

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