L’INDENNITÀ SOSTITUTIVA DEL PREAVVISO non incide sul Tfr *

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano, Potito di Nunzio, Consulente del lavoro in Milano

 

Qualora il preavviso non sia lavorato avendo esso natura obbligatoria e non reale, il lavoratore ha diritto esclusivamente alla indennità sostitutiva del preavviso ma non anche al suo calcolo nel Tfr

 

L’indennità sostitutiva del preavviso non incide sul calcolo del trattamento di fine rapporto: è la Corte di Cassazione 19 gennaio 2023, n. 1581 ad affermarlo in una sentenza che sta facendo discutere, ma i cui contenuti sono, in realtà, tutt’altro che inediti nel panorama giurisprudenziale.

IL CALCOLO DEL TFR

Per comprendere l’approdo a cui sono arrivati i giudici di legittimità nella sentenza n. 1581/2023 in commento, occorre innanzitutto ricordare come si calcola il Tfr, somma alla quale viene riconosciuta natura di retribuzione differita, a maturazione progressiva, il cui diritto alla percezione sorge unicamente al momento della cessazione del rapporto di lavoro, salvo i casi di anticipo stabiliti per legge. L’art. 2120, comma 2, c.c. dispone che, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, la retribuzione annua da prendere a base di calcolo del Tfr comprende tutte le somme corrisposte “in dipendenza” del rapporto di lavoro, “a titolo non occasionale” e con esclusione dei rimborsi spesa. Secondo i giudici di legittimità l’indennità di mancato preavviso non rientra nella base di computo del Tfr “poiché essa non è dipendente dal rapporto di lavoro, essendo invece riferibile ad un periodo non lavorato, una volta avvenuta la cessazione del detto rapporto”. Superato infatti l’orientamento secondo cui al preavviso debba essere riconosciuta efficacia reale e dando ormai per assodata, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, la sua natura meramente obbligatoria, se parte recedente sceglie di non far lavorare il preavviso, il rapporto di lavoro cessa immediatamente, col solo obbligo di corrispondere alla parte non recedente un’indennità parametrata alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo non lavorato. “Ne consegue che il periodo di mancato preavviso deve essere escluso dal computo delle mensilità aggiuntive, delle ferie e del Tfr in quanto essendo mancato l’effettivo servizio, il lavoratore ha diritto esclusivamente alla indennità sostitutiva del preavviso ma non anche al suo calcolo per quel che qui interessa nel Tfr posto che il preavviso di licenziamento non ha effetto reale”.

NATURA DEL PREAVVISO: REALE O OBBLIGATORIA?

Pertanto, la prima questione alla quale la Corte ha dovuto rispondere è se l’indennità sostitutiva del preavviso sia o meno da ritenere una somma che “dipende” dal rapporto di lavoro, ossia un importo dovuto quale corrispettivo della controprestazione cui il lavoratore è tenuto nei confronti di parte datoriale. La risposta a tale quesito necessitava però di un precedente chiarimento circa la natura da riconoscere al preavviso, se reale od obbligatoria. Fino a pochi anni fa l’opinione dominante in dottrina e in giurisprudenza riteneva che il preavviso avesse efficacia reale, ossia che il rapporto di lavoro e le connesse obbligazioni proseguissero a tutti gli effetti per l’intera durata del preavviso, salva l’ipotesi di accettazione da parte del lavoratore dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Secondo l’ormai superata teoria dell’efficacia reale del preavviso, parte datoriale non poteva scegliere a sua insindacabile discrezione se far lavorare il preavviso o risolvere immediatamente il rapporto alla consegna del recesso con pagamento dell’indennità sostitutiva: se il lavoratore non accettava l’indennità, il rapporto di lavoro proseguiva fino alla scadenza del periodo di preavviso contrattualmente previsto, con conseguente prosecuzione di tutte le obbligazioni connesse al rapporto, comprese la maturazione della retribuzione, delle ferie, del Tfr, ecc. Il lavoratore, dal canto suo, rimaneva imbrigliato al rapporto ormai concluso, non potendo impegnarsi in un altro rapporto di lavoro fino al termine del periodo di preavviso, in quanto doveva considerarsi a disposizione del datore di lavoro recedente fino alla scadenza del preavviso.

I MOTIVI DELLA DECISIONE DELLA CASSAZIONE

L’orientamento ormai prevalente, basandosi su un’interpretazione più fedele alla lettera della norma contenuta nell’art. 2118 c.c., ricollega all’istituto del preavviso natura meramente obbligatoria, attribuendo alla parte recedente il diritto potestativo di determinare se il preavviso debba essere lavorato, con conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro fino a scadenza del termine, oppure debba essere indennizzato, con cessazione immediata del rapporto di lavoro. Dunque, in questa diversa prospettiva se effettivamente viene prestata durante il preavviso attività lavorativa, il dipendente maturerà tutti gli emolumenti legati al rapporto di lavoro, compresa l’incidenza sul Tfr delle somme retributive percepite in questo periodo; se invece il lavoratore viene esonerato dal prestare in servizio il periodo di preavviso, la relativa indennità non potrà essere annoverata tra i compensi che, ai sensi del secondo comma dell’art. 2120 sopra citato, formano la base di calcolo del Tfr, in quanto non “dipende” dal rapporto di lavoro, quanto piuttosto dalla sua risoluzione.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Sicuramente si tratta di una sentenza che creerà un nutrito dibattito, nonostante – lo si ripete – enunci un principio di diritto già sostenuto in precedenza in qualche sentenza della Suprema Corte (tra le più recenti, Cass. Civ. Sez. Lav., 05/10/2009, n. 21216 e Cass. Civ. Sez. Lav., 27/08/2015, n. 17248), anche se non rappresentava un approdo consolidato. Dibattito che può avere un senso solo se il contratto collettivo applicato non prevede la modalità di calcolo del Tfr. Diversamente il dibattito è inesistente. Infatti, si ricorda che il legislatore disciplina le modalità di calcolo del Tfr solo nel caso in cui il contratto nulla prevede in tal senso. E proprio in quest’ultima ipotesi che si inserisce il dibattito in quanto aveva indotto molti operatori, seppure in via prudenziale, a riconoscere al lavoratore licenziato l’incidenza dell’indennità sostitutiva del preavviso sul Tfr, emolumento la cui erogazione potrà essere in futuro omessa proprio sulla base del pronunciamento in commento.

Alcuni commentatori hanno già sostenuto la disparità di trattamento economico che tale principio di diritto fa conseguire ad una mera scelta discrezionale di parte datoriale a discapito del lavoratore.

Il riconoscimento dell’indennità sostitutiva in luogo del preavviso lavorato porterà a parte datoriale un risparmio economico non indifferente, considerato anche l’attuale coefficiente di rivalutazione del trattamento di fine rapporto, e conseguentemente una perdita considerevole per il lavoratore.

Si ritiene tuttavia che i giudici di legittimità abbiano coerentemente tratto da premesse generalmente condivise, quali l’obiettivo contenuto della norma contenuta nell’art. 2120, comma 2 c.c. e la natura obbligatoria del preavviso, le corrette conclusioni.

L’indennità sostitutiva del preavviso non può essere intesa come somma che dipenda (leggasi “legata e conseguente”) al naturale e fisiologico svolgimento del rapporto di lavoro; si tratta piuttosto di un indennizzo che – seppur parametrato alla retribuzione persa per il periodo di preavviso non prestato – non può produrre tutti i benefici che solo l’effettiva prestazione può generare. Tanto più che non rientra neppure nel concetto di “non occasionalità” richiesto dal menzionato art. 2120 c.c. per le somme da annoverare nella base di calcolo del Tfr. Una volta consolidato l’orientamento che sostiene la natura obbligatoria del preavviso, non potrà che consolidarsi – come logica conseguenza – anche il principio di diritto per cui nel calcolo del Tfr non incide l’indennità sostitutiva del preavviso.

 

 

* Pubblicato su Corriere delle Paghe, 9 marzo 2023.

 

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LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO, la pensione non riduce il risarcimento del danno*

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano, Potito di Nunzio, Consulente del lavoro in Milano

La Cassazione offre un quadro completo delle ragioni per le quali il trattamento pensionistico non possa essere considerato utile ai fini della riduzione del risarcimento del danno da illegittimo recesso: il beneficio economico derivante dall’accesso al trattamento pensionistico non è in alcun modo derivato dal recesso, ma consegue al verificarsi di presupposti completamente differenti

 

Il trattamento pensionistico percepito dal lavoratore illegittimamente licenziato non può essere detratto a titolo di aliunde perceptum dal risarcimento del danno al quale parte datoriale sia stata condannata per effetto dell’errato provvedimento espulsivo adottato. Con la recentissima sentenza pubblicata lo scorso 31 ottobre 2022, n. 32130 la Corte di Cassazione ha ribadito il proprio orientamento in materia, ricordando che può ritenersi “compensativo (quale aliunde perceptum) del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa”.

IL FATTO

Il caso affrontato dalla Suprema Corte atteneva un ex-dipendente del Ministero per i Beni e le Attività Culturali che, nonostante avesse ottenuto il provvedimento di trattenimento in servizio per ulteriori due anni, era stato licenziato prima che il temine biennale venisse a scadenza, in quanto aveva raggiunto il requisito contributivo massimo che gli consentiva l’accesso al trattamento pensionistico. Proprio in quel tempo, infatti, l’art. 72, c. 11, D.l. 112/2008 convertito in L. n. 133/2008 aveva introdotto la possibilità per le amministrazioni pubbliche di recedere dal rapporto di lavoro al raggiungimento, da parte del dipendente, del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento. Tuttavia, i giudici di prime cure avevano ugualmente dichiarato illegittimo il licenziamento, in quanto la nuova normativa prevedeva espressamente la non applicabilità della facoltà di recesso nel caso in cui il dipendente avesse ottenuto il provvedimento di trattenimento in servizio prima dell’entrata in vigore della norma. Per effetto della declaratoria di illegittimità del recesso, il Ministero era stato condannato al pagamento di un’indennità risarcitoria pari all’importo delle retribuzioni perse dalla data dell’illegittimo recesso al termine del biennio di trattenimento in servizio (dal 3.9.2009 al 31.10.2010). Da tale somma risarcitoria i giudici d’appello avevano decurtato la somma percepita dall’ex dipendente a titolo di pensione d’anzianità nell’arco temporale sopra indicato (dal 3.9.2009 al 31.10.2010). Secondo i giudici di seconde cure infatti, non potendo nel caso di specie sanzionare l’illegittimità del recesso con il ripristino del rapporto di lavoro – circostanza che avrebbe legittimato l’Inps a richiedere al lavoratore la restituzione delle somme pensionistiche erogate -, la mancata detrazione dall’indennità risarcitoria delle quote di pensione ricevute avrebbe comportato un indebito arricchimento del lavoratore, il quale avrebbe percepito, per lo stesso periodo di riferimento, sia il risarcimento del danno che la pensione. Il lavoratore ha dunque adito la

Suprema Corte contestando la sentenza d’appello nella parte relativa proprio alla detrazione della pensione percepita dal risarcimento del danno, fondando la propria eccezione sul costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui solo il compenso da lavoro percepito durante il c.d. periodo intermedio (intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di annullamento) può comportare la riduzione dell’indennità risarcitoria, non anche un trattamento economico che non è in alcun modo ricollegabile al recesso.

I MOTIVI DELLA DECISIONE

La sentenza n. 32130/2022 in esame – accogliendo le ragioni del lavoratore – ha ribadito ancora una volta il principio sopra invocato, sottolineando come l’importo risarcitorio derivante dalla declaratoria di illegittimità del recesso possa essere unicamente ridotto da compensi percepiti dal lavoratore attraverso l’impiego della stessa capacità lavorativa che quest’ultimo avrebbe impiegato ove non fosse stato licenziato. Il diritto alla pensione invece discende da tutt’altri presupposti: si tratta di compensi che prescindono completamente dall’impiego da parte del lavoratore delle sue energie lavorative e deriva piuttosto dal verificarsi di requisiti di anzianità anagrafica e contributiva stabiliti dalla legge. Pertanto le utilità economiche di cui il lavoratore ha beneficiato con l’accesso al pensionamento non sono causalmente ricollegabili al licenziamento subìto e sono quindi da escludere dalla regola della compensatio lucri cum damno, la quale – si ricorda – prevede che, ai fini della quantificazione del risarcimento dei danni derivanti da un fatto illecito, occorre tener conto anche dell’eventuale vantaggio che lo stesso illecito abbia comportato in favore del danneggiato. Nella pronuncia in esame la Suprema Corte prospetta alcuni esempi dai quali si evince ancor più chiaramente l’impossibilità di considerare detraibili dal risarcimento del danno somme percepite a titolo di pensione. Si pensi ad esempio ai casi in cui la legge consente al lavoratore di accedere anticipatamente al trattamento pensionistico in conseguenza proprio della perdita del posto di lavoro, ipotesi in cui il rapporto tra pensione e retribuzione si pone quindi in termini di alternatività. Ebbene, in tali ipotesi l’intervenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge il presupposto stesso della concessione dell’anticipo pensionistico, facendo sorgere in capo al lavoratore l’obbligo di restituzione all’Inps delle somme percepite a titolo di pensione. Allo stesso obbligo restitutorio soggiace il lavoratore nelle ipotesi in cui la legge prevede l’espresso divieto di cumulo tra pensione e retribuzione: anche in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ab origine il diritto al pensionamento, attribuendo all’ente erogatore del trattamento pensionistico il diritto di ottenere la ripetizione di quanto corrisposto al lavoratore. È evidente che qualora si trattenessero dall’indennità risarcitoria le somme percepite a titolo di pensione si arrecherebbe al lavoratore un danno, in quanto egli si vedrebbe corrispondere un importo risarcitorio ridotto della stessa misura che dovrà restituire all’Inps. I giudici di legittimità hanno anche ricordato quanto affermato dalle Sezioni Unite nel 2018 quando hanno escluso la possibilità di ridurre il risarcimento del danno conseguente ad un fatto illecito che aveva cagionato la morte di un uomo detraendo la pensione di reversibilità ricevuta dalla moglie. Tale trattamento pensionistico infatti, pur derivando dal fatto illecito che ha cagionato la morte del coniuge, risponde ad un diverso disegno attributivo, individuabile nel rapporto di lavoro pregresso del de cuius, nei contributi versati e nella previsione di legge, “tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte” (Cass. SS. n. 12564/2018).

Nessun rilievo potrebbe nemmeno avere il fatto che alla pronuncia di illegittimità del recesso non è conseguito l’effettivo reintegro del  lavoratore, atteso che – nelle more del giudizio – era scaduto il biennio di trattenimento in servizio. Per effetto dell’accertamento giudiziale, infatti, la prosecuzione del rapporto di lavoro vi era stata de iure, tant’è che il Ministero ha dovuto ripristinare il rapporto contributivo-previdenziale del dipendente fino al termine del biennio, erogare a titolo risarcitorio le retribuzioni non pagate fino a detto termine. Conseguentemente, anche il dipendente sarà chiamato a ripetere all’Inps la pensione percepita nel periodo 3.9.2009-31.10.2010 (quest’ultima divenuta, sia pure ex post e per effetto dell’accertamento contenuto nella sentenza, priva ormai di giustificazione causale), senza che rilevi l’effettiva reintegra dello stesso nel posto di lavoro per effetto del termine biennale di trattenimento in servizio. In ultimo i giudici di legittimità hanno altresì chiarito che nemmeno si arriverebbe ad una diversa conclusione obiettando che nel lavoro pubblico privatizzato il raggiungimento dei limiti d’età non consente in nessun caso il prosieguo del rapporto. Nella vicenda in esame infatti il risarcimento è stato in concreto parametrato al solo arco temporale in cui il lavoratore avrebbe potuto continuare a lavorare, ossia al periodo fino 31.10.2010, data di scadenza del biennio di trattenimento in servizio.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

La pronuncia in esame offre un quadro davvero completo delle ragioni per le quali il trattamento pensionistico non possa essere considerato utile ai fini della riduzione del risarcimento del danno da illegittimo recesso: il beneficio economico derivante dall’accesso al trattamento pensionistico non è in alcun modo derivato dal recesso, ma consegue al verificarsi di presupposti completamente differenti.

 

 

 

 

* Pubblicato in Corriere delle Paghe, 10 dicembre 2022, n. 12, p. 21-23.

 

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LOTTA ALLO SFRUTTAMENTO DI MANODOPERA: una nuova condanna penale*

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano, Potito di Nunzio, Consulente del lavoro in Milano

La Cassazione ha ravvisato nella condotta datoriale tutti gli indici di sfruttamento di manodopera previsti dalla norma di legge: la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi  da quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente rappresentativi del settore, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

 

Tredici operai extracomunitari (provenienti da Cina e Pakistan) impiegati presso un laboratorio tessile con retribuzioni di molto al di sotto dei minimi previsti dal Ccnl di settore, orario lavorativo di circa 8/9 ore giornaliere, condizioni di alloggio degradanti e non conformi alle regole igieniche essenziali, costretti ad accettare tali condizioni di lavoro per poter provvedere alle loro elementari esigenze di vita: per le corti di merito di Mantova (primo grado) e di Brescia (secondo grado) tali elementi configurano il reato di sfruttamento della manodopera. La condanna inflitta al datore di lavoro dalle corti penali è stata la reclusione pari a un anno e quattro mesi e la multa di Euro 4.800, oltre alla confisca del profitto del reato per una somma complessiva di Euro 98.706,20, ossia l’equivalente dei contributi assistenziali omessi.

LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE

La condanna è stata confermata anche dalla Quarta Sezione penale della Cassazione1, che – applicando i principi di diritto ribaditi nei propri precedenti – ha ritenuto che nel caso di specie fossero stati provati tanto lo “sfruttamento” quanto l’“approfittamento dello stato di bisogno”, ossia i due elementi caratterizzanti il delitto di cui all’art. 603-bis c.p. Secondo i giudici di legittimità infatti le censure formulate dalla difesa del datore di lavoro erano del tutto prive di fondamento. Parte datoriale aveva eccepito che nel caso in esame difettavano i presupposti per poter ritenere integrato il reato di sfruttamento della manodopera, non essendo stata provata la reiterazione nella corresponsione di corrispettivi palesemente inferiori a quelli indicati nei contratti di lavoro, così come le contestate inosservanze in materia di sicurezza e igiene erano in realtà riducibili ad uno stato di generale disordine dell’ambiente di lavoro, certamente non punibili con una sanzione penale. Sempre secondo la prospettazione offerta dal datore di lavoro, nel corso del processo era stata provata una mera difficoltà economica datoriale che aveva impedito di ottemperare agli obblighi retributivi, ma non era emersa alcuna volontà di ledere la dignità della persona, tant’è che non era stata esercitata sui lavoratori alcuna illecita pressione nel corso della giornata lavorativa, tutti erano muniti di permesso di soggiorno ed erano stati regolarmente assunti dalla società. Eccezioni, queste ultime, che non hanno però convinto i giudici di legittimità.

Infatti, a dispetto di quanto genericamente contestato da parte datoriale, nella sentenza d’appello i giudici hanno dato motivato conto della ricorrenza di tutti i profili oggettivi del reato contestato riportando gli elementi acquisiti nel corso dell’istruttoria con riferimento alla condizione di sfruttamento dei tredici lavoratori. In particolare nel corso del processo altre soluzioni. Anche le censure in ordine al provvedimento di confisca del profitto del reato e alla sua quantificazione sono state respinte dalla Cassazione, che ha sottolineato come il provvedimento di confisca sia obbligatorio per legge (in quanto disposto dall’art. 603-bis c.p.) e la quantificazione del profitto fosse stata analitica, avendo i giudici di appello basato il calcolo sullo stipendio medio di ciascun operaio come previsto dai contratti collettivi nazionali di settore (pari a 7,02 euro per ogni ora), moltiplicato per i giorni di sfruttamento e per il numero dei dipendenti coinvolti. Anche nel caso in esame i giudici hanno condotto l’accertamento circa la sussistenza del reato di cui all’art. 603-bis c.p. verificando che vi fosse la prova di tutti gli indici di sfruttamento previsti dalla norma di legge, dunque la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi da quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente rappresentativi del settore, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Non solo: i giudici hanno valutato anche lo stato di bisogno effettivo e concreto

era emersa la reiterazione nella violazione dei principali istituti di legge e di contrattazione collettiva, con riferimento in particolare al salario pattuito e corrisposto, alla durata dell’orario di lavoro, al regime del lavoro straordinario e festivo, alle condizioni degli alloggi e del luogo di lavoro. Era stata altresì assunta la prova circa lo stato di bisogno dei lavoratori, i quali accettavano simili condizioni per potere acquisire le risorse minime indispensabili per sopravvivere in un continente non loro. Le condizioni di sfruttamento inoltre non si erano limitate ad un periodo temporale circoscritto, ma era provato che si erano protratte per alcuni mesi, mentre prive di riscontro erano risultate le giustificazioni del ricorrente in ordine all’asserita, temporanea crisi di liquidità dell’azienda, che comunque non avrebbe dovuto gravare sulle condizioni di lavoro della manodopera, ma avrebbe dovuto portare il datore di lavoro ad altre soluzioni. Anche le censure in ordine al provvedimento di confisca del profitto del reato e alla sua quantificazione sono state respinte dalla Cassazione, che ha sottolineato come il provvedimento di confisca sia obbligatorio per legge (in quanto disposto dall’art. 603-bis c.p.) e la quantificazione del profitto fosse stata analitica, avendo i giudici di appello basato il calcolo sullo stipendio medio di ciascun operaio come previsto dai contratti collettivi nazionali di settore (pari a 7,02 euro per ogni ora), moltiplicato per i giorni di sfruttamento e per il numero dei dipendenti coinvolti. Anche nel caso in esame i giudici hanno condotto l’accertamento circa la sussistenza del reato di cui all’art. 603-bis c.p. verificando che vi fosse la prova di tutti gli indici di sfruttamento previsti dalla norma di legge, dunque la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi da quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente rappresentativi del settore, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Non solo: i giudici hanno valutato anche lo stato di bisogno effettivo e concreto in cui i dipendenti versavano, non dando alcuna rilevanza al fatto che formalmente questi risiedessero sul nostro territorio nazionale con regolare permesso di soggiorno e fossero regolarmente assunti dall’azienda. La necessità di lavorare a condizioni non conformi a quelle previste dalla legge e dai Ccnl di settore per attendere alle minime esigenze di vita, da una parte, e l’approfittamento di tale bisogno da parte datoriale, dall’altra, hanno determinato la condanna dell’utilizzatore della prestazione.

CONCLUSIONI

Insomma, un’altra condanna contro un fenomeno che sta venendo sempre più alla luce grazie al riflettore acceso dal legislatore ad una pratica che da troppo veniva lasciata impunita e alle indagini più capillari svolte delle autorità ispettive e di pubblica sicurezza.

 

 

  1. * Pubblicato anche in Corriere delle Paghe, 11/2022.
    1. Cass., sez. IV penale, 21 settembre 2022, n. 34937.

 

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PIATTAFORME DIGITALI: la proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio*

Potito di Nunzio, Presidente dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro della Provincia di Milano

 

Uno degli obiettivi dell’Unione è la promozione del benessere dei suoi popoli e dello sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su un’economia sociale di mercato altamente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale. Il diritto di ogni lavoratore a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose e il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione sono sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il pilastro europeo dei diritti sociali afferma che “indipendentemente dal tipo e dalla durata del rapporto di lavoro, i lavoratori hanno diritto a un trattamento equo e paritario per quanto riguarda le condizioni di lavoro e l’accesso alla protezione sociale e alla formazione”. Comincia così la proposta di Direttiva del Parlamento e del Consiglio europeo.1

Dopo aver esposto l’attuale contesto sociale ed economico in cui si inserisce la proposta di Direttiva ed esplicitato una serie di preoccupazioni sulla possibile corsa al ribasso nelle pratiche occupazionali e sulle norme sociali a scapito dei lavoratori, vengono richiamate le direttive: − sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili;

− sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza;

− sull’orario di lavoro;

− sul lavoro tramite agenzia interinale;

-sull’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro della sicurezza e della salute durante il lavoro;

− sull’informazione e alla consultazione dei lavoratori;

− sui salari minimi adeguati;

− sulla trasparenza delle retribuzioni; oltre

− il regolamento sul coordinamento dei sistemi nazionali di sicurezza sociale che si applicano sia ai lavoratori subordinati che ai lavoratori autonomi che lavorano mediante piattaforme digitali in una situazione transfrontaliera;

− e la raccomandazione del Consiglio sull’accesso alla protezione sociale per i lavoratori subordinati e autonomi la quale raccomanda agli Stati membri di garantire che sia i lavoratori subordinati sia i lavoratori autonomi abbiano accesso a una protezione sociale effettiva e adeguata. La raccomandazione riguarda le prestazioni di disoccupazione, malattia e assistenza sanitaria, maternità e paternità, invalidità, vecchiaia e ai superstiti e le prestazioni in caso di infortuni sul lavoro e malattie professionali.

 

La proposta di Direttiva esplicita poi la coerenza con le altre normative dell’Unione, quali

− il regolamento che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online (“regolamento sulle relazioni piattaforme/imprese”), che mira a garantire che gli “utenti commerciali” autonomi dei servizi di intermediazione di una piattaforma online siano trattati in modo trasparente ed equo e abbiano accesso a mezzi di ricorso efficaci in caso di controversie;

− il regolamento generale sulla protezione dei dati;

− la proposta di legge sull’intelligenza artificiale che, una volta adottata, affronterà i rischi connessi all’uso di determinati sistemi di intelligenza artificiale.

A seguire una serie di ben cinquantaquattro “considerando”, tutti ovviamente molto importanti e sui quali non si pu  che essere ! d’accordo. Qui di seguito ne metto in evidenza due, non perché siano i più importanti, ma perché mi danno lo spunto per proporre qualche mia riflessione e provocazione sul mondo che cambia e sulla staticità dei legislatori, comunitari e nazionali:

− sul terzo che ricorda il principio 5 del pilastro europeo dei diritti sociali, proclamato a Göteborg il 17 novembre 2017, il quale stabilisce che, indipendentemente dal tipo e dalla durata del rapporto di lavoro, i lavoratori hanno diritto a un trattamento equo e paritario per quanto riguarda le condizioni di lavoro e l’accesso alla protezione sociale e alla formazione, che, conformemente alle legislazioni e ai contratti collettivi, va garantita ai datori di lavoro la necessaria flessibilità per adattarsi rapidamente ai cambiamenti del contesto economico, che vanno promosse forme innovative di lavoro che garantiscano condizioni di lavoro di qualità, che vanno incoraggiati l’imprenditorialità e il lavoro autonomo e che va agevolata la mobilità professionale;

− sul sesto il quale ricorda che il lavoro mediante piattaforme digitali pu  offrire opportunità per accedere più facilmente al mercato del lavoro, ottenere un reddito supplementare attraverso un’attività secondaria o godere di una certa flessibilità nell’organizzazione dell’orario di lavoro. Al tempo stesso il lavoro mediante piattaforme digitali comporta una serie di sfide, in quanto pu  rendere più labili i confini tra il rapporto di lavoro e l’attività autonoma e tra le responsabilità dei datori di lavoro e quelle dei lavoratori. Un’errata classificazione della situazione occupazionale ha conseguenze per le persone interessate, in quanto rischia di limitare l’accesso ai diritti sociali e dei lavoratori esistenti. Essa determina inoltre disparità di condizioni rispetto alle imprese che classificano correttamente i propri lavoratori e ha implicazioni per i sistemi di relazioni industriali degli Stati membri, per la loro base imponibile e per la copertura e la sostenibilità dei loro sistemi di protezione sociale. Tali sfide, sebbene non riguardino soltanto il lavoro mediante piattaforme digitali, sono particolarmente impegnative e pressanti nell’economia delle piattaforme.

Infine, viene proposto l’articolato legislativo che consta di ventiquattro articoli suddivisi in sei capi che dovrà essere recepito entro due anni dalla data di entrata in vigore della Direttiva stessa.

Il dibattito sulla regolamentazione dei lavoratori delle piattaforme digitali entra quindi nel vivo in tutti gli Stati membri. Non che in Italia il dibattito fosse assente, anzi. Bisognerà per  verificare se i nostri ragionamenti e le nostre norme saranno in linea con la Direttiva europea. Ma su questo avremo modo di ritornarci quando la Direttiva sarà pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Unione Europea.

Come prima accennavo la lettura della Direttiva mi dà lo spunto per proporre qualche mia riflessione e provocazione. Innanzitutto, osservo come il nostro “vecchio continente” è vecchio anche nel proporre norme che si propongono di regolamentare un’attività che di per sé non è nuova ma che di nuovo ha solo gli strumenti con i quali si lavora. Infatti, l’attività svolta tramite piattaforma non è diversa da quella che si svolgeva in passato quando le piattaforme digitali non esistevano. Tutti noi ricordiamo i c.d. “messaggeri metropolitani” meglio conosciuti come “pony express” oppure i c.d. padroncini. Solo che allora si utilizzava il telefono o la centrale radio. Il problema principale rimane quello di sempre e cioè in quale fattispecie giuridica collochiamo questi lavoratori? Nell’alveo della subordinazione o in quello del lavoro autonomo? La proposta di Direttiva non prende una posizione specifica e molto spesso utilizza termini che ben si configurano nel rapporto di lavoro subordinato anche se, come si legge nelle premesse, nei “considerando” e nello stesso articolato, la proposta di Direttiva lascia ampio spazio di decisione al legislatore nazionale tenuto conto della contrattazione collettiva e del- ! la giurisprudenza formatasi sull’argomento. La proposta di Direttiva, invece, si preoccupa di introdurre una serie di presunzioni (cose complicatissime che incrementano le sfumature di grigio) per identificare se l’attività debba considerarsi svolta tramite piattaforma e se si tratta di un rapporto di lavoro, indipendentemente se esso sia autonomo o subordinato. Peccato che tutte le presunzioni sono tipiche per sussumere la fattispecie nella subordinazione. La proposta di Direttiva lascia poi la possibilità di confutare la presunzione legale a cura delle parti.

E qui arriva la mia prima provocazione: ma credete, cari lettori, che sia giunto il momento di preoccuparsi meno della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro? Non è giunto il momento di riconoscere, come sostiene il terzo considerando che “indipendentemente dal tipo e dalla durata del rapporto di lavoro, i lavoratori hanno diritto a un trattamento equo e paritario per quanto riguarda le condizioni di lavoro e l’accesso alla protezione sociale e alla formazione”? Non sarebbe il caso di smetterla di pensare che per avere maggiori tutele bisogna necessariamente varcare la soglia del “fortino” del lavoro subordinato? In una società moderna c.d. “fluida” o “liquida” fatta di rapporti brevi dobbiamo pensare a dare ad ogni forma di lavoro una uguale tutela. Solo così la smetteremmo di alimentare le fratture che esistono nel mondo del lavoro fatto di lavoratori dipendenti e finti dipendenti, autonomi e finti autonomi, di imprenditori e finti imprenditori. Ma se sempre nello stesso terzo “considerando” si afferma che vanno incoraggiati l’imprenditorialità e il lavoro autonomo e che va agevolata la mobilità professionale, perché non prendiamo la palla al balzo (questa è la mia seconda provocazione) e facciamo diventare “piccoli imprenditori” tutti i lavoratori autonomi lasciando il lavoro autonomo soltanto per professionisti ordinistici? Visto anche il sesto “considerando” che esprime il timore che il lavoro tramite piattaforma pu  rendere più labili i confini tra il rapporto di lavoro e l’attività autonoma e tra le responsabilità dei datori di lavoro e quelle dei lavoratori? Ci  che conta, a mio parere, è riconoscere a chiunque presti una attività di lavoro una base comune di tutela nel caso di impossibilità sopravvenuta temporanea per malattia, maternità, infortunio ecc.. E non solo: bisogna anche prevedere un compenso minimo inderogabile e una tutela sul numero massimo di ore di lavoro da espletare. Ma perché mai un piastrellista dipendente deve poter lavorare un massimo di quarantotto ore settimanali e un piastrellista autonomo non deve avere alcun limite di orario? E la stessa cosa vale per qualsiasi tipo di attività, compreso i lavoratori delle piattaforme digitali. Ricordo che il nostro art. 36 Cost. fa riferimento ai lavoratori e non soltanto ai lavoratori subordinati. Non è forse giunto il momento di gettare il cuore oltre l’ostacolo (anche se qualche attore – e non mi riferisco ai lavoratori o imprenditori – dovrà modificare il suo essere attore) e andare verso un modello giuridico che preveda uno statuto dei lavori, lasciando più libere le parti di meglio disciplinare il proprio rapporto di lavoro avendo il legislatore cura di assicurare a tutti uguali tutele di base.

Oggi abbiamo un mercato del lavoro in sofferenza anche per l’alto costo del lavoro (si badi bene, non alto costo delle retribuzioni). E proprio l’Unione Europea dovrebbe cercare di armonizzare le politiche occupazionali perché il costo del lavoro non deriva soltanto dalle retribuzioni e dagli oneri sociali ma da tutti gli altri istituti legali e contrattuali tipici del rapporto di lavoro subordinato. Faccio un esempio per tutti: in Italia i datori di lavoro che occupano più di cinquanta dipendenti hanno l’obbligo di assumere il sette per cento di personale appartenente a categorie protette (che personalmente ritengo cosa buona e giusta). In Spagna soltanto il due per cento. In Italia il massimale annuo di retribuzione ai fini contributivi per chi non ha contribuzione ante 1996 è pari a 105.014,00, in Spagna supera di poco i 45.000,00. In una gara internazionale chi pensiate potrebbe avere la meglio?

 

* Pubblicato su Lavoro Diritti Europa, 1/2022

1. COM (2021) 762 final 2021/0414 (COD) Bruxelles 9 dicembre 2021.

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SFRUTTAMENTO DEL LAVORO: il sequestro preventivo dell’azienda solo se ci sono concreti elementi di prova del reato

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano (*)

Il caporalato e lo sfruttamento del lavoro sono fenomeni che purtroppo continuano ad intossicare il nostro mercato del lavoro, soprattutto il settore agricolo; una piaga che il Legislatore, soprattutto nell’ultimo decennio, ha cercato di arginare affinando e differenziando le “armi di giustizia”, per non lasciare impunita alcuna ipotesi di irregolarità che mini la dignità della persona, dalla meno grave alla più odiosa. Per questo motivo, nell’attuale panorama giuridico, abbiamo ben tre norme che sanzionano altrettante fattispecie nelle quali può manifestarsi il fenomeno in esame, tutte richiamate e ben sintetizzate in una recente sentenza della Quarta Sezione penale della Suprema Corte che chiarisce non solo le differenti condotte perseguite dall’ordinamento, ma anche gli elementi probatori necessari per il loro accertamento1. Nella sentenza appena citata, i giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi in ordine ad un provvedimento di dissequestro di un’azienda agricola disposto dal Tribunale del Riesame di Cosenza: la misura preventiva era stata precedentemente autorizzata in conseguenza dell’indagine penale in corso nei confronti dei titolari dell’azienda, indagati per sfruttamento del lavoro (condotta prevista e punita dall’art. 603-bis c.p.). Secondo la prospettazione del Procuratore generale della repubblica di Cosenza, infatti, questi avrebbero impiegato braccianti in stato di bisogno, sottoponendoli a condizioni di sfruttamento concretizzatisi nella reiterata corresponsione di retribuzioni difformi a quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali di settore e comunque sproporzionate rispetto alla quantità e qualità di lavoro prestato, nella reiterata violazione della normativa sull’orario di lavoro, sui riposi, sulle ferie, nella violazione delle norme in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro, nella sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza e a situazioni alloggiative degradanti. In conseguenza dell’azione penale avviata nei confronti dei titolari dell’azienda era scattato il sequestro preventivo della struttura, misura cautelare con il precipuo scopo di evitare che il trascorrere del tempo necessario allo svolgimento del processo penale potesse pregiudicare irrimediabilmente l’effettività della giurisdizione espressa con la sentenza di condanna. È evidente che una misura di coercizione preventiva così invasiva non possa essere disposta se non ove sussista il c.d. fumus commissi delicti, ossia nel solo caso in cui vi siano elementi concreti che facciano apparire verosimile che un reato sia stato commesso.

Prima di spiegare i motivi di infondatezza del ricorso promosso dal Procuratore generale della Repubblica avverso il provvedimento che aveva annullato il sequestro preventivo dell’azienda – proprio per mancanza del fumus commissi delicti -, i giudici della Quarta Sezione penale hanno offerto una puntuale ricostruzione della normativa vigente in materia di sfruttamento di lavoro, soffermandosi in particolare sull’ambito di applicazione del reato punito dall’art. 603-bis. Tale norma si colloca nel mezzo di due altre disposizioni che sanzionano, una più duramente, l’altra in modo decisamente più blando, altrettante ipotesi di utilizzazione irregolare di manodopera. La condotta più odiosa e per questo punita con la pena più afflittiva (reclusione da otto a vent’anni) è la riduzione o il mantenimento in stato di soggezione, condotta che si attua mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona (art. 600 c.p.). Si tratta di una vera e propria riduzione in schiavitù del lavoratore, costretto – sotto la pressione di chi ha su di lui un’autorità tale da eliminare ogni forma di libertà personale – a lavori forzati, all’accattonaggio, allo sfruttamento delle prestazioni personali. La condotta sanzionata invece in modo meno grave è la somministrazione irregolare o fraudolenta di manodopera, che si realizza quando l’utilizzatore impieghi manodopera fornita da un soggetto non autorizzato all’intermediazione (somministrazione irregolare, art. 38, D.lgs. 81/2015), magari allo scopo precipuo di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore (somministrazione fraudolenta, art. 38-bis, D.lgs.81/2015). Tali condotte integrano un mero reato contravvenzionale ed espongono l’utilizzatore e il somministratore alla sola pena dell’ammenda, salva l’ipotesi di sfruttamento di minori, nel cui caso si aggiunge anche la pena dell’arresto fino a diciotto mesi. L’art. 603-bis c.p. si colloca esattamente tra le due disposizioni citate: le condotte punite sono l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, represse con la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato. In particolare, oltre al caporale, viene perseguito penalmente anche colui che “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione (…), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”. I giudici della Quarta Sezione penale ricordano la portata dei due elementi oggettivi che caratterizzano l’ipotesi di reato in esame, ossia, da una parte, lo “sfruttamento” e, dall’altra parte, l’“approfittamento dello stato di bisogno”. In particolare, quanto al concetto di sfruttamento, i giudici di legittimità ricordano che la norma offre una serie di indici dai quali poter desumere la sussistenza o meno di una condizione di sfruttamento dei lavoratori. Questi sono:

  1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
  2. la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
  3. la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Tali indici non definiscono, né esauriscono il concetto di sfruttamento, piuttosto forniscono all’interprete (dunque al giudice) delle linee guida che possono aiutare nell’accertamento in concreto della sussistenza di condizioni di sfruttamento. Dunque, il ricorrere di uno o più di tali indici non può lasciare automaticamente presumere la configurabilità dell’ipotesi di reato: questa deve invece essere vagliata in concreto, per comprendere la gravità delle violazioni perpetrate a danno dei lavoratori, nonché l’intensità e il grado di sfruttamento e di degrado cui siano state sottoposte le vittime. Infatti, come rimarcato dai giudici della Quarta Sezione Penale della Cassazione, solo significative alterazioni del rapporto di lavoro e un eclatante pregiudizio dei lavoratori può effettivamente integrare l’ipotesi delittuosa duramente punita dall’art. 603-bis c.p.. Quanto invece al secondo elemento oggettivo che caratterizza l’ipotesi di reato in esame, ossia lo sfruttamento dello stato di bisogno, la Cassazione sottolinea come per “stato di bisogno” non debba intendersi uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualsiasi libertà di scelta, bensì una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose. Anche questa condizione deve necessariamente essere provata in modo puntuale e concreto, tanto che – ricordano gli Ermellini – nemmeno la mera irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato in parola.

Nel caso di specie, il Gip aveva disposto il sequestro dell’azienda agricola ritenendo sussistente il fumus commissi delicti in via quasi automatica, riscontrando la non corrispondenza delle condizioni riservate ai lavoratori con quelle previste dai contratti collettivi di categoria. Tuttavia, come poi rilevato dal giudice del riesame, nell’adozione del provvedimento cautelare era completamente mancato un esame concreto delle condizioni alle quali erano stati sottoposti i lavoratori. Perché vero era che le retribuzioni percepite erano inferiori a quelle tabellari applicate nel settore, ma di poco (34 euro a giornata contro i 37,514 delle tabelle paga vigenti nella provincia di Matera), dunque non tali da potersi parlare di sfruttamento. Anche la reiterazione delle condotte non sussisteva, in quanto questa doveva essere intesa come un comportamento ripetuto nei confronti dello stesso lavoratore, non come mera sommatoria di condotte realizzate episodicamente a danno di lavoratori diversi. Assente anche la prova della violazione della normativa sull’orario di lavoro e sui riposi: peraltro, trattandosi di lavoro stagionale che occupava al massimo 15/20 giorni per ogni mese, l’assenza di giornate di riposo contestata dalla Pubblica accusa era di fatto smentita. Ed ancora, nessuna violazione delle disposizioni a tutela della salute e sicurezza sul lavoro era stata concretamente riscontrata, atteso che si trattava di braccianti assoldati per la raccolta delle fragole, i quali non necessitavano di particolari dispositivi individuali di protezione e, quand’anche non li avessero avuti, ciò non avrebbe comportato un grave pericolo per la loro incolumità ma piuttosto compromesso i frutti a seguito di una loro errata manipolazione. Allo stesso modo era stato quasi automaticamente presunto lo stato di bisogno dei lavoratori, senza tuttavia elementi di fatti che lo comprovassero. Nella sentenza in commento la Suprema Corte ricorda come debba ritenersi ormai superata la tesi secondo cui in tema di sequestro preventivo, ai fini della verifica del fumus, sarebbe sufficiente accertare l’astratta configurabilità del reato ipotizzato.

Il giudice, all’opposto, deve provvedere alla misura cautelare solo ove sia in presenza di elementi di prova che lascino concretamente presupporre la sussistenza del reato. Il giudicante, quindi, deve poter esercitare un controllo effettivo che, pur coordinato e proporzionale con lo stato del procedimento penale e con lo stato delle indagini, non sia solo formale, apparente, appiattito alla mera prospettazione astratta dell’esistenza del reato da parte della Pubblica accusa, ma ancorato ad elementi di fatto accertati e che diano effettiva verosimiglianza circa la configurabilità del reato. Non già un’anticipazione di condanna degli indagati o degli accusati, ma un serio esame dei presupposti fattuali che rendano giusto e coerente il fermo dell’attività economica con l’ipotesi di reato. In assenza della prova di elementi solidi che lasciassero presumere l’effettiva commissione del delitto di sfruttamento del lavoro, la Cassazione ha dunque ritenuto esente da vizi il provvedimento di dissequestro dell’azienda.

 

  1. Corte Cassazione, Quarta Sezione Penale, sentenza del 22 dicembre 2021, n. 46842.

(*)Pubblicato anche in Corriere delle paghe, n. 3/2022.

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