Sentenze

Licenziamento disciplinare del dirigente per comportamenti vessatori e denigratori nei confronti dei sottoposti

Cass., Sez, Lavoro, 7 ottobre 2022, n. 29332

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

La sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta ha affermato che i “comportamenti vessatori e denigratori” del dirigente inflitti nei confronti dei suoi sottoposti, causando un sistema di “sopraffazione e condizionamento psicologico”, fanno scattare la sanzione espulsiva a suo carico. Inoltre, è assicurato il diritto di difesa esercitato dai collaboratori, qualora la consegna della relazione da questi sottoscritta avvenga prima dell’audizione disciplinare al dirigente.
La contestazione di addebito aveva ad oggetto comportamenti gravemente lesivi del vincolo fiduciario, di cui a ripetute segnalazioni ed a dettagliata relazione sottoscritta da diversi collaboratori, concernenti problemi di gestione della struttura complessa di Genetica medica, consistiti, in particolare, in “sistematici comportamenti vessatori e denigratori nei confronti  dei medici e biologi” qualificati come “dittatoriali”, ripetutamente “tesi a ridicolizzare l’operato dei lavoratori”, decisioni arbitrarie in ordine ai soggetti da includere nelle pubblicazioni a prescindere dall’effettiva partecipazione al lavoro, comportamenti volti ad ostacolare la comunicazione e l’interazione lavorativa tra medici e biologi, mancato utilizzo di apparecchiature in dotazione al laboratorio di UOS Citogenetica, dichiarazioni lesive dell’immagine del presidente e dell’ente.
Ancora, all’insegna del divide et impera, il dirigente ostacolava la comunicazione e l’interazione fra i dipendenti, finendo per non utilizzare apparecchiature che pure sono in dotazione al reparto. Il dirigente medico aveva instaurato nei dipartimenti un sistema di «sopraffazione e condizionamento psicologico».
Tale sistema era specificato nella relazione di cui alla contestazione, consegnata in copia al ricorrente prima dell’audizione.
Tali condotte oggetto di contestazione erano idonee a giustificare il licenziamento disciplinare irrogato, quantunque la condotta di dichiarazioni lesive dell’immagine del legale rappresentante dell’Associazione non fosse stata confermata.
La Suprema Corte, nel confermare la sentenza di secondo grado e il licenziamento, ha affermato che la contestazione dell’addebito deve essere specifica, non osservare schemi rigidi e prestabiliti e, soprattutto, deve fornire al dipendente incolpato le indicazioni necessarie  per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati; ne consegue la piena ammissibilità della contestazione per relationem.
Il giudice può apprezzare le suddette caratteristiche secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti unilaterali. Analogamente il giudice può vagliare l’immediatezza della contestazione per la quale vanno considerate anche le ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa. I giudici di merito hanno inoltre ritenuto provati i fatti contestati nella loro materialità di comportamenti vessatori nei confronti dei collaboratori e sottoposti, in contrasto con i doveri connessi all’incarico ricoperto ed alla corretta gestione della struttura.
La Corte respinge il ricorso condannando la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.


Gestione artigiani: determinazione della base imponibile sulla quale parametrare l’obbligo contributivo

Cass., ordinanza 3 ottobre 2022, n. 28572

Patrizia Masi, Consulente del lavoro in Milano

L’Inps sostiene che i redditi percepiti da F.N., quale partecipazione agli utili della società di capitale di cui è fondatore, debbano essere qualificati come redditi di lavoro autonomo (e non come redditi di capitale) e come tali devono essere inseriti nella base imponibile sulla quale parametrare l’obbligo contributivo.
In prima istanza, e successivamente in Appello, viene respinto il ricorso presentato dall’Istituto che, infine, ricorre in Cassazione basando la sua impugnazione su un unico motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 3 bis della Legge n. 438/1992 di conv. con modifiche del D.l. n. 384/1992 e in connessione con la Legge n. 223/1990, dell’art. 53, co. 2, lett. d) del D.P.R. n. 917 (TUIR) e dell’art. 10 del D.lgs. n. 241 del 1997, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c..
La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso poiché il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e perché l’esame dei motivi non ha offerto elementi validi per mutare l’orientamento della stessa.
Secondo la Corte, infatti, se è vero che il TUIR distingue la natura della partecipazione agli utili del socio fondatore da quella del socio non fondatore, definendo la prima reddito di lavoro autonomo e la seconda reddito di capitale, non di meno tale distinzione non “conviene” alla posizione dell’Inps nella fattispecie in esame, poiché quella operata dal TUIR è una fictio iuris destinata a spiegare effetti a fini fiscali, ma non anche ad incidere sulla qualificazione dei relativi redditi ai fini contributivi.
Infine, a parere del Collegio, la richiesta dell’Inps è infondata anche dal punto di vista della qualificazione del “socio fondatore”. A questa domanda è già stata data risposta in giurisprudenza (Cass., n. 21540 del 2019; Cass., n. 18765/2022; Cass., n. 10969/2022): il reddito per la partecipazione a società di capitali va incluso nella base imponibile contributiva solo qualora tale quota parte rientri tra i redditi d’impresa, nell’accezione contenuta nell’art. 3 bis del D.l. n. 384/1992.


Nessun margine di discrezionalità del datore di lavoro nei licenziamenti collettivi

Cass., sez. Lavoro, 15 novembre 2022, n. 33623

Patrizia Masi, Consulente del lavoro in Milano

Il lavoratore ha impugnato il licenziamento inflittogli a seguito di un procedimento di licenziamento collettivo. Secondo il lavoratore,  infatti, è illegittimo l’accordo raggiunto tra azienda datrice di lavoro e sindacato nel quale si afferma che i “lavoratori saranno valutati dal responsabile dell’area aziendale, tenuto conto delle professionalità formazione e servizi quali-quantitativi, al fine di mantenere i lavoratori con le competenze professionali necessarie per continuare efficacemente l’attività dell’impresa”. La Corte d’Appello, in riforma alla pronuncia di primo grado, ha accolto la domanda di cui sopra, assumendo che i criteri di selezione non siano oggettivamente verificabili e controllabili, lasciando quindi ampia discrezionalità al datore di lavoro.
La Suprema Corte, confermando il rilievo della Corte d’Appello, ha affermato che al fine di garantire la trasparenza della procedura di licenziamento collettivo, i criteri designati per l’individuazione dei lavoratori da licenziare devono essere oggettivi e non possono essere applicati arbitrariamente. In altre parole, si è ribadito che i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità devono essere, tutti ed integralmente, basati su elementi oggettivi e verificabili.
Il criterio elaborato nella fattispecie è stato ritenuto “non oggettivamente verificabile e controllabile”
pertanto, sulla base di tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società, affermando l’illegittimità del licenziamento contestato e condannando la ricorrente alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre che al risarcimento del danno in misura pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con accessori e spese.


Infarto per il troppo lavoro richiesto in azienda: onere della prova

Cass., sez. Lavoro, 28 novembre 2022, n. 34968

Stefano Guglielmi, Consulente del lavoro in Milano

lavoratore ha agito presso il Tribunale di Roma nei confronti del Ministero della Giustizia esponendo di avere lavorato dapprima presso l’Amministrazione penitenziaria e poi, dal 1981, presso l’Ufficio automezzi di Stato della Direzione Affari Civili, ove il personale era carente, al punto che i ritmi di lavoro cui egli era stato sottoposto risultavano insostenibili, mancando qualsiasi pianificazione e distribuzione dei carichi e dovendosi svolgere, in ambiente disagiato, mansioni inferiori e superiori ed al punto che, a partire dall’anno 2002 aveva maturato sintomi depressivi finendo per essere ritrasferito nel novembre 2000, in esito ad un accentuato malore, all’Amministrazione penitenziaria, patendo poi un infarto nel gennaio del 2001 (questo quanto si legge testualmente dalla sentenza).
Il lavoratore aveva quindi agito nei confronti del Ministero per il risarcimento del danno biologico subito per violazione dell’art. 2087 c.c. e delle pertinenti norme del D.lgs. n. 626 del 1994, oltre ai danni alla professionalità, insistendo in subordine per il riconoscimento dell’ascrivibilità della patologia cardio-vascolare a causa di servizio con accertamento del diritto al pagamento del c.d. equo indennizzo.
Il Tribunale ha riconosciuto solo il diritto all’equo indennizzo, mentre ha rigettato la domanda risarcitoria, con pronuncia poi confermata dalla Corte d’Appello di Roma. Si concludeva per l’assenza di prova delle violazioni che il lavoratore assumeva essere imputabili al Ministero, essendovi necessità di dimostrazioni dell’elemento soggettivo della colpa, non potendosi ipotizzare una responsabilità oggettiva e dovendosi considerare come il nesso etiologico proprio del riconoscimento del c.d. equo indennizzo si basasse su presupposti differenti rispetto a quelli propri del risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., i quali presuppongono anche la dimostrazione dell’elemento soggettivo, rispetto al quale il ricorrente non aveva fornito elementi probatori sufficienti.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione.
È indubbio che l’azione dispiegata dal ricorrente si riporti ad una fattispecie di responsabilità contrattuale, con essa essendosi inteso denunciare l’inadempimento datoriale rispetto all’assicurazione di condizioni di lavoro idonee a preservare la salute degli addetti, il richiamo della Corte territoriale all’art. 2043 c.c. è in sé errato (v., per i criteri distintivi nella presente materia, Cass., S.U. 8 luglio 2008, n. 18623).
Il lavoratore che agisca ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha l’onere di provare l’esistenza del danno subito, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro.
Nel caso di specie riguardante il verificarsi di un c.d. “superlavoro” ed in cui la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione, lo svolgimento di un lavoro che non sia in sé vietato dalla legge rende fisiologico – e quindi non imputabile a responsabilità datoriale – un certo grado di usura o pregiudizio, variabile sotto il profilo fisio-psichico a seconda del tipo di attività (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028).
In tema di demansionamento, che appunto consiste in un’attribuzione di mansioni inadeguate rispetto a quelle contrattualmente dovute, si è consolidato l’indirizzo, mutuato dall’originario e generale impianto di Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533, per cui il lavoratore “allorquando da parte di un lavoratore
sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro… è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 c.c., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766, e più di recente Cass. 20 aprile 2018, n. 9901; Cass. 18 gennaio 2018, n. 1169; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211). È ben vero che, secondo Cass., S.U., n. 13533/2001, cit., un tale assetto probatorio vale solo per le obbligazioni di “fare”, mentre rispetto a quelle di “non fare” l’onere di provare l’inadempimento grava sul creditore.
In realtà l’obbligazione di sicurezza si materializza in un intreccio indissolubile di fattori “di fare” e di “non fare”, ma essa va colta nella sua unitarietà come dovere di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di pregiudizio per il lavoratore e quindi come obbligazione di fare consistente nell’obbligo di attribuire, pretendere e ricevere dal lavoratore una qualità e quantità di prestazione che sia coerente “con la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica”, in modo che non derivi pregiudizio alla  integrità fisica” ed alla “personalità morale del lavoratore” (così, esplicitamente, proprio l’art. 2087 c.c.).
Il nesso eziologico tra l’infarto e l’attività lavorativa in concreto svolta è poi pacifico ed attestato dal riconoscimento ormai incontestato dell’equo indennizzo per causa di servizio. Può anche definirsi il seguente principio: “in tema di azione per risarcimento, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per danni cagionati dalla richiesta o accettazione di un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità,
il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive ed a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno, mentre spetta al datore di lavoro, stante il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrare che viceversa la prestazione si è svolta, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali,
congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore”.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.


Se formalmente il rapporto di lavoro era individuato come autonomo, la prescrizione dei crediti del lavoratore successivamente indicato come subordinato non decorre

Cass., sez. Lavoro, 13 ottobre 2022, n. 29981

Elena Pellegatta, Consulente del lavoro in Milano

La vicenda prende avvio con il ricorso degli eredi del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, azienda edile, per ottenere il riconoscimento della sussistenza, fra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato in luogo dell’assenza di formalizzazione dello stesso dal 2 gennaio 2000 al 30 settembre 2002 e della configurazione quale contratto di collaborazione professionale per il periodo successivo
all’1 dicembre 2012, con le connesse differenze retributive. Il giudice di secondo grado, riesaminando i risultati della attività istruttoria esperita in primo grado, ha ritenuto di non condividere l’iter motivazionale del primo giudice e, pertanto, ha reputato configurabile un rapporto di lavoro subordinato fra le parti sin dall’inizio del rapporto, con le conseguenze economiche connesse a tale statuizione.
La vicenda viene portata davanti agli Ermellini, che confermano la corretta valutazione del giudice di secondo grado, ritenendo non ammissibili i tre motivi del ricorso.
Il primo motivo, ossia l’errata configurazione del rapporto come subordinato invece che autonomo, non è ammissibile. Le risultanze testimoniali, pacificamente acclarate in appello, indicavano chiaramente come il lavoratore fosse sottoposto alle direttive dei dirigenti della azienda non solo quanto al luogo ma anche quanto alle modalità e direzione del taglio dello sbanco ed ha concluso per lo stabile inserimento nell’organico aziendale del lavoratore alla luce della circostanza che dettava disposizioni agli operai, che a lui gli stessi si rivolgevano quanto a richieste inerenti ferie e malattie; inoltre gli indici riscontrati deponevano per l’assenza di rischio e per la messa a disposizione da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative in relazione delle quali veniva corrisposta la retribuzione, in luogo del risultato conseguito.
Ha osservato, pertanto, il giudice di secondo grado, che soltanto nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, allo scopo della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel particolare contesto, significativo, occorre far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore, desunto anche dalla eventuale concomitanza di altri rapporti di lavoro. In mancanza delle suddette autonomie organizzative, viene confermato il rapporto di lavoro subordinato.
Anche il secondo motivo di impugnazione, ossia la prescrizione dei crediti da lavoro dipendente, è giudicato infondato.
La Corte ha affermato, con riguardo a tale domanda, che il rapporto di lavoro tra il lavoratore e la società non era assistito da stabilità  reale, in quanto senza formalizzazione nel periodo dal 2.1.2000 al 30.9.2002 ed in forza di contratto di lavoro autonomo dall’1.10.2002 al 26.9.2009.
La Suprema Corte ha affermato che la prescrizione dei crediti del lavoratore non decorre in costanza di un rapporto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia stata successivamente riconosciuta la natura subordinata con garanzia di stabilità reale in relazione alle caratteristiche del datore di lavoro.
Come emerge da quanto oggetto del presente giudizio, il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, negata dalla parte ricorrente fino al giudizio di legittimità, è stata proprio oggetto della vicenda sub judice, e contrasterebbe con la richiamata giurisprudenza di legittimità la previsione della possibilità di far decorrere la prescrizione in costanza di un rapporto privo di qualificazione professionale per il primo periodo ed in prosieguo configurato in termini di lavoro autonomo, con una conseguente inammissibile compressione dei diritti retributivi del prestatore.
Il terzo motivo di impugnazione, indicato come la violazione del contratto collettivo nazionale lapidei in ordine all’errata determinazione dei conteggi relativi alla tredicesima mensilità ed al trattamento di fine rapporto, è altresì inammissibile. Su tale assunto infatti il datore di lavoro non ha portato alcuna prova che potesse dimostrare il contrario al giudice di secondo grado; e l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione qualunque sia il tipo di errore (“in procedendo” o “in iudicando”) per cui è proposto, non può essere assolto “per relationem” con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata.


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, perdita dell’appalto: nullità e tutele reintegratorie

Cass., sez. Lavoro, 13 ottobre 2022, n. 30167

Andrea di Nino, Consulente del lavoro in Milano

Con la sentenza n. 30167 del 13 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso  presentato da un datore di lavoro a seguito del riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inflitto ad un lavoratore.
La Corte distrettuale, inoltre, aveva rilevato che al lavoratore fosse stata assegnata una mansione riconducibile ad un livello di inquadramento inferiore rispetto alla propria qualifica, in violazione dell’art. 2103 del Codice civile.
In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore che, da capoturno di pattuglie di guardie giurate, veniva licenziato a seguito della perdita di un appalto.
I motivi su cui si è basata la decisione della Suprema Corte si rinvengono nella “manifesta insussistenza” del fatto che ha originato il licenziamento, il quale – a seguito dell’istruttoria svolta nei diversi gradi di giudizio – non è risultato legato da un nesso causale alla soppressione del posto di lavoro cui il lavoratore è stato assegnato in forza di un atto nullo. A fronte di ciò, ha trovato applicazione la tutela
reintegratoria, come previsto dal comma 7 dell’art. 18 della Legge n. 300/1970 e l’azienda è stata condannata, inoltre, al pagamento delle spese della lite.
Il datore di lavoro ha presentato ricorso articolato per sei motivazioni, le quali hanno riguardato  principalmente la “manifesta insussistenza” del fatto e l’eccessiva onerosità della reintegrazione, prevista dal menzionato articolo 18.
In particolare, l’azienda ha denunciato la violazione, da parte della Corte distrettuale, del principio di diritto espresso dalla Cassazione in sede di annullamento con riguardo alla ricostruzione ermeneutica del concetto di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento (ai sensi dell’art. 18, comma 7 della Legge n. 300 del 1970), la quale sarebbe stata effettuata “senza l’indagine sia sulla “evidente e facilmente verificabile” carenza del nesso di causalità tra assegnazione (nulla) alla postazione e successiva soppressione del posto sia sulla eccessiva onerosità della reintegrazione”.
La ricorrente, inoltre, ha dedotto omesso esame di un fatto decisivo discusso tra le parti, avendo la Corte distrettuale trascurato – ai fini della valutazione della “eccessiva onerosità della reintegrazione” – che presso la centrale operativa cui il lavoratore era addetto non vi erano posizioni di capoturno disponibili
e che in base alla declaratoria del 3° livello di cui al Ccnl Vigilanza non potevano essere più assegnate mansioni di capoturno.
Tanto rappresentato dall’azienda ricorrente, la Suprema Corte ha comunque ritenuto infondati i diversi motivi di ricorso. In particolare, questa ha illustrato come l’art. 18, comma 7, della Legge n. 300/1970 – che regola l’apparato sanzionatorio da applicare in caso di accertamento della illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – sia stato “inciso da due recenti sentenze della Corte costituzionale, successive alla pronuncia rescindente, proprio con riguardo ai requisiti per l’applicazione
della tutela reintegratoria”.
In particolare, la Corte costituzionale, con la  sentenza n. 59 del 1° aprile 2019, ha dichiarato l’illegittimità del comma 7 dell’art. 18 della Legge n. 300/1970, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma; la sentenza n. 125 del 2022, altresì, ha dichiarato l’illegittimità del medesimo comma ove si prevede l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, limitatamente al termine “manifesta”.
In virtù di quanto espresso dalla Corte costituzionale, la Cassazione ha evidenziato che laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, debba essere sentenziato l’annullamento del licenziamento e ordinata la reintegrazione del lavoratore,
“senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica”. Pertanto, l’apprezzamento
della sussistenza dei vizi denunciati con il ricorso dev’essere fatto con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità.
Sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato che la valutazione della fondatezza o meno del ricorso per cassazione deve farsi con riferimento “alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi, atteso che gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo”.
Posto che i primi cinque motivi di ricorso vertono tutti sulla ricorrenza di due requisiti attinenti al regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non sono più vigenti, i suddetti motivi sono stati rigettati.
La Corte distrettuale ha, inoltre, rilevato che l’accertamento circa la illiceità del fatto posto a fondamento con il recesso era da ritenersi definitivo, in quanto deve ritenersi totalmente insussistente il fatto materiale che ha determinato il licenziamento dipendente, posto come non vi sia stata una lecita adibizione dello stesso all’appalto, non potendo perciò un fatto illecito essere posto a fondamento,
in un vincolo di causalità, con il recesso per giustificato motivo oggettivo.
In altre parole, il fatto “perdita dell’appalto” – a dire della Suprema Corte – non può giustificare il licenziamento del lavoratore che non poteva esservi assegnato. Da questo è conseguita la piena integrazione dell’unico requisito richiesto dall’art. 18, comma 7, della Legge n. 300/1970 (nel testo a seguito dei due interventi della Corte costituzionale) per l’applicazione della tutela reintegratoria.
Il datore di lavoro è stato dunque condannato a pagare a favore del lavoratore indennità e contributi dovuti per il periodo intercorso tra la risoluzione del rapporto e la reintegrazione effettiva, fino a un massimo di dodici mensilità.

 

 

 


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Sentenze

Inammissibilità del ricorso in Cassazione per violazione del principio di specificità dei motivi

Cass., sez. Lavoro, Ord. 7 settembre 2022, n. 26399

Patrizia Masi, Consulente del Lavoro in Milano

Premesso che la società L.P.M. Srl cede un ramo di azienda alla società  L.P.G.M. LTD di cui fa parte la lavoratrice M.M., davanti al Tribunale di Bologna la stessa ricorre contro le due società per i seguenti motivi:
• far dichiarare nulla e/o inopponibile la clausola che la estromette dalla cessione facendola rimanere in capo alla cedente;
• far dichiarare nullo il licenziamento disposto dalla cedente determinato da motivi discriminatori e ritorsivi.
In prima istanza e successivamente in Appello viene respinto il ricorso della lavoratrice; le motivazioni sono legate all’assenza della prova di un intento ritorsivo che reggesse il licenziamento impugnato in quanto gli elementi allegati non consentono di ritenere comprovata, anche presuntivamente, la rimarcata ritorsività e/o discriminatorietà.
Ricorre in Cassazione la lavoratrice, basando la sua impugnazione su sei motivi di cui cinque (1°, 2°, 3°, 4° e 6°) sono stati dichiarati inammissibili.
Secondo gli Ermellini, è inammissibile un ricorso che non consenta – come nella specie – di individuare in che modo e come le numerose norme invocate sarebbero state violate nella sentenza impugnata.
Il rispetto del principio di specificità dei motivi, del ricorso per cassazione,  deve comportare infatti l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito, in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della  impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura.
Dichiara invece fondato il quinto motivo con il quale si denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c., in quanto sorretta da motivazione apparente e perplessa, e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., dal momento che la Corte d’Appello non si sarebbe pronunciata sulla domanda della ricorrente avente ad oggetto la declaratoria di nullità della clausola contrattuale che aveva estromesso la lavoratrice dalla cessione. Pertanto, la Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, respinge tutti gli altri e rinvia alla Corte di Appello di Bologna, che si uniformerà a quanto statuito pronunciando sulla questione della nullità e/o inopponibilità alla  ricorrente della clausola del contratto su menzionato.


Nullità delle dimissioni a firma del lavoratore e inefficacia del licenziamento orale intimato

Cass., Sez. Penale, 7 ottobre 2022, n. 29329

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato la nullità delle dimissioni a firma del lavoratore datate 08/11/2007 e l’inefficacia del licenziamento orale intimato dalla società il 12/11/2007, e condannato detta Società a risarcire il lavoratore del danno conseguente al recesso, oltre accessori, ed alla rifusione delle spese dell’intero giudizio e della CTU svolta in primo grado.
Il lavoratore aveva convenuto in giudizio la società innanzi al Tribunale di Rimini per sentir accertare l’inefficacia del licenziamento orale intimatogli mediante l’utilizzazione, in data 8/11/2007, di un atto di dimissioni sottoscritto al momento dell’assunzione e con data in bianco.
Il Tribunale, con sentenza parziale, aveva dichiarato l’inefficacia del recesso  con condanna della società al ripristino del rapporto ed al risarcimento del danno.
La Corte d’Appello di Bologna, in accoglimento del gravame della società,  aveva, invece, respinto l’azionata domanda, ritenendo che il lavoratore non avesse adempiuto alla prova relativa alle deduzioni circa la sottoscrizione in bianco delle dimissioni all’atto dell’assunzione e che le modalità di trasmissione previste dalla contrattazione collettiva non fossero prescritte a pena di nullità.
La Corte enunciava così il seguente principio di diritto: l’atto di dimissioni, dichiarazione di volontà unilaterale e recettizia con cui il lavoratore recede dal  contratto di lavoro, è soggetto al principio della libertà di forma, a meno che le parti non abbiano espressamente previsto nel contratto, collettivo o individuale, una diversa forma convenzionale, quale la forma scritta; in tal caso, la forma convenzionale si presume voluta per la validità delle dimissioni, ex art. 1352 c.c., applicabile anche agli atti unilaterali, e si estende alle modalità di comunicazione di tale volontà, quando per essa le parti abbiano previsto un mezzo particolare al fine di evitare, nell’ interesse del lavoratore, manifestazioni di volontà non adeguatamente ponderate. Conseguentemente la sentenza della Corte d’Appello di Bologna inter partes veniva cassata con  invio alla Corte d’Appello di Firenze, la quale statuiva nei termini di cui sopra, procedendo a rivalutare il merito alla luce del ridetto principio di diritto.
Avverso tale sentenza la Società propone ricorso per cassazione, cui resiste con controricorso il lavoratore. La questione della prova della firma di dimissioni “in bianco” in epoca antecedente la data di risoluzione del rapporto è, nel caso di specie, irrilevante, perché nella sentenza rescindente si è chiarito che, nella specifica materia, il contratto collettivo prevede una determinata forma delle dimissioni del lavoratore ad substantiam,con conseguente nullità della lettera di dimissioni in atti nel caso concreto, pacificamente non rispondente ai requisiti di cui alla contrattazione collettiva (come chiarito nella sentenza rescindente e ribadito nella sentenza qui impugnata).
Si respinge il ricorso e si condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio.


Illegittimo il licenziamento in caso di mancata affissione del regolamento aziendale 
 
Cass., Ord. , sez. Lavoro,11 agosto 2022, n. 24722

Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con l’ordinanza n. 24722 dell’11 agosto 2022, la Suprema Corte di Cassazione
ha rigettato il ricorso contro una sentenza della Corte d’Appello di Roma che ha dichiarato inefficace il licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore senza la previa affissione del codice disciplinare.
I fatti contestati riguardano il licenziamento di un lavoratore, il quale aveva  lavorato alle dipendenze di un datore di lavoro sin dal 1993. Dal 2010, il dipendente era stato addetto in via esclusiva all’infilaggio di tubi di rame all’interno dei diaframmi di plastica costituenti una struttura portante  denominata “castelletto”.
Negli anni dal 2011 al 2013, il lavoratore aveva ricevuto varie contestazioni disciplinari per scarso rendimento e provvedimenti disciplinari di sospensione dal servizio e dalla retribuzione. In data 7 novembre 2013, lo stesso era stato licenziato con preavviso a seguito di una contestazione disciplinare con cui gli si addebitava “una voluta lentezza nello svolgere la mansione affidata”, unitamente alla recidiva specifica.
Il tribunale, sia in fase sommaria che nella successiva fase di opposizione, aveva rigettato la domanda, avendo accertato rendimenti del lavoratore (invalido civile al 50% ma giudicato idoneo alla mansione assegnatagli) pari o inferiori al 50% rispetto alla media produttiva del reparto dove questi era assegnato.
I giudici di appello, pertanto, hanno rilevato come “la contestazione  disciplinare avesse ad oggetto la violazione, non di doveri fondamentali del  lavoratore o del c.d. minimo etico”, che devono presumersi conosciuti da tutti, “bensì di una specifica regola tecnica di produttività”, legata ad un determinato standard medio fissato dall’azienda in base alla propria organizzazione produttiva e alla media raggiunta dagli altri dipendenti con identiche mansioni. In ragione di tali caratteristiche, dunque, il datore di lavoro avrebbe dovuto preliminarmente informare i lavoratori della rilevanza disciplinare della violazione della citata regola di produttività, mediante affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti.
La società, in sua difesa, avendo ricevuto nei precedenti gradi di giudizio tale contestazione ai sensi dell’art. 7, comma 1, della Legge n. 300/1970, ovverosia di non aver affisso il regolamento aziendale, ha richiesto l’ammissione della prova testimoniale, a integrazione del contradittorio, ma in entrambi i giudizi non è stata accolta l’eccezione della parte convenuta. I giudici di ultima istanza, con l’ordinanza, hanno ritenuto legittimo il giudizio del giudice precedente e condannato la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Nullo il licenziamento se non è decorso il periodo di comporto

Cass., sez. Lavoro, 28 luglio 2022, n. 23674

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione ha ribadito che è nullo il licenziamento intimato nei confronti del lavoratore assente per motivi di salute e avvenuto nell’ultimo giorno del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva. Nel caso in esame la Cassazione, non concorde con quanto inizialmente  stabilito dalla Corte d’Appello, ha considerato tale licenziamento illegittimo in quanto irrogato l’ultimo giorno del comporto. Secondo tale sentenza, l’interpretazione dell’art. 2110, comma 2, c.c. non consente soluzioni diverse, trattandosi di norma imperativa volta a tutelare il diritto al lavoro ed alla salute. Infatti, per la sentenza, la salute non può essere protetta nel modo  adeguato se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore,  ammalatosi o infortunatisi, possa avvalersi delle opportune terapie senza
il timore di perdere il posto di lavoro.
Sulla base delle suddette motivazioni, la Suprema Corte ha quindi accolto il ricorso della lavoratrice dichiarando nullo il licenziamento.


Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: definizione dello “stato di bisogno”

Cass., sez. Penale, 20 settembre 2022, n. 34600

Angela Lavazza, Consulente del lavoro in Milano

 

Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Pavia, l’Amministratore di una società ricorre contro il sequestro preventivo e, in mancanza di capienza della società, alla confisca diretta della somma qualificata come profitto del reato di caporalato. Il procedimento aveva preso avvio inizialmente dalle presunte irregolarità (turbata libertà degli incanti e frode nelle pubbliche
amministrazioni) della gara di appalto deliberata dall’ASST di Pavia, la cui aggiudicazione aveva condotto all’assunzione di servizi di trasporto sanitario presso vari presidi ospedalieri, disseminati su tutto il territorio nazionale.
Nel proseguo delle indagini, vennero altresì raccolti elementi deponenti per l’attività di caporalato, nell’esecuzione dei servizi di trasporti sanitari, nei confronti del personale impiegato in detti servizi.
Il ricorrente, tra i motivi del ricorso, contesta, sotto il profilo della violazione della legge penale, il fumus del reato di caporalato (art.603-biscod. pen.) lamentando che il Tribunale del riesame aveva confuso l’elemento dell’indice di sfruttamento con l’altro distinto elemento, dell’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori sfruttati.
Il Collegio pavese, secondo il ricorrente, avrebbe omesso di considerare la nozione di “stato di bisogno”, non derubricabile a qualunque situazione di “bisogno di lavorare per vivere” ma, necessariamente connessa a condizioni di oggettiva indigena materiale, tale da rendere la vittima oggettivamente e particolarmente vulnerabile. Secondo l’interpretazione del ricorrente, la gravità delle sanzioni previste per il reato di caporalato dovrebbe rendere evidente la necessità di non estendere il perimetro della norma oltre la lettera e lo spirito della norma stessa.
La Suprema Corte però evidenzia come nell’ordinanza impugnata sono presenti numerose dichiarazioni di lavoratori dipendenti che depongono sia per una condizione di oggettivo sfruttamento, soprattutto sul piano dell’orario di lavoro a fronte del salario corrisposto e a quello previsto dal Ccnl, delle poche giornate libere e dell’assenza di retribuzione per lavoro straordinario oltre a marcati scostamenti rispetto alle condizioni pattuite, sia per la sussistenza di condizioni di oggettivo bisogno dei lavoratori.
La Suprema Corte configura il fumus commissi delicti,la probabilità di effettività del reato e pertanto conferma quanto disposto nell’istanza impugnata ai fini cautelari.
Conferma inoltre che, ai fini dell’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea,
tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni di lavoro particolarmente svantaggiose. Il ricorso è rigettato.


In caso di infortunio è compito del datore di lavoro vigilare per evitare che si instaurino prassi contra legem

Cass., sez. Lavoro,21 settembre 2022, n. 34968

Elena Pellegatta, Consulente del lavoro in Milano

È comunque condannabile il datore di lavoro che, nell’infortunio del proprio dipendente, non si è adoperato a prevenire prassi contra legem, causa dell’infortunio, pur essendone a conoscenza.
A tale assunto arrivano gli Ermellini della suprema corte di Aosta nel valutare l’evento occorso al dipendente della ditta s.n.c. che si sarebbe procurato le lesioni, dalle quali conseguiva una malattia di durata stimata in 133 giorni, cadendo da una scala ove era salito per prelevare un profilato in PVC lungo 650 cm. e del peso di circa 9,5 kg. L’addebito mosso al datore di lavoro é di avere agito con negligenza, imprudenza, imperizia nonché con violazione dell’art. 37 del D.lgs. n. 81/2008, non avendo fornito al dipendente  un’adeguata informazione sull’utilizzo corretto della scala. Il Tribunale aostano di appello aveva escluso, in realtà, che potessero imputarsi al datore di lavoro condotte omissive in punto di informazione sull’impiego della scala in quanto il lavoratore era caduto dalla scala nell’espletamento di mansioni esulanti dai suoi compiti e si era posizionato in modo scorretto sulla scala su indicazioni di altro soggetto.
Nel giudizio d’appello, instauratosi a seguito di impugnazione del Procuratore generale territoriale, si affermava la penale responsabilità dell’azienda datrice di lavoro, valorizzando il fatto che per il lavoratore salire sulla scala era una consuetudine, pur al di fuori delle sue mansioni; e che tale consuetudine era certamente conosciuta dal datore di lavoro che non aveva mai interdetto al lavoratore l’uso della scala.
Contro la sentenza impugna il datore di lavoro adducendo tre motivi in valutazione ai giudici. Con il primo motivo, la ricorrente ditta denuncia il fatto che al dipendente era occorso un precedente infortunio in occasione di attività sportiva, praticato in passato, con conseguenze lesive sullo stesso ginocchio del lavoratore, che aveva comportato un prolungamento dello stato di malattia. Tale motivo viene giudicato infondato, in quanto già trattato dalla
Corte di merito, con argomentare logico e coerente, e la presunta influenza aggravante sul ginocchio leso viene definita come puramente congetturale e non dimostrata.
Con il secondo motivo la deducente lamenta vizio di motivazione con riguardo all’assunto secondo il quale la stessa avrebbe mostrato disinteresse verso le procedure operative seguite dai suoi dipendenti. Anche questo motivo viene considerato infondato, in quanto in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve vigilare per impedire l’instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori e che il formarsi di tali prassi, conosciute o conoscibili da parte dello stesso datore di lavoro, determina la responsabilità dello stesso per gli incidenti eventualmente occorsi ai lavoratori in dipendenza di esse.
Con in terzo motivo, nuovo, la ricorrente lamenta violazione di legge per la  mancata concessione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, deducendo che vi erano tutte le condizioni per il riconoscimento  dell’istituto. Anche questo motivo è inammissibile, proprio in quanto nuovo. Infatti i motivi dell’impugnazione davanti agli Ermellini devono consistere nei capi o nei punti della decisione impugnata già investiti dall’atto di impugnazione originario, ed il requisito della novità deve essere attinente ai motivi (vale a dire alle ragioni che illustrano ed argomentano il gravame, in relazione ai singoli capi o punti della sentenza impugnata, già censurati nel ricorso) e non deve servire ad introdurre nuovi capi o punti di impugnazione,
in spregio al termine temporale previsto per la presentazione del ricorso.
Pertanto, viene confermata la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’ammenda e delle spese processuali.

 


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Sentenze

Reintegra della lavoratrice che viola la prassi dell’azienda per colpa del superiore gerarchico

Cass., sez. Lavoro, 26 ottobre 2018, n. 27238

Patrizia Masi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Ancona, al termine del dibattimento, dichiarava illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente di Poste Italiane Spa, dichiarando comunque risolto il rapporto di lavoro e condannando il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Il licenziamento verteva su quattro episodi oggetto di contestazione disciplinare. La dipendente ricorreva alla Suprema Corte con ricorso  affidato a tre motivi, cui resisteva con controricorso e ricorso incidentale il datore di lavoro.

  1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e 80 del Ccnl per difetto di una giusta causa di recesso, anche in relazione all’art. 54, co. 6, lett. a) del Ccnl, nonché per travisamento, omessa e carente valutazione di elementi probatori decisivi;
  2. mancato accoglimento dell’eccezione di tardività della contestazione e del licenziamento, anche in relazione al principio di immutabilità della contestazione, nonché per violazione dell’art. 2697 c.c.;
  3. violazione e falsa applicazione dell’art. 7, L. n. 300 del 1970, dell’art. 53, co. 4, Ccnl, dell’art. 18, co. 4, L. n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012; nonché per carenza assoluta di proporzionalità della sanzione, ritenendo erroneo ricondurre la fattispecie  concretamente accertata alla previsione di cui all’art. 54, co. 6, lett. a) del Ccnl, anziché sussumere la stessa tra le condotte punibili con sanzione conservativa, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria.

La Corte annulla la sentenza con rinvio alla medesima Corte d’Appello in diversa composizione, giudicando come sproporzionato il licenziamento per giusta causa inflitto alla lavoratrice, rea di aver violato le procedure aziendali ma senza dolo, in quanto era stato il superiore gerarchico ad imporle il comportamento illecito che la stessa non era in grado di percepire come illegittimo. Il Ccnl applicato dall’azienda punisce con una sanzione conservativa la violazione delle procedure aziendali in mancanza di dolo, prevedendo invece la sanzione espulsiva solo se il dipendente è consapevole della gravità della condotta posta in essere e fornisce, mediante un tacito consenso, un contributo alla sua realizzazione. La Suprema Corte accoglie, dunque, il ricorso in quanto la Corte d’Appello ha escluso che il comportamento della stessa potesse rientrare nelle condotte punibili con la mera sanzione conservativa; cassa, come detto, quindi la sentenza rinviandola a nuova valutazione ai fini della reintegra nonché della regolamentazione delle spese del giudizio.


Indennità di cessazione del rapporto di agenzia: nel calcolo non rientrano le provvigioni prodotte dalla rete di agenti

Cass., sez. Lavoro, 15 ottobre 2018, n. 25740

Stefano Guglielmi, Consulente del lavoro in Milano

In occasione della cessazione di un rapporto di agenzia l’art. 1751 c.c. riconosce all’agente un’indennità che va determinata soltanto se e in quanto egli abbia procurato nuovi clienti al soggetto preponente o con clienti già in essere abbia incrementato i volumi di fatturato in primis. Inoltre è necessario che, terminato il rapporto di agenzia, il soggetto preponente continui a trarre beneficio da  questo pacchetto di clientela con un vantaggio economico che si protragga nel tempo.

I due elementi di cui sopra devono sussistere congiuntamente e non alternativamente.

Nella sentenza in commento l’agente ha calcolato la propria indennità di cessazione del rapporto di agenzia inserendo nel monte provvigioni anche quelle generate dalla rete di agenti di cui era coordinatore. L’indennità sulle provvigioni, stante i principi sopra enunciati, generate da ogni singolo agente verranno pagate direttamente a quest’ultimo; da escludersi un doppio pagamento in capo al preponente, che la legge non prevede.

La Corte di Cassazione respinge il ricorso dell’agente affermando che le provvigioni maturate dalla rete di vendita coordinata da un agente non concorrono nella determinazione dell’indennità di scioglimento del contratto.

Queste provvigioni infatti non sono corrisposte per affari personalmente procurati dall’agente ma da altri soggetti che a lui fanno capo.


Un singolo componente delle R.S.U. può indire un’assemblea sul posto di lavoro?

Cass., sez. Lavoro, 18 ottobre 2018, n. 26210

Angela Lavazza, Consulente del lavoro in Milano

La Federazione Lavoratori Metalmeccanici Uniti CUB di Roma e provincia ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza con la quale la Corte di Appello di Roma accoglieva l’opposizione di una società, dichiarando insussistente il denunciato comportamento antisindacale.

L’impugnata sentenza si riferisce al fatto che la società  aveva rifiutato il permesso di assemblea perché indetta soltanto da un singolo componente R.S.U..Il ricorso per cassazione della Federazione si fonda principalmente sulla violazione e falsa applicazione degli accordi collettivi nazionali di lavoro, degli artt. 2, 3, 39 e 11 della Costituzione, degli artt. 112 e 113 c.p.c., degli artt. 19 e 20 della L. n. 300 del 1970 e dell’Accordo Interconfederale 20 dicembre 1993, art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c..

La Suprema Corte accoglie il ricorso, in base al principio secondo cui l’autonomia collettiva può prevedere organismi di rappresentatività sindacale in azienda diversi rispetto alle rappresentanze sindacali aziendali, assegnando ad essi prerogative sindacali non necessariamente identiche a quelle delle R.S.A., con l’unico limite, di cui all’art. 17 della L. n. 300 del 1970, del divieto di riconoscere ad un sindacato un’ingiustificata posizione differenziata, che lo collochi quale interlocutore privilegiato del datore di lavoro. Ne consegue che il combinato di sposto degli artt. 4 e 5 dell’Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993 (istitutivo delle R.S.U.), deve essere interpretato nel senso che il diritto d’indire assemblee, di cui all’art. 20 della L. n. 300/1970, rientra quale specifica agibilità sindacale, tra le prerogative attribuite non solo alla R.S.U., considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della R.S.U. stessa, purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, sia di fatto dotato di rappresentatività, ai sensi dell’art. 19 della L. n. 300/1970.

E, prosegue la Suprema Corte, cio’ vuole dire che, nell’ottica delle eccezioni stabilite dall’Accordo Interconfederale, una data associazione sindacale, malgrado la sua presenza all’interno della R.S.U., può anche singolarmente indire l’assemblea, ovvero che non tutti i diritti attribuiti dalla legge alla singola R.S.A. sono stati attratti e si sono disgregati all’interno delle R.S.U. L’impugnata sentenza è cassata e rinviata alla Corte di merito per un nuovo esame della controversia, che dovrà accertare, sulla singola rappresentanza, il requisito della partecipazione alla negoziazione, relativa agli accordi collettivi applicati nell’unità produttiva di riferimento, ai sensi dei principi di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del 2013.



Il preavviso di licenziamento ha efficacia obbligatoria, ma la contrattazione collettiva può derogare

Cass., sez. Lavoro, 26 ottobre 2018, n. 27294

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

ll preavviso di licenziamento ha efficacia obbligatoria: è quanto ribadito dalla Corte di Cassazione che conferma l’indirizzo ormai assunto dalla giurisprudenza a riguardo.

L’unico obbligo del recedente consiste – riporta la sentenza della Suprema Corte – nel corrispondere l’indennità sostitutiva in caso di recesso immediato, in virtù dell’istantanea risoluzione del rapporto di lavoro in tutti i suoi effetti. L’importanza della pronuncia rileva ai fini della divergenza di indirizzi circa l’efficacia – quando intesa come reale, quando come obbligatoria – del preavviso di licenziamento. Nella prima fattispecie, è contemplata l’impossibilità di recesso immediato del rapporto di lavoro, anche in caso di liquidazione dell’indennità sostitutiva del preavviso: ne deriva che lo stesso continua – anche in assenza di prestazione lavorativa – a dispiegarsi in tutti i suoi effetti fino all’ultimo giorno di preavviso dovuto.

Da tale impostazione scaturisce il rischio che il lavoratore adotti comportamenti ostruzionistici, quali la malattia simulata in costanza di preavviso al fine di sospenderne gli effetti e mantenere il posto di lavoro nel corso del periodo di comporto. Nella seconda fattispecie, invece, l’interpretazione del preavviso di licenziamento assume forma obbligatoria: il recesso ha carattere immediato, il lavoratore vede cessare da subito il suo rapporto di dipendenza senza lavorare nel periodo di preavviso e il contratto di lavoro – nella sua natura sinallagmatica e obbligatoria – viene istantaneamente meno.

Appare chiaro come l’interpretazione di efficacia obbligatoria del preavviso di licenziamento risulti più tutelante nei confronti del datore di lavoro, che vede risolto immediatamente e in ogni suo effetto il rapporto di lavoro in virtù dell’erogazione dell’indennità sostitutiva del preavviso. Questa lettura ha assunto, negli anni, maggiore solidità e viene ribadita dalla Cassazione anche in questa occasione, che esprime come l’art. 2118 c.c. attribuisca al preavviso di licenziamento “efficacia meramente obbligatoria, con la conseguenza che nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato il rapporto di lavoro si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’ indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti”, ovviamente a meno che il rapporto di lavoro non si protragga fino al termine del periodo di preavviso.

Al fine di una lettura più organica e critica della pronuncia, rileva anche il riferimento ad un’altra sentenza dei giudici della Corte – la n. 17248 del 27 agosto 2015 – che vede l’indennità sostitutiva del preavviso considerata come elemento non rientrante nella base di computo ai fini della determinazione del Tfr, in quanto non correlata al rapporto di lavoro ma avente natura meramente indennitaria, riferendosi ad un periodo non lavorato. Nella sua ultima sentenza, la Corte di Cassazione fornisce in chiusura un altro rilevante indirizzo: all’efficacia obbligatoria del preavviso può derogare la contrattazione collettiva, che a riguardo ha libertà di disporre che nel corso del periodo di preavviso le disposizioni di natura economica e normativa e le norme previdenziali e assistenziali previste dalla legge e dai contratti continuino a trovare applicazione, attribuendo dunque a tale istituto efficacia reale.


Corresponsione per errore di emolumenti al lavoratore: a chi spetta dimostrare l’indebito?

Cass., sez. Lavoro, 13 settembre 2018, n. 22387

Sabrina Pagani, Consulente del lavoro in Milano

In caso di pagamento al lavoratore dipendente di emolumenti indebiti, ai fini della loro ripetibilità, spetta al datore di lavoro provare che il pagamento è stato effettuato per errore, e non al lavoratore provare l’effettiva permanenza del titolo retributivo anche dopo la cessazione della causa debendi.

Così con la sentenza 13 settembre 2018, n. 22387 la Suprema Corte ha cassato una pronuncia della Corte d’Appello di Torino, che avevai)rigettato la richiesta del lavoratore di computo ai fini del TFR e della pensione integrativa aziendale di un “contributo mensile per spese viaggio” che l’azienda aveva continuato a corrispondergli per quattro anni anche dopo la cessazione del distacco che ne aveva originato l’erogazione e ii) aveva accolto la domanda riconvenzionale dell’azienda di restituzione da parte del lavoratore dei pagamenti in questione, divenuti oggettivamente indebiti exart. 2033 c.c. proprio a motivo della cessazione del distacco.

Nello sviluppo del giudizio si confrontano due posizioni ben distinte sullo specifico tema della ripetibilità di emolumenti erogati per errore da parte del datore di lavoro.

La posizione dell’azienda poggia su una interpretazione “purista” dell’art. 2033 c.c.: al datore di lavoro in quanto solvens compete determinare la causa di ciascun pagamento sicché in una sua eventuale successiva azione di ripetizione egli dovrà solo dimostrare l’inesistenza di quella causa, mentre incomberà al lavoratore, in quanto accipiens, la dimostrazione di un nuovo titolo per la sua attribuzione.

Dall’altra quella del lavoratore, che denuncia la violazione e falsa applicazione proprio dell’art. 2033 c.c., nonché degli artt. 2099, 2697 c.c., e degli artt. 49 e 51 TUIR, per aver la Corte territoriale di Torino ritenuto automaticamente indebite le somme percepite quale “contributo mensile per spese viaggio” dopo la cessazione del titolo (il distacco) originariamente stabilito dal datore; e dell’art. 112 c.p.c., per avere detta Corte d’Appello ritenuto che egli fosse tenuto ad allegare e provare una fonte di debito alternativa che giustificasse l’erogazione delle somme, una volta esclusa la sussistenza del titolo cui il solvens aveva imputato il pagamento.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del lavoratore, ritenendo che la natura retributiva di un reiterato e costante pagamento che si verifichi nell’ambito di un rapporto di lavoro vada presunta, anche in relazione agli “affidamenti che in tal modo necessariamente si creano all’ interno del rapporto stesso”.

In presenza di erogazioni di cui assuma la natura indebita spetta, dunque, al datore di lavoro dimostrare l’insussistenza della natura retributiva, provando l’effettivo e concreto verificarsi di un errore del consenso ai sensi dell’art. 1427 e ss. c.c., oppure l’insussistenza o l’inidoneità giuridica dei fatti che il lavoratore adduca quale fondamento della propria persistente pretesa retributiva anche dopo il venir meno della causa originaria del pagamento.

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