Una proposta al mese – LAVORO SPORTIVO DILETTANTISTICO. Partiamo da due modifiche

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)  

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Ci sono un paio di cose che non vanno nella nuova disciplina del lavoro sportivo prevista dal D.lgs. n. 36 del 28.02.2021. Disposizioni di cui non si intuisce – così quantomeno è per chi scrive – la ragione.

Oddio, ad essere onesti ce ne sarebbero delle altre, ma già queste ci fanno capire quanto il legislatore proprio non ci abbia capito nulla della materia sport. Eppure la norma è del 2021 e in questi due ultimi anni è stata rivista e sistemata – tra decreti-legge, leggi di conversione e decreti legislativi – una decina di volte. Il risultato? Un pastrocchio nel più classico del un colpo al cerchio e l’altro alla botte che ha prodotto un contenitore dove ci si mette sì il vino ma all’interno del quale il nettare degli dei diventa aceto.

IL LAVORO SPORTIVO NELL’AREA DEL DILETTANTISMO

L’art. 25 del D.lgs. n. 36/2021 individua quale lavoratore sportivo l’atleta, l’allenatore, l’istruttore, il direttore tecnico, il direttore sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara che … esercita l’attività sportiva verso un corrispettivo. È inoltre lavoratore sportivo ogni tesserato … che svolge verso un corrispettivo le mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti dei singoli enti affilianti, tra quelle necessarie per lo svolgimento di attività sportiva, con esplicita esclusione delle mansioni di carattere amministrativo-gestionale.

Precisato infine che l’attività di lavoro sportivo pu  costituire oggetto di un rapporto di lavoro subordinato o di un rapporto di lavoro autonomo, anche nella forma di collaborazioni coordinate e continuative, il successivo art. 28 stabilisce che il lavoro sportivo nell’area dilettantistica si presume quale collaborazione coordinata e continuativa quando ricorrono i seguenti requisiti nei confronti del medesimo committente:

  1. la durata delle prestazioni oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non supera le diciotto ore settimanali1, escluso il tempo dedicato alla partecipazione a manifestazioni sportive;
  2. le prestazioni oggetto del contratto risultano coordinate sotto il profilo tecnico-sportivo, in osservanza dei regolamenti delle Federazioni sportive nazionali, delle Discipline sportive associate e degli Enti di promozione sportiva.

Cominciamo con la questione orario di lavoro per il quale viene fissata un dead line al superamento della quale il lavoro sportivo nella forma della co.co.co. cessa di essere presunto come tale.

Si tratta di una presunzione relativa, il che comporta che entro le 18 ore è l’organo ispettivo a dover dimostrare che la prestazione è un qualcosa di diverso dalla collaborazione coordinata e continuativa; diversamente, superato questo limite, la prova spetta al committente.

Primo dubbio sollevato da molti commentatori è se il limite sia settimanale o una media nell’arco del contratto?

Scritta così la disposizione sembra individuare un limite secco: ove venisse superato, anche in una sola settimana nel corso della stagione, questo limite, scatta l’inversione della prova. L’organo ispettivo potrebbe quindi disconoscere la collaborazione coordinata in base al fatto che in una sola settimana un istruttore ha prestato 19 ore di lavoro sportivo? Basta davvero richiamare il mero superamento delle 18 ore o è comunque prevista una attività di indagine rivolta alle modalità di svolgimento del rapporto e da qui verificare l’effettiva volontà delle parti?

Perché è proprio questa la questione. Per anni ci hanno insegnato che la qualificazione sub specie di locatio operis o di locatio operarum, e la sua sussunzione sotto l’uno o l’altro nomen iuris, è questione alquanto delicata, che richiede sempre una approfondita opera di accertamento della realtà fattuale. Improbabile che adesso cambi tutto e sia sufficiente riferirsi alla quantità di prestazione lavorativa. Che senso ha, allora, questa presunzione relativa se l’effettivo comportamento delle parti è sempre il fulcro di una eventuale riqualificazione? Onere della prova invertito o no, il verbale dovrà dare conto dell’accertamento di una diversa volontà delle parti, ab origine oppure modificatasi nel corso del rapporto lavorativo.

Ma poi quali sarebbero le conseguenze del superamento della prestazione settimanale massima indicata? Teniamo presente che:

  • la norma non dispone che al superamento delle 18 ore il rapporto si presume di lavoro dipendente (o a Partita Iva) ma, appunto, che entro la soglia delle 18 ore la prestazione di lavoro sportivo si presume oggetto di contratto di lavoro autonomo, nella forma della collaborazione coordinata e continuativa;
  • esiste un chiaro regime di favore riservato dall’art. 2, comma 2, lettera d) del D.lgs. n. 81/2015 che esclude dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato tutte le collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI.

Tutto quanto sopra premesso, se anche fosse che con la riqualificazione ispettiva, il rapporto venisse ricondotto a lavoro subordinato quali sarebbero i vantaggi per lo Stato di questa operazione?

Dal punto di vista contributivo gli emolumenti corrisposti verrebbero interamente assoggettati alle aliquote contributive previste per i subordinati. Se si considera pero’ che l’82% dei lavoratori sportivi attualmente censiti è sotto il limite dei 5.000 euro (quindi di fatto intoccabili), parliamo di un gettito irrisorio per quei rapporti che avessero superato di poco le 18 ore settimanali.

Anche dal punto di vista fiscale parliamo di spiccioli dato che l’art. 36 dispone per tutti i compensi di lavoro sportivo nell’area del dilettantismo – sia che si tratti di co.co.co. o di lavoro autonomo ed anche di lavoratori subordinati – una fascia di esenzione fino a 15.000 euro annui.

Vale la pena tutto questo a fronte di un possibile aumento del contenzioso per riqualificazioni di rapporti svolti appena sopra il limite delle 18 ore e che non avrebbero, soprattutto dal punto di vista pensionistico, una grande utilità per questi soggetti? Di certo un vantaggio per lo Stato: nuovi introiti senza futuri esborsi.

C’è poi un altro problema nell’individuazione di un limite orario settimanale. Questa cosa farebbe presupporre che tutti i lavoratori sportivi debbano per legge essere pagati a ore. O quantomeno che debba essere necessaria una sorta di tracciamento della prestazione lavorativa in termini di ore.

Ma sono solo le mie ASD che pagano gli allenatori con un compenso a forfait di qualche migliaio di euro a stagione?

Si dice anche che per il calcolo del limite deve essere escluso il tempo dedicato alla partecipazione a manifestazioni sportive. Anche qui altre inutili complicazioni.

Se voglio retribuire queste ore, dovra’ tenere contabilmente distinte – sul Libro Unico del Lavoro o sul Registro delle attività sportive dilettantistiche – le ore di allenamento da quelle di partecipazione alla manifestazione. Con il dubbio che, ove non le volessi pagare, potrebbero essere considerate prestazioni di volontariato, vietate a chi – lo vedremo a breve – svolge qualsiasi altra attività retribuita con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività sportiva.

LE PRESTAZIONI SPORTIVE DEI VOLONTARI

Una premessa è doverosa e necessaria. Il comma 1 dell’art. 29 consente agli Enti sportivi il ricorso ai volontari nello svolgimento delle attività istituzionali … comprensive dello svolgimento diretto dell’attività sportiva, nonché della formazione, della didattica e della preparazione degli atleti.

Il comma 2 invece, fissando il divieto di remunerazione delle prestazioni sportive dei volontari sotto qualsiasi forma, si riferisce alle sole attività, gratuite, di tipo sportivo.

Anche il comma 3 rimanda unicamente alle sole prestazioni sportive di volontariato stabilendone la loro incompatibilità con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di lavoro retribuito con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività sportiva. La norma prevede comunque la possibilità di erogare un rimborso a fronte di alcune spese sostenute dal volontario.

E qui sorge un primo problema: ove risultasse che un volontario, un istruttore, avesse percepito un compenso non riconducibile a spese di vitto, alloggio, di viaggio e di trasporto – o anche solo un rimborso di spese non ritualmente documentate – cosa accadrebbe? Quale sarebbe la sanzione, peraltro non esplicitamente prevista dal D.lgs. n. 36/2021? Verrà riqualificato come lavoratore subordinato per l’attività di volontariato anche se la prestazione non superasse le 18 ore settimanali? E peggio ancora: se unitamente alle prestazioni di volontariato venisse accertata una diversa attività sportiva regolarmente retribuita, ma emergesse che le due prestazioni complessivamente non vanno a superare le 18 ore settimanali, che accadrebbe a questi due rapporti?

Comunque sia, tornando alle nostre incompatibilità, dovremmo concludere:

  • che un barista non potrebbe fare, come volontariato, l’allenatore di pattinaggio;
  • che il volontario che svolge prestazioni sportive retribuite come allenatore di calcio, non potrebbe mai fare gratuitamente l’istruttore di basket dei pulcini per il medesimo ente sportivo.

Questi divieti risultano assolutamente illogici ed incomprensibili considerato pure che con l’art. 3 si dichiara l’obiettivo di sostenere e tutelare il volontariato sportivo.

Per quale motivo quindi a un atleta dilettante di un certo livello, retribuito per la sua attività sportiva, dovrebbe essere precluso di svolgere gratuitamente presso la propria ASD una prestazione di allenatore delle squadre giovanili o di direttore di gara per categorie amatoriali? Di cosa si ha paura? Che tramite la doppia veste di lavoratore sportivo retribuito e di volontario, si possano fare dei giochetti e pagare in nero una parte di prestazioni facendole passare per volontariato?

LA NOSTRA PROPOSTA

La modifica al D.lgs. n. 36/2021 che qui si propone, ça va sans dire, riguarda quindi:

  1. la cancellazione del limite massimo delle 18 ore settimanali per le co.co.co;
  2. l’eliminazione della incompatibilità delle prestazioni retribuite con il volontariato. Lasciando poi che sia la normale attività ispettiva a contrastare le situazioni di irregolarità sostanziale dei vari rapporti.

 

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Una proposta al mese – VORREI… NON VORREI… ma se vuoi…

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

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chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Il disegno di legge in materia di lavoro approvato dal Consiglio dei Ministri del 1° maggio 2023, introduce una norma a tutela delle aziende in tutti quei casi dove i lavoratori, strategicamente, “spariscono” fisicamente dal posto di lavoro e diventano irreperibili ad oltranza. In tali situazioni, altro non può fare il datore di lavoro se non procedere a contestare l’assenza ingiustificata, secondo quanto stabilito dall’art.7 della L. n. 300/1970, attendere eventuali giustificazioni, per poi procedere, entro i termini stabiliti dalla norma o dal Ccnl al licenziamento per giusta causa, da cui scaturisce l’obbligo del pagamento del ticket Naspi che, ricordiamo, per il 2023 è pari a € 603,19 annuali e € 1.809,57 come importo massimo per 3 anni di anzianità.

In seguito a ciò, oltre al disagio creato in azienda, il “furbetto” percepisce beatamente anche la Naspi fino ad un massimo di 24 mesi. L’alternativa a quanto sopra descritto è perseverare in una molteplicità di contestazioni in cui si esorta il lavoratore a rassegnare le proprie dimissioni volontarie, poiché la volontà di interrompere il rapporto è abbastanza chiara, e a comunicarlo secondo quanto stabilito dall’articolo 26 del decreto legislativo n. 151/2015; seppure raramente, a volte il lavoratore desiste dal suo atteggiamento da “desaparecidos” manifestando la volontà di rescindere unilateralmente il rapporto ma, purtroppo, nella maggior parte dei casi ciò non accade. In tutte le situazioni in cui il lavoratore “cede”, ovviamente l’azienda non è tenuta al pagamento del ticket ed egli non percepisce la Naspi.

A tal proposito si era espresso il Tribunale di Udine, con la sentenza n. 20 del 27 maggio 2022, affermando che

“le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015”.

Il Giudice prosegue analizzando il contenuto della Legge delega del D.lgs. n. 151/2015, ovvero la L. n. 183/2014, che prevedeva “… modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore”.

Tale ultimo assunto risulta inattuato nel D. lgs. n. 151/2015, ma comunque, afferma il Giudice, pienamente valido: “Si deve ritenere, di contro, che non sia affatto riconducibile all’ambito applicativo dell’esaminato art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata, come accaduto nella vicenda al vaglio, in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti -anche omissivi- idonei ad assicurare un’agevole verifica della sua genuinità”. La sentenza afferma inoltre che, poiché in caso di inerzia del lavoratore nel rassegnare formali dimissioni già fattualmente intervenute, è possibile pervenire alla risoluzione del rapporto di lavoro solo attraverso il licenziamento per giusta causa, si pone il dubbio sulla compatibilità costituzionale con gli articoli 41 e 38 Cost.. Nello specifico, si paventa violazione dell’art. 41 Cost. per la limitazione dell’autonomia imprenditoriale, causata dall’imposizione in capo al datore di lavoro di farsi carico dei rischi relativi ad un eventuale giudizio e del costo del ticket Naspi, nonché di procedere con l’atto del licenziamento disciplinare che il datore medesimo non avrebbe assunto a fronte del comportamento del lavoratore rimasto a lungo assente senza giustificazione. Relativamente all’art. 38 Cost., si evidenzia l’ingiusta sottrazione di risorse (Naspi) destinate ai lavoratori che si siano trovati in stato di disoccupazione involontaria, “giacché, proprio attraverso un licenziamento strumentalmente sollecitato e, di fatto, indebitamente imposto al datore, si darebbe luogo, a favore del licenziato, ad un esborso di provvidenze pubbliche per la tutela di un fittizio stato di disoccupazione, in realtà costituente l’esito di una scelta libera ed in alcun modo involontariamente subita dall’ex dipendente”.

Orbene, perfettamente in linea con la pronuncia giurisprudenziale citata, l’art. 26 della citata bozza del D.D.L. lavoro, titolato “Modifiche in materia di dimissioni”, inserisce il nuovo comma 7-bis all’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015, in cui si afferma: “In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo”. FINALMENTE! Verrebbe da dire, anche perché, purtroppo, abbiamo assistito negli anni a comunicazioni di dimissioni volontarie verbali dei lavoratori che poi, improvvisamente, magari dopo adeguata analisi, si sono magicamente trasformate in assenze strategiche volte a produrre quanto sopra descritto. Assolutamente encomiabile l’iniziativa, che reca però qualche criticità di gestione.

In primo luogo, i rumors comparsi all’indomani della bozza approvata paventavano già strategie risolutive per i lavoratori e, poiché siamo la patria del “trovata la legge, fatto l’inganno”, uno dei possibili escamotage è quello di assentarsi per un numero di giorni inferiore a quello stabilito dalla norma o dal Ccnl, rientrare successivamente al lavoro, per poi riassentarsi e così via, costringendo di fatto il datore di lavoro ad attivare la procedura disciplinare L. n. 300/70. Sarebbe quindi opportuno identificare un lasso di tempo determinato entro cui valutare le assenze, che dovrebbero essere considerate utili allo scopo anche qualora non siano continuative, per evitare che i lavoratori disonesti ne possano approfittare.

Inoltre, l’assenza ingiustificata non ha una definizione giuridica propria, ma viene definita tale in virtù del procedimento disciplinare, che ha però come conclusione il licenziamento, così come stabilito negli stessi Ccnl. Nasce quindi la problematica di istituire una nuova procedura pseudo-disciplinare che si concluda con la definizione delle dimissioni per factia concludentia o, in alternativa, e senza dubbio molto più semplice e snello, si potrebbe stabilire che in caso di licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata non trova applicazione l’obbligo di pagamento del ticket Naspi e, di conseguenza, non sorgerà in capo al lavoratore il diritto alla prestazione. L’occasione della discussione di questa novità inserita nella bozza del D.D.L. potrebbe essere propedeutica alla valutazione di qualche modifica relativa alla gestione delle dimissioni del lavoratore.

Sarebbe opportuno pensare di eliminare la possibilità attualmente prevista di revocare le dimissioni on-line entro 7 giorni dall’invio telematico (c.2, art. 26, D.lgs. n. 151/2015), anche per evitare situazioni pregiudizievoli qualora il datore di lavoro avesse, nel frattempo,  già provveduto ad assumere un nuovo lavoratore al posto del dimissionario. Per quanto riguarda i genitori dimissionari, appare priva di utilità la convalida obbligatoria delle dimissioni oltre il primo anno ed entro il terzo anno di età o di ingresso in famiglia del figlio mentre, al contrario, è pienamente condivisibile l’obbligo entro il periodo in cui vige il divieto di licenziamento.

Inoltre, ferma restando la legittimità dell’ulteriore tutela relativa alla percezione della Naspi in caso di dimissioni entro il primo anno del figlio, così come l’esonero dall’obbligo del preavviso, non appare altrettanto equo l’obbligo in capo all’azienda di erogare l’indennità di mancato preavviso al lavoratore, che comunque ha scelto unilateralmente di interrompere il rapporto di lavoro, quantomeno nella formula attuale in cui la relativa somma resta totalmente in capo al datore di lavoro, così come il pagamento del ticket Naspi che sarebbe opportuno porre a carico dello Stato, costituendo una specifica tutela alla genitorialità. Relativamente alle tutele derivanti dal congedo di paternità, sia obbligatorio che alternativo, qualora il padre lavoratore non abbia reso noto al datore di lavoro l’avvenimento della paternità e decidesse poi di dimettersi entro l’anno del figlio, senza convalidare le proprie dimissioni, laddove il lavoratore pretendesse successivamente il reintegro per inefficacia delle dimissioni non convalidate, si dovrebbe prevedere una qualche tutela della buona fede del datore di lavoro che, di fatto, è stato tenuto totalmente allo scuro della situazione, e quindi non in grado di valutare l’obbligo di convalida delle dimissioni rassegnate nel periodo “protetto”.

Confidiamo che i lavori di consolidamento del disegno di legge siano forieri di utili semplificazioni.

 

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Una proposta al mese – INFORTUNI SUL LAVORO: una dimensione unitaria

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

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(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Inail è gloriosa e utile istituzione, che si occupa dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. La materia è regolata da un altrettanto glorioso testo Unico (il D.P.R. n. 1124/1965) che resiste all’inarrestabile scorrere del tempo, ma che inevitabilmente qualche rughetta qua e là la mostra. E così oggi la materia si è via via allargata a colpi di sentenze della Corte Costituzionale e di vari interventi normativi, tanto che la stratificazione normativa è alta (ancorchè in gran parte assodata). Vorremmo pertanto proporre una revisione su una prospettiva unitaria, che reciterebbe semplicemente così: tutti coloro che lavorano sono obbligatoriamente soggetti all’assicurazione sugli infortuni (o malattie professionali, ovviamente) alle medesime condizioni.

Primo elemento di unificazione sarebbe pertanto una revisione dell’art. 1 del TU Inail, non operando distinguo – non più attuali – fra chi è addetto a macchine eteronomamente azionate (o addetto a lavorazioni elencate) e chi non vi rientra. Che poi con l’invenzione del c.d. “rischio elettrico” sia quasi impossibile sfuggire all’assicurazione è una realtà, ma ciò non toglie il principio logico fallace. Ognuno dev’essere assicurato in quanto lavora e basta, il resto non conta. Del resto, è proprio la moderna evoluzione del concetto di antinfortunistica che si evolve sempre di più verso un benessere integrale della persona (l’art. 2, D.lgs. n. 81/2008 – T.U. sulla sicurezza sul lavoro definisce la salute – scopo del decreto – quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità). Se quindi un danno alla salute è collegabile al lavoro, come tale dovrebbe essere soggetto ad assicurazione obbligatoria.
Il secondo elemento di unificazione dovrebbe riguardare l’assicurabilità di tutti i soggetti operanti in una realtà, senza distinzione, dall’imprenditore (sì, anche lui) sino allo stagista o al lavoratore occasionale. Oggi invece assistiamo ad indecifrabili disquisizioni: quello sì, quello no, quello forse. In particolare il mondo del lavoro autonomo ed imprenditoriale vive di distinzioni di lana caprina, Il titolare di un’impresa artigiana è assicurato, quello di un’impresa commerciale no (ma se fosse socio della medesima impresa sì), l’amministratore unico plenipotenziario (anche se socio) non sarebbe assicurabile in quanto coincidente con l’imprenditore, ma se fosse artigiano sì; il lavoratore autonomo non lo è, ma se fosse collaboratore coordinato e continuativo sì; l’esecutore di contratto d’opera occasionale no, ma se fosse artigiano sì (e lo sarebbe anche se fosse inquadrato a mezzo PrestO o libretto famiglia). E si potrebbe continuare, perché sul punto l’oscillazione della norma subisce il florilegio di fattispecie (vero ginepraio) oggi esistenti nell’ambito del lavoro autonomo e d’impresa (ivi compreso il lavoro dei soci all’interno di essa). Si dirà: sistemiamo dunque il ginepraio invece di prendersela con l’Inail e con il Testo Unico. L’osservazione è ottima, ma da qualche parte si dovrà pur iniziare e un’assicurazione che ambisse ad essere davvero universale potrebbe essere un buon inizio.
Vi è un terzo elemento di unificazione, non meno importante, che riguarda la distinzione, operata da qualche decennio (esattamente dal 2000) in differenti gestioni tariffarie, che sono le quattro seguenti: “industria, artigianato, terziario e altre attività”.
Ciò implica che l’essere compreso in una o nell’altra di queste gestioni com- porta, per il medesimo rischio, l’applicazione di aliquote assicurative differenti. Non è stato sempre così, la modifica come detto si è attuata a partire dal nuovo millennio, a discapito di chi pensa che il futuro porti solo cose buone.
Le motivazioni di tale scelta sono molteplici e ufficialmente si riferiscono per lo più ad un più mirato calcolo dell’aliquota applicabile (che si basa sulla ripartizione statistica del rapporto prestazioni/retribuzioni). Chi scrive ha delle idee differenti ed inconfessabili in proposito, diciamo in linea generale e senza puntare il dito su soggetti molto suscettibili che alcuni settori economici hanno voluto scaricare determinati oneri su altri (o non farsene carico, il che è la stessa cosa in un’assicurazione sociale obbligatoria). Il che però a prescindere dalla preliminare osservazione che tale distinzione non persegue obiettivi di semplicità normativa e gestionale appare poco logico, soprattutto in un’ottica di sostenibilità. In primo, perché se un’attività è rischiosa il rischio va ripartito fra tutti coloro che la esercitano, né si capiscono distinzioni particolarmente accentuate.
Prendiamo un esempio fra mille: il lattoniere che esercita “l’attività di produzione non in serie di tubi, canali, cassette, framogge, cappe, insegne e similicompresa l’eventuale posa in opera” è inquadrato nell’industria e nell’artigianato alla voce di tariffa 6223 il cui tasso è però ben differente (81 per mille nell’industria, ben 130 per mille nell’artigianato, oltre il 150 % di differenza). Nel terziario tale attività (ancorchè residuale) paga il 119 per mille, inquadrata nella più generica voce 6222, e nel settore residuale (gli altri) il 60 per mille (voce di tariffa 6100). E qui si vede una seconda distonia: mentre le voci di tariffa codificate per industria ed artigianato viaggiano su binari sostanzialmente paralleli (salvo qualche distinzione), quelle delle altre due gestioni subiscono macroraggruppamenti di molte lavorazioni sotto un’unica voce generando un mix generico e poco differenziato, con inevitabili sperequazioni (in più o in meno, come si vede nell’esempio). Ma non è detto che il solo fatto di essere collocati in una gestione (che sostanzialmente dipendente dall’inquadramento attribuito dall’Inps all’azienda) renda meno caratteristico l’esercizio di un’attività sotto il profilo del mero rischio. Teniamoci sull’esempio: un’azienda ha una duplice attività di produzione di articoli di fumisteria e di commercio degli stessi articoli (prodotti da altri), di cui la seconda attività risulta prevalente: con quale criterio paga un tasso differente? Non parliamo se tale differenziazione dovesse prodursi sulla base di una semplice passaggio di un’azienda da un settore ad un altro per l’incidenza di fattori esterni al rischio o all’attività (ad esempio, basterebbe la cessazione dell’attività lavorativa di un socio): la stessa azienda, con la stessa ragione, nello stesso ambiente di lavoro, con gli stessi dipendenti, si troverebbe per tale sola ragione a pagare in modo differente.
E questo introduce un ulteriore elemento di riflessione (terza distonia): l’inquadramento in una gestione piuttosto che in un’altra può dipendere da fattori esterni e completamente ininfluenti sulla lavorazione e sul rischio. Anche la classica distinzione fra piccole e grandi aziende (per cui la sicurezza sarebbe più seguita in quelle grandi) non ha molto senso se si pensa alla composizione del settore economico italiano, per cui quasi il 90% delle aziende non supera i 10/15 dipendenti. Sicchè può essere classificata industriale un’azienda con due o tre dipendenti o essere artigiana un’azienda con 20 e più dipendenti.
Aggiungiamo una quarta ed ultima riflessione che riguarda la profonda interconnessione dei settori e dei segmenti economici, ove si realizzano filiere sempre più articolate e complesse: alla realizzazione di un bene o di un servizio concorrono più imprese, le stesse grandi aziende terziarizzano alle piccole una parte del loro lavoro o di fasi di esso: per quale motivo farle pagare in modo differente quando spesso (come nel caso della subfornitura) le condizioni sono sostanzialmente imposte da chi organizza e governa la filiera?
Sperequazioni, miscugli indifferenziati, aleatorietà si possono evitare tornando alla gestione unica (oltretutto più semplice ed immediata) ed all’unicità dell’assicurazione.
Tutti per una, ma possibilmente una per tutti.

 

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Una proposta al mese – RENDIAMO IL DURC veramente positivo – 2a puntata

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

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(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Nello scorso numero della nostra Rivista1 abbiamo elencato una serie di piccole, ma a nostro avviso efficaci semplificazioni, sulla gestione amministrativa del Durc on-line, in modo da renderlo maggiormente accessibile alle aziende senza snaturarne la funzione di garanzia di regolarità, ponendo rimedio agli ostacoli che attualmente lo rendono un vero e proprio strumento di tortura.

Ahinoi, non è solo in ambito amministrativo che rinveniamo delle criticità, ma anche sotto altri aspetti che possiamo definire “di merito”, le contraddizioni non sono poche.

IL CO. 1175, ART.1 DELLA L. N. 296/2006

E Durc fu.

E non solo, poiché il celeberrimo co. 1175, art. 1 della L. n. 296/2006 ha reso obbligatorio, per usufruire di qualsivoglia agevolazione contributiva, oltre al possesso del Durc regolare, anche il pieno rispetto degli altri obblighi di legge, nonché degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale che, la cui definizione attendiamo tutti con apprensione di conoscere, da che mondo è mondo, come fossimo in attesa del messia. Tralasciando la mancata individuazione dei contratti collettivi citati dal co. 1175, la cui discussione meriterebbe fiumi di inchiostro, e soffermandoci invece sulla necessità di dover dimostrare la regolarità aziendale ai fini di beneficiare degli sgravi contributivi, il punto fondamentale da evidenziare è che il Durc (come già abbiamo avuto modo di affermare nel numero precedente di questa Rivista), altro non è che una mera certificazione amministrativa della regolarità aziendale, che non costituisce elemento fondante del diritto al beneficio, ma solo condizione di mantenimento o perdita di quello stesso beneficio, qualora abbia esito irregolare. Il diritto dell’azienda a fruire degli sgravi nasce nel momento in cui essa ha tutti i requisiti stabiliti dalla norma che regolamenta lo sgravio stesso e, per tale motivo, può immediatamente usufruirne.

È a posteriori che interviene l’obbligo di Durc regolare che, se assente, preclude il proseguimento alla fruizione del beneficio, dal momento in cui si accerta l’irregolarità e fino al momento in cui la stessa viene ristabilita, come puntualmente confermato dall’Inl nella circolare n. 3/2017 che richiamava a sua volta la risposta ad interpello del Ministero del lavoro n. 33/2013.

Resta pertanto sconcertante la prassi adottata da diverse sedi Inps che, anziché limitare il recupero delle agevolazioni contributive al solo periodo di accertata irregolarità aziendale, sfruttano il limite massimo di prescrizione, per procedere al diniego degli sgravi fruiti negli ultimi 5 anni.

A tal proposito,  sarebbe quindi quantomeno opportuno un chiaro ed immediato intervento normativo che limiti una volta per tutte il recupero delle agevolazioni con esclusivo riferimento al periodo di accertata irregolarità aziendale.

Andando oltre, sarebbe opportuno riportare nel medesimo intervento normativo anche quanto previsto dalla citata circolare Inl n. 3/2017 “Va pertanto chiarito che, mentre l’eventuale assenza del Durc (che può peraltro derivare da un accertata violazione di legge e/o di contratto) incide sulla intera compagine aziendale e quindi sulla fruizione, per tutto il periodo di scopertura, dei benefici, le violazioni di legge e/o di contratto (che non abbiano riflessi sulla posizione contributiva) assumono rilevanza limitatamente al lavoratore cui gli stessi benefici si riferiscono ed esclusivamente per una durata pari al periodo in cui si sia protratta la violazione”, per evitare che il giudice eccessivamente rispettoso della gerarchia delle fonti non consideri pienamente valido tale importantissimo concetto poichè contenuto in un atto di prassi, magari ribaltando sull’intera azienda l’irregolarità accertata sul singolo lavoratore, qualora trattasi, appunto, di violazione di legge e/o di contratto senza riflessi sulla posizione contributiva.

IL DISCONOSCIMENTO DELLE COMPENSAZIONI DEI DEBITI CONTRIBUTIVI CON CREDITI DI ALTRA NATURA

Continuano inoltre a spuntare come funghi sentenze (per fortuna finora di merito), che affermano l’illegittimità della compensazione tra debiti contributivi e crediti di altra natura, argomento già trattato su questa Rivista2, e di cui anche Assonime si è preoccupata nel caso n.3/2023 pubblicato sul proprio sito. Tale preoccupante orientamento deriva da un’interpretazione distorta dell’art. 17 del D.lgs.241/1997, che recita “I contribuenti eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all’Inps e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggettirisultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Orbene, i giudici che si sono espressi in materia considerano l’espressione nei confronti dei medesimi soggetti”, riferita non al singolo contribuente, come è logico ed immediato intuire, ma ritengono invece che il legislatore si riferisca al singolo ente, precludendo, di conseguenza, compensazione tra debiti e crediti di differente natura.

Eppure, già il comma 1 dell’art.22 del medesimo D.lgs. n. 241/1997, intitolato “Suddivisione delle somme tra gli enti destinatari” afferma che “Entro il primo giorno lavorativo successivo a quello di versamento delle somme da parte delle banche e di ricevimento dei relativi dati riepilogativi, un’apposita struttura di gestione attribuisce agli enti destinatari le somme a ciascuno di essi spettanti, tenendo conto dell’eventuale compensazione eseguita dai contribuenti”, ergo, come confermato anche nell’interpretazione di Assonime, in caso di compensazione di debiti previdenziali con crediti fiscali, l’Inps riceve in accredito da parte dell’Erario l’importo portato in compensazione, con assolvimento del debito previdenziale. E pensare che la legge delega del D.lgs. n. 241/97, ovvero la L. n. 662/1996, alla lettera b), c. 134, art. 3, menziona candidamente i “versamenti unitari, anche in unica soluzione, con eventuale compensazione, in relazione alle esigenze organizzative e alle caratteristiche dei soggetti passivi, delle partite attive e passive, con ripartizione del gettito tra gli enti a cura dell’ente percettoreprevedendo chiaramente ciò che oggi i giudici di merito negano a spada tratta.

È doveroso aggiungere che nelle sentenze contro tali compensazioni (Trib. Milano n. 2207/2021 e n. 7823/2022, Trib. Brescia n. 1251 /2022), vi è un ulteriore elemento, ovvero la paventata inesistenza dei crediti portati in compensazione, dei quali l’Inps si prodiga di accertare la sussistenza e, nelle more di ciò, ,  ritiene preclusa la compensazione. Considerato quanto disposto dal citato c.1, art. 22, D.lgs. n. 241/97, nasce spontaneo il dubbio relativamente alla legittimità dell’azione diretta dell’Inps contro il contribuente nel recupero del debito previdenziale, poiché appare logico dedurre che, come confermato anche dalla circolare del Ministero delle finanze n. 101/2000, nonché dalla risoluzione Ag. Entrate n. 452/2008, la compensazione su F24 non dovrebbe risentire dell’effettiva sussistenza del credito su cui, invece, l’ente legittimato al recupero del corrispondente importo appare essere la stessa Agenzia delle Entrate, fatti salvi naturalmente i casi in cui l’Inps non abbia ricevuto dalla stessa il “giroconto” a copertura del debito. È inoltre banale ma doveroso ricordare che i crediti previdenziali possono essere compensati in F24 con qualsiasi tipologia di debito, a maggior ragione davvero non si comprende il recente accanimento contro l’operazione contraria. Per dissipare qualsivoglia dubbio, è necessario un brevissimo intervento normativo che chiarisca la piena legittimità delle compensazioni tra partite di origine diversa, confermando le regole introdotte sia dalla L. n. 662/96 nonché, visto quando accaduto con il D.lgs. n. 241/97, inserendo una maggiore rigidità nell’emanazione dei decreti attuativi delle leggi delega, che dovranno riportare in maniera pedissequa la volontà espressa nella legge delega, onde evitare pericolose

elucubrazioni nelle aule dei tribunali come nel caso in trattazione. Infine, è doverosa una riflessione finale sui 4 miliardi3 destinati ad incentivare l’occupazione nelle aree svantaggiate del nostro paese, nonché l’occupazione delle donne e dei giovani mediante il sistema degli sgravi contributivi che è sempre più complicato applicare e mantenere: una sostanziale e strutturale riduzione del costo del lavoro a fronte di riduzioni temporanee che spesso si rivelano “trappole”, anche in conseguenza delle criticità di gestione del Durc, è l’unica soluzione logica da percorrere.

Oltre ad un beneficio immediato per le aziende, anche la collettività ne tratterebbe giovamento, non solo per la maggiore propensione ad occupare nuove risorse umane, ma anche perché la riduzione del contenzioso che inevitabilmente si verrebbe a creare, comporterebbe un ingente risparmio di tempo e denaro da parte sia delle amministrazioni pubbliche (e quindi di ogni singolo cittadino), che delle imprese coinvolte.

Per la tabella delle proposte clicca qui.

 

  1. M.Baltolu, Rendiamo il Durc veramente positivo!!!, Sintesi, 1, 2023.
  2. M. Baltolu, Giù le mani dalle compensazioni, Sintesi, 3, 2022.
  3. Fonte: Piano italiano REACT-EU.

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Una proposta al mese – RENDIAMO IL DURC veramente positivo

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Compie tra poco 16 anni, ormai è quasi “maggiorenne” ma, a quanto pare, non ancora “matura” – per usare il termine scolastico che dovrebbe sancire l’avvenuta crescita cognitiva dello studente – la norma che da luglio 20071 ha subordinato la spettanza di benefici normativi e contributivi ad una serie di condizioni imprescindibili, ovvero il possesso da parte dei datori di lavoro del documento unico di regolarità contributiva – Durc con esito regolare, oltre al rispetto degli altri obblighi di legge nonché degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Sempre nel mese di luglio, nel 20152, la procedura di richiesta del Durc è stata resa completamente telematica e da diversi anni, pertanto, aziende e professionisti hanno a che fare con il “grande fratello” Durc, la cui finalità è certamente encomiabile, ovvero consentire la partecipazione a bandi ed appalti e premiare mediante facilitazioni contributive e normative solo le aziende perfettamente in regola con il pagamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi ma, purtroppo, date le molteplici criticità della procedura che porta al tanto agognato rilascio del certificato, per molte aziende e di riflesso per chi, come noi, le assiste, è diventato un vero e proprio “strumento di tortura”, che ha dato adito a numerosi procedimenti legali.
Come noto, laddove vi è un cospicuo contenzioso vi è evidentemente poca chiarezza normativa e/o farraginosità delle procedure.
Orbene, semplificare, nel senso letterale del termine “Rendere semplice o più semplice; rendere più agile e funzionale; facilitare, agevolare, alleggerire 3”, può certamente comportare una riduzione delle   controversie, con risparmio di tempo e di denaro pubblico e privato nonché, risultato ben più importante, coadiuvare le aziende, soprattutto le micro imprese che, ricordiamo, costituiscono oltre il 90% del nostro tessuto produttivo, a ristabilire la regolarità nel momento in cui si fosse perduta, per tutta una serie di motivazioni che possono andare dalla banalissima momentanea mancanza di liquidità
all’errore formale. Le imprese prive di Durc regolare non possono accedere a benefici che spesso rappresentano quella piccola ma indispensabile boccata di ossigeno nell’ambito della riduzione del costo contributivo dei rapporti di lavoro, che sappiamo bene essere nel nostro paese il secondo nell’area Ocse4, oltre ad aver preclusa la partecipazione a bandi, appalti ed affidamenti pubblici. Permettere ai datori di lavoro un accesso più semplice alla regolarità significherebbe rendere liquidi i crediti provenienti dalla pubblica amministrazione in primis, ma anche dai privati, favorendo un atteggiamento di fiducia nel futuro, che gioco-forza porterebbe ad una maggiore predisposizione agli investimenti volti alla crescita aziendale e, di conseguenza, con immancabili effetti positivi sull’intero sistema economico.
Ad oggi purtroppo, anche dal punto di vista amministrativo, i paletti sono parecchi, ma la buona notizia è che con piccoli interventi si potrebbero ottenere grandi risultati.
Tanto per cominciare, il Durc ha una validità di 120 giorni dalla data di effettuazione della verifica5, ma nella quasi totalità dei casi tale  periodo viene considerato decorrente, invece, dalla data in cui viene inoltrata la richiesta telematica. Inoltre, la richiesta non può essere inoltrata se non a partire dal giorno successivo alla scadenza del Durc precedentemente valido.
Ipotizziamo dunque che si richieda il Durc in data 1° marzo; poiché gli enti coinvolti hanno 30 giorni di tempo per il rilascio, il documento potrebbe essere emesso il 31 marzo, ma scadrà il 28 giugno (120 giorni dalla data della richiesta, cioè dal 1° marzo).
Il Durc successivo potrà essere richiesto solo a partire dal 29 giugno e, per effetto dei 30 giorni di cui sopra, potrebbe essere emesso anche il 29 luglio (ovviamente con data di validità 29 giugno e via discorrendo). In sostanza l’azienda potrebbe restare orfana di Durc dal 29 giugno al 29 luglio, e nelle dinamiche aziendali sappiamo bene cosa significa procrastinare gli incassi di un mese, ovvero non poter accedere ad agevolazioni, partecipare ad appalti ecc., con l’aggravante del particolare momento post  covid ed in costanza delle conseguenze derivanti dal conflitto russo ucraino relative al caro gas ed energia, nonché all’aumento dell’inflazione ed al conseguente rincaro del costo della vita.
In considerazione dei 30 giorni di tempo concessi agli enti per emettere il certificato, ci sembra quantomeno doveroso concedere agli utenti di poter richiedere il nuovo documento almeno 30 giorni prima della scadenza, al fine di evitare “vuoti” come descritto nell’esempio.
Tra l’altro, anche far decorrere la validità del documento dalla data di emissione e non dalla data della richiesta, dovrebbe essere una conseguenza piuttosto logica.
Soffermandoci sulle tempistiche di rilascio che, come detto, possono arrivare fino a 30 giorni, definire inadeguato il termine di 15 giorni concesso al contribuente per regolarizzare è un eufemismo, come lo è considerare tali 15 giorni di calendario anziché lavorativi, poiché siamo tutti consapevoli che enti  pubblici e banche osservano prevalentemente la chiusura nei giorni festivi e prefestivi e, pertanto, spesso riuscire a sanare eventuali scoperti diventa veramente un’impresa titanica. Per non parlare delle  situazioni in cui le aziende sono costrette a chiedere una dilazione del pagamento, dovendo in tali casi attendere obbligatoriamente i tempi di lavorazione delle pratiche, evidentemente indipendenti dalla loro volontà, che la L. n. 241/1990 fissa in 30 giorni (termine ordinario per l’emissione del provvedimento di autorizzazione al pagamento dilazionato)6, palesemente in contrasto con i 15 giorni concessi al contribuente per regolarizzare. È utile ricordare che senza la notifica del piano di  ammortamento del debito, non è possibile versare la prima rata e, quindi, accedere alla regolarizzazione.
A tal fine quindi, portare il termine della regolarizzazione a 30 giorni lavorativi pare veramente il minimo sindacale, termine che dovrebbe essere elevato a 45 giorni in caso di  richiesta di dilazione.
A sostegno di quanto proposto, se la stessa norma prevede che “L’interessato, avvalendosi delle procedure in uso presso ciascun Ente, può regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a 15 giorni dalla notifica dell’invito di cui al comma 1”, il Ministero del lavoro nella circolare n. 19/2015, ha chiarito che “tuttavia gli istituti non potranno dichiarare l’irregolarità qualora la  regolarizzazione avvenga comunque prima della definizione dell’esito della verifica che altrimenti attesterebbe una situazione – il mancato versamento di somme dovute – non corrispondente alla realtà. Conseguentemente, il rilascio del Durc terrà conto dell’avvenuta regolarizzazione, che in ogni caso dovrà avvenire prima del trentesimo giorno dalla data della prima richiesta”.
Alla luce di ciò appare ancor più ragionevole estendere tout court il termine per la regolarizzazione, oltre alla necessità di prevedere la riapertura del Durc irregolare qualora l’istruttoria sia stata ultimata ed il certificato emesso prima dei 30 giorni, ma il contribuente abbia nel frattempo regolarizzato entro tale  termine, anche se successivo all’emissione del documento, purché all’interno dei 30 giorni.
D’altronde sono note le lungaggini derivanti dalle più disparate casistiche, quali ad esempio i debiti in fase legale-amministrativa appena “ceduti” all’agente della riscossione, il cui ruolo esecutivo non sia ancora stato formato; in tale fattispecie non è possibile saldare il debito presso l’agente della riscossione, in quanto non ancora formalizzato, né presso l’istituto di previdenza, in quanto non più in fase legale- amministrativa. Anche qualora gli importi siano già iscritti a ruolo si verifica comunque un allungamento dei tempi di risoluzione della situazione debitoria, poiché l’eventuale richiesta di dilazione deve essere lavorata da un ente terzo rispetto ad Inps ed Inail; pertanto, in presenza di debiti a ruolo e non, occorre operare su due ambiti paralleli, ovvero, con l’Agenzia delle Entrate per le somme in cartella esattoriale, e con gli enti per i restanti importi.
Se poi, come spesso accade, le gestioni con esposizioni debitorie sono più di una, per fare un banale esempio, DM10, Gestione separata e Gestione autonomi artigiani, le corsie su cui lavorare si moltiplicano e vi è l’ulteriore aggravio di dover inviare a ciascuna gestione l’allegato “SC18”, con il riepilogo degli importi dovuti su tutte le altre gestioni, con esclusione di quella a cui si invia; in pratica, nel caso prospettato, è necessario produrre tre diversi “SC18”, ognuno dei quali soggiace alle tempistiche di lavorazione delle tre diverse gestioni.
Appare allora chiara l’urgenza di un sistema unitario, che permetta alle singole gestioni di comunicare e poter avere contezza in tempo reale della regolarizzazione operata anche negli altri comparti.
Altra criticità è costituita dal “periodo di osservazione” della regolarità ai fini del Durc, ovvero la verifica che gli enti devono operare che non può arrivare oltre il secondo mese precedente la richiesta7.
Questa apparente facilitazione non è però operativa in caso di domanda di dilazione che, come noto, deve comprendere tutto il debito esistente alla data di inoltro della domanda stessa, annullando di fatto il limite di verifica al secondo mese precedente la richiesta di Durc.
Sarebbe logico, pertanto, adeguare anche il sistema di dilazione alla verifica ai fini del Durc, consentendo di rateizzare solo ciò che concretamente viene esposto nel preavviso di irregolarità, senza andare oltre.
In aggiunta a ciò, molte sedi Inps esigono anche l’invio del modello Uniemens riferito all’ultimo mese di retribuzioni, nonché il relativo pagamento, anche se entrambe le scadenze non sono ancora spirate.
In pratica, per chiudere un Durc entro il giorno 10 del mese di marzo, ad esempio, viene preteso l’invio del modello Uniemens riferito a febbraio, la cui scadenza è al 31 marzo, ed il pagamento di quanto  dovuto, benché la scadenza sia al 16 di marzo.
L’intera istruttoria gioverebbe di un importante snellimento se venisse identificata un’unica dead line di riferimento dei controlli di regolarità, verosimilmente stabilita nel secondo mese precedente all’inoltro della richiesta.
Fin qui sono state esaminate le possibili modifiche di tipo amministrativo, che incidono prevalentemente sulla parte gestionale-operativa di rilascio del Durc, ma non possiamo non spendere qualche parola sulle problematiche di merito, tutte peraltro già affrontate in più round dalla giurisprudenza nonché da questa stessa Rivista.
La prima considerazione doverosa riguarda la corretta decorrenza del disconoscimento delle agevolazioni in caso di Durc irregolare. L’Ispettorato nazionale del lavoro nella circolare n. 3/2017 afferma che “L’assenza del Durc chiaramente determina il mancato godimento dei benefici di cui gode l’intera compagine aziendale per il relativo periodo, così come del resto già chiarito dal Ministero del lavoro con risposta ad interpello n. 33/2013, secondo l a quale “una volta esaurito il periodo di non rilascio del Durc l’impresa potrà evidentemente tornare a godere di benefici “normativi e contributivi”, ivi compresi quei benefici di cui è ancora possibile usufruire in quanto non legati a particolari vincoli temporali”. È quindi lapalissiano che in presenza di Durc non regolare il disconoscimento dei benefici
eventualmente spettanti potrà avvenire solo per il periodo in cui l’irregolarità sia stata accertata e fino all’avvenuta regolarizzazione, cioè per il lasso di tempo intercorrente tra l’emissione del Durc non regolare e il successivo rilascio del Durc regolare.
Ma, ahimè, tra gli operatori è tristemente nota la prassi utilizzata da molte sedi Inps che procedono al recupero di tutti i benefici fruiti nei 5 anni precedenti l’accertata irregolarità, in applicazione della prescrizione quinquennale.
Ebbene, tale applicazione restrittiva non è certamente condivisibile, poiché il beneficio contributivo
costituisce un diritto in capo all’impresa, derivante dal rispetto di determinate condizioni stabilite dalla normativa di riferimento, allorquando si stipulino determinate tipologie contrattuali, con determinate tipologie di soggetti, aventi determinate tipologie di requisiti, diritto che, evidentemente, non viene generato con l’emissione del Durc. Il co. 1175, art.1 della L. n. 296/2006, subordina la mera continuità di applicazione dei benefici alla presenza del Durc regolare, che costituisce quindi una sorta di autorizzazione al proseguimento della fruizione, assunto pienamente sposato dall’interpretazione dell’Inl.
Altro boccone amaro, fortunatamente addolcito da alcune sentenze di merito, riguarda le irregolarità
“formali”, quali, ad esempio, il mancato invio del modello Uniemens a fronte dell’avvenuto pagamento dei contributi dovuti, che spesso e volentieri ha determinato emissione di Durc con esito negativo.
Recenti pronunce8 confermano che l’assenza di regolarità che dà luogoall’emissione di Durc negativo, è determinata esclusivamente dalla condizione indicata dall’art. 3 del D.M. del M.L.P.S. del 30.01.2015 che al co. 1 recita: “La verifica della regolarità in tempo reale riguarda i pagamenti dovuti dall’impresa in relazione ai lavoratori subordinati e a quelli impiegati con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, che operano nell’impresa stessa nonché, i pagamenti dovuti dai lavoratori autonomi, scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive”.
Argomenta il Giudice romano nella sentenza del 16.03.22 che “nessuna disposizione (…..) autorizza l’Inps ad emettere, come ha fatto in questa vicenda, un Durc negativo che genera poi le conseguenze previste dall’art. 1 co.1175 in una situazione in cui nessuna omissione nei “pagamenti dovuti all’impresa” si è mai verificata”.
Tale chiosa non può che trovarci d’accordo, fermo restando che, naturalmente, su invito dell’istituto, l’azienda dovrà adempiere al mancato invio entro i 30 giorni paventati per la regolarizzazione.
Il Durc è ormai uno strumento di lavoro indispensabile, dall’indubbia valenza, ma che deve essere reso il più accessibile possibile, in modo da affiancare le aziende nel cammino verso la legalità ma, allo stesso tempo, non può e non deve diventare un ostacolo a causa delle descritte criticità che tuttavia appaiono sanabili con alcuni interventi correttivi.

Clicca qui per la tabella delle proposte.

 

 

1. Art.1, c.1175, L. n. 296/2006.

2. D.M. M.L.P.S., M.E.F. e Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione del 30 gennaio 2015.

3. Cit.: Treccani.it

4. Lucini G., Tasse, il cuneo fiscale in Italia è il quinto più alto tra i Paesi Ocse: 46,5% nel 2021, Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2022-.

5. Art.7, co.2, D.M. 30 gennaio 2015.

6. Sito web Inps – “Rateazione dei debiti contributivi in fase amministrativa”- https://www.inps.it/prestazioni-servizi/rateazione- dei-debiti-contributivi-in-fase-amministrativa.

7. Art.3, co.2, D.M. 30 gennaio 2015.

8. Tribunale di Roma 11.03.2022 e 16.03.2022.

 

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UN ANNO DI PROPOSTE di semplificazione dall’Ordine di Milano

A cura della Redazione

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Un altro anno è trascorso da che, lo scorso dicembre, abbiamo fatto il check delle 12 Proposte del mese che hanno caratterizzato l’attività della Sezione Semplificazione del Centro studi unitario Ordine dei Consulenti del Lavoro provincia di Milano – Ancl Up Milano, che si dedica con grande attenzione ed energie allo studio del diritto del lavoro con l’obiettivo di individuare soluzioni e/o spunti interpretativi per dirimere questioni controverse di diritto o di non facile applicazione (ma fonte di sicuro contenzioso).
L’idea è quella di mettersi al fianco di colleghi professionisti per cogliere le criticità che spesso il Legislatore crea nella concreta applicazione delle norme e anche il 2022, da questo punto di vista, non ha deluso! Archiviato, si spera, il periodo emergenziale legato alla gestione degli eventi pandemici, si sono fatti sentire dolorosamente gli effetti della guerra che da decenni non toccava più così da vicino il vecchio continente….. crisi energetica, aumento dei prezzi dei beni di consumo, ansia per il futuro…..non si può certo dire che si sia aperto un periodo di maggiore serenità …
A seguire una tabella sintetica che ripropone tutti gli argomenti trattati nell’anno corredati da un
breve e non esaustivo riepilogo delle proposte avanzate, con la possibilità di scaricare il singolo articolo attraverso link ipertestuali per permettere al lettore di approfondire i temi trattati. Chiude l’anno il contributo nel presente numero della Rivista 2999 più uno: no, semplifichiamo.

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Una proposta al mese – 2999 PIÙ UNO: no, semplifichiamo

di Manuela Baltolu, Consulente del lavoro in Sassari e Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi) 

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

DUE RIFLESSIONI PRELIMINARI
Ci sono cose di cui non si sente minimamente il bisogno: una gomma bucata,
un’auto che ti schizza passando sopra una pozzanghera, l’ombrello che si inceppa nel bel mezzo di un acquazzone, la visita di un parente noioso, l’influenza a ridosso di una vacanza.
Fra di esse c’è anche un conguaglio dicembrino che si prospetta  articolarmente oneroso e complicato, come vedremo. Infatti, in seguito all’innalzamento della soglia di esenzione fiscale e previdenziale a 3.000 euro dei fringe benefit introdotta dal c. 10, art. 3 del D.l. n. 176/2022, chi già ha percepito durante tutto l’anno retribuzioni in natura (oltre i 258,23 euro fino al 9 agosto 2022, ovvero oltre 600 euro dal 10 agosto 2022 in poi per effetto dell’art. 12, D.l. n. 115/2022) e, come previsto dal c. 3, art. 51 del TUIR ha subito le prescritte trattenute previdenziali e fiscali, ora, in virtù  dell’ulteriore modifica del limite imponibile, qualora tali importi in natura non sforino l’importo di 3.000 euro avrà diritto al recupero di tutte le ritenute subite in seguito al ricalcolo del conguaglio previdenziale e fiscale cui il datore di lavoro è tenuto.
Ciò avverrà con tutte le criticità del caso, ovvero difficoltà di reperimento degli importi eventualmente percepiti in altri rapporti di lavoro, nonché gestione delle situazioni relative a rapporti di lavoro cessati prima dell’entrata in vigore del nuovo limite, per i quali si paventa l’obbligo di emissione di un cedolino
aggiuntivo con il solo conguaglio.
Fiscalmente parlando, anche la dichiarazione dei redditi potrebbe venire in aiuto degli addetti ai lavori, consentendo il conguaglio definitivo in quella sede.
Ma è la parte previdenziale che appare particolarmente complessa da gestire, poiché dover inserire nel libro unico del lavoro (LUL) un imponibile  contributivo a credito per un importo fino a 3.000 euro potrebbe comportare non solo l’azzeramento dell’imponibile del mese, ma anche, in qualche caso,
trasformarlo con segno negativo qualora fosse di importo inferiore all’imponibile del fringe benefit, condizione questa che renderebbe impossibile la trasmissione del flusso uniemens.
L’eventuale importo negativo potrebbe inoltre “trascinarsi” in periodi successivi, ad esempio nel caso di riduzione dell’imponibile previdenziale per trasformazione di contratto da full-time a part-time e situazioni similari.
Ci giunge notizia che l’Inps sta approntando una circolare con la quale comunicherà l’introduzione di un meccanismo che dovrebbe consentire comunque l’invio dei flussi, probabilmente creando un apposito codice con cui indicare l’importo a credito, ma resta da vedere come potranno essere gestite le casistiche in cui il credito non venga esaurito in un’unica mensilità.
L’alternativa può essere una sola purtroppo, ovvero la procedura di  regolarizzazione Vig, che comunque creerebbe il solito disallineamento
tra il momento dell’effettiva erogazione del rimborso delle somme a credito ai lavoratori da parte del datore di lavoro e il recupero delle stesse, oltre che moltiplicare gli adempimenti per aziende e addetti ai lavori che, nel 2022, hanno visto forse l’anno peggiore per quanto riguarda recuperi di ogni genere (vedi esonero contributivo per i lavoratori nonché quello specifico per lavoratrici madri), erogazioni di indennità una tantum moltiplicate per  due/tre  periodi a seconda dei casi, ad esempio per imponibili contributivi  azzerati in seguito ad eventi con copertura previdenziale figurativa, nonché per i lavoratori “sbadati” che non avessero consegnato la dichiarazione nei  termini, oltre a variazione di flussi già trasmessi, nonché recuperi di alcune tipologie di sgravi contributivi sostituite da altre tipologie, e quant’altro accaduto nell’anno che sta per lasciarci. Insomma, diciamocelo, variare un limite di esenzione sul rushfinale dell’anno non è stata proprio un’ideona in termini gestionali, fermo restando l’evidente vantaggio economico per lavoratori e imprese.
Sono tutte cose che sarebbe stato decisamente meglio non fare: snaturare il welfare,dare agevolazioni fisco-contributive a pioggia, raggiungendo spesso anche chi non ne aveva assoluto bisogno (che capiremmo se nuotassimo nell’oro, ma siccome le risorse sono limitate …).
Il rischio aggiuntivo che si corre è proprio quello di banalizzare la finalità  sociale del welfare aziendale che rappresenta l’elemento che giustifica la tassazione agevolata attualmente in essere per imprese e lavoratori. Una quota così elevata di fringe benefit formalizzata a poco più di un mese dalla fine dell’anno rischia infatti di scoraggiare la costruzione dei piani di welfare“puro”, ovvero incentrato sui reali bisogni sociali dei propri  collaboratori, poiché è molto più semplice e veloce erogare, ad esempio, buoni acquisto o carburante, con un impegno minimo dal punto di vista organizzativo e amministrativo. Senza contare l’assoluta discrezionalità del datore riguardo ai soggetti a cui destinare tali benefit. Ma siccome tutto questo purtroppo ci capita, un po’ ne parliamo ma poi proattivamente proponiamo. Anche perché speriamo, magari, che non ci capiti più.

LA NOSTRA PROPOSTA
Note esplicative preliminari alle modifiche proposte.
L’art. 51 cambia, rispetto all’attuale, in tre punti essenziali, relativi al terzo periodo del comma e all’aggiunta di un quarto periodo, restando invariata la modalità generale di determinazione del valore normale dei beni o delle prestazioni in natura come stabilita dai primi due periodi.
Si introduce un mero aumento del valore, prima fissato a 258,23 euro (le vecchie 500.000 lire), che viene elevato a 600 euro, in funzione dell’andamento del costo della vita dalla data di approvazione del testo originale ad oggi.
Secondariamente, tale valore viene fissato come franchigia, prevedendo la tassazione solo per la parte eccedente 600 euro. Esemplificando, se un dipendente riceve beni per 1000 euro, la parte imponibile risulta quella di 400, cioè quella oltre il valore franchigia.
Il criterio permette di avere una rapida certezza a tutte le parti in causa (datore, lavoratore, enti) della tassazione di quanto erogato. Inoltre, consente di non penalizzare enormemente sforamenti irrisori (e magari involontari o ingenui) di detto limite, andando a riprendere a tassazione quanto già acquisito come esente. Più complessa, ma egualmente informata ad un senso di giustizia, semplicità e chiarezza, è l’introduzione dell’ultimo periodo, che prevede che, ai fini del computo del raggiungimento del predetto limite, non vadano considerati beni e servizi o prestazioni in natura già soggetti a tassazione secondo il valore normale o convenzionale del bene.
Se infatti su tali prestazioni il contribuente già paga una tassazione, normale o agevolata (rectius,forfetaria) non si vede perché i valori dovrebbero essere nuovamente posti in gioco. Ciò deprimerebbe lo scopo della norma in questione, che sostanzialmente prevede una soglia minima di liberalità o benefit non tassabile. Si tratta di un’ampia gamma di ipotesi che vanno dal regalo occasionale in occasione di festività (normalmente quelle natalizie) alle  cene o gite aziendali o a prestazioni di piccoli beni/servizi occasionali interni all’azienda (ad es. il caffè, la compilazione del mod. 730 etc.), cifre irrisorie sulle quali giustamente lo Stato non intende incidere per evidenti ragioni e buona pace di tutti.
Tuttavia, nemmeno pare equo che qualora tali prestazioni siano rivolte a dipendenti che fruiscono di beni soggetti a tassazione (un caso su tutti, l’autovettura ad uso promiscuo per l’intero anno), qualsiasi benefit o liberalità sia soggetta a tassazione, magari per importi risibili.
D’altronde si rifletta per assurdo su una considerazione molto semplice: se per tali beni (poniamo di valore 4.000 euro) l’azienda corrispondesse al  dipendente un lordo del medesimo importo (4.000 euro ) come retribuzione e poi rivendesse al dipendente tali beni/servizi percependo dal lavoratore la stessa cifra (4.000) come corrispettivo, si determinerebbe una situazione per cui il dipendente pagherebbe le stesse tasse (e l’azienda la medesima contribuzione), come se il tutto fosse stato trattato come retribuzione in natura, ma il dipendente risulterebbe non aver ricevuto alcun bene dall’azienda (li ha comprati) e quindi ritornerebbe nella disponibilità di ricevere beni dall’azienda per il pieno importo (quale che sia) del comma 3 in questione.
La specifica all’art. 95 del TUIR, invece, vuole solo evitare (sembra scontato, ma sempre meglio precisare), che qualora i beni omaggiati al lavoratore siano della stessa qualità di quelli all’art. 100 (ad esempio, un biglietto di teatro o di concerto, inquadrabili teoricamente in un bene con finalità ricreativa), possa insorgere il sospetto su un limite alla loro detraibilità in funzione delle specifiche previsioni dell’art. 100.
Anche questo sarebbe tuttavia un assurdo: è di tutta evidenza che le opere o i servizi dell’art. 100 hanno una loro specifica deducibilità in funzione di una  “vocazione welfare” (lo riconosce la stessa Agenzia delle Entrate nella circolare n. 28/2016, inserendo nell’articolo 100 tutte le poste di welfare della lettera f comprese le f/bis ed f/ter) dell’art. 51, comma 2. Ora sembra a chi scrive contraddittorio che beni o servizi di cui viene riconosciuta un’utilità sociale potrebbero avere delle limitazioni di detraibilità fiscale rispetto a benefit del tutto generici.
Il dubbio appare però legittimo, in particolare in seguito all’affermazione dell’Agenzia delle entrate contenuta nella circolare n. 27/2022 relativa al bonuscarburante introdotto dall’art. 2 del D.l. n. 21/2022: “non rientrando la fattispecie in commento nelle ipotesi di cui all’articolo 100, comma 1 del TUIR, il costo connesso all’acquisto dei buoni carburante in commento sia integralmente deducibile dal reddito d’ impresa, ai sensi del richiamato articolo 95 del TUIR, sempreché l’erogazione di tali buoni sia, comunque, riconducibile al rapporto di lavoro e, per tale motivo, il relativo costo possa qualificarsi come inerente”; ergo, il bonus carburante è pienamente deducibile dal reddito d’impresa in ragione della finalità della sua erogazione, che non risulta essere di educazione, né di istruzione, né di ricreazione, né di assistenza sociale, né sanitaria o di culto.
Ecco, quindi, le modifiche che proponiamo.

In grassetto quanto modificato rispetto al testo attuale. L’art. 51, comma 3 del TUIR (D.P.R. n. 917/86) è così modificato

3. Ai fini della determinazione in denaro dei valori di cui al comma 1, compresi quelli dei beni ceduti e dei servizi prestati  al coniuge del dipendente o a familiari indicati nell’articolo 12, o il diritto di ottenerli da terzi, si applicano le disposizioni relative alla determinazione del valore normale dei beni e dei servizi contenute nell’articolo 9. Il valore normale dei generi in natura prodotti  dall’azienda e ceduti ai dipendenti è determinato in misura pari al  prezzo mediamente praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista.
Non concorre a formare il reddito il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se complessivamente di importo non superiore nel periodo d’imposta ad euro 600; se il predetto valore è superiore al citato limite, concorre a formare il reddito esclusivamente la quota eccedente dello stesso.
Ai fini del raggiungimento del predetto valore non concorrono i beni e servizi il cui valore, determinato ai sensi del presente comma, primo periodo, e del successivo comma 4, viene corrisposto dal dipendente o costituisce per esso reddito imponibile nel medesimo periodo di imposta.
L’art. 95, comma 1 del TUIR (D.P.R. n. 917/86) è così modificato:
1. Le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito comprendono anche quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori, salvo il disposto dell’articolo 100, comma 1.
Le spese per prestazioni in beni o servizi di cui all’art. 51 comma 3, nei limiti ivi stabiliti, sono altresì sempre interamente deducibili, qualunque sia la loro natura e finalità.

Ah sì ci sarebbe un’ultima cosa, ma non riusciamo a scriverla compiutamente in senso positivo, perché è una cosa che semplicemente non si dovrebbe più fare. Qualora venisse in mente a qualcuno di dare altri benefit, lasciate stare il comma 3, scrivete quel che volete ma in un’altra parte dell’art. 51. Ve ne saremo infinitamente grati.

 

 

 

 

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Una proposta al mese – UNICA DISTINTA DI CONTRIBUZIONE per tutti i fondi pensione scelti dai dipendenti

di Mariagrazia di Nunzio – Consulente del lavoro in Milano

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Una delle tante attività post paghe che impegnano tutti gli addetti all’amministrazione del personale è la predisposizione e l’invio delle distinte di contribuzione sui siti internet dei diversi fondi pensione cui aderiscono i lavoratori dipendenti.

Secondo la relazione annuale 2021 della Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), la previdenza complementare, disciplinata dal D.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, che rappresenta il secondo pilastro del sistema pensionistico il cui scopo è quello di integrare la previdenza di base obbligatoria (o di primo pilastro), conta circa 8,8 milioni di iscritti e risulta in crescita del 3,9% rispetto all’anno precedente, per un tasso di copertura del 34,7% sul totale delle forze di lavoro.

Alla fine del 2021 le 349 forme pensionistiche complementari operanti nel sistema sono costituite da 33 fondi pensione negoziali, 40 fondi pensione aperti, 72 piani individuali pensionistici di tipo assicurativo (PIP) c.d. “nuovi” e 204 fondi pensione preesistenti (vedi legenda). Le Aziende e ancor più gli studi professionali che amministrano più aziende con diversi contratti collettivi – già oberati da mille scadenze – ogni mese o ogni trimestre si trovano a dover gestire anche l’invio della distinta di contribuzione sui siti internet dei diversi fondi pensione cui i dipendenti decidono di aderire. I gestionali paghe, in alcuni casi, predispongono dei file telematici contenenti le distinte di contribuzione per i fondi negoziali che vanno uploadati sui siti internet. Invece per tutti gli altri fondi pensione è necessario compilare dei form sui singoli siti internet. In   entrambi i casi bisogna memorizzare un notevole numero di credenziali per accedere alle aree riservate dei siti internet nonché ricordarsi scadenze (mensili, trimestrali, annuali a seconda dei fondi pensione) e procedure da seguire per l’inserimento dei dati utili alla creazione della posizione previdenziale dell’aderente.

Tali distinte di contribuzione richiedono, seppur in modo differente, le medesime informazioni, quindi, perché non uniformare il file contenente la distinta di contribuzione e creare un unico portale che raccolga tutti i dati di tutti relativi ai Fondi pensione, magari utilizzando proprio il sito della Covip che in questo modo avrebbe già i dati utili per svolgere la sua attività di Vigilanza?

Una volta inviato l’unico file contenente la distinta di contribuzione al portale della Covip, i diversi fondi pensione, accedendo al portale unico, potrebbero scaricare i dati per la ricostruzione e la rendicontazione della posizione previdenziale individuale e aziendale e procedere con l’area di investimento prescelta dal dipendente.

Le aziende potrebbero ricevere all’indirizzo email indicato nella distinta di contribuzione, copia dell’ordine di bonifico da pagare contenente l’ammontare dei contributi dovuti e un estratto della posizione aziendale relativamente ai versamenti effettuati ad una determinata data.

Di seguito un esempio dei dati che l’unica distinta di contribuzione per i Fondi pensione potrebbe avere:
• Codice Covip del fondo pensione
• CF azienda
• codice ditta (se presente)
• CF aderente
• cognome e nome
• data nascita
• sesso
• data assunzione
• tipo adesione (iscritto o silente)
• data compilazione (in formato gg/mm/
aaaa),
• data valuta (in formato gg/mm/aaaa),
• periodo di riferimento (mensile o trimestrale, annuale)
• % contributi aderente
• % contributi azienda
• % di destinazione del TFR
• tot. Contributi aderente: somma di tutti i contributi a carico dagli aderenti,
• tot. Contributi azienda: somma di tutti  i contributi a carico dell’azienda,
• tot. Contributi TFR : somma di tutti i contributi tfr degli aderenti,

• TFR silente

• pdr convertito in welfare
• tot. Quote iscrizione aderente (se esistenti): somma delle quote di iscrizione versate dagli aderenti,
• tot. Quote iscrizione azienda (se esistenti): somma delle quote di iscrizione versate dall’azienda,
• tot. Generale: somma complessiva dei contributi presenti in distinta.
• dati relativi al referente (nome, e-mail, telefono)

Questa idea di semplificazione vuole essere diretta a snellire l’attività amministrativa e ridurre gli adempimenti ridondanti.

VANTAGGI DELLA PROPOSTA DI SEMPLIFICAZIONE
• Adempimento semplificato per aziende e addetti all’amministrazione del personale;
• Minore manutenzione per i fondi pensione dei propri siti internet per la ricezione delle distinte di contribuzione in caso di eventuali modifiche normative;
• Covip avrebbe con immediatezza i dati per la vigilanza sui fondi pensione.

LEGENDA QUALI SONO LE FORME PENSIONISTICHE COMPLEMENTARI

FONDI PENSIONE NEGOZIALI: sono forme pensionistiche complementari istituite nell’ambito della contrattazione collettiva (nazionale o aziendale). A questa tipologia appartengono anche i fondi pensione cosiddetti territoriali, istituiti cioè in base ad accordi tra rappresentanti di datori di lavoro e lavoratori appartenenti a un determinato territorio.
FONDI PENSIONE APERTI: sono forme pensionistiche complementari istituite da banche, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio (SGR) e società di intermediazione mobiliare (SIM). I fondi pensione aperti possono raccogliere adesioni su base individuale e collettiva.
PIANI INDIVIDUALI PENSIONISTICI DI TIPO ASSICURATIVO (PIP): sono forme pensionistiche complementari istituite dalle imprese di assicurazione. I PIP possono raccogliere adesioni solo su base individuale.
FONDI PENSIONE PREESISTENTI: sono forme pensionistiche  complementari così chiamate perché già istituite prima del decreto legislativo n.124 del 1993 che ha introdotto per la prima volta una disciplina organica del settore.

 

 

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Una proposta al mese – IL PATTO DI PROVA DEL DECRETO TRASPARENZA: superare le disparità di trattamento e le discriminazioni

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Lo dico a chiare lettere: non mi convince affatto la nuova disciplina legale del patto di prova introdotta dall’art. 7 del D.lgs. 104 del 27 giugno 2022 che, in modo troppo succinto, così lo disciplina:

Durata massima del periodo di prova 1. Nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi.

  1. Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova.
  2. In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

Questo articolo è, per buona parte, la pessima trasposizione di quanto previsto dall’art. 8 della direttiva (UE) N. 2019/1152 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.

Come si noterà la nuova disciplina della prova si basa su quattro principi:

  1. durata massima del periodo di prova;
  2. riproporzionamento della durata del patto di prova nei contratti a termine;
  3. divieto di reiterazione del patto di prova in caso di riassunzione per le stesse mansioni;
  4. prolungamento del periodo di prova in presenza di sospensione della prestazione. Ognuno di questi presenta delle evidenti criticità, specie in un’ottica di palese violazione del diritto alla parità di trattamento e di divieto di discriminazione.1

 

LA DURATA MASSIMA DEL PERIODO DI PROVA

La problematica che qui emerge è la mancanza di un periodo minimo di prova garantito ex lege, carenza che consentirà ai vari contratti collettivi di prevedere ancora durate ridicole, anche di pochi giorni. Una cosa che stride con la riconosciuta finalità del patto di prova che una consolidata giurisprudenza individua nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (Cass. n. 1099 del 14 gennaio 2022). Anche perché non va dimenticato che durante la prova può essere valutato – se espressamente previsto – non solo la capacità professionale ma anche il comportamento complessivo del lavoratore, quale è desumibile dalla correttezza e dal modo in cui si manifesta la personalità: capacità nel comunicare, entusiasmo nel lavoro, riservatezza, attitudine alla collaborazione, senso di responsabilità, spirito di iniziativa e di adattamento.

Ma soprattutto teniamo presente che la sottoscrizione del patto di prova rappresenta il mezzo con cui il neoassunto può dimostrare al futuro datore di essere lui il candidato migliore per quel posto e di meritarsi un contratto a tempo indeterminato o anche solo di concludere il contratto a termine appena sottoscritto. Rammentiamo infine che è lo stesso Considerando n. 27 della Direttiva europea a ritenere che i periodi di prova dovrebbero pertanto essere di durata ragionevole. Una ragionevolezza che, considerate le richiamate finalità del patto di prova, dovrebbe appunto riguardare sia un termine di durata massima ma, a maggior ragione, anche un termine minimo. È possibile ritenere “ragionevole” una prova di soli 5 giorni lavorativi ove considerassimo che il lavoratore dovrà sfruttare questo periodo per dimostrare non solo la sua capacità professionale ma, come sopra detto, anche le altre sue apprezzabili ed encomiabili qualità personali?

 

IL RIPROPORZIONAMENTO DEL PERIODO DI PROVA DEI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO

Qui la criticità rilevata è la codificazione del principio che nei contratti a termine deve essere operata una riduzione del periodo di prova in modo proporzionale alla durata del contratto: mi son sempre chiesto per qual motivo un lavoratore assunto con un contratto iniziale di 3 mesi dovrebbe avere, rispetto ad uno assunto per 12 mesi, meno tempo per valutare e farsi valutare, considerata l’aspirazione di tutti e due a concludere quantomeno l’iniziale rapporto di lavoro a termine. Senza contare l’imbarazzante ignoranza matematica (peraltro già emersa nella giurisprudenza di merito italiana) nel non sapere che in una equazione matematica è operazione impossibile trovare l’incognita “x” (durata della prova nel TD) quando uno degli elementi conosciuti (la durata del contratto a TI) è un valore “infinito” (o quantomeno matematicamente non definibile, dato che il rapporto può durare un’intera vita lavorativa). Non scordiamo poi che nella disciplina del contratto a tempo determinato vige, in relazione al trattamento economico e normativo, un principio di non discriminazione del lavoratore assunto con tale tipologia contrattuale rispetto ai lavoratori in forza a tempo indeterminato. Il legislatore se lo deve essere scordato.

 

IL RIPROPORZIONAMENTO DEL PERIODO DI PROVA NEI CONTRATTI A TEMPO PARZIALE

Anche qui non manca una criticità anche se in termini di mancata previsione: il legislatore europeo, e di conseguenza quello italiano, si dimentica infatti di dare indicazioni circa un eventuale riproporzionamento nei casi di contratti a tempo parziale. Ci si riempie la bocca di concetti quali la parità di trattamento, il divieto di discriminazione e poi si ammette bellamente che due lavoratori assunti il medesimo giorno, presso la stessa azienda, con le medesime mansioni, si vedano proporre la medesima data di scadenza del patto di prova senza che si tenga conto che, lavorando il primo a tempo pieno ed il secondo al 50%, il primo disporrà di un tempo doppio per dimostrare al datore di lavoro di che pasta è fatto. Rasentando praticamente il ridicolo si continua a sostenere che sarebbe proprio in base al principio di non discriminazione che al lavoratore part-time spetterebbe, pur svolgendo un orario di lavoro ridotto, gli stessi diritti previsti per il lavoratore full-time. Chiaro invece che, proprio per il richiamato principio di non discriminazione, è esattamente il contrario. Andrebbe qui magari rammentata la Direttiva europea n. 97/81/CE del Consiglio Europeo del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES ed in particolare la Clausola 4: Principio di non-discriminazione che dispone che Per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive.2 Nella fattispecie appare difficile a chi scrive ravvisare ragioni obiettive per cui per il lavoratore part-time abbia meno tempo rispetto ad un lavoratore full-time per valutare – lo abbiamo già evidenziato sopra – l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni, chiamiamole ambientali, di svolgimento del rapporto.

IL DIVIETO DI REITERAZIONE DEL PATTO DI PROVA

Anche nel negare un nuovo periodo di prova nel caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni il legislatore comunitario dimostra tutta la sua superficialità non prevedendo alcuna ipotesi derogatoria al principio di non reiterazione della prova. Il lavoratore potrebbe essere riassunto dopo 20 anni dal precedente rapporto che l’espletamento della prova non sarebbe ugualmente ammesso. Non importa se nel frattempo le mansioni hanno avuto uno sviluppo tecnologico enorme (pensiamo ad un addetto paghe o alla contabilità assunto vent’anni prima) o che l’azienda abbia modificato il proprio modo di operare, sia per l’introduzione di nuovi macchinari o di software ma anche per un cambio dirigenziale. Non importa che l’ambiente aziendale, magari in termini di organico o di clientela, sia mutato e quindi l’adattamento caratteriale alla nuova realtà potrebbe essere più difficoltoso. Se uno ha già lavorato anche un solo giorno non potrà esser sottoposto ad alcuna prova. Pensare che ciò aiuti in qualche modo il lavoratore a trovare un lavoro stabile significa non conoscere le dinamiche del mondo del lavoro.

 

IL PROLUNGAMENTO DEL PERIODO DI PROVA

Anche su questo aspetto il legislatore italiano lascia molto a desiderare. L’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 fa infatti una certa confusione tra ciò che il Considerando n. 28 auspicava ovvero che i periodi di prova dovrebbero poter essere prorogati in misura corrispondente qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, ad esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di lavoro di verificare l’idoneità del lavoratore al compito in questione e l’art. 8 della Direttiva che non indica analiticamente le varie tipologie di assenza ma si limita a suggerire che Qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell’assenza.

Il legislatore nostrano, evidentemente senza ragionare troppo, aggiunge alla malattia un gruppetto di assenze assimilabili in senso lato alla malattia, quali infortuni, maternità o paternità obbligatori.

Di contro i congedi parentali (quelli facoltativi per capirci), i permessi legge 104, i permessi sindacali, le ferie collettive, i permessi individuali, la donazione sangue, i permessi per lutto, gli scioperi non avrebbero alcuna rilevanza per un eventuale prolungamento del patto di prova. Dobbiamo infine evidenziare come il legislatore non abbia nemmeno preso in considerazione la possibile interruzione dell’espletamento della prova verificatasi nel precedente rapporto, ad esempio causa dimissioni. Nulla prevede di conseguenza in merito ad un eventuale completamento di una prova lasciata a metà ma parla solo di divieto di reiterazione.

LA NOSTRA PROPOSTA

La nuova disciplina non convince soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi di parità di trattamento e di superamento di ogni discriminazione.

In quest’ottica si ritiene necessario rimetter mano all’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 quantomeno nei seguenti termini:

1. prevedere una reale durata del patto di prova uguale per tutti diversificata esclusi vamente in funzione del livello di assunzione e quindi a prescindere che si tratti di tempi indeterminati o determinati, part-time verticali, orizzontali o misti.
Per fare questo si dovrebbe trasformare la durata massima della prova da mesi in ore: se pertanto i 6 mesi sono circa 26 settimane e ogni settimana composta (di norma) da 40 ore lavorative, la durata limite della prova potrebbe essere fissata in 1040 ore. Considerando così solo le ore di effettiva prestazione si andrebbe peraltro a superare la evidenziate criticità dell’art. 7 del D.lgs n. 104/2022 che, maldestramente, ha previsto il prolungamento solo per determinate assenze.

2. prevedere un periodo minimo di espletamento della prova per tutti i livelli previsti dalle declaratorie contrattuali.
Questo in considerazione che la prova comprende non solo la valutazione della specifica professionalità richiesta al lavoratore ma anche di un comportamento complessivo che non è riproporzionabile in base alla durata del contratto, del livello o delle mansioni: educazione e rispetto valgono in egual misura per tutti.
La durata minima potrebbe quindi essere fissata in circa un quarto del periodo massimo, diciamo 240 ore (ragionando alla vecchia maniera pari a 6 settimane a tempo pieno) per tutti i lavoratori senza distinzioni tra tempo indeterminato e a termine, tra tempo pieno e tempo parziale. La restante quota di 800 ore andrebbe riproporzionata dai contratti collettivi in base ai livelli dagli stessi previsti secondo una scala parametrale liberamente individuata dalle parti sociali.

3. prevedere la possibilità di reiterazione e di completamento di un periodo di prova già parzialmente espletato.
La questione si pone in presenza di precedenti contratti subordinati, a termine o a tempo indeterminato, con o senza prova, ma anche in somministrazione.
In questi casi volgono le seguenti regole:
a) le parti sono libere di sottoscrivere un patto di prova in assenza di prestazioni lavorative nei 12 mesi precedenti la nuova assunzione (rilevano solo quelle svolte presso lo stesso datore di lavoro).
b) in presenza di attività lavorativa potrà essere previsto il completamento della prova a suo tempo concordata considerandola superata in riferimento alle ore svolte in prova nell’anno precedente.
c) considerare, anche se esclusivamente ai fini della durata complessiva della prova, tutte le “normali” ore di lavoro svolte nei 12 mesi precedenti l’ultima assunzione come una sorta di prova informale parzialmente già svolta, da sommare eventualmente alle formali ore di prova già effettuate. In pratica un correttivo alle regole generali motivato da ragioni di equità verso tutti i lavoratori che, prova o non prova, vantano presso la medesima azienda la stessa anzianità lavorativa. In un certo senso ciò fungerebbe come una sorta di periodo transitorio considerando che, in vigenza delle attuali regole, le parti potrebbero aver rinunciato a sottoscrivere un formale patto in relazione a contratti a termine molto brevi e quindi evidenziarsi delle prestazioni lavorative senza che le parti le abbiano formalmente identificate quale prova. Ed il pensiero va qui all’assurda regola (che con questa nostra proposta si intende superare) del riproporzionamento della durata del patto nei contratti a termine che rende spesso non significativo se non addirittura irrilevante l’espletamento della prova.

 

 

 

 

1. Si veda anche: A. Borella Il patto di prova del Decreto Trasparenza: irrisolte le vecchie criticità, La circolare di lavoro e previdenza, 35/2022.

2. Per un approfondimento si veda A. Borella, Le discriminazioni contrattuali nell’accesso al tempo parziale in questa Rivista, agosto 2022, pag. 47.

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Una proposta al mese – Estendere il campo della maxi-sanzione SUL LAVORO NERO

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

E’ strano, ogni tanto, quasi un senso di déja vu, ritornare su riflessioni e proposte del nostro Centro Studi milanese, alla luce di fatti di cronaca, di novità legislative o di sentenze. Così è successo alla lettura della sentenza n. 24388/2022 della Cassazione penale. In breve, il Collegio adito ha ritenuto sussistere una fattispecie di sfruttamento di lavoro nell’assunzione e messa in servizio di alcuni lavoratori inquadrati come part-timer ma in realtà impiegati a tempo pieno, se non con un numero di ore addirittura esorbitanti.Con ciò, riteneva applicabile a tale comportamento l’art. 603/bis del codice penale introdotto dal D.l. n.138/2011, cosi come modificato dalla L. n. 199/2016.
Non è il caso qui di addentrarci nella vicenda, che ha visto i giudici di Cassazione confermare quanto già stabilito nei precedenti gradi di giudizio con motivazioni (condivisibili) inerenti il caso specifico e non automaticamente estendibili, quanto sviluppare un ragionamento parallelo.
Cassazione penale afferma che, a determinate condizioni, il sottoporre il lavoratore ad un determinato orario formalizzando però il rapporto per un orario inferiore è un possibile indice di sfruttamento della manodopera, con la realizzazione di un ingiusto profitto a carico dell’utilizzatore. Come qualcuno ha fatto acutamente
notare1, il reato di caporalato (a cui si riferiva originariamente l’art. 603/bis del codice penale) ha esteso la sua competenza andando a colpire direttamente anche solo l’utilizzatore (che, in caso di caporalato sarebbe punito in concorso con l’intermediatore).

Tuttavia, si rende arduo, sotto un determinato profilo, andare a determinare l’esatta nozione di sfruttamento, a meno di interpretare in modo palesemente estensivo quanto previsto dalla norma in oggetto; per stare al caso in questione, si tratta dell’utilizzo di manodopera “sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”, ove fra gli indi ci sfruttamento la norma prevede anche “la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
Nessun dubbio quindi che inquadrare il lavoratore con un orario inferiore possa esser sfruttamento; il punto, tuttavia, si sposta sulla dimostrazione dell’approfittamento dello stato di bisogno: in una realtà economica sempre
più complessa ed insidiosa, la tentazione è quella di considerare sempre il lavoratore costretto  a subire determinate condizioni. E quindi, penale per tutti. Si badi bene, anche in quei casi, sussistenti, in cui vi sia una qualche complicità del lavoratore, magari per interessi personali, o in ogni caso una sua tranquilla accondiscendenza alla situazione elusiva.
Con il che, tuttavia, resta sempre il fatto che sotto inquadrare, dal punto di vista dell’orario, un dipendente è un comportamento altamente riprovevole, così come pagare poste in nero. Diversi anni fa – esattamente nel 2014 – il Centro Studi e Ricerche dei Consulenti del Lavoro di Milano, nell’ambito di un progetto di proposte complessive per il mercato del lavoro, aveva  prospettato una diversa formulazione della c.d. “maxi-sanzione sul lavoro nero” che sembra davvero il caso di riproporre. Intanto focalizziamo la norma attuale (oggetto di recente rivisitazione riepilogativa da parte della nota Inl del 20 aprile 2022): viene punito l’utilizzo da parte di datori di lavoro
privati di lavoratori subordinati2 senza preventiva comunicazione di assunzione comunicata agli Enti competenti.
ll datore che occupa personale “in nero” è tenuto a pagare una pesante sanzione amministrativa pecuniaria per ogni lavoratore irregolare che dipende dal periodo di occupazione in nero (va da 1800 euro fino a 43.200 in caso di impiego in nero per oltre 60 giorni di effettivo lavoro). Sono inoltre previste maggiorazioni in caso di recidiva, nonché per l’impiego in nero di minori, di lavoratori extracomunitari privi del permesso di soggiorno o di percettori del reddito di cittadinanza.
All’utilizzo di lavoratori in nero è legato anche il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale ex art. 14 del D.lgs. n. 81/2008 (siccome in Italia ci piace fare le cose complesse, lì la casistica sul lavoro nero ha alcune  difformità rispetto alla norma sulla maxi-sanzione).
E’ di tutta evidenza, e la sentenza della Cassazione penale è solo una conferma di quanto si rileva sul campo, che per evitare la maxi-sanzione (e anche il provvedimento di sospensione dell’attività) è però sufficiente inquadrare il
lavoratore per un numero di ore anche esiguo. Più in generale, perseguire il lavoro in nero ha una matrice che non sempre si sovrappone al concetto di sfruttamento o di mancata sicurezza; ricordiamo che la maxi-sanzione nasce storicamente in ambito di normativa fiscale. Il fatto è che retribuire, in tutto o in parte, un lavoratore in nero ha anche, se non soprattutto, un significato fortemente elusivo e generatore a sua volta di elusioni a cascata, sia nella filiera economica che per quanto riguarda prestazioni o agevolazioni destinate al lavoratore.
Insomma, non dichiarare il dovuto porta con sé una serie di implicazioni assolutamente negative sul piano economico, fiscale e persino sociale e culturale, ancor di più, poi, se questa elusione riguarda il delicato rapporto
di lavoro subordinato.
Il trucchetto del sottoinquadramento orario ha portato – ad esempio – a determinare la sfortuna di alcune fattispecie, come il lavoro accessorio con i voucher, il cui ridimensionamento ha peraltro accentuato, per effetto paradosso, l’utilizzo di lavoro nero. Ecco che, sulla scorta di queste riflessioni, la proposta del nostro Centro Studi, che qui offriamo nuovamente, è quella di individuare una sanzione specifica  (una specie di maxisanzione attenuata) per tutti coloro che, ancorchè in un rapporto di lavoro oggetto di comunicazione preventiva, eludano in maniera significativa (abbiamo ipotizzato un 20 % del dovuto complessivo, ma su tale percentuale si può ragionare) l’imponibile fiscale o previdenziale dovuto.
Vi è da considerare, a tal fine, che l’elusione di cui trattasi può essere realizzata in qualsiasi modo e non sarebbe confinata al solo rapporto di lavoro subordinato, ma in tutti quei rapporti in cui fra utilizzatore/datore/committente e prestatore vi sia un vincolo – anche solo ipotetico – di natura contributiva ed assicurativa.
Ovviamente, il tutto salvo che il caso sia più grave e sia invece riconducibile realmente ad un vero e proprio sfruttamento di cui si parlava all’inizio.
L’elusione potrebbe riguardare pertanto non solo il diverso orario denunciato, ma anche parte di retribuzione (es. superminimi o straordinari) corrisposta “fuori-busta”, oppure l’utilizzo di poste improprie esenti (un classico:
indennità di trasferta o rimborsi spese fasulli).
A tal fine individuare una percentuale minima di scostamento serve a riparare il datore di lavoro dall’applicazione di una sanzione ulteriore – oltre a quelle previste per attività omissive o evasive – in caso di eventuali contestazioni o riprese che possono determinarsi per errori o leggerezze, ma tali da non incidere quantitativamente in modo massivo sull’elusione (una sorta di “franchigia” su errori, omissioni o “diversità di vedute” rispetto all’ispettore del caso).
Né si costituirebbe, con tale maxi-sanzione attenuata, una sorta bis in idem rispetto a sanzioni sul versante contributivo, assicurativo o fiscale: lo scopo preciso di tale sanzione sarebbe quello di punire il ricorso sistematico e massivo a forme di elusione che per ricorrenza ed incidenza evidenzino un preciso intento evasivo.
Potrà, forse, sembrare strano che a proporre sanzioni sia un corpo professionale che molto spesso si è lamentato per il peso della regolazione e per la vessatorietà di determinati apparati punitivi sul versante amministrativo, tuttavia, per quanto qui in argomento, la repressione dei fenomeni di evasione è un concetto culturale, prima ancora che di sicurezza sociale; non invochiamo chissà quale severità, anzi. Tuttavia, ci basterebbe ripristinare un concetto di serietà che premierebbe chi – anche con fatica – fa il possibile per stare nelle regole, contro chi le aggira allegramente.

 

1. Cfr. Riccardo Girotto, Il caporalato a tutto campo, ma senza caporale, Euroconference Lavoro del 14 luglio 2022.

2. Nella nota INL, si ricorda che oggetto di sanzione è anche l’utilizzo di prestatori con utilizzo improprio del Libretto di famiglia o di lavoratori occasionali non oggetto di preventiva comunicazione, dei quali, in caso di ispezione, venga rilevata la subordinazione.

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