La successione nei contratti collettivi ed i riflessi sulle posizioni individuali e collettive nel pubblico impiego ed in particolare nel comparto Scuola: IL CASO DEGLI OBBLIGHI DI INFORMATIVA SINDACALE SECONDO LA SENTENZA N. 256 DEL 2022 DEL TAR PER IL VENETO

Paolo Palmaccio, Consulente del lavoro in in Formia (Lt) e San Leucio del Sannio (Bn)

 

Non di rado nella successione dei Ccnl di settore, si pone il problema del coordinamento tra le disposizioni contenute negli stessi. Accade, infatti, soprattutto nel pubblico impiego, che le disposizioni del nuovo contratto collettivo non nascano da un accordo di rinnovo o modifica / integrazione del testo previgente, ma vengano concepite come una normativa nuova ed autonoma rispetto a questo. In tal caso, ove il nuovo accordo non sia esplicitamente abrogativo del precedente, la questione del rapporto tra le disposizioni sopravvenienti e quelle fino ad allora vigenti, si pone secondo gli stessi criteri ermeneutico – applicativi che disciplinano la successione delle norme nel tempo.

Da un punto di vista metodologico, quindi, la nuova e la vecchia normativa contrattuale andranno poste in rapporto tra loro, onde verificarne la portata e le reciproche ampiezze e stabilire così se vi sia stata una abrogazione tacita o se vi siano istituti che sopravvivono anche nella vigenza del nuovo contratto.

La questione non è scevra di importanza, laddove, proprio nel pubblico impiego, la contrattazione collettiva consente la sopravvivenza anche di istituti giuridici che sono stati oggetto di abrogazione espressa, come disposto – in via esemplificativa – dal Ccnl della scuola per il quadriennio 2006/2009 la cui premessa espressamente prevede: … Le disposizioni legislative, anche se eventualmente abrogate, sono da considerarsi tuttora in vigore ai fini contrattuali qualora esplicitamente richiamate nel testo che segue, come previsto dell’art. 69 del d.lgs. n. 165/2001 … .

Una analoga criticità riguarda l’istituto delle informative preventive, funzionali all’attivazione delle procedure di concertazione sindacale, sulle materie e nelle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, per le quali si fa riferimento agli articoli 5, 6 e 7 del Ccnl della scuola per il quadriennio 2006/2009 e 4, 5 e 6 del Ccnl per il comparto Istruzione e Ricerca (che ha assorbito il comparto Scuola) per il triennio 2016/2018.

Non è casuale che siano stati richiamati entrambi, giacché l’art. 1 sotto la rubrica “campo di applicazione e struttura del contratto”, al comma 10 dispone:

… Per quanto non espressamente previsto dal presente Ccnl, continuano a trovare applicazione le disposizioni contrattuali dei Ccnl dei precedenti comparti di contrattazione e le specifiche norme di settore, in quanto compatibili con le suddette disposizioni e con le norme legislative, nei limiti del D.lgs. n. 165/2001 .. .

È palese, pertanto, che da una siffatta situazione possano sorgere contrasti, relativamente alle prerogative delle rappresentanze sindacali, laddove queste richiedano informazioni che possono sia incidere sulle posizioni giuridiche dei singoli, sia qualificarsi come un uso del diritto di conoscenza.

È proprio questa la materia su cui si è pronunciata la I Sezione del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, con la sentenza n. 256 pubblicata il 9 febbraio del 2022, in ordine all’esercizio del diritto di accesso da parte delle rappresentanze sindacali circa le modalità di utilizzo ed attribuzione delle risorse del Fondo di Istituto.

Esso è l’insieme di risorse finanziarie che arrivano alla scuola per retribuire le attività aggiuntive o l’intensificazione delle attività, sia per il personale docente, che per quello tecnico – amministrativo, secondo quanto previsto dal piano di offerta formativa del singolo istituto. Su detta materia il Ccnl per il 2006/2009 prevede che debbano trasmettersi alle organizzazioni sindacali i “nominativi del personale utilizzato nelle attività e progetti retribuiti con il fondo di istituto 1”.

La Cisl Scuola di Venezia, avendo fatto richiesta in data 30 settembre 2021 della “copia integrale degli atti di incarico, comprensivi dei nominativi, del personale beneficiario degli incarichi retribuiti con il fondo di istituto per l’a.s. 2020/2021”, al fine di poter verificare “l’attuazione della contrattazione collettiva integrativa d’istituto sull’utilizzo delle risorse”, si vedeva opporre in data 20 ottobre 2021 un provvedimento di diniego, motivato dal fatto che la richiesta si sarebbe sostanziata in “improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti dell’Amministrazione”. Conseguentemente opponeva tale provvedimento avanti il TAR, portando a sostegno della propria richiesta la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, del 20 luglio 2018, n. 4417, che ha ritenuto sussistere il diritto di accedere a tutti gli atti pertinenti all’utilizzo del Fondo di Istituto, anche a prescindere dalla loro stretta attinenza alle posizioni personali dei singoli beneficiari.

A tale richiesta, tuttavia, il Collegio opponeva il rigetto richiamando una più recente pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. VI, 30 agosto 2021, n. 6098) secondo la quale una siffatta domanda “estendendosi alla elencazione nominativa degli emolumenti percepiti, si presenta come preordinata ad un controllo generalizzato dell’azione pubblica, dato che l’interesse specifico e giuridicamente qualificato all’accesso riguarda la verifica della contrattazione collettiva integrativa sull’utilizzo delle risorse, interesse che appare perseguibile sulla base della documentazione fornita dall’istituto scolastico”. “Sul punto – osserva ancora il Consiglio di Stato – occorre valorizzare quanto disposto dal contratto collettivo di comparto 2016-2018 che, diversamente dal precedente contratto 2006-2009 (su cui correttamente si fondava la sentenza di questa Sezione n. 4417/2018), non prevede l’informativa alle organizzazioni sindacali sui nominativi del personale utilizzato nelle attività e progetti retribuiti con il fondo di istituto, ma stabilisce che l’informativa sia data nei tempi e modi atti a consentire ai soggetti sindacali di procedere ad una valutazione approfondita e al fine di consentire loro “di prendere conoscenza delle questioni inerenti alle materie di confronto e di contrattazione integrativa” e inserisce tra le materie di confronto la determinazione dei criteri per la ripartizione del fondo di istituto e per la individuazione del personale da utilizzare. Non si ritiene, infatti, che l’art. 6, lett. n), del contratto 2006-2009 sia tuttora applicabile in virtù dell’art. 10, comma 1 (2), del nuovo contratto, dato che la materia delle relazioni sindacali a livello di istituzione scolastica è stata interamente disciplinata dall’art. 22 del contratto 2016-2018, non residuando spazio per integrazioni con norme dei precedenti accordi contrattuali anche alla luce di quanto disposto dall’art. 4, comma 5, che prevede espressamente la sostituzione integrale delle precedenti disposizioni in materia di “obiettivi e strumenti delle relazioni sindacali…”.

In altri termini le “OO.SS. hanno […] senz’altro diritto, sulla base del contratto collettivo vigente, di conoscere e acquisire i documenti concernenti le procedure di ripartizione e distribuzione del fondo d’istituto per le finalità previste, ma non si pu  affermare la sussistenza di un interesse concreto e attuale all’accesso anche della documentazione di carattere nominativo, non essendo stato dimostrato in modo convincente che tali dati siano indispensabili per la verifica della attuazione della contrattazione collettiva integrativa d’istituto sull’utilizzo delle risorse”.

Ove tale condizione sia rispettata, ulteriori richieste incontrano l’ostacolo della non ammissibilità di cui all’art. 24, comma 3, della Legge 7 agosto 1990, n. 241, in quanto “… preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”. In conclusione, la pronuncia sopra esposta conferma come anche la norma di derivazione contrattuale di diritto comune sia soggetta ai medesimi criteri interpretativi e di applicazione previsti per le norme in generale: in caso di successione temporale di più Ccnl, ove non vi siano disposizioni di abrogazione espressa, occorre verificarne le rispettive portate, onde valutare l’applicabilità delle singole previsioni.
Ferma restando la previsione di cui all’anzidetto art. 1, comma 10 del Ccnl 2016/2018, la questione si pone anche in termini di bilanciamento tra la tutela della privacy e quello dell’interesse del sindacato all’accesso. Occorre, pertanto, considerare se i documenti forniti dalla scuola contengano elementi di informazione sufficienti per l’attività di verifica dei criteri utilizzati per l’individuazione delle attività integrative e per la ripartizione delle risorse, secondo quanto previsto dagli articoli 5 e 22, comma 4, lett. c), sub c2) del Ccnl 2016/2018.

Ove tale condizione sia rispettata, ulteriori richieste incontrano l’ostacolo della non ammissibilità di cui all’art. 24, comma 3, della Legge 7 agosto 1990, n. 241, in quanto “… preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”.
In conclusione, la pronuncia sopra esposta conferma come anche la norma di derivazione contrattuale di diritto comune sia soggetta ai medesimi criteri interpretativi e di applicazione previsti per le norme in generale: in caso
di successione temporale di più Ccnl, ove non vi siano disposizioni di abrogazione espressa, occorre verificarne le rispettive portate, onde valutare l’applicabilità delle singole previsioni.

 

1. Art.6, comma 2, lett. n) del Ccnl del comparto Scuola per il periodo 2006/2009.

2. È un evidente refuso: si tratta in realtà dell’articolo 1, comma 10.                                                                                                                                                                                                            S

 

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L’OPERATORE ECONOMICO può partecipare alla gara se prima di presentare l’offerta ha chiesto la rateizzazione del debito

Paolo Palmaccio, Consulente del lavoro in in Formia (Lt) e San Leucio del Sannio (Bn)

 

 Con sentenza n. 942 pubblicata il 9 febbraio 2022, la V Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla questione della regolarità contributiva e fiscale quale condizione necessaria per la partecipazione alle procedure di affidamento di lavori pubblici ed in particolare sulle circostanze esimenti l’esclusione, di cui all’articolo 80, 4° comma, del D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50.

La questione, in particolare, riguardava la possibilità di invocare tale norma, laddove l’impresa partecipante alla gara avesse presentato istanza di rateizzazione del debito contributivo prima dei tempi di scadenza del bando (si noti bene: presentata, non accolta), ovvero se questa circostanza potesse essere assimilata alle ipotesi di cui all’anzidetto comma, per il quale l’esclusione per irregolarità contributiva o tributaria «… non si applica quando l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, ovvero quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purché l’estinzione, il pagamento o l’impegno si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione delle domande …».

Più nello specifico, il tema della decisione riguardava il quesito se la mera presentazione dell’istanza di rateizzazione prima della scadenza del bando potesse assolvere o meno la condizione del perfezionamento dell’impegno al pagamento “anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione delle domande”. In primo grado, infatti, il ricorso avverso l’esclusione era stato rigettato dal TAR della Puglia (sent. 597/2021, sez. II), sul presupposto che fosse impossibile accertare l’illegittimità del Durc emesso dallo sportello unico previdenziale in pendenza dell’aggiudicazione in quanto l’istanza originariamente presentata era stata prima respinta (per non aver indicato tutti i debiti), e successivamente accolta solo a seguito di modifiche (che avevano comportato la predisposizione di 7 domande per la correzione dei periodi oggetto di regolarizzazione) successivamente allo spirare del termine di scadenza del bando. Il Consiglio di Stato, pertanto, ha ritenuto in primo luogo di dover circoscrivere il thema decidendum, relativamente alla corretta applicazione del 4° comma dell’articolo 80 del D.lgs. n. 50/2016, e quindi di valutare il comportamento della ricorrente. Su tali presupposti – fondati anche sulla comparazione tra la normativa attuale e quella previgente (art. 38, co. 1, lett. g) e i) del D.lgs. n. 163/20061 abrogato dall’art. 217 del D.lgs. n. 50/2016) – il Collegio adito ha ritenuto che il “perfezionamento” dell’impegno vincolante al pagamento potesse configurarsi anche in presenza della mera presentazione, purché nei termini di scadenza della presentazione delle domande e comunque in possesso dei requisiti di validità. Ha infatti osservato che «… l’art. 80 4, ultimo periodo, è stato modificato (dal d.l. n. 76 del 2020) in duplice senso: a) con la previsione, tra le situazioni di inapplicabilità della causa di esclusione per irregolarità tributaria e contributiva, dell’integrale estinzione del debito, oltre all’assunzione di impegno vincolante al pagamento e al pagamento stesso e b) con la precisazione che i motivi di inapplicabilità devono essersi “perfezionati” anteriormente alla scadenza del termine di presentazione della domanda, laddove, in precedenza era usato il termine “formalizzata”. Proprio la duplice contestuale modifica, induce a ritenere che l’utilizzo del termine “perfezionati” al posto di “formalizzati” si sia reso necessario per comprendere con unica locuzione verbale l’esito richiesto (come necessario all’ammissione) di tutte le vicende prima richiamate e così del “pagamento”, del “l’impegno vincolate” e dell’ “estinzione”; la modifica normativa non è, invece, ragione decisiva per dire ora necessario per volontà di legge che all’impegno vincolante assunto dal debitore segua l’accettazione dell’ente creditore …». 

Infatti, continua, la sentenza «… A voler condizionare l’ammissione dell’operatore economico che abbia presentato istanza di rateizzazione del debito tributario o contributivo all’accoglimento della domanda da parte dell’ente creditore, si finisce per far dipendere la sorte dell’impresa (nella procedura evidenziale) da un evento sul quale la stessa non ha alcun potere di intervento e che può sopraggiungere anche a distanza di tempo dal momento di presentazione; è vero che l’impresa irregolare, in vista della partecipazione ad una procedura di gara, potrebbe per tempo e, comunque, con ogni premura consentita, richiedere la rateizzazione ed assicurarsi, così, che questa sia assentita in tempo utile per presentare offerta, ma, in realtà, anche in questi casi nulla esclude che possano verificarsi intoppi formali o rallentamenti procedurali – come quelli verificatisi a danno dell’odierna appellante – che possano determinare un eccessivo ed imprevedibile allungamento dei tempi per l’accoglimento della istanza di rateizzazione …».

Su tale base, ha ritenuto di considerare la seconda istanza presentata (la prima, infatti, era stata respinta perché non riportante l’integrale indicazione dei debiti da regolarizzare), come “tempestiva” (cioè nei termini di presentazione del bando) e rispondente ai dettami di cui all’articolo 80, co. 4, del D.lgs. n. 50/2016. Da qui l’accoglimento del ricorso.

 

1. In ragione del quale l’Adunanza plenaria con la sentenza 5 giugno 2013, n. 15 aveva risolto un contrasto giurisprudenziale tra diversi orientamenti nel senso che “non è ammissibile la partecipazione alla procedura di gara, ex art. 38, comma 1, lett. g, del codice dei contratti pubblici, del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione”.

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Profili di criticità e possibili abusi del diritto nell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate nelle Cooperative Sociali

di Paolo Palmaccio – Consulente del Lavoro in Formia

 

“De hoc satis!”: potrebbe essere questa una possibile reazione all’ennesima esposizione di criticità ed abusi nel mondo delle cooperative. E a dire il vero, l’utilizzo dello schermo cooperativo per mascherare fenomeni di caporalato è fenomeno antico, se già nel 1911, con il R.D. 12 febbraio 1911, n. 278[1], il Legislatore si era posto il problema di stabilire paletti e vincoli in ordine tanto alla parità di trattamento tra soci ed ausiliari (non solo relativamente all’obbligo di corrispondere retribuzioni non inferiori ai “salari correnti”, ma anche alla partecipazione ai risultati dello scambio mutualistico), quanto all’impiego di tecnici, impiegati e dirigenti (onde non veder snaturate le modalità di resa della prestazione da parte dei soci). E che questo fenomeno continuasse è dimostrato da come, poco tempo dopo l’entrata in vigore della Legge Basevi[2], il Comitato della Commissione Centrale per la Cooperazione, con pronuncia del 16 settembre 1953[3], si sia preoccupato di ricostruire il fenomeno dell’appalto di manodopera (prima della Legge 23 ottobre 1960, n. 1369), bollandolo con lo stigma dell’illiceità dello scopo sociale[4]. Il resto, ripercorribile lungo una sorta di “cingulum diaboli”, ci porta alla cronaca di questi giorni, con l’ennesimo intervento della giurisprudenza (questa volta amministrativa: Consiglio di Stato – III sez. – sentenza n. 1571 del 12 marzo 2018) a sanzionare l’appalto a cooperative di servizi quando mascheri, in realtà, la somministrazione irregolare, e con la storia, riportata da La Stampa del 3 dicembre 2018[5], di lavoratori “svenduti al minor offerente” nel campo dei servizi a privati, sempre sfruttando “il veicolo” della cooperativa di lavoro.

L’analisi odierna, tuttavia, vuole soffermarsi sulle criticità specifiche (e quindi sugli abusi che da queste possono sorgere) relative ad una tipologia particolare di cooperativa, quale la cosiddetta Cooperativa Sociale. Si tratta di un genere di cooperativa che si affianca a quelle storiche di lavoro e di consumo (o di servizi per i soci), caratterizzate dall’eterodestinazione dei fini: laddove tradizionalmente lo scopo mutualistico era rivolto ai soci (in termini di lavoro, piuttosto che di acquisto di beni e servizi), in queste l’attività si rivolge alla comunità in termini di promozione sociale, culturale e di servizi sociali, sanitari ed assistenziali, oppure a soggetti in condizione di svantaggio fisico e sociale (che non devono necessariamente essere soci) per promuoverne l’inserimento lavorativo, ovvero ad entrambi. È quindi un genus autonomo – e in un certo qual modo “ibrido” come, per chi le ricorda, le cooperative culturali (da cui qualche autore del settore le fa discendere) – rispetto alle tipologie classiche di cooperativa, che il Legislatore vede meritevole di una legislazione speciale che ne fissa tipi, scopi, limiti e controlli, ma anche misure agevolative.

Per onestà intellettuale e chiarezza metodologica è bene sgombrare il campo da ogni equivoco: l’istituto della cooperazione, ed in questo ambito quello specifico della cooperativa sociale, svolge un compito – per modalità e finalità – meritevole di riconoscimento normativo e, in quest’ambito, anche di vedersi riconosciute (quale naturale conseguenza!) misure di tutela ed agevolazioni specifiche. Lo scrivente, d’altronde lo confessa: per trascorsi personali e professionali è sostenitore e fautore del fenomeno cooperativo e, in quanto tale, anche del riconoscimento di misure specifiche per la sua crescita e promozione. Non può tuttavia negarsi che, ove qualcuno guardi a queste misure con “occhio rapace” e con un “animo disinvolto” (per usare un eufemismo) si possa far leva su eventuali criticità e dar luogo ad abusi anche gravi.

L’analisi che segue riguarda in particolare il disposto degli articoli 4 e 5 della Legge 8 ottobre 1991, n. 381, recante la Disciplina delle Cooperative Sociali.

L’ultimo articolo, in particolare, che va letto in coordinamento con il precedente, prevede una deroga importante alla normativa in materia di contratti pubblici per le cooperative sociali di tipo b) – quelle, cioè, che si occupano dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (di cui proprio all’art. 4 della L. n. 381/1991) – che possono essere destinatarie di affidamenti diretti per la fornitura di beni e servizi.

Statuisce infatti la norma che “gli enti pubblici […], anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, possono stipulare convenzioni con le cooperative che svolgono attività di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b) […], per fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell’IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate di cui all’articolo 4, comma 1 […]”.

Se si tiene conto di come nel tempo e per lo stratificarsi di norme sullo svantaggio sociale e lavorativo (di derivazione tanto europea quanto nazionale[6] e regionale[7]), la categoria delle “persone svantaggiate” abbia visto un progressivo ampliamento, da ultimo comprendendo anche i migranti a cui sia stata riconosciuta la protezione internazionale[8], e le donne vittime di violenza di genere[9] con misure “ad hoc” quantitativamente analoghe a quelle riguardanti i lavoratori detenuti (che rientrano tra i soggetti di cui all’art. 4 della L. n. 381/1991, pur godendo di agevolazioni contributive diverse da quelle di cui al comma 3 di detto articolo), non è difficile rendersi conto di come l’operatore si trovi davanti ad un tema di particolare complessità laddove debba valutare se sia ancora rinvenibile una cesura tra i soggetti di cui all’articolo 4, comma 1, della L. n. 381/1991 e gli altri portatori di svantaggio, ovvero se il Legislatore, pur adoperando strumenti diversi da quello del D.P.C.M. di cui all’ultima parte del comma 1 del citato articolo 4, non abbia inteso ampliare tacitamente la categoria dei soggetti svantaggiati di cui all’anzidetto articolo.

Né aiuta in questo la giurisprudenza della Suprema Corte che con le sentenze n. 10506/2012 e n. 5472/2005 ha ammesso la possibilità che la cooperativa sociale si avvalga, ai fini della fruizione delle agevolazioni previdenziali, dell’ampliamento della platea delle persone svantaggiate, operata dalla Legislazione regionale, purche’ questa enumeri dettagliatamente le casistiche.

La questione è viepiù resa complessa dalla prassi amministrativa, ed in particolare dalla risposta all’interpello del 20 luglio 2015, n. 17, che in ordine alle modalità di computo dei lavoratori svantaggiati, ex articolo 4, comma 2, pur con il fine lodevole di non penalizzare l’attività delle cooperative, riduce queste al calcolo “per testa”, sorvolando bellamente, sia sulle eventuali specificità e caratterizzazione della prestazione da questi resa rispetto all’attività della cooperativa (che invece il R.D. n. 278/1911 quanto meno implicitamente richiedeva), sia sull’incidenza quantitativa (ovvero sul numero delle ore da questi svolte) rispetto al monte ore di lavoro complessivo richiesto dall’attività svolta.

È superfluo osservare come un “imprenditore di riferimento” particolarmente “disinvolto” non avrebbe – partendo da queste premesse – particolari problemi a costituire una cooperativa di tipo b), mettendoci dentro un po’ di tutto (tanto dall’inizio della crisi sembra che il Legislatore non neghi la qualifica di svantaggiato a nessuno), e comunque – in termini prudenziali – rispettando il limite del trenta per cento per i soggetti ex articolo 4, comma 1, requisito che si perfeziona e si conserva anche a fronte di una prestazione irrisoria in termini di incidenza qualitativa e quantitativa sul lavoro complessivamente prestato tra soci ed ausiliari, e che potrebbe addirittura venir meno, purché per periodi limitati[10]. E – sempre su queste premesse – a pretendere di usufruire non solo di sgravi contributivi (che possono arrivare anche all’azzeramento dell’intera obbligazione contributiva), ma anche di poter partecipare alle procedure di affidamento diretto di forniture di beni e servizi.

Dall’altra parte, non è difficile immaginare un amministratore locale, che, preso dall’emergenza sociale e dall’esigenza “di far rimanere le risorse sul territorio” (altro “slogan” che dimostra come le vie dell’inferno siano lastricate di buone intenzioni), presti orecchio a quelle sirene che gli prospettano la possibilità di affidare lavoro a soggetti che, grazie a questo escamotage, occuperebbero più di qualche “disoccupato storico” locale.

Come certe cose vadano poi a finire, in sede amministrativa e talvolta anche penale, è cronaca.

Il quesito che ci poniamo, come operatori del diritto, è se, al di là delle valutazioni metagiuridiche, esista una spada in grado di tagliare “il nodo gordiano” sopra descritto.

Un aiuto ci viene dai criteri ermeneutici di cui alle Disposizioni Preliminari sulla Legge in Generale. Da un’analisi storico–sistematica, infatti, non è difficile verificare come gli articoli 4 e 5 della L. n. 381/1991 siano non solo “norma speciale”, ma anche di “diritto eccezionale” (in quanto individuano non solo una disciplina specifica, ma prevedono espressamente eccezioni rispetto ai principi generali dell’ordinamento): come tali non sono suscettibili né di taciti ampliamenti (salvo quelli espressamente previsti), né di applicazione o interpretazione estensiva o analogica. D’altra parte, riandando alla citata sentenza della Cassazione 25 giugno 2012, n. 10506 (che richiama la sentenza n. 5472/2005), non si può fare a meno di osservare come la stessa prenda in esame un ampliamento dei soggetti di cui all’articolo 4, comma 1, operato da una norma emanata da una regione a statuto speciale, ed in quanto tale avente potestà propria sulla materia (anche in ragione del criterio di “maggior favore” conseguente alla riforma del Titolo V della Costituzione operata nel 2001); non solo: il criterio che la Suprema Corte porta a giustificazione del riconoscimento della validità dell’estensione della platea dei soggetti svantaggiati è la “dettagliata indicazione”, da cui discende la tassatività, elemento tipico della legislazione eccezionale.

Da ciò consegue che i lavoratori svantaggiati sono – per le finalità di inserimento sociale e lavorativo di cui all’articolo 1, lettera b) della L. n. 381/1991 – esclusivamente quelli di cui all’articolo 4, comma 1, e che, in assenza di apposito D.P.C.M., o di legislazione regionale assunta ex articolo 9, la loro elencazione non possa che considerarsi “numerus clausus”. Non solo: discende anche che – ove rispettati i requisiti numerici – le agevolazioni contributive di cui all’ultimo comma dell’articolo 4 sono riferibili solo a costoro e non ad altre tipologie di lavoratori in condizioni di svantaggio. Interpretazione, questa, suffragata a contrariis dalle misure per le donne ed i migranti che sono riferite alle cooperative sociali in virtù di norma speciale (segno che, in assenza di questa, la loro prestazione non sarebbe destinataria di alcuna agevolazione). Discende inoltre, con riferimento all’articolo 5, che la possibilità di dar luogo ad affidamenti diretti sia possibile esclusivamente per la fornitura di beni o servizi, ma riferibile anche all’esecuzione di opere pubbliche o alla concessione di servizi, per le quali deve procedersi ad indizione di gara (Consiglio di Stato – sez. IV – sentenza n. 2342/2013). Orientamento confermato dal Consiglio di Stato – sez. V – con sentenza n. 5149/2014. E che, comunque, l’affidamento deve sempre avvenire secondo criteri di trasparenza, meritevolezza e nell’ambito di una procedura comparativa, come stabilito sempre all’articolo 5 dall’ultimo periodo del comma 1, così come introdotto dall’articolo 1, comma 610 della Legge 29 dicembre 2014, n. 190: “…le convenzioni di cui al presente comma sono stipulate previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza”.

Conseguentemente, aggiunge chi scrive, per non tradire lo spirito della norma andrebbe anche verificato, in sede di revisione annuale di cui al D.lgs. n. 220/2002, che l’inserimento o l’accompagnamento al lavoro delle persone svantaggiate avvenga secondo un progetto di inserimento e sia coerente  con questo, venendo altrimenti messa in dubbio la stessa meritevolezza della misura di favore.

Non a caso, l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, aveva dato indicazioni ben prima dell’inserimento dell’inciso di cui sopra, con determinazione del 1° agosto 2012 n. 3[i], oltre al suggerimento dell’adozione di procedure comparative negoziate, che nell’ambito di queste, il merito della cooperativa all’affidamento diretto dovesse essere valutato sulla base del progetto di inserimento delle persone svantaggiate, che doveva trovare esposizione nella proposta di quest’ultima. Orientamento, questo, che trova conferma nelle rinnovellate “Linee Guida per l’affidamento di servizi a Enti del Terzo Settore e alle Cooperative Sociali”, di cui alla determinazione n. 32 del 20 gennaio 2016 dell’ANAC in cui, anzi, si ribadiscono – pur con le opportune deroghe al “principio di rotazione” di cui all’articolo 36 del Codice degli appalti – i criteri della “durata ragionevole della convenzione” (al fine di garantire la parità di accesso a tutti gli operatori del settore) e della “adeguatezza”, che impone la definizione ex ante delle finalità di ordine sociale che si vogliono raggiungere, e che il perseguimento delle stesse sia oggetto di appositi controlli in sede di esecuzione della convenzione.

[1] Regolamento relativo alla concessione di appalti a società cooperative di produzione e lavoro e alla costituzione dei consorzi di cooperative per appalti di lavori pubblici.

[2] D.lgs.C.P.S. 14 dicembre 1947, n. 1577.

[3] E successive pronunce del 27 luglio e 6 ottobre 1955, del 23 gennaio 1957 e del 24 luglio 1959.

[4]E’ da ritenere contrastante con lo scopo mutualistico delle società cooperative l’attività di quelle cooperative di lavoro, le quali, prive di propria gestione sociale, si limitano ad avviare i soci ad aziende industriali nel cui normale ciclo produttivo i soci stessi si inseriscono accanto alla rimanente maestranza. L’attività delle cooperative in questione è anzi illecita qualora lo scopo dei dirigenti sia quello di eludere le norme sul collocamento o evadere gli obblighi assicurativi e previdenziali, ovvero quelli derivanti dai contratti collettivi. Le cooperative di cui si tratta non possono essere iscritte nel registro prefettizio”.

[5]Il caporalato in giacca e cravatta. Messi all’asta 10 mila lavoratori” di Nicola Pinna.

[6] Da ultimo il D.M. del M.L.P.S. del 17 ottobre 2017 adottato in applicazione dell’art. 31, co.2, del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, in conformità al Reg. UE n. 651/2014, di esecuzione degli art. 107 e 108 del TFUE.

[7] L.R. n. 7/1992 della Regione Friuli Venezia Giulia e L.R. n. 16/1997 della Regione Sardegna adottate in applicazione dell’art. 9 della L. n. 381/1991.

[8] L. 27 dicembre 2017, n. 205.

[9] D. I. 11 maggio 2018.

[10] Si veda l’interpello M.L.P.S. n. 4/2008.

[i] “Linee guida per gli affidamenti a cooperative sociali ai sensi dell’art. 5, co. 1, della L. n. 381/1991” in G.U. del 9 agosto 2012, n. 185.

 

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Il contratto di rete tra professionisti: la montagna ha partorito il topolino? Una possibile soluzione operativa

di Paolo Palmaccio – Consulente del Lavoro in Formia

 

Il contratto di rete, previsto dall’articolo 3, commi 4 ter e seguenti, del D.l. 10 febbraio 2009, n. 5, costituisce una interessante forma di integrazione orizzontale tra soggetti economici e, in quanto tale, è stato dall’origine oggetto di indubbio interesse anche per i professionisti, laddove gli stessi vedano, nella struttura reticolare, un modo di sviluppare le rispettive attività secondo una filiera orizzontale, senza dover ricorrere (talvolta in modo improprio) agli strumenti della società di o tra professionisti, al consorzio stabile o alla società di mezzi, o al raggruppamento temporaneo tra professionisti, piuttosto che al Geie (Gruppo europeo di interesse economico).

La normativa antecedente all’entrata in vigore della Legge 22 maggio 2017, n. 81, tuttavia, prevedeva la possibilità di utilizzare tale contratto solo per le imprese.

A seguito di tale previsione, contenuta nell’articolo 12, comma 3, lett. a) della norma citata, è stata sancita la possibilità anche per i professionisti di utilizzare tale strumento, sia nella forma della rete mista (professionisti/imprese), sia in quella della rete di soli professionisti.

Non a caso essa recita “ … è riconosciuta ai soggetti che svolgono attività professionale, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, la possibilità: a) di costituire reti di esercenti la professione e consentire agli stessi di partecipare alle reti di imprese, in forma di reti miste, di cui all’articolo 3, commi 4-ter e seguenti, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 … ”; formulazione dalla quale è desumibile con sufficiente certezza la configurabilità del contratto di rete anche tra soli professionisti.

Assodato questo elemento, una “doccia fredda” nei confronti di molti colleghi è stata data dalla circostanza della non iscrivibilità nel registro delle imprese di un siffatto contratto in quanto nessun professionista è, per propria natura, a norma dell’articolo 2082 del codice civile, iscrivibile al registro delle imprese (ai sensi dell’art. 7, co. 2, lett. a), n. 1 del D.P.R. n. 581/1995, oltre che del R.D. 4 gennaio 1925, n. 29 e del D.M. 9 marzo 1982), elemento, questo, confermato anche dalla lettera circolare del Mise n. 3707/C del 30 luglio 2018, laddove espressamente afferma “ … a legislazione invariata, pertanto, appare possibile – a fini pubblicitari – la sola creazione di contratti di rete misti (imprenditoriali – “professionali”), dotati di soggettività giuridica, come descritti al comma 4 quater del ridetto articolo 3 del D.L. 5/2009 … ”.

Va subito evidenziato, come per altro già fatto da autorevoli commentatori, che la non iscrivibilità del contratto nel registro delle imprese, per difetto del requisito soggettivo dei partecipanti, non ha effetto sulla sua validità, quanto piuttosto sulla sua efficacia, ovvero sulla opponibilità ai terzi degli atti aventi contenuto patrimoniale effettuati nella vigenza del contratto di rete ed in applicazione del programma in esso contenuto. Dal contratto di rete, infatti, non nasce di norma né un nuovo ente, né un soggetto terzo rispetto alle persone degli aderenti (salva la previsione dell’art. 3, co. 4 quater del citato Decreto). Il richiamo agli articoli 2447 bis (per la costituzione del fondo patrimoniale), 2614 e 2615 (per la gestione del fondo stesso) e 2615 bis del codice civile (circa gli adempimenti del soggetto gestore in termini di pubblicità) è funzionale a garantire la separazione e la limitazione della responsabilità degli aderenti rispetto alle obbligazioni assunte in ragione del perseguimento del programma di rete. Ciò è previsto in via diretta dall’inciso “… Il contratto di rete che prevede l’organo comune e il fondo patrimoniale non è dotato di soggettività giuridica, salva la facoltà di acquisto della stessa ai sensi del comma 4-quater ultima parte …” aggiunto dall’art. 36, co. 4, lett. a) del D.l. 18 ottobre 2012, n. 179, e confermato “a contrariis” dal tenore dell’anzidetto comma 4 quater, come integrato dall’articolo 45, comma 2, della Legge 7 agosto 2012, n. 134 che testualmente afferma “ se è prevista la costituzione del fondo comune, la rete può iscriversi nella sezione ordinaria del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sua sede; con l’iscrizione nel registro delle imprese la rete acquista soggettività giuridica … ”, oltre che dal precedente passaggio dello stesso articolo, laddove prevede che “ … Il contratto di rete è soggetto a iscrizione nella sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante e l’efficacia del contratto inizia a decorrere da quando è stata eseguita l’ultima delle iscrizioni prescritte a carico di tutti coloro che ne sono stati sottoscrittori originari … ”.

Assodato quanto sopra, quindi, non è detto che la pubblicità del contratto sia un elemento necessario per una compagine di professionisti che intendano, ad esempio, sviluppare un modello organizzativo reticolare che riguardi quegli aspetti di tipo tecnico – culturale ed organizzativo – gestionale che, in teoria, potrebbero anche essere affidati (scegliendo il modello organizzativo gerarchico) ad una società di servizi, oppure (scegliendo il modello organizzativo di mercato) a consulenti esterni, quando le limitate dimensioni dei singoli studi professionali renderebbero difficilmente praticabile la soluzione gerarchica individuale, mentre la specificità dell’attività professionale potrebbe scoraggiare a sua volta la soluzione di mercato del consulente esterno.

Si tratta di ipotesi in cui, per tipologia e dimensioni dell’attività, la possibilità di avvalersi di strumenti di limitazione della responsabilità per le obbligazioni assunte, può rivestire un interesse effettivamente debole.

Ve ne sono tuttavia altre, come per l’appunto la partecipazione a bandi ed a procedure per  lavori ed incarichi, in cui la possibilità di frapporre una cesura tra il patrimonio personale e gli obblighi derivanti dall’esercizio dell’attività “in rete” è sicuramente determinante.

Come superare, in questi casi, la preclusione all’iscrizione di reti (sia ordinarie che dotate di soggettività) di soli professionisti, atteso che la norma consentirebbe l’iscrizione (e solo come reti dotate di soggettività) delle sole reti miste?

Possono infatti sussistere circostanze in cui si ritiene che l’integrazione orizzontale offerta dal contratto di rete sia più aderente all’attività da svolgere, rispetto a quella verticale di cui ai consorzi stabili o alle forme di coordinamento “debole” di cui alle associazioni temporanee tra professionisti (tra l’altro di norma poco o nulla patrimonializzate), e questo proprio per la possibilità di sfruttare, nel modello reticolare, i vantaggi sia delle economie di scala, sia delle economie di scopo.

D’altra parte la presenza di un soggetto imprenditore in una rete, altrimenti costituita da soli professionisti, può dar luogo ad un contrasto di interessi per il diverso modo in cui ci si approccia alla stessa: basti pensare al dibattito sulla presenza dei “soci di capitale” nelle società tra professionisti.

Un possibile modo per risolvere la questione può essere dato da un intervento nel corso di un convegno organizzato, tra gli altri, dalla Fondazione Italiana del Notariato[1] in cui, analizzando la “bancabilità” delle reti, si evidenziava come potesse “… sicuramente affermarsi che la formula della destinazione patrimoniale non soggettivizzata, oltre ad essere prevista quale strumento alternativo alla soggettività giuridica dalla normativa di vigilanza bancaria nota come Basilea II nella logica dello specialized lending, potrebbe essere la soluzione più efficiente ed agile ove si accostasse al patrimonio della rete una società veicolo …”.

Parliamo, cioè, ai nostri fini, di una società che raccolga tra i partecipanti alla rete (soli professionisti) il patrimonio da destinare alla stessa e lo custodisca né più né meno che come una “cassaforte”. Non avendo alcun compito di gestione dello stesso (che per altro competerà all’organo gestore della rete), la sua attività si esaurisce nella sola detenzione e custodia del bene: una vera e propria “società senza impresa” ovvero “di mero godimento” che – nel rispetto delle norme deontologiche – potrà essere costituita tra i professionisti partecipanti alla rete nella forma anche della società semplice prevista dagli articoli 2251 e seguenti del codice civile (si vedano all’uopo gli studi del Consiglio Nazionale del Notariato nn. 69/2016-I, 73/2016-I e 92/2016-T).

Essa, tuttavia, in quanto soggetto iscrivibile al registro delle imprese, consentirà – come un vero e proprio “cavallo di Troia” – l’iscrizione della rete ai sensi del citato comma 4 quater, come ente soggettivizzato, solo formalmente “misto”, ma in realtà interamente ed esclusivamente costituito da professionisti.

Questo, almeno, fin quando il Legislatore non vorrà provvedere (prima che lo facciano la Corte Costituzionale o la Corte di Giustizia Europea) a colmare la lacuna che impedisce la pubblicità dei contratti di rete (ordinaria o dotata di soggettività) tra soli professionisti.

[1] “Il contratto di rete” – Atti del Convegno tenutosi a Roma il 25 Novembre 2011 (N. 1/2012)  – intervento “Il regime patrimoniale delle reti” di Mirzia Bianca, Ordinario di Diritto Privato Università di Roma “La Sapienza”

 

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