DECRETO LAVORO E OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE PREVIDENZIALI: taglio alle sanzioni monstre

Michele Siliato, Consulente del lavoro in Messina e Roma

 

Dopo il contrordine Inps1 ricevuto con il messaggio 27 settembre 2022, n. 3516, con la pubblicazione in G.U. del Decreto Lavoro  arriva l’attesa modifica delle sanzioni amministrative relative alla fattispecie depenalizzata dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali. Salvacondotto sui procedimenti Inps pendenti.

 

Dal 5 maggio 2023, data di entrata in vigore del Decreto Lavoro, sono state rideterminate le sanzioni amministrative punitive previste per le fattispecie di omesso versamento delle ritenute previdenziali, adottando un sistema maggiormente proporzionale e graduale, parametrato sulla base dell’effettiva gravità della violazione contestata. Di converso, il secondo comma, art. 23, Decreto legge 4 maggio 2023, n. 48, estende il periodo di contestazione dell’illecito, in deroga all’art. 14, Legge 24 novembre 1981, n. 689, posticipandolo alla data del 31 dicembre del secondo anno successivo a quello dell’annualità oggetto di violazione.
La disciplina di riferimento della fattispecie è, ancora oggi, contenuta nell’art. 2, Decreto legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni dalla Legge 11 novembre 1983, n. 638 e, in origine, prevedeva, con appositi termini per la riammissione in bonis, la configurazione del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali in capo al datore di lavoro che non procedeva, nei termini previsti dalla legge, alla liquidazione nei confronti dell’Istituto previdenziale delle quote contributive effettivamente trattenute ai lavoratori dipendenti.
Come noto, il meccanismo della contribuzione previdenziale assegna al datore di lavoro un obbligo contributivo diretto sulla quota di sua spettanza ed un obbligo contributivo indiretto sulla minor quota di spettanza del lavoratore, in relazione alla quale egli agisce come responsabile del versamento all’ente preposto.

In tal senso, la fattispecie dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali, così come da consolidato orientamento giurisprudenziale, è individuabile in due distinte fasi:
– nella condotta commissiva del datore di lavoro, consistente nell’appropriazione delle ritenute previdenziali operate;
– nella condotta omissiva del datore di lavoro, consistente nel mancato versamento delle somme trattenute all’Istituto previdenziale.
Da sempre, il rilievo penale della questione intende colpire non già il fatto omissivo del mancato versamento delle ritenute previdenziali (fattispecie non rientrante nelle ipotesi di reato) quanto, piuttosto, quello commissivo dell’appropriazione indebita da parte del datore di lavoro commessa in relazione alle ritenute operate sulle retribuzioni spettanti al lavoratore.
Si noti, infatti, che tra le caratteristiche principali dell’illecito, sia esso penalmente rilevante o depenalizzato, vi è il presupposto che le retribuzioni siano state effettivamente corrisposte e che, conseguentemente, le trattenute previdenziali siano state effettivamente operate.

Si rammenta, che ai sensi dell’art. 39, Legge n. 187/2010, la fattispecie dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali non è relativa solo con riferimento ai rapporti di lavoro dipendente in genere ma anche rispetto ai committenti di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa tenuti alla  corresponsione dei contributi presso la Gestione Separata di cui all’art. 2, comma 26, Legge n.  335/19952.
Avendo ripercorso brevemente la natura dell’illecito in argomento, il Decreto Lavoro ha agito in maniera sostanziale sulla depenalizzazione operata dall’art. 3, comma 6, Decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8, a mente del quale era stato previsto un duplice regime sanzionatorio:
– uno di tipo amministrativo, laddove l’importo annuo delle ritenute previdenziali non versate sia  inferiore o uguale a euro 10.000,  determinato nella sanzione pecuniaria amministrativa da 10.000 a 50.000 euro;
– uno di tipo penale, nel caso in cui l’importo annuo delle ritenute previdenziali non versate sia superiore a euro 10.000, punito con la reclusione fino a tre anni e la multa fino a 1.032 euro.
Invero, l’art. 23, comma 1, Decreto legge 4 maggio 2023, n. 48, ha fissato l’importo della sanzione amministrativa pecuniaria (fattispecie sotto-soglia) nella forbice tra una volta e mezza e quattro volte l’importo omesso.

IL NECESSARIO INTERVENTO DEL LEGISLATORE
Un intervento normativo sul tema era fortemente atteso dai datori di lavoro incappati sulla questione dell’illecito in trattazione, ma stando alla lettura della relazione tecnica al disegno di legge, non siamo innanzi ad un atto di benevolenza del legislatore quanto piuttosto ad una mera valutazione di opportunità di finanza pubblica.
I profili rilevabili sono almeno tre: il primo, certamente, di tipo sociale; il secondo economico-finanziario; il terzo costituzionale. Tutti, in qualche modo, connessi e collegabili tra loro. Sulla portata sociale dell’intervento, la Direzione Centrale Entrate dell’Inps ha reso noto che, fino a tutto il 2019, sono state notificate più di un milione di omissioni non superiori alla soglia di 10.000 euro, non sanate nei tre mesi successivi e delle quali l’importo medio omesso ammonta a circa 465 euro. Una sanzione amministrativa minima che è pari a oltre 36 volte l’importo medio omesso applicando i criteri di cui all’art. 16, Legge n. 689/1981, ovvero ad oltre 10 volte l’importo medio omesso applicando i criteri previsti dall’art. 9, comma 5, D.lgs. n. 8/2016 (messaggio Inps 27 settembre 2022, n. 3516).

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L’abnormità della sanzione amministrativa per le ipotesi sotto-soglia appare chiara ed incontrovertibile tant’è che, nell’anzidetta relazione illustrativa, si ritiene che la disposizione non produca effetti negativi per la finanza pubblica in termini di minore entrate e che il regime sanzionatorio particolarmente severo
vigente sino al 4 maggio 2023 rende poco probabile l’incasso di importi consistenti (…) sicché con sanzioni più moderate si renderebbe più esigibile il credito con effetti finanziari migliorativi.
Si ricade, conseguentemente, sul secondo profilo, quello prettamente economico – finanziario. Seppur il concetto di sanzione amministrativa pecuniaria efficiente ed afflittiva deve rispondere adeguatamente alla natura, alla gravità ed alle conseguenze della violazione, ma anche agli effetti che la stessa ottiene sul comportamento dei consociati, il ragionamento posto in essere dal legislatore pare rispolverare gli assunti di Laffer 3 in materia di pressione e gettito fiscale. Quanto al terzo ed ultimo profilo, quello costituzionale, dapprima il Tribunale di Verbania (ordinanza 13 ottobre 2022) e, successivamente, il Tribunale di Brescia (ordinanza 16 febbraio 2023) hanno sollevato la questione di legittimità della norma in commento per contrarietà all’art. 3 della Costituzione, in quanto hanno ritenuto che la fissazione di un minimo pari ad euro 10.000 e di un massimo pari ad euro 50.000 sottopone ad una irragionevole disparità di trattamento i trasgressori della norma per le omissioni contributive sotto la soglia di rilevanza penale. Infatti, laddove astrattamente il trasgressore violi il precetto normativo nel suo valore massimo sotto-soglia (10.000 euro) potrà accusare una sanzione amministrativa pari ad un quintuplo della violazione stessa. Diversamente, il trasgressore che violi il precetto normativo per un importo minimo (es. 100 euro) vedrà applicarsi una sanzione che rappresenta il centuplo della propria
violazione. I predetti giudici a quo hanno, dunque, messo in risalto un’evidente asimmetria di trattamento tra contribuenti che, violando con diversa gravità il medesimo precetto normativo, non sono assoggettati ad una reale e diversa gradualità della sanzione. Questione, questa, dichiarata dalla Corte Costituzionale non manifestamente infondata. Tra i principi del nostro ordinamento, la tutela della  proporzionalità della pena è assicurata ogniqualvolta si faccia richiamo all’art. 3 e/o 27 della Carta Costituzionale ovvero all’art. 49, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,
potendo i giudici di legittimità dichiarare la semplice illegittimità dell’intera norma ovvero operando una riproporzione chirurgica della sola parte illecitamente sproporzionata. Sul punto appare rilevante evidenziare che i giudici della Corte Costituzionale hanno recentemente avuto modo di affermare che sono illegittime le:
• sanzioni manifestatamente eccessive, che siano sproporzionate rispetto al grado di disvalore dell’illecito sanzionato;
• sanzioni amministrative non graduabili, che non prevedono una discrezionalità nella commisurazione tra la misura minima e la misura massima;
• sanzioni amministrative irragionevoli, che colpiscono in modo indifferenziato infrazioni più o meno gravi contemplate dal medesimo illecito;
• sanzioni amministrative cumulative, che colpiscono indistintamente la violazione di obblighi plurimi con la medesima sanzione, non consentendo la graduazione rispetto al singolo illecito commesso.
Se da un lato, la natura punitiva della sanzione amministrativa in argomento consente l’equiparazione
con quella penale, con conseguente applicazione del principio di retroattività in bonam partem (art. 2, comma 2, c.p.), innanzi al rischio di illegittimità costituzionale della norma con eventuale impossibilità della stessa di produrre effetti giuridici vincolanti, il legislatore ha optato per varare un sistema sanzionatorio più mite che, pur salvando i procedimenti di notifica già eseguiti dall’Inps, consentirà al giudice, iura novit curia, di applicare le norme di legge che ritiene meglio adattabili al caso concreto anche laddove queste non siano state poste a fondamento della richiesta di parte.

PRIME INDICAZIONI (NON PUBBLICATE) INPS
Con il messaggio 23 maggio 2023, n. 1901, non pubblicato sul sito istituzionale, l’Inps ha fornito le prime istruzioni alle proprie sedi territoriali per la gestione delle ordinanze ingiunzione oggetto di contenzioso giudiziario ovvero di rateizzazione di cui all’art. 26, Legge 24 novembre 1981, n. 689.

In particolare, la Direzione Inps ha predisposto, tra gli allegati al messaggio, modelli di comunicazione
inerenti le:

• rettifiche delle ordinanze-ingiunzione per annualità fino al 2015 con contenzioso pendente;
• rettifiche delle ordinanze-ingiunzione per annualità dal 2016 con contenzioso pendente;
• rettifiche delle ordinanze-ingiunzione per annualità fino al 2015 con rateazioni di cui all’art. 26, Legge n. 689/1981;
• rettifiche delle ordinanze-ingiunzione per annualità dal 2016 con rateazioni di  cui all’art. 26, Legge n. 689/1981.
Per quanto concerne la rideterminazione delle sanzioni amministrative sui giudizi pendenti, l’Istituto procederà con l’emissione di un nuovo provvedimento sanzionatorio che annulli e sostituisca il precedente. Ciò anche nell’ipotesi in cui non vi siano le tempistiche necessarie mediante la richiesta di rinvio della causa al Giudice.
Non troveranno, invece, applicazione le nuove disposizioni di cui all’art. 23, Decreto legge n. 48/2023, alle ordinanze-ingiunzione per le quali sia intervenuto il pagamento integrale della sanzione amministrativa, dovendosi intendere, in tal caso, definito il procedimento sanzionatorio.
Nelle ipotesi di versamento rateale, laddove l’importo già versato risulti inferiore a quello
della sanzione amministrativa rideterminata dalle disposizioni in commento, la sede territoriale Inps procederà a rideterminare l’importo della sanzione dovuta e ad aggiornare il piano di ammortamento. Parimenti, laddove l’importo delle rate versate risulti superiore a quello previsto dalla sanzione amministrativa rideterminataè esclusa ogni forma di rimborso.
Sono, altresì, escluse ulteriori ipotesi di applicazione della nuova disciplina per i provvedimenti di irrogazione divenuti definitivi. In tal senso:

• nel caso in cui non sia ancora stata emessa l ‘ordinanza-ingiunzione, l’organo di accertamento può rideterminare la sanzione nella misura più favorevole al datore di lavoro;
• nel caso in cui il procedimento amministrativo sia divenuto definitivo alla data di entrata in vigore del Decreto Lavoro, resterà ferma la sanzione amministrativa prevista dal D.lgs. n. 8/2016.
Quanto alle disposizioni amministrative Inps, l’allegato messaggio fornisce una riparametrazione delle sanzioni in trattazione, tenuto conto della eventuale reiterazione dell’illecito, secondo la seguente tabella (cliccare qui per la tabella).

Nessuna ulteriore indicazione amministrativa riguardo la possibilità di effettuare il pagamento in misura ridotta ai sensi dell’art. 9, comma 5, D.lgs. n. 8/2016 (metà della sanzione da irrogare entro il termine di 60 giorni dalla notifica), sebbene tale norma sia ancora in vigore e sia, come da indicazioni fornite con il citato messaggio n. 3516/2022, applicabile.

NUOVI TERMINI DI CONTESTAZIONE DELL’ILLECITO
Se da un lato il quadro sanzionatorio è decisamente più mite del precedente, il secondo comma del sopracitato art. 23 prevede che, per le violazioni riferite alle omissioni per i periodi decorrenti dal 1° gennaio 2023, gli illeciti dovranno essere notificati, in deroga all’art. 14, Legge 24 novembre 1981, n. 689, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello dell’annualità oggetto di violazione,
sicché le omissioni relative all’anno 2023 dovranno necessariamente essere notificate entro il 31 dicembre 2025.
Viene, dunque, meno il termine di 90 giorni dal riscontro o dall’accertamento dell’omissione precedentemente conosciuto (ex art. 14, L. n. 689/1981).
A fronte di una sostanziale revisione migliorativa  dell’apparato sanzionatorio vi è, dunque, un altrettanto sostanziale aumento dei termini di accertamento da parte dell’Istituto.

1. Parisi M., Contrordine INPS. Tagli alla sanzione per gli omessi versamenti, Sintesi, ottobre 2022, p. 15.

2. Il campo di applicazione dell’art. 39 opera esclusivamente nei confronti dei committenti che si  avvalgono di prestazioni lavorative appartenenti alle categorie indicate dall’art. 50, comma 1, lett. c-bis), TUIR, ovverosia a tutti i rapporti di collaborazione in genere svolti senza vincolo di subordinazione. È, naturalmente, da escludersi la configurazione dell’illecito nel caso in cui sussista la coincidenza tra la figura del committente e quella del collaboratore (es. compensi riconosciuti ad amministratori di  società che siano contestualmente legali rappresentanti della stessa).

3. Secondo la teoria dell’economo Arthur Laffer, all’aumentare delle aliquote d’imposta si verifica,
inizialmente, una crescita di gettito che, successivamente al raggiungimento dell’apice (in  corrispondenza di una determinata aliquota), prosegue riducendo progressivamente il gettito fiscale.

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LA MODIFICA DEL CCNL APPLICATO non necessita della sede protetta

Michele Siliato, Consulente del lavoro in Messina e Roma

 

La modifica del Ccnl applicato al rapporto di lavoro rientra legittimamente nella libera ed autonoma determinazione delle parti, senza che vi sia la necessità che l’accordo venga raggiunto in sede protetta.

Il caso è stato affrontato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 21 ottobre 2022, n. 31148, a seguito della sentenza della Corte d’Appello di Roma che, in riforma al giudice di prime cure, ha respinto la domanda di un giornalista pubblicista dipendente, relativa alla restituzione delle differenze retributive lorde percepite in esecuzione alla sentenza di primo grado derivanti dalla illiceità della modifica del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro. Innanzi agli Ermellini, il ricorrente deduceva:

  1. la violazione e la falsa applicazione dell’art. 27, comma 4, del Ccnl Radiotelevisioni private del 9 aprile 1994 e degli artt. 1362, 1363 e 2077, c.c., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la variazione di inquadramento contrattuale frutto di un accordo negoziale intervenuto tra il di- pendente e la società datrice di lavoro;
  2. la violazione degli 2077, 2103 e 2113, c.c., e dell’art. 12, comma 1, sulla legge in generale, relativamente alla violazione del principio di irriducibilità della retribuzione e per aver escluso, il giudice di seconde cure, l’applicabilità delle tutele contemplate dal citato articolo 2113;
  3. la violazione dell’art. 2033, codice civile, e dell’art. 38, P.R. 29 settembre 1973, n. 602, per aver, la sentenza di riforma, condannato il lavoratore alla restituzione delle differenze retributive al lordo e non al netto delle ritenute fiscali.

Quanto alle prime due doglianze, trattate congiuntamente dai giudici di Piazza Cavour, la Corte ribadisce, mantenendo la linea delle precedenti sentenze n. 3982/2014 e n. 21234/2007, che il contratto collettivo costituisce fonte eteronoma di integrazione al contratto individuale e che la sostituzione in via negoziale di una fonte collettiva ad un’altra si colloca al di fuori dell’ambito regolato dall’art. 2077 cod. civ. in tema di efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale.

Si noti, infatti, che il secondo comma, art. 2077, codice civile, prevede una sostituzione e – più genericamente – una relazione tra clausole difformi dei contratti individuali rispetto a quelle del contratto collettivo (sempreché più favorevoli), non potendo la sostituzione del Ccnl applicabile trovare i limiti posti dal richiamato articolo.

Il contratto collettivo – spesso solo richiamato nella lettera di assunzione con effetto di rinvio- agisce dall’esterno nel rapporto di lavoro quale fonte eteronoma di un regolamento concorrente con la fonte individuale rispetto al criterio del trattamento più favorevole ma che non si incorpora nel contenuto dei contratti individuali. Se ne deduce che la scelta della modifica della disciplina di negoziazione collettiva applicabile al rapporto di lavoro rientra nella libera negoziabilità delle parti e che – conseguentemente – decadono tutte quelle tutele che normalmente vengo- no protette dalla disciplina giuslavoristica.

Appare il caso di evidenziare un ulteriore d terminante passaggio della vicenda.

A nulla rileva, secondo i giudici, anche la disposizione del contratto collettivo richiamata tra i motivi del ricorso (dichiarazione a verbale art. 27, accordo del Ccnl Radiotelevisioni private del 9 luglio 1994) relativa all’esclusione dell’attribuzione di nuovi inquadramenti ai dipendenti in forza alla data di stipulazione del presente che godano, come condizione personale, della applicazione di altri contratti, valutata, dal ricorrente, alla stregua di una vera e pro- pria clausola di salvaguardia volta ad evitare mutamenti peggiorativi delle condizioni lavorative del comparto. Tale nota esplicativa delle parti sociali trovava ragione nella disciplina della emittenza che imponeva l’obbligo di una quota di informazione e del radiogiornale, con conseguente individuazione di nuove figure dedicate a detta attività, che hanno portato le parti sociali a rinviare a successivo accordo l’armonizzazione di tali nuovi inquadramenti nella relazione tra il nuovo ed il precedente contratto. Sul piano giuridico la disposizione del Ccnl non avrebbe potuto agire né avrebbe potuto limitare la possibilità di intervenuti nuovi accordi individuali, anche se relativi ad un assoggettamento volontario ad un determinato assetto contrattuale, in quanto – fatte salve specifiche disposizioni di legge – le parti collettive non possono interferire con la libera esplicazione dell’autonomia privata garantita dall’art. 1322 cod. civile.

Quanto alle tutele di cui all’art. 2113, codice civile, concernenti la necessità d’individuazione di una sede protetta, la norma fa salvi esclusivamente i diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi, sicché l’opzione negoziale del lavoratore di optare in favore di questo o di quell’ambito di contrattazione non può qualificarsi come un negozio abdicativo, non avendo, tale scelta, la possibilità di incidere su pregresse e specifiche situazioni di vantaggio già entrate nella disponibilità del lavoratore.

Appare il caso di rammentare che le modificazioni in peius per il lavoratore sono sempre ammissibili nelle ipotesi di successione di contratti collettivi con il solo limite – appunto – dei soli diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente. Anche nella pattuizione negoziale di sostituzione di una fonte collettiva in favore di un’altra, il lavoratore non può pretendere il trattamento retributivo tempo per tempo previsto dal Ccnl sostituito ma, al più, potrà cristallizzare la retribuzione percepita all’atto della modifica contrattuale intervenuta.

Diversamente, l’unico motivo meritevole di accoglimento – nel caso prospettato – è il terzo ovverosia quello concernente la restituzione di somme totali o parziali a seguito di riforma di una precedente sentenza adempiuta dal datore di lavoro. Nel caso di specie – come noto – il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore ha effettivamente percepito, non potendo pretendere la restituzione delle somme al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del lavoratore.

La pronuncia permette alcuni spunti di riflessione in merito all’avvicendamento tra contratti collettivi applicati al rapporto di lavoro e alla relazione che questi hanno rispetto al contratto individuale, affermando – preliminarmente – che i diritti derivanti da accordi individuali seguono senza soluzione di continuità il loro percorso.

In primis appare necessario distinguere le ipotesi in cui la variazione del Ccnl applicabile al rapporto di lavoro è disciplinata ex lege (si pensi alle ipotesi di operazioni societarie in genere) o sia il frutto di una valutazione delle parti stesse del rapporto, spesso riconducibile ad esigenze organizzative dell’impresa.

Nei casi di trasferimento d’azienda, la successione del Ccnl applicabile è regolamentata dal terzo comma, art. 2112, codice civile, a mente del quale il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti normativi ed economici previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali vigenti alla data del trasferimento e sino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. Sostituzione che avviene esclusivamente tra contratti collettivi del medesimo livello. Possiamo, dunque, affermare che, in dette ipotesi:

  • laddove il cessionario non applichi alcun contratto collettivo, lo stesso darà corso al Ccnl applicato dal cedente fino a scadenza;
  • laddove il cedente non applichi nessun contratto collettivo, il cessionario applicherà il proprio Ccnl;
  • nel caso in cui il cedente abbia applicato un Ccnl diverso da quello del cessionario, il rapporto proseguirà con il Ccnl del cessionario;
  • qualora il cedente applichi un Ccnl in convivenza con un contratto collettivo aziendale, mentre il cessionario non è dotato di alcuna contrattazione aziendale, si applicherà il Ccnl del cessionario ed il contratto collettivo aziendale del cedente fino a scadenza;
  • laddove entrambi, cedente e cessionario, applichino un Ccnl e siano dotati di contrattazione collettiva aziendale, dovrà essere applicato il Ccnl del cessionario ed il contratto collettivo aziendale complessivamente più favorevole per il lavoratore;
  • qualora vi siano, invece, particolari operazioni societarie – come l’ipotesi della fusione per incorporazione di più società in una NewCo – sarà fondamentale concordare con le oo.ss. la disciplina applicabile ai rapporti di lavoro individuando un unico contratto collettivo

La questione, invece, appare più complessa – come nel caso affrontato dalla Corte – nella fattispecie in cui la modifica del Ccnl applica- to al rapporto di lavoro sia riconducibile ad una scelta organizzativa-gestionale del datore di lavoro, dovendo distinguere – opportunamente – le ipotesi in cui il datore di lavoro sia o meno iscritto ad una associazione datoriale. Qualora il datore di lavoro non abbia conferito mandato a taluna organizzazione sindacale ed abbia espressamente specificato nella lettera di assunzione l’applicazione o il rimando ad una specifica contrattazione nazionale, troveranno applicazione le tutele di disciplina generale riconducibili al sopracitato comma 2, art. 2077, sicché eventuali modifiche unilaterali apposte dal datore di lavoro – anche supportate dall’ausilio delle rappresentanze sindacali – non potranno incidere negativamente sul trattamento del lavoratore. Invero, seppur è spesso necessario l’intervento del fatidico e complesso accordo di armonizzazione tra due discipline di derivazione collettiva che regoli le modalità di transito verso il definitivo passaggio al nuovo contratto collettivo, appare opportuno che singolarmente le parti coinvolte nel rapporto di lavoro addivengano ad un nuovo accordo negoziale di transito alla nuova regolamentazione collettiva. D’altronde, la modifica del regime economico-normativo che opera dall’esterno rispetto ad un rapporto di tipo civilistico – prescelto in fase di assunzione – e che stabilisce la soglia minima generalmente applicabile al rapporto stesso, non può che essere oggetto di appositi accordi negoziali di variazione del rapporto di lavoro che vedano coinvolte le originarie parti contraenti, senza che, la parte sindacale, possa sostituire clausole contrattuali di cui essa stessa – sostanzialmente – non è parte. Accordo che, come ricordato dagli Ermellini, non necessita della sede protetta per i motivi di cui sopra. Resta ovviamente fermo lo zoccolo duro dei c.d. diritti quesiti ovverosia quei trattamenti definitivamente entrati nella sfera patrimoniale del lavoratore ed insensibili a vicende successorie esterne.

Diversamente, laddove il datore di lavoro abbia aderito ad una specifica organizzazione datoriale sarà necessario che lo stesso comuni- chi formale disdetta all’associazione, prima della scadenza del Ccnl applicato, per poi informare di detto recesso i lavoratori e le eventuali rappresentanze sindacali aziendali. In tal caso, infatti, la parte sociale datoriale ha operato in qualità di mandante ai sensi dell’art. 1704, codice civile, obbligando il datore di lavoro mandatario ad applicare il Ccnl di categoria sottoscritto. Si rammenta che, da conforme ed unanime giurisprudenza, la cessazione di applicazione di un contratto collettivo per mandato può realizzarsi solo a seguito di disdetta da parte dell’associazione datoriale stessa ovvero per sopraggiunta naturale scadenza della parte economico-normativa. Appare, infine, necessario evidenziare che, in tale ultima ipotesi, non si dovrà tener conto di eventuali clausole di ultra-vigenza contenute nel Ccnl. La contestazione del mancato rispetto della procedura di disdetta anzidetta comporterà la possibile rivendicazione da parte dei lavoratori dei trattamenti di miglior favore contemplati dalle clausole rinvenibili nel Ccnl sottoscritto dall’organizzazione sindacale alla quale il datore di lavoro aveva conferito mandato.

 

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IL FINTO PART-TIME integra il reato di sfruttamento del lavoro

Michele Siliato, Consulente del lavoro in Messina e Roma

 

Contrattualizzare part-time lavoratori che svolgono la prestazione lavorativa a tempo pieno integra il reato di sfruttamento del lavoro previsto dall’art. 603-bis, Codice Penale. All’assunto è addivenuta la quarta sezione penale della Corte di Cassazione che, con la sentenza 24 giugno 2022, n. 24388, ha condiviso i precedenti gradi di giudizio nei quali è stato affermato che far figurare falsamente i dipendenti a tempo parziale, costringendoli ad accettare le condizioni imposte dal datore di lavoro a fronte della necessità di mantenere l’occupazione, è un comportamento idoneo a perfezionare il reato di sfruttamento del lavoro. Nel tentativo di arginare il fenomeno del c.d. caporalato, tutt’ora ampiamente presente specie in determinati settori produttivi, con la riformulazione operata dalla Legge 29 ottobre 2016, n. 199, all’art. 603-bis, Codice Penale, il Legislatore ha inteso ampliare il perimetro di operatività dell’incriminazione dalla fattispecie della “mera” intermediazione di manodopera organizzata mediante violenza, minaccia o intimidazione ovvero approfittando dello stato di bisogno o necessità dei lavoratori, a comportamenti direttamente riconducibili al fruitore finale della prestazione lavorativa.

Ad oggi, il delitto in esame si presenta come una norma di portata generale volta a punire tutte quelle condotte gravemente distorsive del mercato del lavoro che, sfruttando mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittano dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori e che realizzano una vera e propria condizione di sfruttamento.

Ai sensi dell’art. 603-bis, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

  1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti  collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle oo.ss più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionata rispetto alla qualità ed alla quantità del lavoro prestato;
  1. la reiterata violazione della normativa in materia di orario di lavoro, periodi di riposo giornaliero o settimanale, periodi di ferie;
  2. la sussistenza di gravi violazioni in materia di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro;
  3. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o a situazioni analoghe degradanti.

Gli anzidetti indici sintomatici, pedissequamente individuati dal Legislatore, consentono al giudice di orientarsi rispetto alla valutazione dello squilibrio tra le prestazioni effettivamente rese dal lavoratore e la rispondenza del trattamento rispetto al correlativo modello contrattuale o legale. Giacché non vi siano margini o confini ben delineati che possano incardinare la fattispecie delittuosa, avendo il Legislatore fornito solo indizi all’integrazione del reato, il che potrebbe – peraltro – essere vantaggioso per scongiurare perversi meccanismi più o meno delittuosi con tendenza all’eventuale sanzione amministrativa, il bene giuridico oggetto di tutela è certamente la dignità del lavoratore ed il relativo contrasto rispetto a gravi violazioni tendenti alla mercificazione dell’essere umano.

Il caso al vaglio degli Ermellini trae origine dal sequestro preventivo disposto dal Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Lamezia Terme nei confronti del legale rappresentante gravemente indiziato del reato di sfruttamento del lavoro. La ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale ha accer- ! tato in maniera dettagliata e circostanziata come tutti i lavoratori, dalla data della loro assunzione, fossero stati resi edotti della circostanza per cui avrebbero dovuto lavorare per un numero di ore superiore a quello previsto dalla contrattazione collettiva. Altresì, in costanza di rapporto, i dipendenti subirono una modifica unilaterale del contratto di lavoro da full-time a part-time, continuando a prestare la propria opera per le ore corrispondenti al contratto a tempo pieno e percependo una retribuzione debitamente riproporzionata alla percentuale part-time accusata. Il Tribunale accertava, inoltre, che i dipendenti non usufruivano di ferie e/o permessi retribuiti, lavorando – sostanzialmente – tutti i giorni fino a raggiungere, anche, le quarantotto ore settimanali durante i picchi stagionali. Tali risultanze venivano desunte dalle dichiarazioni rese dai lavoratori in fase di accesso ispettivo e dal raffronto tra i turni di lavoro e i documenti contabili elaborati dall’impresa. Tra le doglianze poste innanzi alla Corte di Cassazione, il ricorrente ha sostenuto che i rapporti di lavoro erano stati instauranti in data antecedente al 4 novembre 2016, giorno in cui è stata introdotta la fattispecie incriminatrice, sicché la disposizione penale non avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie.

Secondo il condivisibile assunto dei Giudici di Piazza Cavour, invece, il delitto di sfruttamento del lavoro è un reato istantaneo con effetti permanenti il cui perfezionamento si realizza anche attraverso l’impiego o l’utilizzazione della manodopera in condizioni di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno. Di conseguenza, dunque, la lesione del bene giuridico protetto permane finché perdura la condizione di sfruttamento e approfittamento, potendo, il reato, essere commesso anche dai datori di lavoro che abbiano assunto lavoratori prima dell’introduzione della norma penale e che abbiano continuato a mantenerli in servizio, in condizioni di sfruttamento, anche successivamente al 4 novembre 2016.

La sopradetta decisione è perfettamente in li nea con il tenore della norma e con l’intenzione del Legislatore ovvero con lo scopo di punire lo sfruttamento dei lavoratori. In tal senso, il reato, oltreché configurarsi all’atto dell’assunzione di lavoratori in condizioni di sfruttamento, richiede necessariamente che le anzidette condizioni si realizzino durante la gestione del rapporto di lavoro, protraendosi per tutto il tempo in cui le stesse contravvengano gravemente alle disposizioni di legge. L’ampia tutela ricercata dalla norma, infatti, prevede che il reato si perfezioni non solo all’atto dell’assunzione, ma anche nell’utilizzazione o nell’impiego di manodopera. Nella medesima pronuncia, quanto allo stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, la Corte ha riaffermato l’orientamento ormai consolidato secondo cui ai fini del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualsivoglia libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose. Al riguardo si rileva come anche il tessuto imprenditoriale o le c.d. condizioni ambientali possano costituire un importante indice valutativo del comportamento datoriale laddove, nel contesto socioeconomico di consumazione della vicenda, la (fittizia) libera pattuizione – quale accordo contrattuale di accettazione di una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorate – è sic et simpliciter riconducibile alla necessità di mantenere un’occupazione, non esistendo, nel predetto contesto, possibili reali alternative di lavoro. La sentenza in commento appare in linea con i precedenti orientamenti giurisprudenziali concernenti la rilevanza penale di talune condotte datoriali accomunate, generalmente, dall’incutere timore e forzare la volontà del lavoratore nel senso voluto dal datore di lavoro1.

Al riguardo, dall’analisi del tenore letterale dell’art. 603-bis, Codice Penale, assunto che il bene tutelato è la dignità personale del lavoratore, il reato di caporalato si configura ogni qualvolta siano rinvenibili le caratteristiche dello sfruttamento e dello stato di bisogno del prestatore di lavoro. L’intenzione del Legislatore non è quella di limitarsi alla mera attività di reclutamento, utilizzazione o impiego di manodopera (art. 603-bis, commi 1 e 2) al ricorrere delle condizioni elencate al comma 3 dello stesso articolo. L’accezione peggiorativa del termine sfruttamento pu  essere definita come quella forzatura della capacità produttiva per l’ottenimento di un vantaggio patrimoniale immediato, depauperandone risorse ed il rendimento futuro. Nell’alveo delle dinamiche lavoristiche, ai fini della configurazione del reato il predetto concetto di sfruttamento – che, come sopra esplicitato, appare attenere all’illiceità di un sistema di produzione nella tutela della concorrenza – deve essere correlato e connesso all’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore, con conseguente disvalore e lesione della dignità del singolo prestatore. In tal senso, l’impostazione ricercata dal Legislatore attribuisce al giudice la possibilità di indagare sull’attività effettivamente resa di volta in volta dal singolo lavoratore per poi verificarne la rispondenza rispetto al trattamento tutelato dalla legge o dal contratto collettivo.

Tale ricerca non deve consistere in un mero ed isolato inadempimento, sicché le inadempienze devono essere “sproporzionate”, “palesemente difformi” e/o “reiterate”. Violazioni che devono essere valutate rispetto alla posizione del singolo lavoratore e non già rispetto alla pluralità dei lavoratori impiegati. Lo sfruttamento, quale condotta accompagnata all’approfittamento dello stato di bisogno idoneo ad integrare il reato in commento, va inteso come depauperamento del rapporto tra la forza impiegata dal lavoratore e le condizioni assicurate dal datore di lavoro che, oltrepassando in maniera sistematica e reiterata i limiti posti dall’ordinamento a garanzia e tutela della prestazione lavorativa, pone in es sere situazioni di degrado della dignità del lavoratore, vuoi per spregio dello stato psico-fisico, vuoi per l’adeguamento a situazioni alloggiative umilianti, vuoi per l’obbligo di accettazione di condizioni lavorative gravemente lesive per il prestatore in ragione dello stato di necessità correlato all’impossibilità di reperire diverse condizioni lavorative.

Quanto ai profili penali della condotta datoriale, si noti che dalla lettura della sentenza in commento, dal giugno 2018 i dipendenti subirono una modifica unilaterale del contratto di lavoro, passando da un contratto subordinato “ full-time” ad un “part-time”. Tuttavia, nonostante la modifica del contratto, i dipendenti continuarono a lavorare per un numero di ore corrispondenti al contratto a tempo pieno, percependo la retribuzione prevista dal Ccnl relativa ai contratti part-time. Ebbene, senza voler entrare nel merito del giudicato, oltre a rinvenire la fattispecie contemplata dall’art. 603-bis, Codice Penale, che si integra, come detto, al realizzarsi dello sfruttamento del lavoro in stato di necessità o di bisogno del prestatore di lavoro, vi è un ulteriore fatto prodotto dal datore di lavoro ovverosia il fittizio accordo di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. A parere di chi scrive, non vi è, dunque, il solo sfruttamento del lavoro, bensì, probabilmente, anche la configurazione del reato di cui all’art. 629, Codice Penale, laddove il datore di lavoro mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La violenza o la minaccia citata nel reato di estorsione deve essere diretta a coartare la volontà della vittima affinché questa compia un atto di disposizione patrimoniale, sia esso positivo (donazione di una somma di danaro) o negativo (remissione di un debito), produttivo di effetti giuridici. Nel caso de quo, l’ingiusto profitto realizzato dagli indagati, corrispondente alle retribuzioni non erogate, è stato quantificato in oltre 186.000 euro. In punto di diritto, l’oggetto di tutela giuridica nel reato di estorsione è duplice: l’interesse pubblico di inviolabilità del patrimonio; la libertà di autodeterminazione. Sempre rimanendo sul caso in esame, l’evento finale della disposizione patrimoniale (la sottoscrizione dell’accordo di trasformazione del rapporto) proviene dalla stessa vittima e non è escluso che esso sia il risultato di una situazione di costrizione determinata da violenza o minaccia dell’agente che ha ridotto notevolmente il potere di autodeterminazione della vittima. In breve, il lavoratore, quale soggetto passivo dell’estorsione, poteva trovarsi nell’alternativa tra far conseguire all’agente il vantaggio economico noto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato. Al riguardo si evidenzia che la minaccia puo’  – in giurisprudenza – assumere notevoli sfaccettature, potendo presentarsi in forme esplicite o larvate, scritte o orali, determinate o indeterminate ovvero assumere forme di semplice esortazione o consiglio, sicché la sottoscrizione di un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente volto all’accettazione da parte di quest’ultimo a percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore di lavoro svolte (di dubbia libera pattuizione), non pu  escludere la sussistenza dei presupposti dell’estorsione mediante minaccia idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi, comunque, una possibilità di lavoro.

Le condivisibili e molteplici pronunce della Suprema Corte in materia di diritto penale del lavoro di censura a riprovevoli condotte datoriali evidenziano che, non sempre, le sanzioni di natura amministrativa sono idonee a contrastare gravi forme di illegalità che incidono fortemente sulla posizione del prestatore di lavoro subordinato. Stiamo, pian piano, assistendo ad un importante utilizzo dell’art. 603-bis, Codice Penale, che necessariamente innalza le tutele giuslavoristiche. A parere di chi scrive, derubricare o depotenziare gli effetti di una norma incriminatrice, anche a favore di nuove e contorti illeciti di natura amministrativa, non puo’  essere salutata con favore laddove questa rappresenta – com’è in effetti – l’unico strumento deterrente a riprovevoli condotte.

 

1. C. Caminiti, “La rilevanza penale delle condotte datoriali”, in questa Rivista, aprile 2022, pag. 18.

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MAGGIORAZIONI PER LAVORO STRAORDINARIO, non basta conteggiare le ore di lavoro “effettivo”

Michele Siliato, Consulente del lavoro in Messina e Roma

 

Al vaglio della Corte di Giustizia Europea le regole per il corretto computo delle ore utili per la determinazione del lavoro straordinario e delle relative maggiorazioni. Con la domanda di pronuncia pregiudiziale posta dalla Corte federale del lavoro tedesca (Bundesarbeitsgericht), ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la Curia è stata interpellata a chiarire se l’art. 31, par. 2, della Carta e l’art. 7 della direttiva 2003/88 ostino a una disposizione di un contratto collettivo la quale, ai fini del calcolo se e per quante ore un lavoratore abbia diritto ad aumenti per il lavoro straordinario, tenga unicamente conto delle ore effettivamente prestate, ad esclusione delle ore fruite dal lavoratore a titolo di ferie annuali minime retribuite. L’accertamento della compatibilità della disciplina di derivazione collettiva ed il diritto dell’Unione verteva, in particolare, sulle disposizioni dell’art. 7 della sopracitata direttiva, secondo cui gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché venga garantito ad ogni lavoratore il beneficio di almeno quattro settimane annue di ferie retribuite, e le indicazioni contenute nel Manteltarifvertrag für Zeitarbeit (accordo collettivo generale sul lavoro temporaneo), a mente del quale viene stabilito che gli aumenti per gli straordinari sono pagati per le ore prestate oltre le 184 ore per 23 giorni lavorativi con una maggiorazione del 25%. Nel caso di specie, il lavoratore dipendente di un’impresa tedesca adiva il giudice di prime cure sollevando il diritto alla corresponsione delle maggiorazioni per lavoro straordinario per la mensilità di agosto 2017, che comprendeva 23 giorni lavorabili, nella quale lo stesso aveva effettivamente prestato la sua opera per complessive 121,75 ore durante i primi 13 giorni e, successivamente, ha goduto di restanti 10 giorni di ferie annuali retribuite, corrispondenti a 84,7 ore, chiedendo pertanto la corresponsione del supplemento del 25% per 22,45 ore, quale eccedenza rispetto alle 184 ore di cui all’accordo collettivo sopracitato, per una differenza retributiva quantificata in euro 72,32.

A seguito del rigetto della domanda sia in prima istanza che in appello, il dipendente decideva di presentare ricorso in Cassazione (Revision). In tale sede, dall’attenta analisi delle ricadute della disposizione collettiva sopra citata – secondo cui il solo computo delle ore effettivamente lavorate avrebbe potuto incoraggiare i lavoratori a non godere del periodo minimo di ferie annuali retribuite per via della perdita del diritto all’aumento della retribuzione nella misura del 25% delle ore prestate -, si decide di rinviare alla Corte di Giustizia UE se le previsioni contrattuali contestate ostino o meno alla normativa comunitaria. Invero, secondo le rilevazioni dei giudici del Bundesarbeitsgericht le previsioni contrattuali di cui si è detto potrebbero amputare il diritto all’aumento della retribuzione degli straordinari e dissuadere i lavoratori dall’esercitare il diritto al periodo minimo di ferie annuali retribuite. Sostanzialmente, il giudice del rinvio chiede se l’art. 31, par. 2, della Carta e l’art. 7 della direttiva 2003/88 debbano essere interpretati nel senso che ostano a una disposizione di un contratto collettivo in base alla quale, per determinare se sia stata raggiunta la soglia di ore lavorate che dà diritto all’aumento per le ore straordinarie, le ore corrispondenti al periodo di ferie annuali retribuite prese dal lavoratore non sono prese in considerazione come ore di lavoro prestate.

Il percorso giuridico-argomentativo della Corte Europea muove, innanzitutto, dalle disposizioni contenute nell’art. 7, par. 1, direttiva 2003/88, secondo cui gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane, sicché le discipline nazionali devono astenersi dal subordinare a qualsiasi condizione l’esercizio del diritto sopradetto che scaturisce direttamente dalla direttiva comunitaria (sent. 29 novembre 2017, King, C-214/16). Successivamente, come già rilevato in precedenti sentenze, il diritto alle ferie annuali retribuite – sancito anche dall’art. 31, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – deve essere considerato un principio particolarmente importante nel diritto sociale dell’Unione, potendo le autorità nazionali derogare nei limiti esplicitamente previsti dalla direttiva 2003/88. Come noto, il diritto al godimento di un periodo di ferie annuali retribuite concorre al miglioramento della sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori, garantendo adeguati periodi di riposo, potendosi affermare che l’art. 7 della citata direttiva ha la duplice finalità di consentire al lavoratore il recupero delle energiepsicofisiche sia rispetto all’esecuzione dell’attività lavorativa che alla possibilità di beneficiare di periodi di distensione o ricreazione (sent. 25 giugno 2020, C-762/18 e C-37/19). Ne consegue che gli incentivi a rinunciare al periodo di riposo o volti a sollecitare i lavoratori a rinunciarvi sono incompatibili con gli obiettivi del diritto alle ferie annuali retribuite, talché qualsivoglia azione o omissione del datore di lavoro, avente un effetto potenzialmente dissuasivo sulla fruizione delle ferie annuali da parte del lavoratore, è altresì incompatibile con la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite. In tal senso, la previsione contrattuale che indirettamente comporta una retribuzione inferiore dovuta all’esercizio del diritto di godimento di un periodo di ferie annuali retribuite rischia di indurre il prestatore di lavoro a non prendere il predetto periodo di riposo, per via del conseguente svantaggio finanziario. Pertanto, il meccanismo di conteggio delle ore lavorate, come quello rinvenuto nel procedimento principale, sulla base del quale la fruizione delle ferie può  comportare una riduzione della retribuzione del lavoratore – seppur in un periodo successivo – in quanto quest’ultima viene ridotta dell’importo supplementare previsto per le ore straordinarie effettivamente prestate, è idoneo a dissuadere il lavoratore dall’esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite durante il mese in cui ha effettuato ore straordinarie.

Il sopradescritto meccanismo, dunque, non è in definitiva compatibile con il diritto alle ferie annuali retribuite previsto dall’art. 7, par. 1, della direttiva 2003/88, sicché la Settima Sezione della Corte ha dichiarato che “l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/ CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, letto alla luce dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di un contratto collettivo in base alla quale, per determinare se sia stata raggiunta la soglia di ore lavorate che dà diritto ad un aumento per gli straordinari, le ore corrispondenti al periodo di ferie annuali retribuite prese dal lavoratore non sono prese in considerazione come ore di lavoro prestate”.

È ora il caso di guardare al nostro ordinamento. La disciplina nazionale sull’orario di lavoro è regolamentata dal Decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, ed è stata oggetto di apposito approfondimento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la circolare 3 marzo 2005, n. 8, dove il concetto di orario di lavoro, ancorché definito come qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, resta – per parte della dottrina – ancorato al concetto di lavoro effettivo, specie con riferimento alle regole sul lavoro straordinario.

L’orario di lavoro, pur nelle sue innumerevoli sfaccettature è, ai sensi dell’art. 3, comma 1, Decreto legislativo 8 aprile 2003, normalmente fissato in 40 ore settimanali, salvo apposite deroghe – inferiori – stabilite dalla contrattazione collettiva, restando ferma la possibilità di una flessibilizzazione dell’orario normale di lavoro a periodi non superiori all’anno (c.d. orario multiperiodale). Nella citata nota ministeriale viene poi specificato che nel computo dell’orario normale di lavoro (…) non rientrano i periodi in cui il lavoratore non è a disposizione del datore ovvero nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni, sicché le ore non lavorate potranno essere recuperate in regime di orario normale di lavoro. I più attenti potranno rilevare che la predetta indicazione amministrativa è posta in continuità con l’analisi del quadro di flessibilità oraria su periodi plurisettimanali o plurimensili, caso in cui vigono regole differenti da quelle ordinarie. Il cortocircuito proviene da una confusionaria interpretazione della definizione di lavoro straordinario – come definito dall’art. 1, comma 2, lett. c), D.lgs. n. 66/2003 – quale lavoro prestato oltre l’orario normale di lavoro così come definito all’articolo 3, che porta ragionevolmente a sostenere che ai fini del raggiungimento dei limiti dell’orario di lavoro settimanale si calcolano i periodi nei quali il lavoratore è al lavoro (nella definizione di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), mentre non si computano tutti i periodi non lavorati, seppur retribuiti (malattia, ferie, infortunio, gravidanza, permessi, festività, etc.). Ci  assunto – a titolo esemplificativo – l’erronea interpretazione della fattispecie porterebbe a non riconoscere le maggiorazioni per lavoro straordinario al dipendente che, chiamato a rendere la prestazione lavorativa da lunedì al venerdì per otto ore giornaliere, fruisca il giovedì di una giornata di ferie, per poi svolgere tredici ore di lavoro il venerdì, recuperando le ore in regime di orario normale di lavoro e, dunque, senza alcun diritto alla superiore retribuzione garantita per le ore “eccedenti”. E se, invece, stipulassimo un contratto di lavoro a tempo parziale su base annua per un numero di ore pari alla prestazione lavorativa richiesta su 11/12 delle mensilità disponibili? Avremmo l’effetto paradossale di non sottoscrivere più alcun contratto a tempo pieno, potendo – con l’artifizio giuridico di far recuperare a retribuzione ordinaria le quattro settimane di non lavoro, volte al godimento del periodo annuale di ferie – completare il cerchio annuo della prestazione lavorativa.

Appare, dunque, logico e condivisibile che l’indicazione ministeriale, secondo cui le ore non lavorate potranno essere recuperate in regime di orario normale di lavoro, è da riferirsi esclusivamente alla fattispecie in cui si applichi un orario di lavoro c.d. multiperiodale, che preveda – per l’appunto – orari settimanali superiori o inferiori al normale orario di lavoro a condizione che la media corrisponda alle 40 ore settimanali o alla minor durata prevista dalla contrattazione collettiva, nel limite dei dodici mesi mobili. Nel nostro esempio, allora, il lavoratore potrà serenamente fruire di un giorno di ferie il giovedì e vedrà retribuirsi, con le dovute maggiorazioni per lavoro straordinario, le cinque ore extra prestate nella giornata di venerdì. 

 

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