CERTIFICAZIONE DELLA PARITÀ DI GENERE come strumento di fidelizzazione dei dipendenti

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

 

UNA PREMESSA

Fidelizzare è un termine che, a ben osservare, può assumere diverse valenze1, soprattutto se riferito ai dipendenti e ai rapporti di lavoro e all’intento di pervenire ad una stabilizzazione dell’organico aziendale.
In ambito lavoristico, storicamente, oltre agli interventi in campo retributivo, per fidelizzare si è ricorso a strumenti dalla natura puramente negoziale, scatenando la fantasia e l’ingegno di professionisti, datori e operatori che sono pervenuti a clausole “vecchia maniera” fortemente rappresentative della poliformità dell’autonomia privata, sempre volte a trattenere il lavoratore.
Tra queste, vi è ad esempio il patto di stabilità, o il patto di prolungamento del periodo di preavviso; senza potersi escludere, in termini di fidelizzazione, il patto di non concorrenza di cui all’art. 2125 c.c., spesso stipulato con un chiaro intento di scoraggiare l’abbandono del posto di lavoro e, in ogni caso, salvaguardarsi difensivamente dalle insidie della concorrenza.
D’altronde il diritto del lavoro, fondato sul contratto, “è anche […] strumento di gestione dell’impresa e di regolamentazione delle modalità di incontro tra capitale e lavoro”2 e non solo fondamentale tutela del lavoratore, pur dovendosi i suddetti strumenti contrattuali scontrarsi con i “vincoli posti dal Legislatore,
[…] limitazioni al pieno esplicarsi dell’iniziativa economica privata delle parti negoziali”3.
Non è corretto, tuttavia, trattare di fidelizzazione senza richiamare strumenti dalla diversa essenza, che autorevole dottrina già in passato definì di “natura promozionale” od offensiva (il contrario di difensiva)4. A tale bacino, in particolare, possono essere incluse alcune particolari tipologie di leve retributive (generalmente premiali) laddove sfocino nel godimento di welfare aziendale5, oppure quegli strumenti che mirino ad aumentare la partecipazione e il coinvolgimento del lavoratore, provando a renderlo orgoglioso della realtà di cui fa (e auspicabilmente si sente) parte6, se non anche quegli strumenti che permettono un work life balance.
Ad una attenta riflessione, risulta pressoché impossibile individuare esaustivamente tutti i possibili strumenti volti a fidelizzare il dipendente; potendosi immaginare un caleidoscopio di strategie ed escamotage orientati in tal senso, legati tanto alle singole dinamiche manageriali, quanto alle soggettive leve motivazionali. Certo è che, senza voler (e poter) affermare quale scelta sia la migliore, appare possibile invero identificare alcuni strumenti “di nuova concezione”, che potrebbero indirettamente incidere nella partecipazione del dipendente all’organizzazione, disincentivandone la fuga.
A questi, senza dubbio, può essere ascritta la “Certificazione della parità di genere” di cui all’art. 46-bis, comma 1, D.lgs. n. 198/2006, inserito dall’art. 4, L. n. 162/2021.

PERCHÉ LA CERTIFICAZIONE DELLA PARITÀ DI GENERE PUÒ ESSERE CONSIDERATA UNO STRUMENTO DI FIDELIZZAZIONE DEI DIPENDENTI

Per ottenere la certificazione della parità di genere, l’organizzazione “di qualsiasi dimensione e forma giuridica, operante nel settore pubblico o privato”7 deve seguire le regole ed indicazioni contenute nel documento di prassi UNI/ PdR 125:2022, posto che “I parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere alle imprese sono quelli di cui alla Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, pubblicata il 16 marzo 2022, contenente «Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici KPI (Key Performance Indicator – indicatori chiave di prestazione) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni» e successive modifiche o integrazioni”8.
In particolare, in presenza dei requisiti sufficienti, “Al rilascio della certificazione della parità di genere alle imprese […] provvedono gli organismi di valutazione della conformità accreditati in questo ambito ai sensi del regolamento (CE) n. 765/2008”9, tenuto conto che, così come sancito dalle “norme collaterali”, taluni comportamenti e inadempienze “impediscono al datore di lavoro il conseguimento delle stesse certificazioni”10.
Orbene, assodate le agevolazioni e i benefici sanciti dalla normativa11, è indubbio che l’azienda certificata possa ottenere dei giovamenti in termini reputazionali12, in ragione del suo essere equa, inclusiva e sensibile a problematiche sociali. Tali benefici, a ben osservare, possono incidere fortemente al cospetto di clienti e fornitori, ma anche nei confronti di una diversa tipologia di stakeholders: i dipendenti.
Teoricamente, infatti, il lavoratore potrebbe maturare quell’ “orgoglio di appartenere all’azienda” 13 virtuosa, tipico della strumentazione promozionale che vive sulla logica partecipativa.
E, non a caso, in dottrina si è chiarito come “le emozioni rappresentano una sorta di tessuto connettivo che lega gli scopi organizzativi alle persone e ai gruppi influenzandone le direzioni di scambio e le prestazioni finali” 14, creando in tutta evidenza fidelizzazione e stabilità.
D’altra parte, anche nell’ipotesi in cui la certificazione della parità di genere non fosse ritenuta,  di per sé stessa, una leva fidelizzante, risulta facile notare come, ai fini del suo conseguimento,  siano da rispettare e garantire alcuni particolari parametri e misure, già ascritti a suo tempo all’alveo degli strumenti di fidelizzazione da autorevole dottrina15.
Nel dettaglio, il documento UNI/PdR 125:2022 richiede che, per mano del c.d. Comitato Guida16, sia redatto un Piano Strategico (condiviso dalla direzione e mantenuto aggiornato nel tempo), il quale viene definito dal suddetto documento di prassi come quel “Documento formale nel quale l’organizzazione definisce gli obiettivi da perseguire, stabilisce risorse, responsabilità, metodi e frequenze di monitoraggio”, e in cui vengono descritti, in particolare, i KPI adottati (Indicatori chiave di prestazione), utilizzati per il monitoraggio degli obiettivi stabiliti dalla politica organizzativa per la parità di genere.

Il Piano Strategico, più approfonditamente, così come descritto dalla UNI/PdR 125:2022, deve prevedere i seguenti temi principali:
– Selezione ed assunzione (recruitment);
– Gestione della carriera;
– Equità salariale;
– Genitorialità, cura;
– Conciliazione dei tempi vita-lavoro (worklife balance);
– Attività di prevenzione di ogni forma di abuso fisico, verbale, digitale (molestia) sui luoghi di lavoro.
Ogni tema prevede al suo interno dei punti essenziali, inquadrabili come obiettivi operativo-gestionali e strumenti attuativi, tra cui quelli indicati in seguito:
– rivolgere le opportunità di carriera ed i programmi per lo sviluppo professionale a tutto lo staff 17;
– creare un ambiente lavorativo che favorisca la diversity e tuteli il benessere psico-fisico dei/delle dipendenti18;
– informare periodicamente i/le dipendenti delle politiche retributive adottate in azienda anche con riferimento a benefit, bonus, programmi di welfare19;
– ove esistente, il programma di welfare deve considerare le esigenze delle persone di ogni genere ed età20;
– includere nell’ambito del programma di welfare aziendale, ove esistente, iniziative specifiche per supportare i/le dipendenti nelle loro attività genitoriali e di caregiver 21;
– offrire servizi specifici quali asili nido aziendale, dopo scuola per i bambini o durante le vacanze scolastiche, voucher per attività sportive dei figli, ecc.22;
– dotarsi di misure per garantire l’equilibrio vita-lavoro (work-life balance) rivolte a tutti/e i/le dipendenti23;
– stabilire/promuovere accordi specifici per consentire il lavoro part-time a chi ne faccia richiesta24;
– offrire flessibilità di orario, stabilendo e comunicando regole e procedure semplici ed accessibili per usufruirne25;
– offrire la possibilità di smart working/telelavoro o di altre forme di lavoro flessibile, e orario elastico26;
– garantire che le riunioni di lavoro siano tenute in orari compatibili con la conciliazione dei tempi di vita familiare e personale27;
– prevedere una specifica formazione a tutti i livelli, con frequenza definita, sulla “tolleranza zero” rispetto ad ogni forma di violenza nei confronti dei/delle dipendenti, incluse le molestie sessuali (sexual harassment) in ogni forma28.

In altre parole, in termini di fidelizzazione, si può mirare alla certificazione della parità di genere come obiettivo ultimo oppure al fine di conseguire i singoli vari tasselli che la compongono e la rendono possibile; questi ultimi, infatti, possono essere considerati come quei tipici “fattori che pongono attenzione alla persona, considerata non solamente con riferimento al proprio ruolo organizzativo, ma in quanto tale con esigenze e caratteristiche che non si fermano all’interno dell’azienda, ma abbracciano globalmente l’individuo” 29 e pertanto elementi fortemente fidelizzanti 30.
E se non si sarà riusciti a fidelizzare, si avrà senz’altro contribuito ad altri (e alti) livelli, posto che “la parità di genere può innescare circoli virtuosi che portano benefici per l’azienda, per la società e per l’economia” 31.

1. Cfr. C. Murena che a tal proposito scrive di “concetti […] non agevolmente inquadrabili”, in Welfare aziendale e fidelizzazione dei lavoratori, Lavoro Diritti Europa, n. 3/2020, p. 4.
2. Così M. Biagi, A. Russo, Problemi e prospettive nelle politiche di “fidelizzazione” del personale, Collana ADAPT Modena – n. 1/2001.
3. Ibidem.
4. Cfr M. Biagi, A. Russo, op. cit., i quali preziosamente individuano tre macrocategorie di strumenti di fidelizzazione del dipendente: strumenti economico-normativi volti a una regolamentazione prettamente contrattuale o retributiva tra le parti, strumenti difensivi volti alla tutela della concorrenza e strumenti promozionali, i quali garantendo trattamenti di welfare, work-life balance e tematiche connesse, indirettamente incidono nella partecipazione del dipendente all’organizzazione.
5. Cfr. Welfare for people, Quinto rapporto su Il welfare occupazionale e aziendale in Italia, a cura di M. Tiraboschi, Adapt University Press, in cui è chiarito, più volte, come il welfare aziendale possa essere considerato quale strumento di fidelizzazione.
6. Tra questi, ulteriormente, le cd. stockoption, la formazione professionale e alcune modalità di team-working.

7. UNI/PdR 125:2022.
8. D.P.C.M. 29 aprile 2022, art. 1.
9. Ibidem art. 2.
10. Cfr. a titolo esemplificativo l’art. 2, D.lgs. n 105/2022 in tema di congedi, l’art. 46, D.lgs. n. 198/2006 relativo alla presentazione del rapporto sulla situazione del personale delle imprese con più di 50 dipendenti e l’art. 18, comma 3-ter, L. n. 81/2017 in materia di smart working.
11. Cfr. art. 5, D.lgs. n. 162/2021. In particolare, alle aziende private che siano in possesso della certificazione della parità di genere è concesso:
a) un esonero dal versamento di una percentuale dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, b) l’ottenimento di un punteggio premiale per la valutazione di proposte progettuali, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti, c) una diminuzione del 30% della garanzia fideiussoria prevista per la partecipazione alle procedure di gara d’appalto pubbliche, d) la possibilità di ottenere un punteggio premiale nelle medesime gare.

12. Cfr. ex multis P. Cerulli, La certificazione della parità di genere: volano per i diritti e per il business.
Come ottenerla e conservarla, in Lavoro Diritti Europa, n. 1/2023.
13. Così M. Biagi, A. Russo, op. cit.
14. Così D. Pavoncello, Gestire il cambiamento in una situazione di crisi, «Osservatorio Isfol», II (2012), n. 3, p. 57.
15. Si fa nuovamente riferimento a M. Biagi, A. Russo, op. cit. e A. Russo, Problemi e prospettive nelle politiche di fidelizzazione del personale, Collana ADAPT – FONDAZIONE “Marco Biagi” n. 3, Giuffrè Editore.
16. Il Comitato Guida è, così come definito dal documento di prassi richiamato, un “Comitato istituito dall’Alta Direzione per l’efficace adozione e la continua ed efficace applicazione della Politica per la Parità di Genere”, la quale è definita come un “Documento formale nel quale l’organizzazione definisce il quadro generale all’interno del quale devono essere individuate le strategie e gli obiettivi riguardanti l’uguaglianza di genere”.

17. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.2 lett. c).
18. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.2 lett. e).
19. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.3 lett. c).
20. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.3 lett. d).
21. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.4 lett. e).
22. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.4 lett. f).
23. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.5 lett. a).
24. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.5 lett. b).
25. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.5 lett. c).
26. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.5 lett. e).
27. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.5 lett. f).
28. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.6 lett.
c). Si specifica che la formazione da sempre è considerata una leva fidelizzante, cfr. C.Murena, op. cit., p. 13.
29. Così M. Biagi, A. Russo, op. cit..

30. Peraltro, ad una attenta riflessione, gli strumenti di fidelizzazione “vecchia maniera” potrebbero risultare in antitesi rispetto alla fidelizzazione tramite la Certificazione della parità di genere. A titolo esemplificativo, uno degli elementi del Piano Strategico è “dotarsi di mansionario della singola impresa che completi e dettagli quello generico dei CCNL, per la segnalazione da parte dei/delle dipendenti di eventuali disparità retributive”; a ben vedere, gli accordi negoziali che comportano un incremento della retribuzione, potrebbero generare le predette disparità retributive.
31. Così UNI/PdR 125:2022, p. 9. Per alcune riflessioni sulla questione, mi si permetta di rimandare a M. Tuscano, Alcuni “semplici” motivi per stimolare la certificazione della Parità di genere, in Sintesi n. 03/2023.

 

 

 

 

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Alcuni “semplici” motivi per stimolare la certificazione della PARITÀ DI GENERE

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

 

Ne è passato di tempo dalle faticose lotte italiane per il ruolo della donna1, dalle battaglie per il suffragio2, da quando l’affacciarsi della donna alla vita sociale era visto con “più di un sospetto malevolo per questa sovra- esposizione femminile in territorio maschile e per una altrimenti inaudita promiscuità”3, tanto che pensare di avere ancora oggi l’esigenza e il dovere di parlare di parità di genere sembra una follia.

Eppure, è così. Non sempre con il tempo si sistema tutto e non sempre il tempo cura le ferite. Riconoscere, ancora oggi, la persistente necessità di mettere in atto quelle azioni positive volte ad assicurare l’eguaglianza sostanziale (in questo caso tra donna e uomo), così come sancito dall’art. 3, comma 2 della Costituzione, è un qualcosa che arreca tristezza. Soprattutto se si pensa che già 50 anni fa si ravvisava l’insopportabile squilibrio di genere, caratterizzato ad esempio dalla “supremazia marita- le”4, che portava alla Riforma del diritto di famiglia di cui alla L. n. 151/1975.

Ma è così, ce lo dicono e confermano studi5, indici6 e analisi7 che ci schiaffeggiano con la dura realtà. Una realtà che denota in Italia un gender gap presente in linea generale, oltreché riferibile più specificatamente al mondo del lavoro, nonostante già nel 1975, con la surrichiamata Riforma, si riconosceva come “Il la- voro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”8.

D’altra parte, “Che il mercato del lavoro, lascia- to alle sue spontanee dinamiche e fluttuazioni, possa incoraggiare differenze di trattamento e disuguaglianze, è in sé e per sé inconfutabile ed appare un dato per così dire normale”9, non esistendo peraltro un reale principio generale di parità di trattamento10; tuttavia tale dato manifesta l’esigenza improrogabile di un non facile cambio di cultura, così da abbattere “gran parte degli stereotipi e degli orientamenti che nei luoghi di lavoro spesso bloccano le donne in posizioni subalterne e di servizio”11.

Invero, in questo momento storico, obiettivi impegni e fondi sembrano convergere tutti fortemente al “sostegno del principio della parità di genere in tutte le sue forme e attività”12 (oltreché verso ulteriori temi certamente sensibili, quali l’ambiente e la sostenibilità). In particolare, tra i tanti:
– Agenda 2030, all’obiettivo n. 5, mira a “Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze”.
– Il Pnrr considera la parità di genere tra le tre priorità principali e trasversali in termini di inclusione sociale.
Ebbene, tenuto conto di tutto quanto detto, oggi come Consulenti del Lavoro abbiamo una possibilità, da tramutare in missione: stimolare la parità di genere consigliando la relativa certificazione di cui all’art. 46-bis, comma 1, D.lgs. n. 198/2006, posto che “La misura ha lo scopo di assicurare una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e ridurre il gender pay gap attraverso la creazione di un sistema nazionale di certificazione della parità di genere, che dovrà migliorare le condizioni di lavoro
delle donne anche in termini qualitativi, di remunerazione e di ruolo e promuovere la trasparenza sui processi lavorativi nelle imprese”13.
Suggerire la certificazione, quindi, come riconoscimento di un comportamento meritevole. Come la giusta medaglia consegnata “al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere”14. Un attestato che non è, come evidente, solo di facciata, ma che è frutto di un apposito Tavolo di lavoro sulla certificazione di genere, coordinato dal Dipartimento per le Pari Opportunità in collaborazione con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Ministero dello Sviluppo Economico15, e pertanto fortemente valevole.

E non si tratta di incentivare la certificazione solo perché foriera di tante agevolazioni e trattamenti di favore per il datore di lavoro ottemperante16. Come, d’altra parte, non si intende stimolare il comportamento per le correlate nuove opportunità professionali per il Consulente del Lavoro, certamente presenti e indubbiamente stimolanti17.
Ma è, soprattutto, per motivi dai tratti ben più nobili ed etici: il rispetto della Costituzione, il rispetto della Storia e il rispetto di chi ha lottato e ha sofferto per piccoli e grandi traguardi, talvolta dati per scontati.

1. Tra i tanti aspetti, si veda quanto scritto da F. Taricone: “Il risveglio e l’educazione politica di sei milioni di lavoratrici rappresenteranno la forza nuova per la vittoria su tutte le ingiustizie”, in La Difesa delle Lavoratrici: socialiste a confronto, Laboratoire italien, OpenEdition Journals.
2. Cfr. sito istituzionale Struttura di missione per gli anniversari di interesse nazionale e per la promozione degli eventi sportivi di rilevanza nazionale e internazionale, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Le donne e il voto del 1946: “Il diritto del voto alle donne è una grande conquista seppur recente […] All’inizio del secolo scorso la donna era ritenuta una sorta di accessorio dell’uomo”.
3. Così M. Isnenghi, G. Rochat, La Grande Guerra,
1914-1918, Sansoni, p. 334.
4. Così L. Menghini, Nuovi valori costituzionali e volontariato, Giuffrè Editore, Milano, 1989, pp. 30 e 31.
5. Cfr. A. Zilli, Un altro 8 marzo: i conti delle serve, in Equal Il diritto antidiscriminatorio, 8 marzo 2023.
6. Cfr. Global Gender Gap Report 2022, del World Economic Forum. In particolare, il “The Global Gender Gap Index 2022 rankings”, ivi contenuto, pone l’Italia al 63° posto della classifica mondiale sul Gender Gap, mentre il “The Global Gender Gap Index rankings by region, 2022” la pone al 25° in Europa.
7. Cfr. V. Di Santo, Le proposte dei partiti per ridurre il gender gap. Un’analisi, in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
8. Art. 230-bis, comma 2, cod. civ.
9. Così G. Fontana, Il problema dell’uguaglianza e il diritto del lavoro flessibile, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 398/2019, p. 168.
10. Cfr. A. Vallebona, A. D’Andrea, Discriminazioni e parità di trattamento nel rapporto di lavoro, in Il
diritto Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, diretto da A. Patti, Vol. 5, p. 473; in giurisprudenza cfr. Cass. SS.UU. n. 6030/1993.
11. Così I. Armaroli, S. Negri, La certificazione della parità di genere: siamo solo agli inizi, in Bollettino
ADAPT 19 settembre 2022, n. 31.

12. Cfr. Camera dei Deputati, Documentazione parlamentare, Aree Tematiche, Studi – Istituzioni Costituzione, diritti e libertà, Parità di genere.
13. Cfr. Sito istituzionale Italia Domani, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Investimenti, Sistema di certificazione della parità di genere.
14. Art. 46-bis, D.lgs. n. 198/2006.
15. Cfr. Pnrr, missione 5, componente 1, investimento 1.3.
16. Trattasi dei cosiddetti “Meccanismi di incentivazione” legati al possesso della Certificazione della parità di genere, tra cui: l’esonero dal versamento di una percentuale dei complessivi contributi previdenziali; il riconoscimento di un punteggio premiale per la valutazione di proposte progettuali, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, ai fini della concessione di aiuti di Stato
a cofinanziamento degli investimenti sostenuti; la diminuzione della garanzia prevista per la partecipazione alle procedure di gara di appalto da parte di aziende certificate e la possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici di istituire sistemi premiali nei bandi gara.
17. La certificazione della parità di genere si consegue secondo le indicazioni contenute nella Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, la quale individua una serie di indicatori prestazionali, generalmente ottenibili e misurabili tramite l’apporto e le competenze del Consulente del Lavoro.

 

 

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PARITÀ DI GENERE: grazie al PNRR una realtà sempre più vicina

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro studi unitario Ordine dei consulenti del lavoro provincia di Milano – Ancl Up Milano 

 

Enrica De Marco analizza il Pnrr sotto il profilo della parità di genere

 

All’interno di un progetto ambizioso come quello tratteggiato dal PNRR presentato dal governo Draghi, l’uguaglianza di genere è la priorità e lo dimostra la scelta di campo di destinare ingenti risorse, del valore di sette miliardi di euro, alla promozione di un’effettiva cultura della parità in ognuna delle missioni del Piano stesso1.

Considerando il contrasto al divario di genere quale necessità comune a ciascun ambito di intervento, il Piano è un passo in avanti significativo in una cultura come la nostra nella quale le perduranti disparità di genere hanno origini profonde e non sono mai state recise nel percorso normativo2.

Il nostro ordinamento è infatti contraddistinto da stereotipi culturali di netta dicotomia dei ruoli all’interno del nucleo familiare, nella quale all’uomo spetta il compito di sostenere economicamente la famiglia e alla donna quello di occuparsi della cura domestica, e nella quale il tentativo di armonizzare il ruolo di donna lavoratrice con quello di madre è stato per lungo tempo declinato soltanto al femminile. Oggi, anche su impulso dell’esperienza maturata da remoto nel corso della pandemia, è

fondamentale caldeggiare efficaci forme di conciliazione dei tempi di vita-lavoro, per favorire anche nel nostro ordinamento i valori di inclusione e uguaglianza di genere perseguiti dalla Generation Equality Campaign delle Nazioni Unite e dalla Strategia Europea per la parità di genere 2020/2025.

Obiettivo dell’Autrice è sondare le modalità attraverso cui, nella normalità post Covid, le organizzazioni pubbliche e private, i lavoratori e i sindacati valorizzeranno l’opportunità offerta dal PNRR per contrastare le disuguaglianze di genere e la marginalizzazione del lavoro femminile e per promuovere la parità genitoriale nei compiti di cura della famiglia3.

LA DISPARITÀ TRA GENERI COME EMERGENZA NAZIONALE

L’evoluzione di una nuova cultura della parità è indubbiamente determinata dal contesto economico e occupazionale in cui la stessa è destinata a svilupparsi.

In tema di politiche per la parità di genere l’Italia si colloca attualmente al quattordicesimo posto, tra i 27 Paesi dell’Unione Europea, con un punteggio pari a 63,8 su 100 dell’indice sull’uguaglianza di genere calcolato dallo

European Institute for Gender Equality (c.d. EIGE). Questi dati incidono in maniera significativa anche sulla situazione occupazionale nazionale, dalla quale emerge che lavorano circa 53 donne italiane su 100 nella fascia tra i 20 ed i 64 anni (a fronte di una media europea che si attesta su 67 lavoratrici su 100) e che il tasso di occupazione totale si ferma a 62 lavoratori su 100, mentre la media europea si aggira intorno a 734.

Il percorso verso la parità è dunque ancora lungo e tortuoso: i divari di genere persistono nel mondo del lavoro, a livello di retribuzioni, di assistenza e di pensioni, nonché nell’accesso alle discipline STEM5 e nelle posizioni dirigenziali. D’altra parte, sotto il profilo giuslavoristico, il legislatore nazionale nel corso dell’ultimo ventennio è sovente intervenuto per garantire tutele sempre più ampie alla parità di genere, prendendo atto dell’inevitabile mutamento nella concezione di famiglia e riscoprendo la centralità del ruolo del padre lavoratore, un diritto autonomo del padre, aggiuntivo e indipendente rispetto a quello della madre, a godere di un periodo obbligatorio di astensione dal lavoro. Si sta a poco a poco affermando una visione di famiglia più moderna e paritaria, in cui la madre ha uguali chance lavorative rispetto al padre, il quale, a sua volta, riveste un ruolo di primo piano all’interno della famiglia, in cui i compiti di cura e le relative tutele toccano in misura equa entrambi i genitori.

In questo contesto, la previsione della parità di genere quale priorità trasversale del PNRR può senza dubbio rappresentare un’opportunità unica per l’empowerment economico e sociale delle donne, e in particolare di quelle lavoratrici.

Infatti, i progetti a ciò deputati riguardano: la promozione delle materie STEM, contenuta nella missione “Istruzione e ricerca”, l’introduzione di un sistema nazionale di certificazione della parità di genere a titolarità del Dipartimento per le Pari Opportunità e la creazione di impresa femminile nell’ambito della missione “Inclusione e coesione”, in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico. Sono i primi embrionali, ma importanti, interventi tesi verso una nuova cultura della parità di genere che, a partire dal contrasto al divario retributivo tra uomini e donne, promuovono quella valorizzazione del lavoro femminile e, contestualmente, quella condivisione dei ruoli familiari che in Italia, molto più che in altri Paesi, stenta ancora ad affermarsi.

 

PNRR E STRATEGIA PER LA PARITÀ DI GENERE 2021-2026

I propositi e le misure in tema di parità di genere contenuti nel PNRR hanno come obiettivo che l’Italia, entro il 2026, raggiunga un incremento di circa 5 punti percentuali del tasso di occupazione femminile, così come previsto dalla Strategia per la parità di genere 20212026, di cui il PNRR sviluppa le priorità con le sue sei Missioni, al fine di collocare l’Italia in linea con le statistiche occupazionali degli altri Paesi membri dell’Unione Europea. In particolare, la Strategia per la parità di genere, adottata su impulso della Gender Equality Strategy 2020-2025 dell’Unione Europea, si inserisce tra gli interventi del PNRR finanziato dal programma Next Generation EU, in cui l’emancipazione femminile e il contrasto alle discriminazioni di genere non sono affidati a singoli interventi, ma sono obiettivi trasversali di tutte le sei Missioni.

All’interno della Strategia, la priorità “Lavoro” mira a creare un mondo del lavoro maggiormente equo tramite misure di supporto alla partecipazione femminile, quali la promozione delle forme di conciliazione dei tempi di vita-lavoro e la valorizzazione dell’imprenditoria femminile, utilizzando precisi indicatori di riferimento al tasso di occupazione femminile, specialmente quello riguardante le lavoratrici con figli, e all’implementazione del numero di imprese femminili. Vengono così previsti importanti obiettivi: incremento del tasso di occupazione femminile, attraverso la riduzione di almeno 3 punti percentuali del divario con quello maschile; contrazione, a meno di 10 punti percentuali, della differenza tra il tasso di occupazione delle donne con figli rispetto a quello delle donne senza figli (attualmente pari a 12 punti, a fronte di una media europea di 9-9,5 punti); aumento fino al 30%, rispetto all’attuale 22%, della percentuale di imprese femminili rispetto al totale delle imprese attive. Le misure contenute nella Strategia sono inoltre connesse al progetto di riforma contenuto nella Legge n. 32/2022, il c.d. Family Act, di delega al Governo per l’adozione di misure di sostegno e valorizzazione della famiglia quali: il potenziamento del sistema del Welfare, l’introduzione dell’assegno unico e universale, la revisione dei congedi parentali e il sostegno ai percorsi educativi dei figli, nonché le misure di sostegno al lavoro femminile e di sicurezza lavorativa.

IL TENTATIVO DI RECUPERO DEL RITARDO STORICO NELLE “POLITICHE PER LE DONNE”

Affinché gli obiettivi individuati nella Strategia per la parità di genere 2021-2026 vengano raggiunti, e le relative misure adottate, il PNRR riprende e sviluppa le priorità lungo due direttrici: da un lato, la valorizzazione della partecipazione femminile al lavoro e, dall’altro, l’implementazione della formazione, sin dall’età scolastica, nella prospettiva delle pari opportunità. Le misure previste in favore della parità di genere sono in prevalenza dirette a promuovere una maggiore partecipazione della componente femminile al mondo del lavoro attraverso, da un lato, interventi diretti a sostegno dell’occupazione e dell’imprenditorialità femminile e, dall’altro, interventi rivolti in particolare al potenziamento dei servizi educativi per i bambini e ad alcuni servizi sociali, che potrebbero incoraggiare un aumento dell’occupazione delle donne. La pandemia ha inoltre svelato tutti i danni che le tradizionali riluttanze culturali alla parità di genere hanno provocato: basti pensare che in Italia nel 2020 il calo occupazionale si è concentrato quasi esclusivamente sulle lavoratrici, con una diminuzione di 101 mila unità lavorative di cui 99 mila ricoperte dalle donne6.

Per questo, nel corso della pandemia il legislatore dell’emergenza si è mostrato particolarmente attento alla necessità di realizzare un migliore equilibrio tra vita professionale e vita familiare e personale, riconoscendo centralità al principio della bigenitorialità e di cura della famiglia (in particolare dei figli), attraverso il lavoro da remoto.

Al medesimo scopo mirano anche le previsioni contenute nel PNRR che, facendo tesoro dell’esperienza maturata nel corso del lockdown, ha introdotto trasversalmente una serie misure, di potenziamento del Welfare ma anche di supporto alle famiglie, nelle diverse missioni di cui si compone.

Grazie a tali misure, nella prospettiva di lungo periodo (terminato il quinquennio di finanziamenti richiesti all’Unione Europea in attuazione del Next Generation EU), l’Italia dovrà dimostrare di aver raggiunto una crescita economica e una progressione sociale quanto meno allineate a quelle degli altri Paesi più virtuosi7.

PROMOZIONE DELL’OCCUPAZIONE FEMMINILE E CLAUSOLE DI CONDIZIONALITÀ

Tra gli interventi normativi sulle pari opportunità tesi a condizionare l’esecuzione dei progetti del Piano all’assunzione di (giovani e) donne, di particolare rilievo è l’art. 47 del D.l. n. 77/2021, convertito con modifiche nella Legge n. 108/2021, di disegno del sistema di governance del PNRR, che prevede importanti misure “per perseguire le finalità relative alle pari opportunità, generazionali e di genere e per promuovere l’inclusione lavorativa delle persone disabili”. Sono interventi accomunati dall’introduzione di obblighi, anche di assunzione, a carico degli operatori economici che operino nell’ambito delle procedure di gara relative agli investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse del PNRR e del Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR, il c.d. PNC, di cui all’art. 1, D.l. n. 59/2021. Innanzitutto, al comma 2, si prevede che gli operatori economici tenuti alla redazione del rapporto sulla situazione del personale, ai sensi dell’art. 46 del D.lgs. n. 198/2006 , debbano produrre a pena di esclusione, al momento della presentazione della domanda di partecipazione e dell’offerta, il rapporto sulla situazione del personale di sesso maschile e femminile, mentre i successivi commi 3, 3 bis e 4 prevedono a carico degli altri operatori con specifiche dotazioni di organico l’obbligo di consegnare alla stazione appaltante, entro sei mesi dalla conclusione del contratto, la relazione di genere per ciascuna professione, nonché la certificazione relativa all’adempimento di quanto disposto dalla normativa vigente in materia di collocamento obbligatorio. Di particolare interesse è il comma 4 dell’art. 47, in virtù del quale, al fine di perseguire gli obiettivi attesi in termini di occupazione femminile entro il 2026, le stazioni appaltanti sono tenute a prevedere nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti specifiche clausole dirette all’inserimento di criteri orientati a promuovere, tra l’altro, la parità di genere, con l’obbligo (come requisito essenziale dell’offerta), di assicurare, in caso di aggiudicazione del contratto, una quota pari ad almeno il 30% delle assunzioni, necessarie per l’esecuzione, all’occupazione (giovanile e) femminile. L’introduzione di una quota percentuale, seppur realizzi una misura positiva “volta ad accelerare la realizzazione di una partecipazione e rappresentanza equilibrate in termini di genere tramite la definizione di una proporzione (percentuale) o di un numero prestabiliti di posti”, solleva alcune criticità8.

Una su tutte, l’insufficienza della previsione di vincoli con riferimento alla composizione del personale dipendente dall’operatore economico datore di lavoro, trascurando così tutte quelle ipotesi in cui il numero di lavoratrici già assunte sia tale da consentire comunque all’operatore economico di eseguire le attività oggetto della gara.

Per porre rimedio, si potrebbe interpretare estensivamente la disposizione, sino a ritenere rispettato il requisito obbligatorio di condizionalità anche nelle ipotesi in cui l’operatore economico virtuoso sia in grado di assicurare la quota del 30% di lavoratrici adibite all’esecuzione del contratto pur in assenza di nuove assunzioni. Il mancato rispetto delle previsioni di cui all’art. 47, commi 3, 3 bis e 4, è punito con l’applicazione di penali commisurate alla gravità della violazione e proporzionali all’importo o alle prestazioni del contratto, nel rispetto di un tetto massimo complessivo previsto nell’art. 51.

Nel caso in cui invece la violazione si sostanzi nel mancato rispetto di consegnare, entro sei mesi dalla conclusione del contratto, la relazione di genere, è prevista la sanzione aggiuntiva dell’impossibilità di partecipare per un periodo di dodici mesi a ulteriori procedure di affidamento afferenti a investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse del PNRR e del PNC.

Vi sono poi le ipotesi in cui il legislatore ha preferito premiare l’operatore economico che rispetti alcune condizioni (individuate nel successivo comma 5 dell’art. 47), tramite l’assegnazione di un punteggio aggiuntivo, cioè qualora: nei tre anni antecedenti la data di scadenza del termine di presentazione delle offerte non risulti destinatario di accertamenti relativi ad atti o comportamenti discriminatori); utilizzi specifici strumenti di conciliazione tra vita-lavoro per i propri dipendenti, anche tramite innovative modalità di organizzazione del lavoro; si impegni ad assumere una quota eccedente il 30% di donne, e altre categorie indicate, per l’esecuzione del contratto; abbia adottato nell’ultimo triennio specifiche misure di promozione della parità di genere e generazionale; presenti per ciascun esercizio finanziario una dichiarazione volontaria ai sensi dell’art. 7, D.lgs. n. 254/2016. Infine, il comma 8 dell’art. 47 prevede, tra le misure di contrasto alle disuguaglianze di genere, l’adozione di specifiche linee guida, avvenuta con Decreto del 7 dicembre 2021, contenenti gli orientamenti necessari in merito alle modalità e ai criteri applicativi di quanto previsto nei precedenti commi dell’art. 47, insieme all’indicazione delle misure premiali e dei modelli di clausole da inserire nei bandi di gara, differenziati per settore, tipologia e natura del contratto o del progetto.

L’OCCASIONE MANCATA DEL LAVORO DA REMOTO

Stupisce l’assenza di riferimenti significativi al lavoro da remoto, l’unica modalità di lavoro in grado di coniugare, nel contesto emergenziale, le esigenze di continuità produttiva delle aziende con quelle di tutela della salute delle lavoratrici e dei lavoratori.

Eppure, l’emergenza Covid ha contribuito in maniera significativa a valorizzare, anche tramite il ricorso al lavoro da remoto, il principio di parità di genere nello svolgimento dei compiti di cura della famiglia: la legislazione di emergenza in tema di smart working ha riconosciuto in favore di entrambi i genitori un vero e proprio diritto al lavoro agile, oltre a un congedo specifico finalizzato a soddisfare le esigenze di cura familiari imposte dall’emergenza sanitaria9.

Un’adeguata programmazione degli interventi finalizzati a “normalizzare” il ricorso al lavoro da remoto avrebbe potuto contribuire a implementare la parità retributiva e a diffondere una nuova cultura del risultato, superando quelle prassi, principalmente legate ai tempi di permanenza in azienda, che hanno storicamente favorito gli uomini e nociuto alle donne, incaricate anche dei compiti di cura della famiglia.

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in Giurisprudenza Italiana, 11, 1 novembre 2022, p. 2528 dal titolo PNRR e lavoro: prospettive di trasformazione per l’Italia, domani – PNRR e contrasto alle disuguaglianze di genere.
1. Sugli interventi in tema di lavoro contenuti nel PNRR si veda M. Martone, Il lavoro nel PNRR, in questo numero di Giurisprudenza Italiana.
2. Per approfondimenti sull’evoluzione normativa a tutela della lavoratrice vedi M.V. Ballestrero, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Il Mulino, Bologna, 1979 nonché i contributi di R. Pessi, Lavoro e discriminazione femminile, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 1994, 3,
413 e segg.; M. Brollo, Misure per l’occupazione femminile tra tutele e incentivi, in Lav.
Giur, 2013,2,113 e segg.; R. Del Punta, La nuova disciplina dei congedi parentali, familiari e formativi, in Riv. It. Dir. Lav., 2000, I, 149 e segg.
3. Sul punto si rimanda a E. De Marco, Congedo di paternità e riduzione del premio di risultato alla prova della bigenitorialità, in Arg. Dir. Lav., 2021, 5, 1249 e segg.
Dir. Lav., 2021, 5, 1249 e segg.
4. I dati riportati sono stati raccolti ed elaborati da Eurostat con riferimento al 2021 e sono disponibili sul sito https://ec.europa.eu/eurostat

5. Acronimo per Science, Technology, Engineering e Mathematics.

6. L’Istat ha rilevato che, nel mese di dicembre 2020, gli occupati in Italia sono calati di 101 mila
unità, di cui 99 mila donne. Per ulteriori approfondimenti si rinvia alle statistiche sull’occupazione pubblicate sul sito https://www.istat.it.
7. Sul punto si rinvia a D. Gottardi, Recovery plan e lavoro femminile, in Diritti, lavori, mercati, 2021,
2, 261 e segg.

8. La definizione di “quote di genere” è reperibile su https://eige.europa.eu/it/taxonomy/term/1203. Sulla tecnica della condizionalità come azione positiva e sulla sua innovatività rispetto alle dinamiche tradizionali del mercato del lavoro si veda V. Cardinali, PNRR. La clausola di condizionalità all’occupazione di giovani e donne: azione positiva o azione mancata? in INAPP WP, 2022, 92, 4 e segg

9. Per ulteriori approfondimenti sul ricorso al lavoro da remoto nel contesto emergenziale si rinvia al volume collettaneo curato da M. Martone, Lavoro da remoto e bigenitorialità: come cogliere nella crisi epidemiologica un’opportunità di modernizzazione sociale, in Id. (a cura di), Il lavoro da remoto. Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza, Piacenza, La Tribuna, 2020.

 

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PARI OPPORTUNITÀ: al via la certificazione della parità di genere*

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro Studi e Ricerche

Monica Lambrou si confronta con le novità della legge n. 162/21.

Con il presente contributo, l’Autrice esamina la Legge 5 novembre 2021, n. 162 con la quale il Legislatore – in attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – è intervenuto in materia di pari opportunità sul luogo di lavoro, al fine di rafforzare la tutela già offerta dal Codice delle Pari Opportunità (D.lgs. n. 198/2006) e, nel contempo, contrastare il crescente divario salariale tra uomini e donne nel mercato del lavoro (c.d. gender pay gap).

I predetti obiettivi vengono perseguiti dalla nuova norma agendo su due differenti leve: da un lato, inasprendo l’apparato sanzionatorio in tema di discriminazioni di genere e rafforzando altresì la trasparenza riguardo le retribuzioni e l’inquadramento contrattuale dei dipendenti uomini e donne; dall’altro, introducendo un approccio premiale inedito, con l’introduzione di una certificazione, volta ad attestare le misure adottate dal datore di lavoro per rimuovere le disparità di genere, il cui possesso darà accesso a sgravi contributivi.

AMPLIATA LA NOZIONE DI DISCRIMINAZIONE

L’art. 2 della Legge 5 novembre 2021, n. 162, va a modificare e a implementare l’art. 25 del D.lgs. n. 198/2006.

Per quanto riguarda la discriminazione diretta, viene ampliata la cerchia dei soggetti nei confronti dei quali puo’  essere adottato un comportamento direttamente discriminatorio: non sono solo compresi lavoratori e lavoratrici, ma anche le candidate e i candidati in fase di selezione del personale.

Con riferimento alla discriminazione indiretta, la nuova versione dell’art. 2-bis inserisce tra le fattispecie che danno luogo a discriminazioni ogni atto organizzativo che, modificando le condizioni e il tempo del lavoro in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, possa porre il lavoratore o la lavoratrice (il candidato o la candidata) in almeno una delle seguenti condizioni: posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera.

OBBLIGO REPORTISTICO PER AZIENDE CON PIÙ DI 50 DIPENDENTI

L’art. 3 della Legge n. 162/2021 va a modificare in maniera piuttosto incisiva l’art. 46 del D.lgs. n. 198/2006: viene infatti stabilito l’obbligo, a cadenza biennale, di redazione di un rapporto sul personale delle imprese con più di 50 dipendenti.

Nello specifico, il datore di lavoro che soddisfi l’anzidetto requisito dimensionale è tenuto a redigere un rapporto sulla situazione dei lavoratori e delle lavoratrici che, distinto per genere, categoria professionale, livello di inquadramento e tipologia contrattuale, evidenzi, oltre ai livelli retributivi annui, il numero di lavoratori:

− assunti nel corso dell’anno di riferimento;

− coinvolti in attività di formazione professionale e le ore complessive dedicate a tale attività;

− interessati da un passaggio di categoria, qualifica o livello o da altri fenomeni di mobilità;

− il cui contratto individuale di lavoro sia stato trasformato da tempo determinato a tempo indeterminato ovvero da tempo parziale a tempo pieno (e viceversa);

− interessati dall’intervento di ammortizzatori sociali;

− sottoposti a procedure di licenziamento collettivo o individuale;

− coinvolti in procedure di prepensionamento e pensionamento.

Il rapporto è redatto per via telematica, mediante la compilazione di un apposito modello predisposto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS) e condiviso sul proprio sito istituzionale e trasmesso alle RSA. Ai fini della redazione del rapporto il MLPS, di concerto con il Ministro delegato per le pari opportunità, definisce con apposito decreto:

− le indicazioni per la redazione del rapporto; il datore di lavoro sarà tenuto a indicare ulteriori informazioni quali il numero delle lavoratrici in stato di gravidanza, l’importo della retribuzione complessiva corrisposta al lavoratore o alla lavoratrice, con l’indicazione degli elementi accessori, delle indennità, degli elementi premiali della retribuzione, dei bonus e di ogni altro elemento retributivo o erogazione (anche in natura) eventualmente riconosciuti;

− le modalità mediante le quali il datore di lavoro sarà tenuto a illustrare i dati relativi ai processi di selezione e reclutamento dei lavoratori, le procedure utilizzate per l’accesso alla qualificazione professionale e alla formazione manageriale, le misure volte a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, l’adozione di politiche aziendali finalizzate a realizzare un ambiente di lavoro inclusivo e i criteri adottati per il riconoscimento di progressioni di carriera;

− le modalità di accesso al rapporto da parte dei lavoratori e delle rsa, in ottemperanza alla normativa in materia di trattamento dei dati personali.

Il decreto interministeriale definisce inoltre le modalità per la trasmissione del rapporto che, in ogni caso, dovrà essere inoltrato entro il 31 dicembre di ciascun anno alla Consigliera o al Consigliere nazionale di parità nonché alle Consigliere e ai Consiglieri di parità regionali, delle Città Metropolitane e degli enti di area vasta competenti.

Presa visione dei rapporti trasmessi dalle imprese interessate, la Consigliera e il Consigliere regionale di parità competenti elaboreranno i relativi risultati e li trasmetteranno alle sedi territoriali dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), alla Consigliera o al Consigliere nazionale di parità, al MLPS, al Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, all’ISTAT e al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL).

Sul proprio sito istituzionale il MLPS pubblicherà sia l’elenco delle imprese che hanno trasmesso il rapporto che quello dei datori di lavoro che non hanno adempiuto a tale obbligo.

In caso di inadempimento dell’obbligo di trasmissione del rapporto nei termini prescritti, la Direzione Regionale del Lavoro, previa segnalazione dei soggetti competenti, inviterà l’impresa interessata ad adempiervi entro 60 giorni.

Nel caso in cui l’inottemperanza si protragga oltre 12 mesi, potrà essere disposta la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’impresa.

L’Inl procederà alla verifica della veridicità del rapporto e quando esso risulterà mendace o incompleto troverà applicazione la sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra i 1.000 euro e i 5.000 euro.

LA CERTIFICAZIONE DELLA PARITÀ DI GENERE

L’art. 4 della Legge n. 162/2021, con l’introduzione dell’art. 46-bis del D.lgs. n. 198/2006, ha istituito dal 1° gennaio 2022 la certificazione della parità di genere volta ad attestare l’efficacia delle politiche e delle misure organizzative adottate dal datore di lavoro che occupi più di 50 lavoratori al fine di ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di carriera, ai livelli retributivi a parità di mansione, alle politiche per la gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri saranno stabiliti:

− i parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere da parte dell’impresa avente titolo; detti parametri saranno in ogni caso correlati ai livelli retributivi, alle opportunità di progressione di carriera, alle misure volte a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, anche con riguardo alle lavoratrici in stato di gravidanza;

− le modalità di acquisizione e di monitoraggio dei dati trasmessi dal datore di lavoro, resi disponibili dal MLPS;

− le modalità per il coinvolgimento delle rsa e delle Consigliere e dei Consiglieri di Parità regionali, delle città metropolitane e degli enti di area vasta nel controllo e nella verifica del rispetto dei parametri;

− le forme di pubblicità della certificazione della parità di genere.

 

ESONERO CONTRIBUTIVO E PREMIALITÀ

Ai datori di lavoro in possesso della certificazione della parità di genere è riconosciuto, per il 2022, un esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro (ferma restando l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche). L’esonero verrà concesso in misura non superiore all’1% e nel limite massimo di 50mila euro annui per ciascuna azienda, riparametrato e applicato su base mensile, previo apposito decreto ministeriale.

Alle aziende in possesso della certificazione di parità al 31 dicembre dell’anno precedente rispetto a quello di riferimento, la norma riconosce inoltre un punteggio premiale per la valutazione, da parte delle Autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti.

Sarà poi compito delle amministrazioni aggiudicatrici indicare nei bandi di gara, negli avvisi o negli inviti relativi a procedure per l’acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere i criteri premiali che intendono applicare alla valutazione dell’offerta. Un punteggio più alto determinerà, in tutta evidenza, un miglior posizionamento in graduatoria per le aziende partecipanti.

 

 

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in D&PL, 2/2022, pag. 94 dal titolo Certificazione della parità di genere.

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DISPARITÀ DI GENERE: quello che le donne non dicono

Roberta Simone Consulente del lavoro in Milano

 

E’ da poco passata la Festa della Donna, 8  marzo, giorno nel quale i nostri smartphones si riempiono di messaggi augurali, le case e gli uffici si colorano di fiori gialli, gli angoli delle strade si popolano di venditori di mimose pagate a peso d’oro, àncora di salvezza per i soliti smemorati bisognosi di rimediare all’ultimo minuto.

Ovunque sorrisi di circostanza, uomini che porgono i propri auguri, donne più o meno felici di riceverli.

Tutto procede normalmente, come ogni anno. Ma questo è un anno diverso dagli altri, perché in realtà è accaduto qualcosa di sconvolgente.

Nel mese di gennaio, i massmedia riportano una notizia drammatica. Una donna, una libera professionista al nono mese di gravidanza, prende una decisione drastica e sentendosi oppressa dagli impegni di lavoro, forse anche della vita in generale, compie un gesto drammatico proprio il giorno prima del suo trentasettesimo compleanno, e pone fine alla sua vita. Prima di compiere quel gesto estremo, prepara dei promemoria per i suoi colleghi con diversi appunti e l’elenco degli adempimenti da ultimare per i clienti.

Di questa vicenda colpisce soprattutto l’etica e il senso del dovere di questa professionista che, sopraffatta dal dolore, non ha comunque potuto tralasciare di prendersi cura dei suoi clienti, ultimo gesto di abnegazione e passione per una professione che già l’aveva stretta nelle sue spire. Da quel momento, prima lo sgomento e il cordoglio, poi i social si riempiono di commenti di altre donne libere professioniste e tra queste molte si rivelano, aprono il proprio cuore e raccontano le loro storie, spesso in forma anonima, confessando di essersi sentite spesso sopraffatte dalla mole di lavoro e di essersi dovute piegare all’inevitabile e dover scegliere tra carriera e impegni di vita, di famiglia, di salute. Ecco allora che la storia di quella libera professionista diventa la storia di tutte, delle donne che hanno il coraggio di svelarsi e anche di quelle che restano in silenzio. Come è possibile che una donna possa sentirsi così sola da non vedere altra via d’uscita alla propria disperazione? Come è possibile che ancora oggi sia così complesso e conflittuale il rapporto delle donne nel mondo del lavoro e nella società in generale?

LA “QUESTIONE” FEMMINILE

Tutte le donne conoscono la faccia nascosta della Luna, quel mondo tanto evidente quanto sconosciuto, fatto di piccoli sgarbi e di grandi difficoltà, quella parte di mondo che molti uomini ancora ignorano, sempre meno per fortuna, e che tante donne vivono come una triste quotidianità.

Tutto inizia in famiglia, nucleo sociale che prima di tutti insegna la “giusta” collocazione femminile lì e nel mondo, nell’accezione più o meno marcatamente autoritaria, retrograda, discriminante, in funzione di epoca, territorio e caratteristiche del genitore, più o meno illuminato o illuminante. Il condizionamento involontario inizia dall’assenza di giochi tecnici o scientifici, perché una femmina non può dedicarsi a tali discipline o addirittura appassionarsi. No. Il mondo delle piccole donne è lontano da costruzioni, veicoli, esperimenti: è dedicato a bambole da accudire, pappe da preparare, carrelli della spesa da riempire, formine e finti fornelli, giocattoli per le faccende domestiche. Non a caso le discipline STEM (acronimo di Science, Technology, Engineering e Mathematics) vedono ad oggi un’incidenza femminile piuttosto deludente, mediamente inferiore al 20%, come confermato da diversi studi1

L’impiego delle donne nei settori tecnologici è quasi ancillare e benché la collocazione lavorativa avvenga anche in tempi brevi grazie ai brillanti risultati accademici, l’avanzamento di carriera è lento, se non impossibile, e il ristagno è a livelli retributivi inferiori a quelli degli uomini, a parità di anzianità lavorativa, contenuto delle mansioni e competenze effettive.

Un copione che si ripete un po’ ovunque. Così è del tutto normale che perfino in ambiti in cui lo stereotipo di genere dovrebbe manifestarsi in tutto il suo “splendore” e registra effettivamente una presenza femminile in percentuali assolutamente importanti (cura della persona, sanità e istruzione, solo per citarne alcuni) ricadiamo nel tranello, perché i ruoli apicali sono assegnati maggiormente al sesso maschile e anche ai livelli inferiori si registra un divario retributivo piuttosto evidente. Durante la pandemia la disparità di genere si è ulteriormente amplificata2. La convivenza familiare forzata e la chiusura di asili e scuole hanno innescato circuiti pericolosi che hanno incrementato l’impegno delle donne nel nucleo familiare: gestione della casa e della famiglia sono rimaste a carico della moglie-madre, anche laddove le incombenze lavorative risultino paritarie con il marito-padre. Di nuovo il meccanismo dell’infanzia si ripete: sarai anche brava, sarai anche una professionista capace, ma sempre “bambole da accudire, pappe da preparare, carrelli della spesa da riempire, formine e finti fornelli, giocattoli per le faccende domestiche”. A tutto ciò si aggiungono le responsabilità della cura e del sostegno nei confronti di familiari e affini che versano in condizioni di fragilità. Poco importa la presenza o assenza del cosiddetto vincolo di sangue, ciò che conta è che normalmente è la donna che si prende carico della loro assistenza ed è a lei che si chiede il passo indietro dal ruolo di lavoratrice a quello di caregiver familiare. Non può che tornare alla mente il suicidio della donna torinese di pochi mesi fa.

È un problema di attività professionale tout court che colpisce egualmente uomini e donne? O il lavoro, sia esso autonomo che dipendente, è (solo) un ulteriore pezzo della scacchiera femminile, stracolmo di impegni professionali, familiari e casalinghi? Vi sono professioni nelle quali lo stress e l’impegno in termini di ore è un connotato tipico: molte ore di lavoro, orari che mal si conciliano con la vita privata e sociale, stanchezza fisica o mentale, ma è indubbio che a parità di tipologia di lavoro vi è una asimmetria nella fase domestica che ne segue, e da qui è evidente che le donne non finiscono mai di lavorare.

TENTATIVI PRESSAPOCHISTI PER ARGINARE IL DIVARIO

Negli ultimi decenni, le istituzioni hanno introdotto meccanismi di tutela del lavoro femminile e della maternità, pietre miliari nel nostro ordinamento giuridico ma che, non collocati in un quadro socio-giuridico più ampio e lungimirante, hanno acuito il divario tra lavoratori e lavoratrici in favore dei primi, scevri per natura da certe incombenze biologiche, e a discapito delle seconde, ree di aver la “brutta abitudine” di volersi riprodurre. Un rimedio successivo è stato l’inserimento del congedo parentale in luogo della maternità facoltativa, un tempo a solo appannaggio delle mamme e ora esteso anche ai padri, e l’introduzione e successiva cristallizzazione del congedo obbligatorio per i papà che da quest’anno è stato innalzato a dieci giorni. Ma anche questi interventi, seppur lodevoli, mal si coniugano con la realtà. Benché in timida crescita negli anni, il congedo parentale è scarsamente richiesto e i giorni di congedo obbligatorio diventano quasi un vincolo noioso e pedante, un’imposizione perfino per il destinatario della misura.

Nondimeno altri tentativi, buoni nelle intenzioni, si stanno rivelando pessimi nei risultati. Ne sono un esempio evidente le quote rosa, tese a innescare forzatamente una proporzione di genere nei ruoli apicali. In questo modo si sono verificati imbarazzanti situazioni, nelle quali per far fronte alle percentuali imposte dal Legislatore sono state designate donne che, per dirla con un elegante giro di parole, mal si rappresentano in quel contesto e in quelle funzioni. Le competenze devono essere premiate non per il nome di chi le possiede, né per il loro appartenere all’uno o all’altro sesso, a questa o a quell’altra etnia, né per un’imposizione legale, ma devono essere riconosciute per la storia professionale del soggetto, per quel che sa fare e per come lo sa fare, nonché per l’etica e il rispetto che riserva al prossimo.

LA NECESSITÀ DI UN CAMBIO INDIVIDUALE E CULTURALE

La disparità di genere è un problema complesso e articolato, il cui approfondimento non può prescindere da profonde analisi sociologiche che risultano ben lungi dalla breve disamina di questo articolo, relegando la finalità di quest’ultimo allo stimolo di una riflessione comune.

Bisogna agire su più fronti, simultaneamente ed in modo efficace.

La cultura e la scolarizzazione sono il futuro di qualsiasi Paese e purtroppo negli ultimi anni abbiamo assistito impotenti e rassegnati al loro lento declino. È necessario rivedere criticamente il contenuto e le modalità di erogazione dell’istruzione scolastica, creando già in tenera età percorsi di avvicinamento alle materie scientifiche e a mestieri e professioni, altrimenti non stupiamoci se i modelli di riferimento restano veline, calciatori e influencers. La rimozione delle disparità passa anche da un diverso sostegno alla maternità e alla cura dei figli che può trovare concretezza nel rafforzamento delle istituzioni a sostegno dell’infanzia, con una maggior flessibilità degli orari di asili e delle scuole così da renderli compatibili con le attività lavorative dei genitori. Prendendo spunto da esempi virtuosi di paesi nord-europei, andrebbe considerata l’introduzione della figura della Tagesmutter, persona dotata di competenze e formazione specifica professionale, che presso il proprio domicilio si dedica della cura e educazione di piccoli gruppi di bambini, in genere massimo cinque. Altri ambiti su cui agire sono l’erogazione di incentivi per il mantenimento di rapporti di lavoro al rientro dalla maternità, il sostegno alle forme di lavoro flessibile, la creazione di soggiorni e campi estivi per i figli, il rafforzamento delle cure domiciliari rivolte a soggetti fragili e luoghi di aggregazione e di cura economicamente accessibili. Queste sono alcune proposte per attribuire la responsabilità della cura della famiglia a soggetti diversi, così che le donne possano dedicarvisi per scelta e non più per costrizione. Ma non può essere sufficiente. Il superamento delle discriminazioni di genere necessita di un nostro percorso di crescita individuale. Dobbiamo coltivare collaborazioni genuine e sincere tra di noi, a partire dai più ristretti nuclei lavorativi, superando l’eventuale incapacità di lavorare in gruppo, spesso manifestata nella smania di protagonismo e da rivalità inutili; superate queste criticità sappiamo lavorare insieme e sappiamo farlo bene, creando sinergie e collaborazioni incredibili. Abbandoniamo l’approccio autoritario in favore dell’autorevolezza, smettiamo di approcciarci al lavoro facendo nostri i comportamenti peggiori di alcuni uomini di cui potremmo diventare la loro peggiore imitazione.

La nostra competenza non ha bisogno di essere ostentata, smettiamo di sentirci in competizione perché le nostre capacità non hanno bisogno di essere poste in discussione, in primis da noi stesse.

Infine, ai colleghi, amici, padri, mariti, cosa possiamo chiedere?

Un ulteriore passo avanti nella nostra direzione, che implica approcciarsi al mondo del lavoro guardandolo anche con i nostri occhi, prendendo atto delle nostre peculiarità e ammettendo che anche voi ne avete delle vostre, anch’esse più o meno apprezzabili, per comprendere infine che si può convivere e lavorare insieme se si superano le prese di posizione infruttuose e i pregiudizi reciproci.

 

1. Tra i principali studi in materia: UNESCO (giugno 2019), SCO (2018), Telling SAGA: improving measurement and poliWomen in science, Fact Sheet no. 55, FS/2019/SCI/55; UNE- cies for gender equality in science, technology and innovation.

2. MEF (2021), Bilancio di genere per l’anno finanziario 2020.

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