CESSIONE DEL QUINTO E PIGNORAMENTO DELLO STIPENDIO, amici, nemici o sconosciuti?

di Moira Tacconi – Consulente del lavoro in Milano

Molto spesso i datori di lavoro sono chiamati ad operare delle trattenute di quote retributive, a seguito di un atto dell’Agenzia delle Entrate, di un ordine del tribunale o di un contratto di cessione stipulato dal lavoratore. Tutte situazioni che sottopongono il datore di lavoro a degli obblighi aggiuntivi, previsti a suo carico dall’istituto della cessione o del pignoramento. Cessione e pignoramento sono istituti diversi. Basti pensare semplicemente al fatto che mentre la cessione nasce da un atto volontario del dipendente, il pignoramento non dipende dalla volontà del lavoratore, che non è promotore diretto dell’atto ma lo subisce. Ma dei tratti comuni esistono: entrambi sono regolamentati dallo stesso testo, il D.P.R. n. 180/1950, prevedono che il datore di lavoro acquisisca a suo malgrado degli obblighi e si riferiscono a quote di stipendio che vengono trattenute al dipendente e versati ad istituti di credito o agenti di riscossione.

Analizziamo questi istituti un po’ più da vicino, così da definirne le caratteristiche. È noto a tutti che la cessione dello stipendio è un contratto con il quale un soggetto, creditore cedente, disponendo di un suo diritto di credito, cede lo stesso ad un altro soggetto, il cessionario. In conseguenza di ciò l’originario debitore è tenuto ad adempiere la propria obbligazione non più al creditore cedente ma direttamente al cessionario. Quello che è bene ricordare è che si tratta di un contratto consensuale tra dipendente e finanziaria, che non necessita del consenso del datore di lavoro per produrre effetto: dal momento della notifica il datore di lavoro diventa debitore ceduto ed è obbligato a dare attuazione alla cessione. Si ricorda che la possibilità di contrarre una cessione di stipendio è concessa sia ai lavoratori a tempo indeterminato che a quelli a tempo determinato. In quest’ultimo caso la durata del contratto di cessione non potrà superare l’arco temporale tra l’attivazione del finanziamento e il termine del contratto in essere. Diversa invece la durata prevista per i lavoratori il cui contratto non è a termine. La norma prevede infatti una durata massima di 10 anni, sempre che al lavoratore non manchino meno di 10 anni per conseguire il diritto alla pensione.

Il lavoratore che intende stipulare un contratto di cessione dello stipendio dovrà presentare all’istituto di credito documentazione che accerti la sua capacità di garantire l’estinzione del debito e tra i documenti richiesti solitamente troviamo il certificato di stipendio. Rilasciato dal datore di lavoro e con validità di 90 giorni, tale certificato attesta le caratteristiche del contratto di lavoro in essere col lavoratore, la retribuzione lorda e netta, l’esistenza o meno di eventuali cessioni e pignoramenti e l’ammontare del trattamento di fine rapporto (Tfr) maturato. È importante ricordare che cedere parte dello stipendio è un diritto del dipendente che non richiede assenso del datore di lavoro e come tale il datore di lavoro è tenuto a rilasciare questo documento. Una valida alternativa al certificato di stipendio è l’attestato di servizio, che attesta l’esistenza del rapporto di lavoro, la qualifica, il tipo di contratto e l’anzianità di servizio. Si tratta in definitiva di una dichiarazione più semplice, che non necessita di calcoli precisi come il certificato di stipendio. Una volta che la finanziaria ha esaminato la pratica e accolto la richiesta di prestito, il datore di lavoro riceve l’atto di benestare, con il quale si comunica la rata mensile da trattenere e la decorrenza. Vista così la situazione potrebbe anche sembrare semplice: in seguito a richiesta del lavoratore si produce della documentazione con la quale la finanziaria accorda il prestito richiesto, comunicando al datore di lavoro la rata mensile da trattenere e versare. Ma nel corso del rapporto di lavoro possono intervenire numerosi cambiamenti a livello retributivo, cambiamenti che facendo mutare le condizioni potrebbero avere un impatto significativo sulla retribuzione del dipendente, così significativo da costringere il datore di lavoro a verificare la possibilità della trattenuta mensile. Nel caso la retribuzione si riduca, la norma prevede che se la riduzione sia inferiore a un terzo il datore può continuare a effettuare la trattenuta ma se la riduzione fosse maggiore a tale limite il datore di lavoro dovrà verificare che la trattenuta mensile non ecceda il quinto dello stipendio netto e, nel caso di eccedenza, dovrà comunicare alla finanziaria la necessità di rideterminare la rata mensile prevista. Particolare attenzione va prestata anche alle situazioni in cui si fa ricorso all’ammortizzatore sociale, che nella maggioranza dei casi riducono significativamente il netto del dipendente, o nel caso di cessazione del rapporto di lavoro. In quest’ultimo caso il datore di lavoro dovrà versare alla finanziaria anche il Tfr maturato, fino a concorrenza dell’importo residuo da rimborsare. E proprio il Tfr è la prima fonte di tutela per la finanziaria. Sembra utile ricordare che il Tfr è vincolato a garanzia del prestito fino alla scadenza del contratto di cessione e nel caso sia destinato ad un fondo di previdenza complementare sarà quest’ultimo a fare da garante. Si precisa a tal proposito che durante il periodo in cui opera la cessione il dipendente può comunque aderire alla previdenza complementare.

Tuttavia, ci sono dei limiti all’integrale cedibilità del trattamento di fine rapporto. Pensiamo, per esempio, ad un lavoratore divorziato, tenuto al mantenimento dell’ex coniuge. In questa situazione l’articolo 12 bis, L. n. 898/1970 prevede che il coniuge, titolare dell’assegno di mantenimento e che non sia passato a nuove nozze, abbia diritto al 40% del Tfr maturato dall’ex coniuge per il periodo in cui il rapporto di lavoro è coinciso col matrimonio. L’azienda che sia a conoscenza di tale situazione al momento della cessazione del rapporto di lavoro non potrà corrispondere l’intero Tfr alla finanziaria.

Altro caso è quello del decesso del lavoratore che ha contratto finanziamento. L’articolo 2122 c.c. prescrive che al coniuge, ai figli e, se conviventi, ai parenti entro il 3° grado e affini entro il 2° debba essere corrisposta l’intera somma costituita dall’indennità sostitutiva di preavviso e del Tfr maturato. Tale somma compete a questi soggetti per diritto proprio e non per diritto ereditario e per tanto il contratto di cessione è inopponibile. Ma come si calcola la quota cedibile? La quota oggetto della cessione deve essere calcolata prendendo a riferimento lo stipendio al netto delle ritenute, previdenziali e fiscali.

Si deve far riferimento alla retribuzione così come definita dall’art. 2094 c.c., intesa come controprestazione di natura economica che il datore di lavoro riconosce al dipendente per aver messo a disposizione le proprie energie. Quindi non devono rientrare nella base di calcolo della quota quegli emolumenti che siano corrisposti dal datore di lavoro ma che non abbiano natura retributiva. Mi riferisco al trattamento integrativo o all’una tantum di 200€ prevista per la retribuzione di luglio. Attenzione: quando si dice al netto delle ritenute si intende non solo ritenute previdenziali e fiscali ma anche a quelle effettuate in ottemperanza del Ccnl (ex trattenuta fondo assistenziale).

I prestiti che possono essere estinti tramite  cessione di stipendio possono essere contratti solo nei limiti del quinto dello stipendio netto e tale limite è insuperabile. Se la finanziaria nel contratto determinasse una quota mensile eccedente tale limite, il datore di lavoro non deve trattenere l’importo eccedente il limite del quinto e segnalare la situazione alla finanziaria.

Spesso si sente dire che sulla stessa retribuzione non possono esserci più cessioni contemporaneamente ma in realtà è solo parzialmente vero. Se il limite massimo di retribuzione cedibile è stato raggiunto con la prima cessione una seconda cessione non è possibile e il datore di lavoro deve comunicare alla seconda finanziaria che non è possibile stipulare un’altra cessione e dovrà astenersi dalla seconda trattenuta.

Se il limite massimo di retribuzione non è stato raggiunto è legittima la stipula di un secondo contratto: la somma delle due trattenute non deve però superare il quinto dello stipendio. In questa situazione è opportuno che il datore di lavoro faccia presente, nel caso di seconda cessione, quanto disposto in merito al Tfr nella prima cessione. Il Tfr può essere ceduto integralmente solo alla prima finanziaria, a cui va data la priorità. Può succedere che il soggetto rinegozi la cessione con un nuovo finanziamento, attraverso il quale la cessione del quinto preesistente venga chiusa. Una parte del nuovo prestito dovrà estinguere il prestito in corso mentre la liquidità rimanente resterà al contraente, che la rimborserà in un numero massimo di 12 rate. Si parla in questo caso di RINNOVO regolato dagli art. 39 e 40 del D.P.R. n. 180/1950, che vietano di contrarre una nuova cessione prima che siano trascorsi almeno i 2/5 della durata originaria (prima bisogna pagare almeno il 40% del primo prestito). Fanno eccezione le cessioni stipulate per un periodo pari o inferiore a 5 anni, per le quali il rinnovo può avvenire in qualsiasi momento. Per superare i limiti temporali in tema di rinnovo di una cessione del quinto, le finanziarie propongono ai lavoratori che intendono accendere un nuovo finanziamento l’istituto della DELEGAZIONE DI PAGAMENTO, che trova il suo fondamento nell’art. 1269 c.c..

Tale istituto, però, produce effetti solo se il datore di lavoro lo accetta. L’art. 1269 c.c. non prevede nulla in merito al limite quantitativo, ma poichè il ricorso alla delegazione avviene in tutti i casi in cui il lavoratore ha già in essere un contratto di cessione, il D.P.R. n. 180 prevede dei limiti nel caso di concorso fra cessione e delegazione: non si può superare la metà dello stipendio (art. 70, D.P.R. n. 180/1950).

 

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CESSIONE DEL QUINTO e pignoramento dello stipendio

 

Clarissa Muratori, Consulente del lavoro in Milano

Chi è il vero protagonista della scena? A proposito di protagonisti qualche mese fa ho sentito pronunciare la seguente
frase: “Ma come, tu scateni un alveare e ad essere punto sono io???”. È un’espressione che si presterebbe bene in
tante occasioni e una di queste mi pare proprio quella che ci accingiamo a trattare: il pignoramento dello stipendio.
Perché? Perché a causa di un altro soggetto, il debitore principale, il lavoratore dipendente appunto, un terzo, totalmente estraneo ai fatti, il datore di lavoro, si troverà gravato di una serie di obblighi che nulla hanno a che
vedere con la sua condotta. I motivi che ci impediscono di onorare i nostri debiti possono essere svariati e l’intento
non è certamente quello di dare giudizi in tal senso, no, qui l’intenzione è quella di evidenziare solo i fatti oggettivi: gli effetti del mancato assolvimento di un debito da parte di un soggetto determina, a carico di un altro, il datore di lavoro, una serie di adempimenti aggiuntivi e obbligatori il cui mancato rispetto è soggetto a sanzioni di non poco conto. E questo – senza ombra di dubbio – è un dato di fatto oggettivo.
Il diritto di credito, così come ogni altro diritto previsto dal nostro ordinamento, deve necessariamente essere tutelato attraverso strumenti seri ed efficaci, tuttavia che a garantirlo debba essere un terzo estraneo alla
generazione dei fatti stessi, probabilmente, è una condizione un po’ distante dal concetto di giustizia e di equità, ma tant’è.

ADEMPIMENTI MENSILI
Partiamo dall’inizio. Non appena ci viene notificato l’atto di pignoramento la prima operazione da compiere
è la dichiarazione giudiziale del terzo pignorato secondo quanto disposto dall’articolo 547 c.p.c., nulla di complicato per carità, salvo forse l’individuazione del netto medio mensile dello stipendio. A determinare tale valore concorrono anche somme che nulla hanno a che fare con la prestazione lavorativa, alcune addirittura per espressa previsione di legge impignorabili e incedibili, quindi nel  redigere la dichiarazione occorrerà tener presente questo aspetto. La dichiarazione dovrà poi essere inviata via PEC al legale del creditore e farà parte del fascicolo dell’esecuzione.
Non è l’unica dichiarazione che il datore di lavoro potrebbe trovarsi a redigere. Un’altra è la dichiarazione stragiudiziale proveniente dall’Agenzia della riscossione di cui all’art. 75-bis del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 602.
Si tratta di format già precompilati che occorre soltanto completare con una serie di dati, a volte minimi, talvolta un po’ più dettagliati. Ma non è tanto questo l’interessante, ciò che colpisce davvero è l’avviso riportato al loro interno:
in mancanza di risposta entro il termine di 30 giorni dalla notifica della richiesta, l’Amministrazione finanziaria procederà all’irrogazione di una sanzione da 2.000 a 21.000 euro circa, centesimo più centesimo meno.
Emessa la dichiarazione occorre procedere alla custodia e trattenuta delle somme pignorabili.
Di norma la quota pignorabile non può eccedere il limite del quinto dello stipendio netto che, come sappiamo, varia ogni mese.
Se devo gestire un solo pignoramento può essere seccante, ma fattibile, se mi trovo a gestirne un centinaio, già solo la variazione della quota mensile in ogni singolo cedolino paga di ogni singolo mese dell’anno per un significativo numero di anni è, solo essa stessa, un’operazione davvero gravosa. Ma non basta, se vi sono in corso ulteriori
pignoramenti di differente natura o cessioni del quinto dello stipendio precedentemente notificate, occorrerà fare riferimento all’art. 68 del D.p.r. 5 gennaio 1950, n. 180. Qui vengono trattate le differenti ipotesi di simultaneità
di debiti che prevedono un calcolo specifico a seconda dell’ordine cronologico con cui sono stati notificati gli atti.
In linea di massima è opportuno tenere presente che non è possibile aggredire più della metà dello stipendio netto.
La trattenuta della quota netta non esaurisce i compiti del datore di lavoro che, per fortuna in questo caso, senza essere obbligato ad effettuare alcuna indagine, dovrà applicare la ritenuta fiscale Irpef del 20 per cento a titolo
d’acconto sulla quota trattenuta, quest’ultima  infatti rappresenta reddito per il creditore salvo non dichiari espressamente di non procedere  all’applicazione dell’imposta.
La circolare dell’Agenzia delle entrate n. 8/E del 2 marzo 2011 ripercorre, tra i vari aspetti della materia, anche questo specifico obbligo. Tutte le volte in cui il datore di lavoro rivesta la qualifica di sostituto d’imposta e proceda
al versamento di somme costituenti reddito per il beneficiario, dovrà applicare la ritenuta d’acconto sulle stesse.
Seppure come anticipato il datore di lavoro non debba fare indagini di sorta circa le quote assoggettate a ritenuta d’acconto è pur vero che il prelievo fiscale dovrà avvenire solo nel caso in cui il creditore pignoratizio sia una
persona fisica soggetta ad Irpef. Nel caso di persona giuridica, oppure nel  caso di pignoramento promosso dall’Agente della riscossione alcuna ritenuta Ipef dovrà essere applicata, dato che nel primo caso il
creditore è soggetto a Ires e nel secondo caso, essendo i pignoramenti promossi dall’Agente della riscossione per la maggior debiti tributari, non è applicabile un ulteriore prelievo fiscale ai recuperi di imposta. Gli adempimenti mensili si concludono infine  versando al creditore la somma a lui spettante e col pagamento tramite modello F24,
secondo le scadenze di legge e in ossequio al principio di cassa, della ritenuta applicata sulla quota trattenuta a titolo di pignoramento.
In ultimo, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, è importante verificare la corretta gestione  della liquidazione degli emolumenti finali.
In linea teorica, prima di liquidare l’ultimo stipendio netto al lavoratore, si provvederà a trattenere la quota di un quinto dalle competenze finali e dal trattamento di fine rapporto a favore del creditore pignoratizio, salvo alcune
eccezione che verranno trattate più avanti.

ADEMPIMENTI ANNUALI
Gli adempimenti annuali sono più snelli, se così si può dire. Il datore di lavoro ha obblighi di carattere
certificativo e dichiarativo. Per le persone fisiche sarà necessario emettere una certificazione di lavoro autonomo intestata al creditore, sezione Somme liquidate a seguito di pignoramento presso terzi, in cui verranno
riportati il codice fiscale del debitore principale e le somme lorde che sono state trattenute. Se
fosse stata applicata anche la ritenuta d’acconto del 20 per cento occorrerà verificare la corretta
indicazione anche di tale dato. Per le persone giuridiche, posto che anche per tali soggetti sarà possibile emettere Cu in carta libera contenente gli stessi dati presenti nelle Cu di lavoro autonomo per i creditori persone fisiche, i dati relativi ai pignoramenti gestiti nel corso dell’anno saranno riportati nel modello 770, quadro SY.
Compiuto tutto ciò il datore di lavoro può dirsi liberato da ogni obbligo, salvo ripetere  tutte le operazioni descritte per un significativo numero di anni.

CONCETTO DI RETRIBUZIONE NETTA
Quando affrontiamo il tema della cessione del quinto o del pignoramento dello stipendio ci riferiamo automaticamente ad un valore di retribuzione netta, il cui importo è semplicisticamente determinato dalla retribuzione lorda meno le trattenute previdenziali e fiscali.
Ma quale è la retribuzione netta che può essere aggredita da tali debiti? Senza dubbio la retribuzione che il datore di
lavoro riconosce al lavoratore per la messa a  disposizione della sua opera manuale e intellettuale.
È pur vero però che ci sono degli elementi che transitano dalla busta paga, che determinano un netto a pagare, ma che non sono collegati alla prestazione lavorativa: ad esempio le somme riconosciute a titolo di trattamento
integrativo di cui al Decreto legge 5  febbraio 2020, n. 3, i risultati derivanti dalla presentazione del modello 730, oppure ancora  gli importi riconosciuti a titolo di assegni familiari, seppure ormai residuali rispetto all’avvento
dell’assegno unico, oppure, di recente istituzione, l’indennità una tantum di 200 euro introdotta dal Legislatore con il Decreto legge 17 maggio 2022, n. 50. Ebbene quando ci si appresta ad effettuare dichiarazioni o ad applicare
la trattenuta su di uno stipendio netto occorre neutralizzare elementi come questi.
Ecco quindi che un conteggio che apparentemente potrebbe sembrare scontato appare tutt’altro che banale, quasi insidioso.

CASI NON ORDINARI
A fianco a tutta questa pletora di adempimenti, obblighi e incombenze di cui deve farsi carico unicamente il datore di lavoro, in quanto il soggetto che ha generato il tutto nulla avrà da compiere, vi sono casi non ordinari che non seguono le regole predette e che quindi devono essere vagliati qualora ci si trovi, soprattutto in fase di liquidazione finale, e trattarne i relativi aspetti.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO ALL’EX CONIUGE ED AI FIGLI
Come noto l’Agenzia delle entrate ha affrontato il tema nella circolare 8/E del 2011 dove ha distinto la differente modalità di gestione a seconda che si conosca o meno la natura delle somme oggetto di pignoramento.
Qualora sia determinata la differente assegnazione delle somme oggetto di assegno di mantenimento, in parte per il coniuge ed in parte per i figli, sarà necessario sottoporre a tassazione la quota per l’ex coniuge, ma non
quella per i figli.
In termini di obblighi certificativi, le somme versate all’ex coniuge seguiranno le regole della Cu per lavoro dipendente in quanto assimilate a tale tipologia di reddito, con l’applicazione delle relative ritenute previste per legge, mentre per le trattenute operate a favore dei figli sarà sufficiente emettere una Cu di lavoro autonomo
sezione – somme liquidate a seguito di pignoramento presso terzi – evidenziando che le somme trattenute non sono state oggetto di ritenuta, in quanto tali somme non rappresentano un reddito per il beneficiario.
Qualora non si conosca la natura delle somme in termini di quota assegnata al coniuge o ai figli verrà attribuito il 50 per cento ad ognuno, seguendo le medesime regole appena descritte. Deroga: differente gestione in termini di ritenuta fiscale, impatti sulla determinazione del reddito fiscale del reddito del debitore, emissione
di due distinte CU.

AMMINISTRATORE DI SOCIETÀ PER AZIONI
Nel 2017 con una sentenza a sezioni unite la Cassazione (sent. n. 1545/2017) ha fatto chiarezza sulla qualifica da attribuire al rapporto giuridico tra amministratore e società. Nella sentenza si afferma che il rapporto di lavoro che
lega i due soggetti non può essere assimilato a quello di lavoro parasubordinato, ma deve necessariamente
essere ricondotto al rapporto societario, per tale ragione nessun limite tra quelli previsti all’articolo 545 c.p.c., norma riferibile ai soli rapporti di lavoro subordinato o ad essi equiparabili, può essere applicato al prelievo sul compenso dell’amministratore, compenso che risulta quindi totalmente pignorabile.
Deroga: nessun limite all’entità ammissibile di prelievo, il compenso di un amministratore diventa interamente pignorabile.

DECESSO DEL LAVORATORE PIGNORATO
In seguito al decesso di un lavoratore pignorato le somme quali Tfr e indennità sostitutiva del preavviso competono agli eredi ex articolo 2122 c.c. iure proprio. Tale norma rende gli eredi dei creditori ab origine ed in quanto tali avranno diritto a ricevere gli specifici emolumenti senza che vi  sia alcun prelievo a titolo di pignoramento. È
la norma infatti che in questo caso limita il diritto di credito.
Restano ovviamente soggette all’ordinario prelievo tutte le ulteriori somme maturate e non ancora versate a causa del decesso. Deroga: il trattamento di fine rapporto non rappresenta sempre una garanzia assoluta per
il creditore.

STATO CIVILE DEL LAVORATORE PIGNORATO
L’art. 12-bis della Legge 1° dicembre 1970, n. 898 prevede che il coniuge titolare dell’assegno di mantenimento, che non sia passato a nuove nozze, abbia diritto al 40 per cento del trattamento di fine rapporto maturato dall’ex
coniuge con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso col matrimonio.
Anche in questo caso è come se l’ex coniuge assumesse la qualifica di creditore ab origine e in quanto tale, qualora ne ricorrano i presupposti, verrà tutelato in fase di liquidazione del trattamento di fine rapporto, senza che l’atto di pignoramento possa avere alcun effetto rispetto al diritto vantato. Deroga: il trattamento di fine rapporto non
rappresenta sempre una garanzia assoluta per il creditore.

CONCLUSIONI
In conclusione qualora vi fossero ancora dubbi sull’imponente mole di lavoro aggiuntivo che anche un solo atto di pignoramento può portarsi dietro, la materia in generale appare, oltreché complessa nella sua gestione, disciplinata
da norme che coinvolgono figure assolutamente estranee ai fatti, i datori di lavoro. La ragione che sta alla base di tale scelta legislativa è la maggiore affidabilità in termini di recupero del credito che può garantire la figura del datore di lavoro rispetto al debitore  ed alla sua mera volontà di adempiere.  Che tuttavia ciò rappresenti, in termini di
equità, una corretta attribuzione dei carichi di lavoro è certamente tutto da dimostrare.

 

 

 

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