LA RESPONSABILITÀ CONCORRENTE DEL DATORE DI LAVORO e del RSPP tra TUSL e Decreto Lavoro

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

 

Due dati sono incontrovertibili. Il primo è che, in forza dell’art. 17, comma 1, lettera a), D.lgs. n. 81/2008, “il datore di lavoro ha l’obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda e, all’esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi, all’interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati” (così, ad es., Cass. 25 giugno 2021 n. 24822).

Secondo dato: l’art. 29, comma 1, D.lgs. n. 81/2008, nel tentativo di agevolare il datore di lavoro, prevede che egli effettui la valutazione dei rischi ed elabori il relativo documento in collaborazione con l’RSPP, oltre che con il medico competente (da nominare, quest’ultimo, stando all’art. 14, comma 1, lettera a, D.l. 4 maggio 2023, n. 48 in corso di conversione al Senato, anche “qualora richiesto dalla valutazione dei rischi”).

Resta il fatto che oggi come oggi, nelle aziende, nelle società per azioni così come nelle imprese pubbliche, il datore di lavoro si individua a prescindere dal possesso di competenze tecniche. Ed è facile prevedere che non basterà nemmeno la formazione del datore di lavoro pur prevista dall’art. 37, comma 7, D.lgs. n. 81/2008, modificato dalla Legge n. 215/2001, sulla base di un Accordo Stato-Regioni peraltro non ancora adottato malgrado la scadenza del termine del 30 giugno 2022. Né basterà quel comma 4-bis inserito dal D.l. Lavoro nell’art. 73, D.lgs. n. 81/2008 che pur si preoccupa di imporre al “datore di lavoro che fa uso delle attrezzature che richiedono conoscenze particolari di cui all’articolo 71, comma 7” di provvedere “alla propria formazione e al proprio addestramento specifico al fine di garantire l’utilizzo delle attrezzature in modo idoneo e sicuro”.

Si spiega allora come mai alcune pronunce della Corte di Cassazione siano venute in soccorso del datore di lavoro, erigendo un argine difensivo. Pronunce per di più particolarmente autorevoli. Per prima, la celebre sentenza Lovison del 21 dicembre 2012, n. 49821 rappresento’  il “caso del SPP che manchi di informare il datore di lavoro di un rischio la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche”, e sostenne che, “in situazioni del genere, pare ragionevole pensare di attribuire, in presenza di tutti i presupposti di legge ed in particolare di una condotta colposa, la responsabilità dell’evento ai componenti del SPP”, sotto pena altrimenti “di far gravare sul datore di lavoro una responsabilità che esula dalla sfera della sua competenza tecnico-scientifica”. Per mano del medesimo estensore, nel caso ThyssenKrupp, la Corte Suprema, addirittura a Sezioni Unite, nella sentenza del 18 settembre 2014, n. 38343 mise in luce la responsabilità del RSPP “che manchi di informare il datore di lavoro di un rischio la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche”, e sottolineo’ che “una diversa soluzione rischierebbe di far gravare sul datore di lavoro una responsabilità che esula dalla sfera della sua competenza tecnico-scientifica”.

Tutto bene allora per il datore di lavoro? Non proprio. Perché questa apertura verso il datore di lavoro non trova riscontro in una linea giurisprudenziale eloquentemente abbracciata pochi giorni or sono da Cass. pen. 18 maggio 2023, n. 21153. La Sez. IV fa riferimento “agli infortuni che siano da ricollegare alla mancata valutazione del rischio ovvero alla mancata adozione delle misure previste nel relativo documento”. Rileva che “la responsabilità deve essere configurata in capo al datore di lavoro”, e che il RSPP “pu  essere ritenuto responsabile, in concorso con il datore di lavoro, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione faccia seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione”. Con riguardo al caso di specie, prende atto che “l’infortunio è stato ricondotto causalmente ad una carente valutazione del rischio collegato alle mansioni svolte dal lavoratore dipendente”, e afferma che “la valutazione del rischio è funzione tipica del datore di lavoro, non delegabile neppure attraverso il conferimento di una delega di funzioni ad altro soggetto e le eventuali carenze nell’attività di collaborazione alla redazione del DVR da parte del RSPP possono, al più, comportare una responsabilità concorrente, ma non esclusiva, di quest’ultimo”. Ed altrettanto eloquente è Cass. pen. 5 giugno 2023, n. 23986 che, nel confermare la condanna dell’amministratrice delegata e dell’RSPP di un’azienda alimentare per l’infortunio occorso a un lavoratore addetto a un macchinario privo di adeguata protezione, sottolinea che l’RSPP, “pur svolgendo all’interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente l’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli”. Ma subito aggiunge che “il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del RSPP, ha l’obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda e, all’esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il DVR all’interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori”. Ed è tutto dire che viene ritenuta la responsabilità dell’amministratrice delegata, pur se “il ruolo datoriale ricoperto era cessato qualche giorno prima dell’infortunio”.

 

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Nuove prospettive per le imprese IL 131 BIS DELLA CARTABIA

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

 

Ripetutamente, in passato, datori di lavoro, dirigenti, preposti – imputati per violazioni antinfortunistiche – hanno tentato di percorrere la strada messa a disposizione dall’art. 131bis c.p.- non punibilità per particolare tenuità del fatto – vantando proprie condotte susseguenti al reato atte a ridurre il grado dell’offesa quale l’intervenuta eliminazione delle violazioni accertate dagli organi ispettivi. Solo che si sono visti sbarrare questa strada da un’obiezione: “ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis c.p., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, comma 1, c.p., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo” (Sez.Un., 6 aprile 2016 n. 13681). Ecco perché, ad es., Cass. pen. 21 gennaio 2020, n. 2216 osservò che “le circostanze attinenti alla capacità a delinquere del colpevole ex art. 133, comma 2, c.p., nell’ambito delle quali viene valorizzata l’ottemperanza dell’imputato alle prescrizioni impostegli dagli ispettori del lavoro unitamente alle sue difficoltà economiche che non gli avrebbero consentito di provvedere al pagamento dell’oblazione, esulano dalla valutazione della particolare tenuità del fatto che impone, secondo la previsione testuale dell’art. 131-bis, comma 1, c.p., di commisurare il primo indice-requisito, ovverosia la particolare tenuità dell’offesa, alle modalità della condotta e all’entità del danno o del pericolo i quali fanno parte dei criteri afferenti alla gravità del reato previsti dal comma 1 dell’art. 133 c.p.”.

E ne ricavò che “il tardivo adempimento alle prescrizioni dell’organo amministrativo resta un post factum del tutto neutro rispetto al disvalore, anche in termini di offensività, dell’illecito penale che va invece commisurato alla condotta criminosa accertata, da valutarsi in correlazione con la lesione arrecata al bene giuridico tutelato (la sicurezza sul lavoro), nel suo complesso e dunque tenendo conto di tutte le peculiarità della fattispecie concreta in applicazione dei criteri di cui al comma 1 dell’art. 133 c.p.”. Sicché “il successivo adempimento dell’imputato alle prescrizioni impartitegli pur senza versare l’oblazione, non può rilevare ai fini della non abitualità della condotta, ovverosia dell’ulteriore indice-requisito previsto dall’art. 131-bis c.p.”.

In questo quadro, di grande rilievo appaiono due recentissime sentenze della Corte Suprema. Anzitutto, n. 18209 del 2 maggio 2023, relativa al caso di un condannato per violazione dell’art. 64, co. 1, lett. a), D.lgs. n. 81/2008 che lamenta la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Per la prima volta, la Sez. III prende atto delle modifiche apportate all’art. 131-bis c.p. dall’art. 1, co.1, lett. c), n. 2), D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 a decorrere dal 30 dicembre 2022 ai sensi di quanto disposto dall’art. 99bis, co. 1, del medesimo D.lgs., aggiunto dall’art. 6, co. 1, D.l. 31 ottobre 2022 n. 162, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 dicembre 2022, n. 199. Rileva, infatti, che “le novità introdotte nell’art. 131-bis c.p. si colgono in una triplice direzione, ossia: 1) la generale estensione dell’ambito di applicabilità

 

dell’istituto ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni di reclusione e, quindi, indipendentemente dal massimo edittale, come previsto dalla previgente formulazione; 2) la rilevanza, ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa, anche alla condotta susseguente al reato; 3) l’esclusione del carattere di particolare tenuità dell’offesa in relazione ai reati riconducibili alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, e ad ulteriori reati di ritenuti di particolare gravità”. Per giunta, considera indubbio che, “in applicazione dell’art. 2, co. 3, c.p., la nuova formulazione dell’art. 131-bis c.p., nella parte in cui amplia la portata dalla causa di non punibilità (e quindi in relazione alle modifiche di cui ai punti 1 e 2), sia applicabile retroattivamente, e quindi anche ai reati commessi prima del 30 dicembre 2022”. Prende atto che, nel caso di specie, “assume particolare rilevanza la considerazione, ai fini della valutazione della gravità dell’offesa, anche della condotta susseguente al reato, elemento che la giurisprudenza di questa Corte, con riferimento alla previgente formulazione della norma, escludeva dal novero degli elementi da apprezzare proprio perché non espressamente previsto, e dovendosi perciò valutare la misura dell’offesa nel momento di consumazione del reato”. Ne desume che, “per effetto dell’indicata modifica, la condotta post factum è uno -ma non certamente l’unico, né il principale- degli elementi che il giudice è chiamato ad apprezzare ai fini del giudizio avente ad oggetto l’offesa”. Chiarisce che, “come si desume dalla Relazione illustrativa all’indicato D.lgs., il legislatore delegato ha volutamente utilizzato un’espressione ampia e scarsamente selettiva – quale, appunto, “condotta susseguente al reato”- allo scopo di non limitare la discrezionalità del giudice che, nel valorizzare le condotte post delictum, potrà fare affidamento su una locuzione elastica ben nota alla prassi giurisprudenziale, figurando tra i criteri di commisurazione della pena di cui all’art. 133, comma 2, n. 3 c.p.”. Ritiene, pertanto, che “il giudice potrà valutare una vasta gamma di condotte definite solo dal punto di vista cronologico-temporale, dovendo essere “susseguenti” al reato, ed evidentemente in grado di incidere sulla misura dell’offesa”. Aggiunge che “ciò vale non solo nel caso in cui le condotte susseguenti riducano il grado dell’offesa -quali le restituzioni, il risarcimento del danno, le condotte riparatorie, le condotte di ripristino dello stato dei luoghi, l’accesso a programmi di giustizia riparativa, o, come nel caso in esame, l’intervenuta eliminazione delle violazioni accertate dagli organi ispettivi– ma anche, e specularmente, quando delle condotte aggravino la lesione -inizialmente “tenue”- del bene protetto”.

Precisa, infine, in linea con la “Relazione illustrativa (p. 346)”, che “la condotta susseguente al reato acquista rilievo, nella disciplina dell’art. 131-bis c.p., non come esclusivo e autosufficiente indice-requisito di tenuità dell’offesa, bensì come ulteriore criterio, accanto a tutti quelli contemplati dall’art. 133, co. 1, c.p., ossia la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione; la gravità del danno o del pericolo; l’intensità del dolo o della colpa: elementi tutti che, nell’ambito di un giudizio complessivo e unitario, il giudice è chiamato a valutare per apprezzare il grado dell’offesa”. Con la conseguenza che “le condotte post delictum non potranno di per sé sole rendere di particolare tenuità un’offesa che tale non era al momento della commissione del fatto -dando così luogo a una sorta di esiguità sopravvenuta di un’offesa in precedenza non tenue- ma potranno essere valorizzate nel complessivo giudizio sulla misura dell’offesa, giudizio in cui rimane centrale, come primo termine di relazione, il momento della commissione del fatto, e, quindi, la valutazione del danno o del pericolo verificatisi in conseguenza della condotta”. Significativa è anche la n. 20279 del 12 maggio 2023, relativa a un caso di condanna per il reato di lesione personale colposa in danno di un lavoratore infortunato. Perché opportunamente ricorda che già una pronuncia delle Sez. Un. 12 maggio 2022, n. 18891 ritenne “ormai superato l’orientamento secondo cui è irrilevante la condotta susseguente al reato, a fronte della direttiva di segno opposto contenuta all’interno della legge delega n. 134/2021, che può considerarsi già diritto vigente, prima ancora che venisse adottato il D.lgs. n. 150/2022, entrato in vigore lo scorso 30 dicembre, con cui sono state formalmente inserite, al primo comma dell’art. 131-bis c.p., le parole “anche in considerazione della condotta susseguente al reato”. E ne desume che “entro tale prospettiva, le condotte successive al reato ben possono ’integrare nel caso concreto un elemento suscettibile di essere preso in considerazione nell’ambito del giudizio di particolare tenuità dell’offesa, rilevando ai fini dell’apprezzamento della entità del danno, ovvero come possibile spia dell’intensità dell’elemento soggettivo”.

 

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LA SORVEGLIANZA SANITARIA NUOVI OBBLIGHI E VECCHI ADEMPIMENTI: adempimenti in capo alle aziende sempre più pesanti. Interpello della 1° e 2° Commissione Interpelli

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

 

Non è un caso che la Commissione Interpelli del Ministero del Lavoro si sia tanto occupata ultimamente della sorveglianza sanitaria sui lavoratori e degli obblighi del medico competente. Il fatto è che la disciplina dettata in materia dal D.Lgs. n. 81/2008 sta creando alle imprese problemi quanto mai ostici.

L’Interpello n. 1 del 1° febbraio 2023 risponde a un quesito di grande attualità per le imprese: i lavoratori agili debbono essere sottoposti a sorveglianza sanitaria? Ben due sono le conclusioni formulate dalla Commissione Interpelli. La prima, desunta dall’art. 39, D.lgs. n. 81/2008, è che il datore di lavoro può nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico con funzioni di coordinamento, per particolari esigenze organizzative nei casi di aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi di imprese nonché qualora emerga la necessità in relazione alla valutazione dei rischi. Con l’avvertenza che, in questa ipotesi, ogni medico competente verrà ad assumere tutti gli obblighi e le responsabilità in materia ai sensi della normativa vigente. E tra tali obblighi fa spicco quello di effettuare la sorveglianza sanitaria nei casi previsti dall’art. 41, D.Lgs. n. 81/2008.

Seconda conclusione, destinata a sgomentare quanti in tempo di Covid hanno ritenuto e ancora oggi ritengono ingiustificato l’aggiornamento del D.V.R. in relazione al rischio associato all’infezione, salvo il caso degli ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario o qualora il rischio biologico sia un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell’azienda. Tanto è vero che ad avviso della Commissione Interpelli dovrà essere cura del datore di lavoro rielaborare il documento di valutazione dei rischi nei casi di cui all’art. 29, comma 3, del D.lgs. n. 81/2008.

Del pari illuminante è l’Interpello n. 2 del 14 marzo 2023. Il quesito è se il combinato disposto degli artt. 25, comma 1, lettera a), 18, comma 1, lettera a), e 29, comma 1, del D.lgs. n. 81/2008 determini l’obbligo per il datore di lavoro di procedere in tutte le aziende alla nomina preventiva del medico competente al fine del suo coinvolgimento nella valutazione dei rischi, anche nelle situazioni in cui la valutazione dei rischi non abbia evidenziato l’obbligo di sorveglianza sanitaria. E questa è la risposta: “la nomina del medico competente è obbligatoria per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dall’art. 41, D.lgs. n. 81/2008 e, pertanto, il MC collabora, se nominato, alla valutazione dei rischi di cui all’art. 17, comma 1, lettera a), D.lgs. n. 81/2008”.

A questo punto, dobbiamo renderci conto dei seri problemi che le imprese sono chiamate ad affrontare. E il primo problema nasce dal fatto -implacabilmente confermato dalla Commissione Interpelli- che il medico competente è presente in azienda a condizione che venga nominato dal datore di lavoro. E in linea con quanto statuiscono più norme del D.lgs. n. 81/2008 (come gli artt. 2, comma 1, lettera b-bis), 25, comma 1, lettere b) e h), 29), il datore di lavoro ha l’obbligo di nominare il medico competente nei casi di sorveglianza sanitaria indicati dall’art. 41, in particolare nel comma 1, alle lettere a) e b): “a) nei casi previsti dalla normativa vigente, nonché dalle indicazioni fornite dalla Commissione consultiva di cui all’articolo 6; b) qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi”.

Donde una conclusione dirompente. L’art. 5 Statuto dei Lavoratori vieta gli accertamenti sanitari sui lavoratori da parte del datore di lavoro, e a questo divieto deroga l’art. 41, comma 1, D.lgs. n. 81/2008, norma dunque applicabile ai soli casi espressamente e tassativamente previsti. Al di fuori di tali casi, l’unica strada percorribile è quella del controllo sanitario sull’idoneità affidato, non già al medico competente nominato dal datore di lavoro, bensì al medico pubblico nel rispetto del comma 3 dell’art. 5 Statuto dei Lavoratori. Ne consegue un’implicazione destinata a mettere in difficoltà tutte le imprese. Basti riflettere  che il datore di lavoro è tenuto a redigere una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa (art. 28, comma 2, lettera a), D.lgs. n. 81/2008), e, dunque, in primo luogo, ad individuare tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda. Ma ove e sino a quando non identifichi uno o più rischi riconducibili nell’ambito dell’art. 41, comma 1, D.lgs. n. 81/2008, non risulta obbligato, né legittimato, a nominare quel medico competente la cui collaborazione pur gli sarebbe necessaria per identificare siffatti rischi.

Si comprende allora che gli Interpelli nn. 1/2023 e n. 2/2023, pur ineccepibili, abbandonano le imprese in un dramma originato dalla scelta operata nel D.lgs. n. 81/2008 mediante la limitazione della sorveglianza sanitaria del medico competente alle ipotesi di cui all’art. 41. Riflettiamo, infatti, sui casi non riconducibili nell’art. 41 D.lgs. n. 81/2008, e dunque sui casi in cui l’unica strada percorribile è quella del controllo affidato al medico pubblico. Non per nulla allarma tanto le aziende, per fare un solo esempio, un caso come quello del lavoratore che sembri manifestare disturbi psichici. Solo che la strada del medico pubblico non sempre appare agevolmente e rapidamente percorribile, con il risultato di lasciare le aziende in preda a possibili responsabilità anche penali. Tanto più che il TUSL circoscrive, è vero, la presenza del medico competente, e, dunque, la sua sorveglianza sanitaria, ai soli casi di cui all’art. 41. Ma nel contempo stabilisce a carico del datore di lavoro (e del dirigente) l’obbligo di garantire l’idoneità del lavoratore all’espletamento dei compiti affidati a ciascuno. Leggiamo, infatti, una norma fondamentale, ma da non pochi trascurata, quale l’art. 18, comma 1, lettera c), D.lgs. n. 81/2008: “nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”. Diverse sono le ipotizzabili modalità di adempimento degli obblighi ma comune l’obiettivo di assicurare che il lavoratore sia in condizioni che permettano lo svolgimento in sicurezza dell’attività lavorativa” (come da tempo dice la Corte di Cassazione). Ed è evidente che tra queste modalità è determinante proprio la sorveglianza sanitaria.

Non per nulla, una risalente Circolare del Ministero del Lavoro, la n. 3/2017, proprio in base all’art. 18, comma 1, lettera c), D.lgs. n. 81/2008, si propose di rendere obbligatoria la sorveglianza sanitaria da parte del medico competente al di fuori dei casi espressamente e tassativamente previsti nell’art. 41 D.lgs. n. 81/2008. A questo fine, la Circolare tentò un distinguo tra “tutti i casi in cui la normativa vigente prevede l’obbligo della sorveglianza sanitaria” e “i casi in cui si debba valutare lo stato di salute del lavoratore, al fine dell’affidamento dei compiti specifici, che non dipendono dai rischi presenti nell’ambiente di lavoro, ma dalla capacità del lavoratore stesso di svolgerli (es. lavori in quota, lavori in sotterraneo o in ambienti chiusi in genere, lavori subacquei, ecc.)”. E con riguardo alla prima categoria di casi, indicò la violazione dell’art. 18, comma 1, lettera g), D.lgs. n. 81/2008, mentre con riguardo alla seconda categoria indicò la violazione dell’art. 18, comma 1, lettera c), D.lgs. n. 81/2008.

Certo, lo abbiamo appena sottolineato, l’art. 18, comma 1, lettera c), D.lgs. n. 81/2008 contiene una norma di basilare rilievo. E tuttavia una norma di per sé inidonea a rendere obbligatoria la sorveglianza sanitaria da parte del medico competente al di fuori dei casi espressamente e tassativamente previsti nell’art. 41, comma 1, D.lgs. n. 81/2008. Beninteso, sarebbe aprioristico negare che lo stesso medico competente -ove comunque presente in quanto nominato- segnali al datore di lavoro l’esigenza di un ricorso al medico pubblico, ove s’imbatta in un’ipotesi in cui occorra verificare l’idoneità di un lavoratore al di fuori dei casi indicati dall’art. 41, D.lgs. n. 81/2008. Ma si sa che una circolare non può modificare una norma di legge.

 

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INDIVIDUAZIONE DEL DATORE DI LAVORO NELLE SPA: linee guida della Cassazione

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

 

Nessun dubbio che, in materia di sicurez za sul lavoro, spetti alle società per azioni (Spa) affrontare un problema di particolare difficoltà: l’individuazione del datore di lavoro, del soggetto, cioè, che assume una posizione di garanzia primaria. Basti pensare che, in base all’art. 17, comma 1, D.lgs. n. 81/2008 competono al datore di lavoro, e soltanto al datore di lavoro, obblighi impegnativi quali la nomina del R.S.P.P. (responsabile del servizio di prevenzione e protezione) e soprattutto la valutazione dei rischi e, pertanto, l’obbligo di analizzare i rischi e individuare le misure di prevenzione contro tali rischi alla luce della “migliore evoluzione della scienza tecnica”. E dunque grava sul datore di lavoro una posizione di garanzia, a ben vedere destinata a riservare al datore di lavoro una responsabilità a dir poco drammatica, se sol si riflette che, pacificamente, la Corte di Cassazione insegna che il datore di lavoro “non può esimersi da responsabilità adducendo una propria incapacità tecnica” (così, per tutte, Cass. 11 gennaio 2022, n. 425).

Si spiega allora perché nell’ambito di un’impresa articolata in più stabilimenti o strutture soggetti pur dotati in tale impresa dei pieni poteri decisionali e di spesa, possano essere tentati di ricorrere a meccanismi tipo la trasformazione in datori di lavoro dei direttori di quegli stabilimenti o di quelle strutture, pur se si tratti di stabilimento di strutture prive dell’autonomia finanziaria pretesa dall’art. 2, comma 1, lettera t), D.lgs. n. 81/2008.

Si tratta di meccanismi messi inesorabilmente in crisi dalla sentenza della Cassazione Penale n. 8476 appena depositata il 27 febbraio 2023. Una sentenza che contrariamente a quanto azzardato in taluni primi commenti fornisce alle imprese linee-guida mai tanto implacabili. E infatti prende le mosse da un basilare distinguo: “La delega di funzioni di cui all’art. 16, D.lgs n. 81/2008 è lo strumento con il quale il datore di lavoro trasferisce i poteri e responsabilità per legge connessi al proprio ruolo ad altro soggetto: questi diventa garante a titolo derivativo, con conseguente riduzione e mutazione dei doveri facenti capo al soggetto delegante. L’istituto della delega gestoria contemplata dal diritto societario all’art. 2381 c.c., invece, attiene alla ripartizione delle attribuzioni e delle responsabilità nelle organizzazioni complesse ed è preordinato ad assicurare un adempimento più efficiente della funzione gestoria (in quanto evidentemente più spedita) ed al contempo la specializzazione delle funzioni, tramite valorizzazione delle competenze e delle professionalità esistenti all’interno dell’organo collegiale”. E purtroppo ben a ragione la Sez. IV avverte che “non di rado, anche nella giurisprudenza della Suprema Corte la differenza fra i due tipi di delega non è stata sufficientemente enucleata, con conseguente confusione di piani che invece vanno tenuti distinti”. Nella giurisprudenza, ma aggiungiamo noi anche in non rare prassi aziendali.

Proficua è allora una distinzione nell’ambito delle società di capitali: “nelle società di capitali più semplici, in cui figura un amministratore unico titolare della ordinaria e straordinaria amministrazione, questi assume anche la posizione di garanzia datoriale”, “nelle società di capitali in cui, invece, l’amministrazione sia affidata ad un organo collegiale quale il consiglio di amministrazione, l’individuazione della posizione datoriale è più complessa, anche in ragione della molteplicità di possibili modelli di amministrazione offerti dalla normativa  societaria”, con la conseguenza che “nell’ipotesi in cui non siano previste specifiche deleghe di gestione, l’amministrazione ricade per intero su tutti i componenti del consiglio e tutti i componenti del consiglio sono investiti degli obblighi inerenti la prevenzione degli infortuni posti dalla legislazione a carico del datore di lavoro”.

Ma è proprio a questo punto che la Corte Suprema compie un secondo passo avanti. Sulla scorta delle esperienze vissute nel caso ThyssenKrupp, non trascura di prendere atto che “l’art. 2, comma 1, lett. b), D.lgs. n. 81/2008 definisce il datore di lavoro come “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o comunque il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”. E ne desume che “se in senso prevenzionistico è datore di lavoro il soggetto che, in quanto investito dei poteri decisionali e di spesa, ha la responsabilità dell’organizzazione o della unità produttiva, il giudice penale anche in presenza di una formale delega gestoria che riguardi la materia della sicurezza dovrà interrogarsi se e come i soggetti delegati siano stati messi in condizione di partecipare ai relativi processi decisori”. Non senza contare che “a seguito della delega gestoria l’obbligo di adottare le misure antinfortunistiche e di vigilare sulla loro osservanza si trasferisce dal consiglio di amministrazione al delegato, rimanendo in capo al consiglio di amministrazione residui doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo”.

In questo quadro, alle imprese arriva dalla Corte Suprema un messaggio inequivocabile: “La delega di funzioni prevista dall’art. 16 del D.lgs. 81/2008 presuppone un trasferimento di poteri e correlati obblighi dal datore di lavoro verso altre figure non qualificabili come tali e che non lo divengono per effetto della delega. La delega di gestione, anche quando abbia ad oggetto la sicurezza sul lavoro, invece, nel caso di strutture societarie complesse, consente di concentrare i poteri decisionali e di spesa connessi alla funzione datoriale, che fa capo ad una pluralità di soggetti (ovvero i membri del consiglio di amministrazione), su alcuni di essi”. Addio al “datore di lavoro delegato”?

 

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SMART WORKING E SORVEGLIANZA SANITARIA: i controversi obblighi del datore di lavoro

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

 

La L. n. 81/2017 valorizza due esigenze a tutela degli interessi delle parti contrattuali che esulano il normale rapporto lavorativo: da un lato, quella del datore di lavoro di “incrementare la competitività aziendale” e dall’altro, quella del lavoratore di “agevolare i tempi di vita e di lavoro”.

In questo equilibrio la normativa va oltre le motivazioni contrattuali ed estende la disciplina alla tutela della sicurezza e della salute del lavoratore nello stesso modo previsto con riguardo a un normale rapporto di lavoro. “Il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile”. L’obbligo di garantire la sicurezza ricondotto alla figura del datore di lavoro si estende anche al lavoratore che “è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali”. In questa ottica, sembrerebbe tutto semplice, ma, nonostante la legge n. 81/2017 abbia già percorso un lungo cammino, continua la tendenza all’utilizzo della prestazione resa dai lavoratori agili senza un’effettiva osservanza degli adempimenti relativi alla tutela della salute e della sicurezza. La domanda incalzante è: come è applicato l’obbligo di garantire la sicurezza quando i lavoratori operano al di fuori dei locali aziendali e in particolare quando operano all’interno della propria abitazione?

Questa difficoltà è ancora più preoccupante quando i luoghi di lavoro sono molto distanti dai confini aziendali o addirittura sono ubicati all’estero. Bastano le indicazioni previste nell’accordo di smart working a sollevare il datore di lavoro dagli obblighi di garante della sicurezza? Può limitarsi il datore di lavoro ad inviare al lavoratore agile raccomandazioni più o meno generiche?

Hanno ben colto il punto l’art. 6 del Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile sottoscritto all’esito di un confronto con le Parti sociali promosso dal Ministro del Lavoro il 7 dicembre 2021, e ancora più recentemente l’Interpello n. 1 del 25 gennaio 2023 della Commissione Interpelli. Illuminante è l’art. 22, comma 2, il quale prescrive che il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali e, dunque, palesemente circoscrive la cooperazione del lavoratore agile al momento dell’attuazione delle misure, mentre affida in via esclusiva al datore di lavoro la loro predisposizione. E lungimirante è ancora quell’art. 22, comma 1, secondo periodo, per cui il datore di lavoro consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro. Dunque, un’informativa che presuppone necessariamente una individuazione dei rischi inerenti all’attività prestata dai lavoratori agili non solo all’interno, bensì anche all’esterno dei locali aziendali. Altro che attribuire allo stesso dipendente -come pure è stato da taluno esplicitamente suggerito- l’obbligo di “accertare la presenza delle condizioni che garantiscono la tutela della salute e sicurezza del lavoratore”. E naturalmente la norma base dell’art. 22, comma 1, lavoro garantisce e, dunque, ha l’obbligo garantire la sicurezza ricondotto alla figura del datore di lavoro si estende anche al lavoratore che “è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali”.

n questa ottica, sembrerebbe tutto semplice, ma, nonostante la legge n. 81/2017 abbia già percorso un lungo cammino, continua la tendenza all’utilizzo della prestazione resa dai lavoratori agili senza un’effettiva osservanza degli adempimenti relativi alla tutela della salute e della sicurezza. La domanda incalzante è: come è applicato l’obbligo di garantire la sicurezza quando i lavoratori operano al di fuori dei locali aziendali e in particolare quando operano all’interno della propria abitazione?
Questa difficoltà è ancora più preoccupante quando i luoghi di lavoro sono molto distanti dai confini aziendali o addirittura sono ubicati all’estero. Bastano le indicazioni previste nell’accordo di smart working a sollevare il datore di lavoro dagli obblighi di garante della sicurezza? Può limitarsi il datore di lavoro ad inviare al lavoratore agile raccomandazioni più o meno generiche?
Hanno ben colto il punto l’art. 6 del Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile sottoscritto all’esito di un confronto con le Parti sociali promosso dal Ministro del Lavoro il 7 dicembre 2021, e ancora più recentemente l’Interpello n. 1 del 25 gennaio 2023 della Commissione Interpelli. Illuminante è l’art. 22,
comma 2, il quale prescrive che il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali e, dunque, palesemente circoscrive la cooperazione del lavoratore agile al momento dell’attuazione delle misure, mentre affida in via esclusiva al datore di
lavoro la loro predisposizione. E lungimirante è ancora quell’art. 22, comma 1, secondo periodo,
per cui il datore di lavoro consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza,
con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro.
Dunque, un’informativa che presuppone necessariamente una individuazione dei rischi inerenti all’attività prestata dai lavoratori agili non solo all’interno, bensì anche all’esterno dei locali aziendali. Altro che attribuire allo stesso dipendente -come pure è stato da taluno esplicitamente suggerito- l’obbligo di “accertare la presenza delle condizioni che garantiscono la tutela della salute e sicurezza del lavoratore”. E naturalmente la norma base dell’art. 22, comma 1, primo periodo, ove si dispone che il datore di lavoro garantisce e, dunque, ha l’obbligo di garantire, la salute e la sicurezza del lavoratore svolge la prestazione in modalità di lavoro agile.
Una norma che, oltre ad essere integrata dagli ulteriori disposti dettati nella stessa Legge n. 81/2017, per forza di cose richiama gli obblighi di sicurezza contemplati dal D.lgs. n. 81/2008.
Un capitolo fondamentale -affrontato ora dall’Interpello n. 1/2023 della Commissione Interpelli- concerne proprio il rapporto tra smart working e sorveglianza sanitaria. Domanda: i lavoratori agili debbono essere sottoposti a sorveglianza sanitaria? La risposta non può non essere sì, beninteso nei casi indicati dall’art. 41, comma 1, D.lgs. n. 81/2008, e, dunque, sia nei casi previsti dalla normativa vigente, e dalle indicazioni fornite dalla Commissione consultiva, sia qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi.
Il quesito acutamente proposto dalla Confcommercio concerne appunto la possibilità, per il datore di lavoro, di continuare attivamente, nonostante il periodo pandemico e in relazione all’utilizzo sempre maggiore del lavoro agile, ai sensi della L. n. 81/2017, le attività di sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41, D.lgs. n. 81/2008. E concerne, in particolare, la possibilità per il datore di lavoro (anche alla luce dell’attuale situazione pandemica e, in ogni caso, stante il massivo utilizzo del lavoro agile) di individuare, con una apposita nomina, medici competenti diversi e ulteriori rispetto a quelli già nominati per la sede di assegnazione originaria dei dipendenti, vicini al luogo ove gli stessi dipendenti ora continuano ad operare in regime di smart working, specificamente individuati per apposite aree territoriali (provincie e/o regioni) e appositamente nominati esclusivamente per tali aree e per le tipologie di lavoratori operanti da tali aree. Tutto ciò nel dichiarato intento di garantire adeguate condizioni di salute e sicurezza sul luogo di lavoro anche nei confronti di lavoratori videoterminalisti che
operano in smart working e che si trovano, attualmente, a svolgere attività lavorativa presso il proprio domicilio o, comunque, in luoghi anche molto lontani dalla propria sede di lavoro.
Il quesito non potrebbe essere più lungimirante. E infatti, dall’art. 39, D.lgs. n. 81/2008, la Commissione Interpelli desume che il datore di lavoro può nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico con funzioni di coordinamento, per particolari esigenze organizzative nei casi di aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi di imprese nonché qualora emerga la necessità in relazione alla valutazione dei rischi. Con la precisazione che, in questa ipotesi, ogni medico competente verrà ad assumere tutti gli obblighi e le responsabilità in materia ai sensi della normativa vigente. E tra tali obblighi fa spicco quello di effettuare, sì, la sorveglianza sanitaria, ma nei casi previsti dall’art. 41, D.lgs. n. 81/2008 (utilmente richiamato sia dall’interpellante, sia dalla Commissione, in linea, del resto, con l’Interpello n. 2 del 26 ottobre 2022, e a smentita della Lettera Circolare n. 3 del 12 ottobre 2017 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro).
Dunque, l’Interpello n. 1/2023 rivela una portata eccezionale che va oltre lo specifico quesito sollevato. Presuppone, infatti, che, ove ricorra allo smart working, il datore di lavoro è tenuto comunque a garantire la sicurezza dei lavoratori agili. E insegna, quindi, che gli obblighi di sicurezza non vengono meno a carico del datore di lavoro (così come dei suoi collaboratori, dall’RSPP al medico competente) per il fatto che la prestazione di lavoro venga eseguita al di fuori dei locali aziendali. La sorveglianza sanitaria è semplicemente uno di questi obblighi. E ben fa la Commissione Interpelli ad aggiungere che dovrà essere cura del datore di lavoro rielaborare il documento di valutazione dei rischi nei casi di cui all’articolo 29, comma 3, del D.lgs. n. 81/2008. Altro che la pretesa propugnata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro nella nota del 13 marzo 2020 n. 89 ove si ritenne ingiustificato l’aggiornamento del DVR. in relazione al rischio associato all’infezione, salvo il caso degli ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario o qualora il rischio biologico sia un rischio di  natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell’azienda. Anche su questo punto il chiarimento dato dalla Commissione Interpelli è inesorabilmente incalzante.

 

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SICUREZZA DEL LAVORO NEL DECRETO 231: Cassazione divisa su interessi e vantaggi

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

 

Sempre più ampia e penetrante è la giurisprudenza relativa alla responsabilità c.d. amministrativa delle imprese per i reati di omicidio colposo e di lesione personale colposa grave o gravissima commessi con violazione delle norme antinfortunistiche. E in particolare l’attenzione della Corte Suprema si è concentrata sulla norma dettata dall’art. 5, commi 1 e 2 del D.lgs. n. 231/2001, in forza della quale “l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio” da persone apicali e/o sottoposte, a meno che “tali persone abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”.

In proposito, è ormai pacifica la risposta data a due problemi sorti nei primi procedimenti in materia di sicurezza sul lavoro. Anzitutto, si afferma che i criteri dell’interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività, come conferma la congiunzione disgiuntiva “o” presente nel testo della disposizione. In secondo luogo, è stata respinta la tesi -inizialmente sostenuta da alcuni che aveva escluso la concreta applicabilità della responsabilità amministrativa nel settore degli infortuni e delle malattie professionali, e ciò perché il criterio dell’interesse o del vantaggio non sarebbe compatibile con la natura colposa del delitto presupposto di omicidio o di lesione personale da lavoro. Come infatti osserva la Corte Suprema, “una lettura delle norme imperniata sulla incompatibilità logica tra necessaria sussistenza dei requisiti dell’interesse o del vantaggio, da una parte, e natura colposa del reato-presupposto, dall’altro, si risolverebbe,

a ben vedere, in una interpretatio abrogans delle norme che hanno, appunto, introdotto, nel catalogo dei reati-presupposto, illeciti che appaiono contraddistinti dalla natura di reati colposi di mera condotta”, e che “proprio considerando tale ultima circostanza, è evidente come il legislatore abbia inteso configurare anche i reati colposi quali titoli di addebito della conseguente responsabilità amministrativa, a ciò, dunque, conseguendo l’obbligo, per l’interprete, di adattare agli stessi i criteri di imputazione dell’interesse e del vantaggio di cui all’art. 5 D.lgs. n. 231/2001”. Con specifico riferimento ai reati in materia di sicurezza sul lavoro, la Corte Suprema legge la nozione di interesse/ vantaggio “nella prospettiva patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all’aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa prevenzionale”. E precisa che “nei reati colposi l’interesse/ vantaggio si ricollegano al risparmio nelle spese che l’ente dovrebbe sostenere per l’adozione delle misure precauzionali ovvero nell’agevolazione, sub specie, dell’aumento di produttività che ne può derivare sempre per l’ente dallo sveltimento dell’attività lavorativa “favorita” dalla mancata osservanza della normativa cautelare, il cui rispetto, invece, tale attività avrebbe “rallentato” quantomeno nei tempi” 1.

Purtroppo, però, sono affiorati insegnamenti giurisprudenziali non agevolmente conciliabili su due punti di determinante rilievo. In primo luogo, è discusso se ai fini della responsabilità amministrativa sia necessaria una violazione antinfortunistica “sistematica”, ovvero risulti bastevole una violazione anche isolata. Inoltre, ci chiediamo se la responsabilità amministrativa venga meno in caso di esiguità del vantaggio o di scarsa consistenza dell’interesse perseguito.

Per anni, la Cassazione ha ritenuto configurabile la responsabilità c.d. amministrativa delle imprese ex art. 25-septies, D.lgs. n. 231/2001, a condizione che la persona fisica, agendo per conto dell’ente, abbia violato sistematicamente le norme prevenzionali. Ancora da ultimo, Cass., pen., 20 ottobre 2022, n. 39615 ritiene che, “qualora la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto, allora potrà ravvisarsi il vantaggio per l’ente”. E “quanto alla consistenza del vantaggio”, sostiene che “deve certamente trattarsi di importo non irrisorio, il cui concreto apprezzamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, che resta insindacabile ove congruamente ed adeguatamente motivata”.

Di diverso avviso fu Cass., pen., 26 ottobre 2020, n. 29584: “l’art. 25-septies non richiede la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell’ente derivante dai reati colposi ivi contemplati”, ed “è eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari”. Ancora da ultimo, proprio Cass., pen., 20 ottobre 2022, n. 39615 ritiene che, “qualora la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto, allora potrà ravvisarsi il vantaggio per l’ente”. E “quanto alla consistenza del vantaggio”, sostiene che “deve certamente trattarsi di importo non irrisorio, il cui concreto apprezzamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, che resta insindacabile ove congruamente ed adeguatamente motivata”.

  1. Così, per tutte, Cass. pen., 27 gennaio 2020, n. 3157.

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