CIGO E INPS. Il Tar riconosce gli “ovvi” diritti dell’azienda*

di Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano  

Un unico accordo tra oo.ss. e un’azienda per la fruizione anche discontinua di periodi di Cigo. Le richieste all’Inps, come concordato. La pretesa dell’Istituto che gli accordi sindacali abbiano “scadenza”. Il Tar Lombardia, sede di Milano, con la sentenza del 31.07.2023, n. 1984, viene a dare tutela a un datore di lavoro costretto a farsi carico di un contenzioso giudiziario per ribadire i propri pure palesi diritti e uno stato dei fatti con poche ombre.

 

Purtroppo la via del riconoscimento dei propri diritti è spesso imprevedibilmente irta. Anche di fronte all’evidenza. Lo sa bene, tra i molti, un’azienda milanese e suoi Consulenti del Lavoro, che hanno dovuto penare per farsi riconoscere -anche con l’assistenza dell’ANCL nazionale- l’ovvio diritto a godere di un periodo di cassa integrazione guadagni ordinaria, pure risultando in possesso di tutti i requisiti di legge.

Come comunemente accade, l’azienda, a causa di una contrazione imprevista delle commesse, si era rivolta al proprio professionista, affinché facesse tutto quanto necessario per richiedere l’intervento dell’ammortizzatore sociale. Come noto, tra quanto viene previsto al riguardo dal Decreto legislativo n. 148 del 2015 al fine di ottenere l’ammissione alla Cigo, al suo articolo 14, si stabilisce anche l’esigenza di procedere all’informativa preventiva alle organizzazioni e rappresentanze sindacali delle cause di riduzione dell’attività lavorativa e di quanti ne saranno coinvolti. Cio’  al manifesto fine di dare la possibilità di procedere, se richiesto, a un esame congiunto della situazione di crisi.

  1. Nei casi di sospensione o riduzione dell’attività produttiva, l’impresa è tenuta a comunicare preventivamente alle rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria, ove esistenti, nonché alle articolazioni territoriali delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, le cause di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile, il numero dei lavoratori interessati.
  2. A tale comunicazione segue, su richiesta di una delle parti, un esame congiunto, anche in via telematica, della situazione avente a oggetto la tutela degli interessi dei lavoratori in relazione alla crisi dell’impresa.

Nel caso considerato, avveniva che l’azienda, fatte tutte le dovute comunicazioni, giungesse a trovare l’accordo, sia pure con una sola sigla sindacale, per fruire di alcune settimane complessive di cassa integrazione, anche “in maniera non consecutiva”.

Avveniva così che, sulla base di quanto concordato in sede sindacale, l’azienda facesse luogo a una prima richiesta all’Inps di cassa integrazione per alcune settimane e che essa fosse regolarmente ammessa dall’Istituto. Quindi, di poco successivamente, sulla base dei medesimi presupposti e per lo stesso personale, si richiedeva un ulteriore periodo di Cigo, anche questo concesso senza difficoltà. Infine, a esaurimento del numero di settimane di Cigo concordate, residuava un ulteriore breve periodo di cassa integrazione per completare quanto già ammesso. Come per i precedenti, e con le medesime modalità, per esso veniva presentata richiesta dall’azienda; la quale, pero’, questa volta, si sentiva opporre un inaspettato diniego dall’Inps.

Il perché era presto detto: a parere dell’Istituto, occorrevano, nel caso, nuove comunicazioni e rinnovati confronti con le organizzazioni sindacali, ai sensi dell’art. 14, D.lgs. n. 148/2015 (“Preso atto che l’azienda non ha assolto all’obbligo dell’esperimento della procedura di informazione e consultazione sindacale; la documentazione allegata inerente la consultazione sindacale fa riferimento a una procedura già esaurita con l’autorizzazione delle precedenti domande”).

Ritenuto di constatare il difetto della necessaria documentazione, pertanto, la sede Inps competente provvedeva a non ammettere la Cigo, con evidenti e immediate ricadute sull’azienda e sulle posizioni dei singoli lavoratori. Purtroppo, nella vicenda, a nulla conduceva il tentativo di interlocuzione diretta con l’Istituto per fare comprendere le pacifiche evidenze del caso. E neppure la presentazione di un ricorso amministrativo a cui, come sovente accade, l’Inps non offriva neppure riscontro. Dopo un confronto sulla vicenda, da parte del Consulente del lavoro, con l’ANCL e i suoi legali, preso atto che ogni confronto con l’Inps, sul pure palese diritto, non aveva avuto esito positivo, si decideva di predisporre senza ritardo un ricorso al Tar per impugnare il diniego e fare concedere la Cigo mancante. Con esso si puntualizzava che, non solo risultava palesemente contrario alla legge e contraddittorio il modo di agire dell’Istituto; ma che inoltre -pure a volere ritenere valida la contestazione dell’Istituto- neanche era stata offerta all’azienda la possibilità di “rimediare”, come previsto dal D.M. 15 aprile 2016, n. 95442 del Ministero del Lavoro in materia, con un supplemento istruttorio e alla luce del preminente e ineludibile principio del soccorso istruttorio.

In particolare, ai sensi dell’art. 11 del regolamento ministeriale sui criteri di esame delle domande di concessione dell’integrazione salariale ordinaria, nel caso, prima di procedere al rigetto dell’istanza di Cigo, addirittura avrebbe potuto essere l’Istituto stesso a contattare le organizzazioni sindacali al fine di perfezionare l’istruttoria, se ritenuta carente di alcune condizioni.

In caso di supplemento di istruttoria, l’Inps può richiedere all’impresa di fornire, entro 15 giorni dalla ricezione della richiesta, gli elementi necessari al completamento dell’istruttoria e può sentire le organizzazioni sindacali di cui all’articolo 14 del Decreto legislativo n. 148 del 2015 che hanno partecipato alla consultazione sindacale.

Malgrado lo stato dei fatti privo di ombre e dubbi, in fatto e diritto, l’azienda era percio’  costretta, dapprima a fronteggiare da sé l’emergenza stipendiale del proprio personale; quindi, a farsi tempestivamente carico dell’onere di proporre impugnazione al Tar per fare riconoscere il proprio pure conclamato diritto a fruire della restante Cigo, già concordata e ammessa anche in sede sindacale.

Il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sede di Milano, in effetti riscontrava quanto già avrebbe dovuto essere del tutto evidente dalla mera considerazione delle circostanze di causa. Ovverosia, che erano state poste in essere le stabilite comunicazioni alle rappresentanze sindacali; che era stato raggiunto un accordo in riferimento alla fruizione anche non consecutiva dei periodi di Cigo; che al tempo dell’ulteriore domanda, in effetti, come non contestato, residuava un periodo settimanale non fruito dall’azienda. A fronte di ci , e alla luce del decreto attuativo n. 148/2015, oltre che del regolamento ministeriale del 2016, in definitiva, l’affermazione del diritto del datore di lavoro era riconosciuta come circostanza del tutto pacifica, mentre la pervicacia dell’Inps risultava priva di giustificazione.

La vertenza, in sostanza, avrebbe potuto trovare una rapida soluzione già in sede amministrativa, solo che l’amministrazione avesse inteso considerare i termini del caso. Chiamato invece a intervenire, il Tar Lombardia, sede di Milano, con la sentenza del 31.07.2023, n. 1984, non poteva che riconoscere l’“ovvio” diritto dell’azienda ricorrente.

Il diniego dell’I.N.P.S. non appare legittimo, poiché non era necessario, in sede di presentazione della domanda per fruire dell’ulteriore settimana da parte dell’azienda, avviare un nuovo confronto sindacale e stipulare un nuovo accordo con le parti sociali, essendo stato già previsto, nell’ambito dell’accordo con i sindacati, che “il periodo massimo di sette settimane di Intervento di Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria verrà fruito in maniera non consecutiva, ad ogni effetto di legge”. Quindi, essendo stata prevista la possibilità di fruizione non consecutiva della C.I.G.O., non poteva ritenersi esaurito l’accordo posto a fondamento della stessa. Nemmeno potrebbe ritenersi, in assenza di una norma di carattere cogente, che gli accordi con le rappresentanze sindacali abbiano un limite di validità temporale, oltre il quale perdono la propria efficacia, visto che “le integrazioni salariali ordinarie sono corrisposte fino a un periodo massimo di 13 settimane continuative, prorogabile trimestralmente fino a un massimo complessivo di 52 settimane”, come stabilito dall’art. 12, comma 1, del D. Lgs. n. 148 del 2015.

Infine, non assume alcun rilievo nella presente sede processuale, l’asserzione contenuta nella memoria della difesa dell’I.N.P.S., secondo la quale la mancanza di un nuovo accordo avrebbe impedito il coinvolgimento di tutte le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative …  in ogni caso, l’art. 14 del D. Lgs. n. 148 del 2015 non impone il raggiungimento dell’accordo con tutte le sigle sindacali, ma soltanto che si proceda alla comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali, nonché alle articolazioni territoriali delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, delle cause di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile e il numero dei lavoratori interessati, cui deve seguire, su richiesta di una delle parti, un esame congiunto della situazione, avente a oggetto la tutela degli interessi dei lavoratori in relazione alla crisi dell’impresa (cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, I, 1° agosto 2016, n. 1080).

Dalla decisione del Tar -resa percio’ necessaria dall’inspiegabile assenza di un’ordinaria dialettica tra le parti-, emerge in modo dirimente che, con riguardo all’informativa delle organizzazioni sindacali, da tempo si è formato un univoco orientamento giurisprudenziale, per cui si ritengono sufficienti alla dimostrazione dell’assolvimento dell’adempimento di legge le provate comunicazioni alle organizzazioni sindacali. E ci , anche nel caso in cui non sopraggiunga alcun accordo successivo.

Va tuttavia rimarcato come, nella vicenda, a tutela della propria posizione, l’Inps giungesse anche ad affermare che sarebbe stato necessario un accordo con tutte le organizzazioni sindacali interessate, come peraltro già escluso da tempo dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sentenza 9.9.2022, n. 2547 e n. 2557). La quale giurisprudenza ritiene del resto sufficiente a soddisfare il requisito di legge, anche l’accordo intercorso con l’unica sigla sindacale che si sia semmai attivata (cfr. Tar Lombardia, Brescia, Sentenza 11.6.2018, n. 557).

In definitiva, vale l’auspicio che cresca l’attenzione pubblica, quantomeno alla preservazione di quei diritti conclamati che, spesso, cittadini e contribuenti non hanno la forza di rivendicare.

 

 

 

* L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

INPS, INAIL E APPALTI ILLECITI. L’obbligazione del datore di lavoro formale*

di Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano  

Per i versamenti di contributi e premi in caso di appalto e somministrazione illeciti, oltre alla nota responsabilità del datore di lavoro sostanziale, concorre ora anche quella solidale del datore di lavoro formale. In tale ultimo senso, l’interessante sentenza n. 102/2023 della Corte di Appello di Milano costituisce un revirement rispetto a quello che è stato finora l’uniforme orientamento della Suprema Corte e della stessa prassi degli Istituti.

Uno degli assunti più noti e finora certi in materia di appalti e somministrazioni illeciti concerne la circostanza per cui, delle obbligazioni contributive e assicurative che discendono dal rapporto di lavoro effettivo, risponde l’utilizzatore della manodopera.
Dunque, nel caso di fornitura illegittima di personale formalmente dipendente da altro datore di lavoro e in ipotesi di elusione della normativa, Inps e Inail dovrebbero pretendere dal committente/utilizzatore quanto dovuto a titolo di contributi e premi.
Una verità talmente consolidata da essere anche oggetto di un’uniforme prassi degli Istituti e dello stesso Ispettorato Nazionale del Lavoro. Proprio quest’ultimo, accogliendo le consolidate ragioni creditizie di Inps e Inail, ha chiarito nel tempo, in modo inequivocabile, che gli obblighi di natura pubblicistica in materia di assicurazioni sociali gravano esclusivamente nei confronti dell’utilizzatore, datore di lavoro sostanziale, ex art. 2094 c.c.. In tale senso, per la Circolare Inl n. 10 del 2018, l’unico rapporto di lavoro rilevante verso l’ente previdenziale [è] quello intercorrente con il datore di lavoro effettivo (Cass. civ. 20/2016 e Cass. civ. 463/2012).
Una posizione fatta propria e chiarita alle medesime sedi dell’Inps, tra l’altro, con una direttiva interna del 18.3.2019, per cui, nelle predette fattispecie di fornitura illecita, i recuperi contributivi vanno operati “nei confronti del solo datore di lavoro effettivo, a favore del quale sono state fornite prestazioni di opera da parte di lavoratori in forza ad un datore meramente apparente”.
Apparentemente tutto molto chiaro, perciò, anche alla luce di un’univoca giurisprudenza della Suprema Corte.
La materia delle responsabilità contributive conosce però oggi un interessante revirement da parte della Corte d’Appello di Milano, la quale, con sentenza n. 102/2023 del 15/02/2023, chiarisce che gli Istituti di previdenza possono chiamare indifferentemente in causa, per la corresponsione di contributi e premi, tanto l’utilizzatore -datore di lavoro effettivo-, quanto il fornitore -datore di lavoro formale-. Entrambi, infatti, sarebbero, comunque sia, obbligati in solido per i medesimi importi. In particolare,
qualora il datore di lavoro formale venga chiamato ad adempiere agli obblighi contributivi, questi non può liberarsi del proprio debito opponendo la fattispecie della somministrazione irregolare nei confronti degli Enti previdenziali-assistenziali (che non abbiano agito per far accertare la diversa titolarità
del rapporto di lavoro) in quanto, in tali casi, il datore formale rimane comunque solidalmente responsabile con l’utilizzatore sostanziale del pagamento dei contributi tant’è che quest’ultimo può avvalersi dei versamenti effettuati  dal somministratore (ex artt. 27 e 29 D.lgs. 10.9.2003, n. 276 nonché art. 38, c. 2, D.lgs. 15.6.2015, n. 81).
Il sistema non ha concesso al datore di lavoro formale che si voglia liberare dell’obbligo contributivo la facoltà di agire nei confronti dei lavoratori e degli enti previdenziali per far accertare in via incidentale la somministrazione irregolare. Tale iniziativa, infatti, non è in grado di sortire alcun effetto estintivo poiché –come già detto– il somministratore irregolare rimane comunque corresponsabile del pagamento
dei contributi a prescindere dall’accertamento positivo dell’illiceità dell’appalto.
Una posizione senza dubbio innovativa, quella della Corte d’Appello di Milano, che pare superare il suddetto noto orientamento, nel tempo sempre confermato dalla Cassazione, per cui l’unico rapporto di lavoro rilevante rispetto all’Istituto previdenziale è quello intercorrente con il datore di lavoro effettivo. Con la conseguenza che gli obblighi di natura pubblicistica in materia di assicurazioni sociali  graverebbero per intero sul datore di lavoro di fatto. Tali obblighi, per la S.C., sorgono solamente in capo all’effettivo datore, a prescindere dall’avvenuta o meno richiesta giudiziale, da parte del lavoratore somministrato, di accertamento di un rapporto di lavoro con l’effettivo utilizzatore.
Ciò, in base al principio ermeneutico generale di effettività, per cui la sostanza del rapporto prevale sulla forma. Quale effetto, la disciplina applicabile in tali ipotesi di fornitura  illecita di manodopera sarebbe quella prevista per la tipologia del rapporto di lavoro posto in essere materialmente, anziché quella adottata in frode a leggi e contratti.
Tra le molte conferme, in tale senso si esprimeva la Suprema Corte, con la sentenza del 4.1.2016, n. 20, che affermava il principio secondo cui in ipotesi di interposizione nelle prestazioni di lavoro, non è configurabile una concorrente obbligazione del datore di lavoro apparente con riferimento ai contributi dovuti agli enti previdenziali, rimanendo tuttavia salva l’incidenza satisfattiva di pagamenti eventualmente eseguiti da terzi, ai sensi dell’articolo 1180 c.c., comma 1, nonché dallo stesso datore di
lavoro fittizio, senza che abbia rilevanza la consapevolezza dell’altruità del debito.
La medesima pronuncia ribadiva in definitiva il principio, ritenuto incontrovertibile, che “l’unico rapporto di lavoro rilevante verso l’ente previdenziale è quello intercorrente con il datore di lavoro effettivo”.
Un orientamento considerato pacifico finora, per cui “in tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro, non è configurabile una obbligazione concorrente del datore di lavoro apparente per i contributi dovuti agli enti previdenziali” (Cass., Sez. Lav., Ordinanza 26.5.2020, n. 9782).
Appare chiaro come l’adesione all’una o dell’altra delle incompatibili tesi giurisprudenziali esposte permetta all’Inps e all’Inail una maggiore o minore libertà di azione nel recupero di contributi e premi. Infatti, il principio espresso dalla Corte d’Appello di Milano consente agli Istituti di rivolgersi in maniera indifferente a datori di lavoro sostanziali e formali, mentre l’orientamento preminente fino a oggi concentra la propria attenzione sulle responsabilità dei soli committenti degli appalti illeciti.

* L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

INPS E AUTOTUTELA. Se le sedi evitano il nuovo regolamento*

di Mauro Paris, Avvocato in Belluno e Milano  

In materia di autotutela e revisione dei provvedimenti Inps, la poco conosciuta Deliberazione n. 9 del 18.1.2023 costituisce una sorta di rivoluzione copernicana, a sicuro vantaggio di cittadini, contribuenti, aziende e professionisti. Rispetto alle vaghezze del passato, sono infatti ora previsti modi e termini certi per l’avvio espresso del procedimento a seguito delle istanze, l’istruttoria e la decisione. Senza più silenzi-rigetto. In attesa dei primi monitoraggi ufficiali dell’Inps, tuttavia, la prassi percepita è quella di un diffuso smarcamento delle sedi territoriali dagli adempimenti puntuali oggi previsti. La circolare n. 47/2023 prova però, adesso, a ridonare slancio e centralità alla disciplina.

Autotutela Inps, questa sconosciuta. Sembrano ancora davvero pochi coloro che conoscono effettivamente i termini e modi della nuova disciplina delle procedure di revisione dei provvedimenti assunti dall’Istituto. Si tratta della Deliberazione n. 9 del 18.1.2023 (“Regolamento recante disposizioni in materia di autotutela”), per cui è ora stabilito che nessuna istanza di riconsiderazione delle decisioni assunte possa essere ignorata. Eppure, in attesa dei previsti monitoraggi dell’amministrazione (ci si augura, resi pubblici), dai primi riscontri di prassi sembra che proprio le sedi territoriali dell’Inps, pure se destinatarie di accorate e motivate istanze da parte di aziende e professionisti, non diano il seguito dovuto alla nuova disciplina. Il Regolamento n. 9/2023, su cui soprattutto i vertici dell’Istituto hanno mostrato di appuntare grandi aspettative, sembra insomma, almeno finora, scivolato via, silenziosamente. Forse eclissato dalla contemporanea Deliberazione n. 8, del medesimo 18.1.2023, sui ricorsi amministrativi (“Regolamento in materia di ricorsi amministrativi di competenza dei Comitati dell’INPS”. Cfr. al riguardo, Sintesi, febbraio 2023, pag. 13), risulta misconosciuto e inapplicato.

Può pure darsi che, in generale, si sia creato qualche fraintendimento sul reale senso degli articolati e delle nuove discipline Inps (si è soliti definirli entrambi “ricorsi”, sia quelli tipici, sia quelli atipici, che perseguono la revisione spontanea dall’Istituto). Eppure -sebbene in modo non corretto e condivisibile lo stesso Istituto le faccia intendere come “alternative”, quantunque non lo siano affatto- parliamo di “istanze” e “procedure” ben differenti, per organi decidenti ed effetti.

Ma a ridonare slancio e centralità all’azione di revisione e autotutela delle sedi, ci prova ora la Circolare Inps n. 47 del 17.5.2023 (“Deliberazione del Consiglio di Amministrazione n. 9 del 18 gennaio 2023. Regolamento recante disposizioni in materia di autotutela”), chiamata a illustrare la nuova disciplina.

Come noto, da sempre e senza particolari formalità, le Direzioni e i vari organismi dell’Istituto sono destinatari di richieste e suppliche di contribuenti e soggetti interessati, affinché -sostanzialmente sotto forma di “grazia”-, rivedano le loro decisioni in malam partem, riconsiderando i termini di vicende o gli inquadramenti giuridici delle fattispecie trattate. Sforzi di confronto che solo raramente, però, almeno fino a oggi, hanno “pagato”, trovando funzionari e sedi ricettivi e solerti (quantomeno all’effettiva ponderazione delle difese portate). Solitamente, come a tutti noto, si sono mostrati sguscianti e refrattari, usualmente privi di qualsivoglia perplessità quanto alle proprie prime decisioni.

Muro contro muro, muri di gomma, silenzi, incaponimenti e sottovalutazioni degli interessi in gioco -non solo di cittadini, aziende e contribuenti, ma anche del medesimo Istituto- sono stati costantemente tali da suscitare quasi commossa meraviglia i rari casi di intervento paternalistico dell’Istituto, capace qua e là di generose concessioni, con la revisione delle proprie posizioni.

Va osservato, tuttavia, che la revisione e l’autotutela, se concedono spazio ai contrapposti interessi del contribuente, lo fanno per la coincidente ricorrenza di un interesse pubblico a non coltivare posizioni contra ius, o comunque prevedibilmente diseconomiche, in quanto perdenti.

In realtà, la revisione di previe decisioni Inps può convenire a tutti. Sull’interesse della pubblica amministrazione a evitare il peggio per sé, agendo di giustizia nel concorrente interesse dei privati, già da molto si esprime l’ordinamento, anche con il suo noto art. 21-novies, Legge n. 241/1990.

Il provvedimento amministrativo illegittimo … può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici… e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.

E seppure la legge minaccia di individuare responsabilità per quanti, nell’amministrazione, omettono di operare per la dovuta autotutela, tra il dire e il fare -porre il principio e darne reale applicazione-, c’è di mezzo il mare. Per cui, in una logica di effettiva e opportuna deflazione del contenzioso, l’Inps ha lodevolmente pensato di darsi, una volta di più, regole certe: anche in ordine alle spontanee revisioni di proprie precedenti decisioni (cfr. Regolamento n. 9/2023, art. 1, co. 2).

ll Regolamento disciplina le modalità di svolgimento del procedimento di autotutela che, attraverso il tempestivo intervento dell’Amministrazione sui provvedimenti emanati, può prevenire controversie o risolvere contenziosi prima che intervenga la decisione dei soggetti competenti e senza ulteriori aggravi dei procedimenti.

In definitiva, se finora le istanze di revisione erano lasciate sospese in un limbo di incertezze in ordine all’eventualità della loro considerazione e trattazione, adesso esistono precise procedure, non lasciate al libero apprezzamento delle Sedi Inps, ma ineludibili e cogenti (cfr. Regolamento n. 9/2023, art. 1, co. 3: “I provvedimenti con i quali si conclude il procedimento di autotutela sono l’annullamento d’ufficio, la rettifica, la convalida e la revoca”). Oltre che su istanza della parte interessata e di chi l’assiste, l’avvio del procedimento può avvenire anche d’ufficio, su proposta di chi ha adottato il provvedimento da riesaminare; per esempio, quando sia già stato posto in essere un ricorso giudiziario o amministrativo.

La maggiore certezza del diritto del contribuente alla revisione, la offre l’incontrovertibile previsione -quella da cui le Sedi territoriali paiono soprattutto, ancora oggi, volersi smarcare- concernente il primo onere discendente dall’avvio del procedimento di autotutela (cfr. Regolamento n. 9/2023, art. 3, co. 5).

All’interessato e agli eventuali controinteressati individuati o individuabili ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni deve essere data comunicazione dell’avvio del procedimento di autotutela.

In sostanza, la puntuale disposizione comporta che, se l’interessato invia un’istanza di revisione, obbligatoriamente la Sede Inps è tenuta a comunicare espressamente che è stata avviata un’istruttoria, per comparare gli interessi in gioco e valutare se sia accoglibile quanto richiesto.

Del resto, non si tratta di una comunicazione interlocutoria e di mero stile, atteso che l’istruttoria deve concludersi entro 30 giorni, dalla presentazione della domanda su istanza di parte o, se d’ufficio, dall’avvio del procedimento. Tra le acquisizioni e valutazioni che necessariamente devono essere operate nel corso dell’istruttoria (cfr. Regolamento n. 9/2023, art. 4), oltre all’“eventuale consultazione di intermediari qualificati per acquisire ulteriori elementi utili alla valutazione”, a tutto favore dell’Istituto vi deve essere anche

l’analisi degli eventuali maggiori risparmi o dei minori oneri finanziari attraverso l’esame dei seguenti elementi:
1. rilevanza economica del caso;
2. probabilità dell’instaurazione del contenzioso e della soccombenza dell’Amministrazione convenuta in giudizio;
3. costi del contenzioso, ripartiti in fase di ricorso amministrativo e ricorso giudiziario, spese legali, maturazione di interessi, oneri per il funzionamento e attivazione della potestà decisionale dei Comitati, dell’attività di difesa e patrocinio legale dell’Istituto;
4. entità e sostenibilità dell’eventuale onere a carico dei soggetti interessati al provvedimento
oggetto di riesame.

 

Ma non tutto compete alle Sedi provinciali. Infatti, allorquando il valore economico della pratica è rilevante, occorre che sia previamente raccolto il parere del Direttore Regionale o del Coordinamento Metropolitano (cfr. Regolamento n. 9/2023, art. 4, comma 3 e 6), salvo che la Sede provinciale Inps non intenda pianamente confermare il provvedimento.

Se il valore economico del provvedimento di autotutela relativo ad un provvedimento emanato da una struttura territoriale eccede la somma complessiva di euro 10.000,00 (diecimila), il Direttore della struttura organizzativa presso la quale opera l’ufficio che ha emanato il provvedimento oggetto di riesame procede alla sua emanazione previa acquisizione dell’assenso del Direttore regionale/Direttore di coordinamento metropolitano di riferimento… Qualora, a seguito dell’istruttoria, si decida di intervenire con un provvedimento di conferma dell’atto oggetto di riesame, nel suo contenuto e nella sua forma originari, indipendentemente dal valore economico del provvedimento riesaminato, non sarà necessario acquisire né il parere, né il previo assenso della Direzione regionale o della Direzione di Coordinamento Metropolitano

Circostanza, quest’ultima, che fa meno propizia (quantomeno per pastoie burocratiche e complicazioni) la prospettiva di revisioni e autotutele, rendendo senza dubbio più facili e meno impegnativi i dinieghi delle istanze di aziende e professionisti, piuttosto che il loro accoglimento.

Sia come sia, a ulteriore garanzia dell’attenzione che deve essere comunque prestata dalle sedi dell’Inps alle istanze di revisione, ricorre la disposizione per cui il procedimento di autotutela deve concludersi con un provvedimento espresso (cfr. Regolamento n. 9/2023, art. 5).

Il procedimento di autotutela si conclude con l’adozione, da parte del Direttore della struttura centrale o territoriale presso la quale è incardinato l’ufficio che ha emanato il provvedimento oggetto di riesame, di un provvedimento contenente l’indicazione:
a) dell’Ufficio responsabile;
b) del provvedimento oggetto del riesame;
c) dell’istruttoria compiuta;

d) della motivazione, con l’indicazione degli elementi di fatto e di diritto che hanno determinato la
decisione in autotutela;
e) del diritto/interesse legittimo del cittadino o la pretesa dell’Istituto oggetto del provvedimento di autotutela;
f) del termine e dell’autorità presso la quale può essere presentato ricorso, qualora vi sia interesse.

 

La garanzia del diritto del cittadino di ottenere sempre risposte certe ed espresse (principio di civiltà su cui, almeno dalla Legge n. 241 del 1990 in avanti, tecnicismi a parte, vi è generale condivisione) si rende concreta con la previsione per cui “del provvedimento deve essere data comunicazione all’interessato e agli altri eventuali controinteressati, agli enti di patronato, agli intermediari qualificati e ai rappresentanti legali intervenuti nel procedimento”.

Non è ammesso il silenzio-rigetto, insomma, come invece vale per i Ricorsi tipici “on line”, disciplinati dal Regolamento n. 8/2023. Una disposizione, quella dell’Inps, che non ammette interpretazioni ed eccezioni, specie alla luce dell’ulteriore e chiara indicazione che il provvedimento di annullamento va emanato entro il termine certo di 60 giorni dall’avvio del procedimento (cfr. Regolamento n. 9/2023, art. 5).

I termini per la conclusione del procedimento di autotutela per l’annullamento d’ufficio non possono eccedere i sessanta giorni dalla data di avvio del procedimento. Il provvedimento è adottato dal Direttore centrale o territoriale presso cui è incardinato l’ufficio che ha emanato il provvedimento originario.

Va appena sottolineato come l’Inps, credendo nell’estrema serietà del proprio progetto, abbia previsto la “responsabilità amministrativa e contabile del responsabile del procedimento”, in caso di “mancata attivazione, per dolo o per colpa grave, degli strumenti consentiti dall’autotutela” (cfr. Regolamento n. 9/2023, art. 12). Le chiare disposizioni del Regolamento n. 9/2023, in definitiva, sebbene l’avvio non pare sia stato apparentemente dei migliori, fanno comunque oggi ben sperare cittadini, contribuenti, aziende, professionisti e intermediari su una futura più attenta considerazione delle loro ragioni (cfr. Circolare n. 47/2023: “l’Amministrazione procederà all’annullamento d’ufficio quando ciò sia necessario al fine di evitare un danno non proporzionato agli interessi dei privati coinvolti nel procedimento”). Ma che qualcosa sia davvero cambiato, ce lo potranno confermare solo i primi monitoraggi dell’Istituto, a livello centrale e territoriale, previsti con lungimiranza “al fine di garantire la correttezza e la legittimità dell’azione amministrativa, anche con riferimento all’attuazione di efficaci procedure di prevenzione e di diminuzione dei rischi aziendali” (cfr. Regolamento n. 9/2023, art. 11).

Una bella sfida, di cui si attendono positivi e costanti riscontri da parte dell’Inps, malgrado il proponimento di “contenere” l’utilizzo dello strumento dell’istanza di revisione, già espresso dalla circolare n. 47/2023 (“Al fine di favorire il contenimento del contenzioso, si invitano le Direzioni regionali e di coordinamento metropolitano ad attivare ogni iniziativa utile ad indirizzare l’attività degli intermediari verso un uso più consapevole delle istanze di autotutela, da considerare come alternativa alla proposizione dei ricorsi amministrativi, oltre che al corretto utilizzo dei canali telematici messi a disposizione dell’Istituto”).

* L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

PROGRAMMAZIONE VIGILANZA 2023, più ispezioni e recuperi*

di Mauro Paris, Avvocato in Belluno e Milano  

Il Documento di programmazione della vigilanza nel 2023, formato e comunicato dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, conferma il trend al rialzo di controlli e risultati perseguiti, già fissati dal PNRR e dal PNS. La “pressione” di ispettori e Istituti si è già fatta sentire a partire dalla fine del 2022, ma dall’inizio del 2023 risulta del tutto manifesta, con sempre maggiori accessi ispettivi, verbali di contestazione e recuperi operati presso le aziende.

Appare perciò d’interesse per tutti gli operatori conoscere obiettivi e linee guida che governeranno gli ispettori, non meno che quali siano le indicate possibilità alternative ai controlli.

Secondo alcuni quotidiani, a commento del Documento di programmazione della vigilanza per il 2023, comunicato dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, nel corso di quest’anno ci attendono, tra l’altro,  ispezioni del lavoro rapide e “a tavolino”, con contestazioni prese senza che gli ispettori debbano neppure varcare le soglie dell’azienda.

Una soluzione che non può che aggiungere preoccupazione a quanti già pensano che l’ispezione del lavoro sia carente delle dovute garanzie e del giusto bilanciamento tra poteri ispettivi e presidi defensionali (cfr. Sintesi, dicembre 2020, Nuovi (super) poteri al personale ispettivo del lavoro.).

Suscita perplessità, per esempio, come possa accadere che la materia fiscale e il confronto con l’Agenzia delle Entrate siano maggiormente garantiti rispetto a quelli relativi al lavoro e con gli Istituti. È palese, infatti, la disparità di previsione e trattamento tra verifiche ispettive in fondo omologhe, per modi e dinamiche. Eppure, negli accertamenti tributari i contribuenti sono ammessi a muovere le loro osservazioni prima delle contestazioni definitive (che devono motivare e dare conto puntualmente anche di dette osservazioni: cfr. Statuto del Contribuente, L. n. 212/2000), mentre in materia di lavoro e legislazione sociale, non solo ciò non è previsto; ma addirittura è oggi possibile concepire che possano essere mossi addebiti senza neppure alcuna forma di contatto, oltre che di contraddittorio.

 

… sarà incrementato l’utilizzo degli istituti normativi volti ad una pronta soddisfazione delle richieste di intervento, specie di natura economica, attraverso … la possibilità di definire le richieste di intervento, che per oggetto e completezza degli elementi forniti dai lavoratori o dalle organizzazioni sindacali, possano risolversi attraverso un’attività istruttoria che non richieda la necessità di effettuare un accesso in azienda.

 

In definitiva, si correrà il rischio di vedersi notificato un Verbale di contestazione di illeciti o recuperi contributivi… a giochi già fatti.

 

Più in generale, a ogni modo, l’obiettivo complessivo degli uffici di vigilanza sarà quello di favorire un miglioramento delle performance ispettive, in termini di numeri e risultati, come peraltro imposto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e dal correlato Piano Nazionale per la lotta al lavoro Sommerso (PNS). Infatti, seppure sono migliorati i risultati nel 2022 rispetto agli anni precedenti (con € 1.153.324.990 di recuperi di contributi e premi e il 72% del tasso di irregolarità rilevato), in realtà la vigilanza ha prodotto esiti ancora lungi dall’essere soddisfacenti, e senz’altro non all’altezza di quelli pre-Covid (per esempio, nel 2018 i recuperi erano per oltre 1 miliardo e 350 milioni di euro).

Le due direttrici principali che orienteranno la vigilanza nei prossimi anni, riguarderanno, da un lato, l’incremento dell’efficacia dei controlli, mediante un rafforzamento dell’attività ispettiva; dall’altro, l’adozione di misure di prevenzione volte a promuovere comportamenti virtuosi da parte delle imprese. Lo scopo è quello di pervenire, entro la fine del 2024 “all’incremento del 20% del numero di ispezioni rispetto alla media del triennio 20192021 e nella riduzione di almeno due punti percentuali dell’incidenza del lavoro sommerso” nei settori economici interessati dal PNS. Il che, per il 2023, si traduce, per l’Inl, nella previsione di

effettuare, a cura del proprio personale e dei militari del Comando Carabinieri tutela lavoro, 75.000 accessi ispettivi, con un incremento di circa il 18% delle ispezioni attivate nel corso del 2022.

Che le aziende ricomincino a essere sotto assedio, del resto, se ne è avuta percezione già dalla fine del 2022, ma con assoluta certezza all’inizio del 2023.

Gli obiettivi e gli ambiti di maggiore attenzione vengono ora svelati e chiariscono quanto intuito. Per esempio, con riguardo alla vigilanza previdenziale, operata principalmente – ma non solo – dall’Inps (attualmente 884 ispettori), dovranno così prestare specifica attenzione datori di lavoro e imprese dei sotto elencati settori, perché verso essi verrà indirizzata principalmente l’attività di controllo nel 2023.

  • Settore manifatturiero, della logistica e del trasporto aereo;
  • GIG economy, aziende di delivery e lavoro etero-organizzato in genere (anche tramite piattaforme digitali);
  • Grandi aziende e Cooperative di produzione e servizi;
  • Pubbliche amministrazioni;
  • Agricoltura;
  • Edilizia;
  • Servizi alle imprese;
  • Settore dello spettacolo; – Editoria e giornalismo.

Molto istruttiva e illuminante per aziende e professionisti è pure l’elencazione degli interventi destinatati alla vigilanza assicurativa Inail (224 ispettori), con verifica del rischio assicurato e della corrispondenza del rischio denunciato con l’attività effettivamente svolta. Gli ambiti e settori interessati saranno i seguenti.

  • Settore servizi pubblicitari (per aziende che realizzano stampe pubblicitarie in materiale composito e provvedono alla posa in opera del manufatto)
  • Settore fabbricazione e manutenzione di apparecchi di sollevamento e di macchine e macchinari (verifica sulle linee produttive di aziende che effettuano anche la manutenzione
  • Settore costruzione di navi e imbarcazioni (anche di aziende che si occupano di allestimento di imbarcazioni)
  • Settore movimento merci relativo a trasporti marittimi e fluviali
  • Settore delle attività connesse alle sale da gioco Settore del commercio al dettaglio di carburante per autotrazione
  • Ditte con dichiarazioni retributive sperequate (per aziende che hanno dichiarato, in presenza di più voci di tariffa, la percentuale più elevata delle retribuzioni su una voce di tariffa con il tasso minore)
  • Analisi su infortuni occorsi il primo giorno di lavoro
  • Accertamenti connessi al riconoscimento di infortuni gravi e mortali e delle malattie professionali

Molto eterogenei si mostrano, quindi, gli obiettivi sensibili a cui si rivolgerà l’azione del personale dell’Inl (2412 ispettori “civili” -di cui, però, solo 1600 operativi-, 215 ispettori tecnici, 477 militari dell’Arma Carabinieri presso l’Inl), che non solo potrà per competenza operare anche nei campi di pertinenza tradizionale di Inps e Inail, ma che è chiamata a orientare la propria azione, innanzitutto, nel campo della salute e sicurezza del lavoro. Per cui,

i settori prioritari sui quali indirizzare la vigilanza per le verifiche in materia di salute e sicurezza nel corso del 2023 saranno l’edilizia, l’agricoltura, la logistica e i trasporti.

Come sempre, altresì per i richiamati obiettivi del PNRR, grande dedizione verrà posta nel contrasto del lavoro sommerso, non solo “nero”. Infatti,

l’attività di contrasto al sommerso sarà a tutte le forme di sommerso e quindi anche al contrasto del c.d. lavoro grigio, categoria nella quale vanno ascritti tutti quei rapporti di lavoro che, seppur formalmente regolari in quanto comunicati agli enti competenti, presentano nel concreto svolgimento elementi di irregolarità connotati da un minore impatto sugli oneri retributivi, contributivi e fiscali a carico del datore di lavoro attraverso modalità di elusione della normativa legale e contrattuale.

Sotto ogni profilo è previsto che vengano contrastate le esternalizzazioni illecite, sia nazionali che internazionali (al cui fine verranno incentivati gli scambi di informazioni nell’ambito del sistema istituzionale europeo già esistente e le azioni in cooperazione con le autorità di controllo degli altri Stati UE) e che sia sottoposto a valutazione l’irregolare ricorso “ai c.d. “services editoriali”” e alle pubblicazioni di “annunci di ricerca e selezione del personale da parte di soggetti non autorizzati, soprattutto sul web e anche attraverso i social media, posti in essere in forma anonima e frequentemente riconducibili a soggetti giuridici con sede in altri Stati”.

Nel mirino anche il caporalato, quale forma estrema di irregolare gestione del lavoro e dei lavoratori, non solo nelle note forme più gravi e odiose, ma anche in quelle meno manifeste della prevaricazione economica del prestatore di lavoro e dei suoi modi di impiego. Attenzione verrà poi posta alla valutazione dell’attività dei lavoratori autonomi, anche con partita IVA, con controlli “agli pseudoartigiani nel settore edile”, o “al lavoro giornalistico e in generale alle collaborazioni coordinate e continuative non genuine”; o, ancora, con riguardo alle prestazioni occasionali in agricoltura. Nello stesso modo saranno assoggettati a verifiche i cosiddetti “nuovi lavori”, anche mediate piattaforme digitali. Tra gli altri, sarà preso in considerazione dagli ispettori “l’utilizzo delle piattaforme digitali negli appalti di logistica integrata, spesso caratterizzati da fenomeni interpositori illeciti”.

Alle operazioni tradizionali di controllo e vigilanza si affiancano oggi, anche da previsione del PNRR, le azioni di prevenzione e promozione della legalità e della sicurezza (nel 2023 rivolta agli studenti e alla cultura della parità di genere), come quelle volte a offrire soddisfazione e tutela alle richieste dei lavoratori più vulnerabili.

Tra gli obiettivi del Documento di programmazione si collocano le misure di utilizzo degli istituti normativi già esistenti, in grado di assicurare in via accelerata e tendenzialmente alternative all’ispezione, sia le pretese economiche del lavoratore, sia quelle sostanziali dei suoi diritti.

Per cui è stabilito che sarà favorito

il ricorso in via prioritaria, per la definizione delle richieste di intervento, alla conciliazione monocratica preventiva (art. 11, comma 1, D.lgs. n. 124/2004) che, ove necessario, potrà essere effettuata anche attraverso strumenti di comunicazione “da remoto”… [nonché] la valorizzazione della diffida accertativa per crediti patrimoniali (art. 12, D.lgs. n. 124/2004) e della disposizione (art. 14, D.lgs. n. 124/2004 e art. 10, D.P.R. n. 520/1955), quali strumenti per una rapida ed efficace tutela sostanziale dei diritti dei lavoratori.

Un rilancio della strategia compositiva in luogo delle sole verifiche, che già in passato era stata fatta propria dalla Direttiva del 2008 del Ministero del Lavoro (c.d. Direttiva Sacconi), sensibile a “una totale ed efficace attuazione dell’istituto della conciliazione monocratica preventiva di cui all’articolo 11 del decreto legislativo n. 124 del 2004, rivolgendo una attenzione privilegiata alle richieste di intervento da prendersi a spunto per l’avvio di un tentativo di conciliazione tra il lavoratore denunciante e il datore di lavoro”.

Ci sono in definitiva tutti i presupposti perché il 2023 non sia un anno “ispettivo” uguale ai trascorsi.

* L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

RICORSI INPS, il nuovo regolamento*

di Mauro Paris, Avvocato in Belluno e Milano  

Con la Delibera del 18 gennaio 2023, è entrata in vigore la nuova regolamentazione dei ricorsi amministrativi all’Inps nelle materie di sua competenza. L’aspettativa è che, finalmente rispetto al passato, l’Istituto prenda in seria considerazione le difese degli interessati e l’auspicio quello che si abbandoni la linea di silenzi e costanti rigetti “di posizione”. Tanto più alla luce dei già preannunciati interventi in materia di autotutela.
Diventa più che mai opportuno, perciò, che gli operatori conoscano i contenuti tecnici del Regolamento, al fine di gestire al meglio le nuove opportunità di fare contenzioso.

 

Il nuovo Regolamento 18.1.2023 dell’Inps sui ricorsi amministrativi all’Istituto, nella sostanza e senza formale abrogazione, prende il posto di quello adottato dieci anni fa, con la Determinazione del suo Presidente, n. 195 del 20.12.2013 (si può prendere visione del Regolamento cliccando qui).

Come sempre accade con provvedimenti di ampia portata e impatto generale, notevoli sono gli interessi suscitati e molto comprensibili le aspettative che si accompagnano. La speranza è che siano finalmente garantiti i diritti dei cittadini e facilitata l’azione dei professionisti e intermediari. Solo il tempo, però, potrà dire se si registrerà un’effettiva discontinuità rispetto a quanto accaduto finora, con le diffuse e note carenze di considerazione delle doglianze di contribuenti e assistiti. Concepito per garantire un riordino complessivo della materia alla luce delle novità sopravvenute nel tempo, il Regolamento in discorso viene introdotto con la delibera del Consiglio di Amministrazione del 18.1.2023, n. 8 e sembra destinato a disciplinare in via principale piuttosto i nuovi rapporti interni all’Istituto (per definitiva soppressione di Inpdap e Enpals; con riguardo ai nuovi Fondi di solidarietà bilaterali, eccetera) tra i diversi organismi coinvolti e le loro rispettive competenze, che l’esercizio del diritto degli utenti interessati a fare valere le loro ragioni. Ma non manca neppure ciò.

Stando alle prime dichiarazioni ufficiali e alla programmazione del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inps (CIV), il rinnovato strumento dovrebbe costituire solo un passaggio verso l’adozione di ulteriori provvedimenti realmente in grado di determinare una deflazione del contenzioso dell’Istituto e di favorire effettivamente la considerazione delle ragioni dell’utenza. Anche in via di autotutela. Nell’attesa dei nuovi preannunciati sviluppi, e in un’epoca in cui pare sempre più complesso fare sentire le proprie ragioni, risulta opportuno, innanzitutto, focalizzare l’attenzione su quanto potrà essere utile agli utenti/contribuenti per confrontarsi efficacemente con il riesame dell’Inps.

È opportuno perciò innanzitutto ricordare che a qualunque Comitato o Direzione sia destinato, il ricorso amministrativo all’Inps dovrà essere presentato solamente in modalità telematica attraverso l’apposito sistema Ricorsi online, sul sito dell’Istituto. Ciò deve avvenire “autenticando” la propria persona, quale soggetto interessato o intermediario dotato di delega apposita.

Il ricorso amministrativo ai Comitati …, nonché al Direttore regionale … deve essere presentato avverso i provvedimenti adottati dall’Istituto esclusivamente in via telematica, direttamente dall’interessato ovvero tramite patronati o altri intermediari abilitati ai sensi delle vigenti disposizioni.

Stimolante novità è la previsione per cui, nel caso in cui manchi la sottoscrizione del soggetto legittimato, il Ricorso sarà ritenuto comunque validamente prodotto, in quanto

“l’utilizzo degli strumenti previsti per l’accesso ai servizi on-line dell’Istituto ne garantisce comunque la riferibilità al ricorrente”.

Presupposto della presentazione del ricorso, beninteso, è l’esistenza di un “provvedimento” dell’Istituto di qualunque genere, che sia in qualche modo lesivo (es. richieste di recuperi contributivi, rigetto alla concessione di ammortizzatori, ecc.) e per cui sussista un interesse sostanziale alla revisione.

In via generale, i ricorsi possono essere presentati entro 90 giorni dalla notifica del provvedimento dell’Inps, oppure dal 121° giorno di silenzio, quando l’ente era chiamato a pronunciarsi espressamente su una determinata istanza.

Il ricorrente può impugnare il provvedimento emesso dall’Istituto entro novanta giorni dalla data della sua ricezione … In caso di mancata adozione del provvedimento da parte della sede, il termine per la proposizione del ricorso amministrativo decorre dal centoventunesimo giorno successivo a quello di presentazione della relativa domanda, salvo non sia diversamente previsto.

Esistono tuttavia delle eccezioni enunciate dal Regolamento, quanto ai termini di ammissibilità dell’impugnazione, la più significativa delle quali concerne il rigetto delle domande di integrazione salariale ordinaria e nel settore agricolo (nonché, ma non solo, nelle materie di competenza dei Fondi di solidarietà), il cui termine è di 30 giorni a pena di inammissibilità.

Certo, destreggiarsi tra i molti comitati, commissioni e direzioni e le rispettive competenze, appare un affare piuttosto complicato che potrebbe scoraggiare anche i professionisti a farsi promotori di difese e interventi. Al riguardo risulta, però, assolutamente favorevole e di garanzia la ribadita previsione generale per cui il ricorso amministrativo, comunque presentato, anche in difetto di corretto indirizzo all’organismo competente (o, per esempio, se indirizzato approssimativamente alla sede territoriale Inps il cui atto viene impugnato), viene ritenuto sempre ricevibile e procedibile, senza rilievi di incompetenza.

In definitiva, qualsivoglia ufficio Inps sarà tenuto a trasmettere all’organismo effettivamente competente l’impugnativa presentata. Ogni successiva informazione sulle impugnazioni verrà effettuata in via telematica, forma in cui può essere sempre consultato lo stato della pratica.

Il ricorso indirizzato ad un Comitato diverso da quello competente è da considerarsi validamente presentato, nella stessa data, al Comitato competente a decidere. In tale ipotesi, l’ufficio ricevente provvede a trasmettere tempestivamente il ricorso all’ufficio competente ai fini della decisione dello stesso da parte del Comitato competente.

L’elenco dei ricorsi pervenuti a ogni ufficio ricevente viene trasmesso al Comitato competente con cadenza mensile. Nel fare ciò, la sede territoriale dell’Inps, ovvero la Direzione centrale, nei casi di sua competenza, provvedono all’istruttoria del ricorso medesimo, per fare pervenire poi al Comitato il relativo il fascicolo elettronico composto dal ricorso medesimo (e dai documenti e atti eventualmente prodotti dal ricorrente), dalla relazione istruttoria, corredata dai documenti a supporto, e “dallo schema della proposta di deliberazione”. Quantunque il Comitato competente “possa acquisire in ogni caso ulteriori elementi utili alla decisione”, è facile intuire che l’invio di uno schema di proposta di deliberazione -sostanzialmente una bozza di decisione- proveniente dalla medesima sede il cui provvedimento si impugna, rende poco pronosticabile che le ragioni promosse dagli interessati con i ricorsi possano venire valutate in modo sostanzialmente neutro, discostandosi da quanto proposto. La circostanza merita senz’altro qualche riflessione per il futuro.

Il comitato o la direzione competente chiamati a decidere l’impugnazione, lo devono fare espressamente entro i termini di legge, che anche il Regolamento riconferma essere di 90 giorni, che decorrono dalla presentazione della stessa impugnativa.

Il termine di novanta giorni per la decisione del ricorso decorre dalla data di ricezione del ricorso attestata dal protocollo informatico. Il Comitato ha potestà di esaminare i ricorsi e di assumere decisioni in merito anche dopo la scadenza del termine di novanta giorni previsto per la decisione.

Una volta spirati i 90 giorni, come noto, il ricorso si intende respinto per c.d. silenzio rigetto. Ciò non toglie, come conferma il Regolamento, che permane all’Inps il potere di assumere la decisione anche in seguito. Fermo che l’azienda rischia nel frattempo l’irregolarità (se si tratta di pretese contributive), solitamente, ove non s’intenda versare quanto richiesto, ci si avvierà a procedere con gli ulteriori strumenti giudiziari. L’accoglimento anche “tardivo” delle ragioni del ricorrente, chiaramente, farà venire meno l’interesse a proseguire l’eventuale giudizio intrapreso (ma salve le spese legali eventualmente dovute dall’Inps).

Va appena osservato come, per il Regolamento, la competenza a risolvere le questioni principali comporti altresì quella a risolvere anche quelle pregiudiziali e connesse (es. debenza di sanzioni civili, contributi, ecc.), salvo diverse previsioni specifiche. Non sempre, però, la definizione dei ricorsi presentati viene adottata espressamente dagli organismi competenti (o nel loro silenzio), atteso che per vizi rilevabili ictu oculi di inammissibilità, improcedibilità, irricevibilità e cessata materia del contendere, è prevista una “decisione” “in via amministrativa”. Ossia, in sostanza, con comunicazione da parte dei funzionari che seguono l’istruttoria della pratica.

A tale soluzione, molto praticata, anche impropriamente, dalle sedi, tuttavia, l’interessato si può opporre.

In ogni caso, i ricorsi definiti in via amministrativa … possono essere sottoposti alla decisione del competente Comitato qualora il soggetto interessato ne faccia specifica istanza, garantendo a tal fine allo stesso un’adeguata informazione.

Nei casi in cui, invece, l’organismo competente assume l’espressa decisione sul ricorso -se ciò accade-, la pronuncia viene trasmessa in via telematica alle sedi territoriali dell’Istituto che vi devono dare esecuzione. La partita con l’amministrazione parrebbe quindi, in questa fase, chiusa, salvo una potenziale, ma remota, possibilità che le decisioni siano revocate.

Va annoverata, però, anche la possibilità per cui le sedi territoriali possano stabilire di sospendere, per motivi di rilevata illegittimità, la deliberazione del Comitato.

L’esecuzione delle decisioni adottate dai Comitati centrali e dai Comitati provinciali, qualora si evidenzino profili di illegittimità, può essere sospesa entro cinque giorni dalla data della relativa deliberazione, rispettivamente, dal Direttore generale … e dal Direttore territoriale competente o suo delegato…

L’eventuale sospensione (sul cui effettivo ricorso all’adozione da parte degli uffici, alla luce dell’esperienza passata, è ammissibile nutrire qualche scetticismo, salvo che per errori macroscopici e materiali in cui si fosse incorsi) viene comunicata a chi ha proposto il ricorso. A questo punto si innesca una procedura di revisione che vede coinvolto, a seconda dei casi, il Consiglio di Amministrazione dell’Istituto o il Comitato amministratore centrale, a cui viene presentata una proposta di nuova deliberazione che va accettata o meno entro 90 giorni. Trascorsi i quali senza responso, “la decisione diviene comunque esecutiva”.

Merita infine particolare attenzione quanto stabilito in materia di autotutela, per cui le impugnazioni “atipiche” indirizzate direttamente alle sedi che hanno adottato gli atti o agli uffici a loro sovraordinati (le quali, dunque, non devono rispettare i limiti di forma e modalità del Regolamento), non devono incidere sulle vicende dei ricorsi amministrativi tipici (quelli del Regolamento, per intendersi). Salvo nel caso in cui -si suppone per evitare contrastanti definizioni- questi ultimi siano già in decisione presso i rispettivi Comitati.

L’avvio di un procedimento in autotutela non interrompe e non sospende i termini per la proposizione dei ricorsi in via amministrativa. Dopo la presentazione del ricorso amministrativo e in ogni fase della sua procedimentalizzazione, l’Istituto, qualora ne ricorrano i presupposti, procede in autotutela, tranne nell’ipotesi in cui il ricorso stesso sia già stato inserito all’ordine del giorno della seduta del Comitato.

Il nuovo corso aperto dal Regolamento del 18.1.2023 saprà essere innovativo, nella misura in cui, con discontinuità rispetto al passato, si inizieranno a considerare estesamente e in modo sostanziale -con valutazioni effettive e non solo con formalismi procedurali- le impugnazioni presentate.

La riprova che si tratta di una materiale evoluzione ben oltre i buoni propositi, ce la segnalerà, quale indice indiscutibile, il riconoscimento delle ragioni di contribuenti e aziende, in misure percentualmente verosimili dal punto di vista statistico (va da sé che gli odierni accoglimenti dei ricorsi proposti per soli pochi punti percentuali, non sono intuitivamente plausibili).

Il preannunciato nuovo corso si sostanzia in una prospettiva ambiziosa che richiederà un cambio di passo e un notevole impegno di personale da parte degli uffici dell’Inps. Ma l’impegno appare sincero e le aspettative grandi.

 

* L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

L’ULTIMA TENTAZIONE DELL’INPS*

di Mauro Paris, Avvocato in Belluno e Milano  

Alle note campagne ispettive di contestazione degli applicati Ccnl “pirata”, in luogo di quelli c.d. “leader”, e di loro sostituzione d’ufficio, si aggiunge adesso la pretesa dell’Istituto di disapplicare i Ccnl “leader” meno favorevoli -tra più Ccnl ammessi-, scambiandoli con quelli di migliore trattamento per i lavoratori. Una pretesa che non trova fondamento nella legge e riconoscimento nella giurisprudenza, ma che deve allertare gli operatori a un’attenta vigilanza e a pronte risposte difensive.

 

Era già nota l’idiosincrasia dell’Inps per i contratti collettivi cosiddetti “pirata”, quelli sottoscritti da organizzazioni e associazioni ritenute meno rappresentative delle categorie di riferimento, per cui l’Istituto è solito operare sostituzioni d’ufficio del Ccnl “meno rappresentativo” con quello “più rappresentativo” (il c.d. contratto “ leader”).

La circostanza che non venga quasi mai fornita effettiva prova (in effetti diabolica, allo stato) della minore o maggiore rappresentatività di coloro che hanno sottoscritto il Ccnl, in genere, con diverse argomentazioni, non viene ritenuto neppure rilevante (come indubbiamente, altrimenti, dovrebbe essere) dai Tribunali. Spesso l’Inps non è neppure in grado di garantire prova univoca e compiuta del minore trattamento retributivo (e, si sa, è questo il nocciolo sostanziale della faccenda) che consegue dall’applicazione del Ccnl “pirata”. Lo si disapplica di principio e basta.

La ragione giuridica dell’imposta compressione delle libertà sindacali -intese sotto forma di sostanziale limite alla discrezionale eleggibilità di contratti collettivi alternativi-, viene giustificata dai funzionari con la previsione di legge relativa al rispetto del “minimale” di garanzia, come stabilito dall’art. 1, Legge 389/1989. Quella per cui “la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’ importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale”. Cosa c’entra tale disposizione rispetto all’applicazione d’ufficio di un diverso Ccnl? Nulla, riguardando solo i trattamenti economici dei lavoratori.

Come è dato osservarsi, il precetto precitato, contrariamente a quanto reputa l’Inps, non ammette affatto la sostituzione d’emblée di un Ccnl, poiché inviso, con un altro più gradito, né tale sostituzione costituisce un’operazione che l’ordinamento ammette (tantomeno la Corte Costituzionale: cfr. sentenza n. 51/2015). In astratto, perciò, dovrebbe essere solamente offerta la garanzia di un trattamento economico non inferiore a quello stabilito dal con- tratto collettivo concluso da parti maggiormente rappresentative.

Quale sia il Ccnl firmato da OO.SS caratterizzate da maggiore rappresentatività nel settore, costituisce, beninteso, come detto, un’operazione ermeneutica meno piana di quanto solita- mente si vorrebbe fare intendere. Non solo per la difficoltà di provare chi sia più “popolare”. Ma pure per quella di rendere con correttezza i calcoli della misura del trattamento retributivo eventualmente deteriore, come pure per l’esigenza di assicurare una valutazione complessiva di quanto sia da considerare economicamente rilevante nella comparazione.

Come non bastasse, al già complicato rapporto tra contratti collettivi “pirata” e “leader”, si aggiunge oggi un’ulteriore “tentazione” da parte dell’Istituto. Quella di volere scegliere e applicare, tra più contratti “leader” egualmente validi ed applicabili nel settore, il “migliore”.

Vale a dire quello dal trattamento retributivo più favorevole per il lavoratore, ove l’inteso magiore favore atterrebbe solo alla retribuzione. Quale sia il trattamento complessivamente più vantaggioso per il lavoratore, va detto, è faccenda di tutt’altro che immediata comprensione, come conferma attenta giurisprudenza, interessando svariati aspetti, non inerenti solo alla retribuzione minima in sé, ma  alla valutazione comparativa di elementi e istituti ulteriori rispetto a quelli che costituiscono il cosiddetto minimo costituzionale.

Per l’Inps, i suoi funzionari e ispettori, pertanto, poco conta che il Ccnl sia stato sottoscritto indubitabilmente da associazioni e organizza- zioni comparativamente più rappresentative (come, anzi, viene spesso pacificamente riconosciuto). Accade, infatti, che nel corso di con- trolli sul lavoro, pure ammettendosi espressa- mente la natura “leader” del Ccnl già applicato dal datore di lavoro, si preferisca comunque sostituirlo con un altro Ccnl “ leader”, al fine di garantire un trattamento migliorativo di natura retributiva ai lavoratori.

In casi recenti, per esempio, la scelta ispettiva è caduta sul Ccnl Terziario, distribuzione e servi- zi in luogo del Ccnl per il personale dipendente da imprese esercenti servizi ausiliari, fiduciari e integrati resi alle imprese pubbliche e private (c.d. Ccnl Safi), da anni applicato da aziende. Stesso ambito di attività e coincidenza di da- tori di lavoro che possono naturalmente fare ricorso ai due Ccnl, in quanto conclusi e sottoscritti da parte di organizzazioni “più rap- presentative su base nazionale”, sebbene i trattamenti retributivi siano valutati inferiori nel secondo caso. Per cui, l’Inps, con proprio atto impositivo, in tali casi ha deciso di garantire il migliore trattamento possibile ai lavoratori, operando, come è ovvio, i recuperi di contribuzione sui maggiori imponibili individuati. Il principio di migliore trattamento retributivo del dipendente -diversamente dai principi di sufficienza e adeguatezza della retribuzione-, tuttavia, è frutto di un palese fraintendimento e risulta sconosciuto al nostro ordinamento. Vale a dire che ben possono esistere situazioni in cui le medesime mansioni e attività siano retribuite con compensi differenti.

Al riguardo, malgrado le pretese dell’Istituto, già esiste univoca giurisprudenza di segno opposto. Per esempio, in modo esemplare, il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 2625/2021, ha rammentato come

non esista nel nostro ordinamento un principio che imponga al datore di lavoro, nell’ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, posto che l’art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza e adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l’art. 3 Cost. impone l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non anche nei rapporti interprivati. (cfr.: Cass. 17 luglio 2007 n. 16015).

In generale, lungi da determinarsi automatismi in ordine all’applicazione necessaria del Ccnl “migliore”, è la stessa Suprema Corte che ribadisce come, nel rapporto tra contrattazione collettiva e articolo 36 della Costituzione, il legislatore tende a considerare, in linea generale, la retribuzione prevista dalla norma collettiva come il parametro comunque più idoneo a specificare quella garantita dalla disposizione costituzionale. Ciò avviene attraverso l’adeguamento di questo principio alle contingenze reali, non solo temporali (con una norma che mano a mano si rinnova), bensì spaziali (con il rilievo dato anche ai contratti territoriali). Ragione per cui la retribuzione prevista da una norma collettiva “valida” costituisce “presunzione” di adeguatezza ai principi di proporzionalità e di sufficienza.

In definitiva, i Ccnl “ leader” sono in ogni caso adeguati a regolare i rapporti di lavoro tra le parti.

E a conferma di ciò, e della non correttezza del- le denunciate azioni degli Istituti, anche di recente la Suprema Corte ha ribadito che sussiste la possibilità di applicare retribuzioni tabellari pure inferiori rispetto a quelle praticate in settori e ambiti affini (cfr. sentenza n. 1107/2022).

 

 

 

* L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

 

 

Preleva l’articolo completo in pdf

FARE CAUSA ALL’INPS, una partita difficile *

Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano

 

Per il contribuente che subisca pretese indebite dall’Inps, un’azione rapida e tecnicamente adeguata in giudizio può essere la sola salvezza. Tuttavia, come noto, l’Istituto non è una controparte ordinaria: anche i numeri e le statistiche lo confermano. Ciò richiede speciali attenzioni e strategie da parte di tutti, professionisti, aziende e associazioni. E oggi rende necessario creare Osservatori in grado di conoscere e stimare in dettaglio quanto siano davvero tutelati i diritti dei contribuenti.

 

Fare causa all’Inps è un affare serio, da ogni punto di vista. Tecnico, strategico e psicologico. La cosa merita una breve riflessione e una necessaria presa di coscienza.
Non è una passeggiata -semmai qualcuno pensasse che lo fosse- il contenzioso giudiziario contro tutte le amministrazioni: ma le dinamiche e i numeri dell’Istituto costituiscono in partenza il motivo di un confronto abbacinante. Davide contro Golia non rende quale sia il rapporto tra il singolo contribuente
e l’Inps. I dati ufficiali dell’Istituto parlano da sé, costituendo una percentuale notevolissima del contenzioso civile in ambito nazionale. Oggi l’Inps è controparte di poco meno di 170.000 cause civili. Circa 1/15 dell’intero contenzioso civile nazionale di merito. Dati in netto miglioramento (e calo) rispetto al contenzioso previdenziale di dieci anni fa e oltre, allorquando le  cause in cui era parte l’ente si consideravano in poco meno nell’ordine del milione, con un’incidenza del 18% rispetto all’intero contenzioso nazionale.
Il grafico sottostante chiarisce cosa è accaduto nel tempo (clicca qui per il grafico).

Nel periodo del Covid, si immagina per una temporanea desistenza dell’Inps dall’azionare molte delle proprie pretese, sono decresciuti pure i giudizi che hanno visto il via. A fronte di 108.934 del 2109, nel 2020 le cause intraprese erano 79.234, 76.521 nel 2021, mentre ad agosto i nuovi giudizi 2022 erano già 55.368.
Per comprendere la polarizzazione delle questioni per cui si agisce contro  l’Inps, va osservato che delle cause attualmente pendenti, il 41% riguarda pretese contributive(recuperi di agevolazioni concesse, evasioni contestate, ecc.), 14% invalidità civili, 11% prestazioni pensionistiche, 8% prestazioni a sostegno del reddito e 7% concerne la materia della previdenza agricola.
Una controparte, l’Inps, che con i suoi 283 legali, a cui si aggiungono i 40 nuovi assunti (il più grande ufficio legale in Italia, in definitiva, guidato oggi dalla prima donna a coordinare i patrocini dell’Istituto) può permettersi di ragionare sui grandi numeri delle vertenze (cioè sulla valenza statistica di vittorie e sconfitte in una logica di budget), piuttosto che sull’economia del singolo caso (con la possibilità di riproporre all’infinito -per gradi di giudizio e contendenti- anche i medesimi contenziosi in cui già è risultata soccombente nel tempo: per esempio, sulla notissima questione dell’iscrivibilità alla  gestione commercianti del socio non lavoratore abituale, si è dovuta pronunciare ancora una volta la S.C., con l’ennesima ordinanza 27.6.2022, n. 20533). Chiaramente non può dirsi un normale competitor giudiziario. Se oltre a ciò si considera, a giudizio di molti, un’asserita maggiore attenzione alle posizioni dell’Istituto (anche sulla misura della liquidazione delle spese legali,  si sussurra. Ma non ci sono dati ufficiali) -probabilmente per motivi di  solidarismo verso un organismo di servizio sociale-, va da sé che contrastare le  pretese previdenziali diventa una faccenda molto seria.
Beninteso, non si va mai dal Giudice a cuor leggero, ma come extrema ratio, laddove altre soluzioni e accorgimenti, in tempi utili (quello della “tempistica” è sempre uno dei nodi ineludibili per chi si vuole difendere: innanzitutto per motivi di Durc…), hanno fallito.
Gli accordi tra istituzioni e professionisti per il confronto in sede  amministrativa (es. i Protocolli tra Inps e Ordine dei Consulenti, nonché Ancl di Milano. Cfr. Sintesi, novembre 2022) rappresentano una delle attuali e rare ragioni di vera deflazione delle liti. L’autotutela illuminata, a cui sempre più l’Inps dice di volersi ispirare, sarebbe un toccasana, ma non si hanno segnali di una sua sufficiente pratica e diffusione.
Per evitare contrasti, tuttavia, se davvero questa è l’intenzione, occorre iniziare ad ascoltarsi.
È una percezione diffusa che i ricorsi amministrativi all’Istituto, nella grande maggioranza dei casi, non vengono neppure decisi formalmente (ma sarebbero interessanti e necessari dati ufficiali al riguardo). E la regola, si sa, è che ciò che non viene considerato in sede amministrativa, si intende rigettato (cfr. Regolamento Inps n. 195/2013). In un mondo perfetto, guidato in modo certo da precetti di evidente applicazione, il contenzioso dovrebbe essere  ridotto alle situazioni di reale incertezza in cui le questioni di limitino allo scrutinio dei fatti (se una data situazione e vicenda si è verificata o meno) o all’analisi di legittime interpretazioni alternative (molto rare in verità, solo per ipotesi in cui la regola fosse eccezionalmente ambigua e diverse ammissibili interpretazioni potessero astrattamente insistere sulla medesima  disposizione).
Non a discettare di precetti legibus soluti. Nella realtà, tuttavia, e purtroppo, non così vanno le cose e le pretese dell’Inps appaiono spesso e volentieri eccedere ciò che è davvero previsto e richiesto espressamente dalla legge.
Le prassi di “principio” (solitamente declinate pro-Inps dallo stesso ente) disciplinano le situazioni concrete. Tra soggetti di certo non pari ordinati (il contribuente e l’Inps), ragionare al di fuori della teoria del diritto (e perché mai?) non può costituire, quindi, motivo di sufficiente garanzia. Anzi. Può darsi che il legislatore sia sovente carente nella previsione e che l’Istituto sia guidato da un superiore buon senso degli interessi pubblici e del caso singolo.
Tuttavia che l’indirizzo del superiore buon senso (chiamiamola prassi, chiamiamola giustizia sostanziale) non sia sempre un buon consigliere in punto di legalità, lo ha dovuto nel tempo evidenziare all’Inps anche la Suprema Corte, che è giunta ad ammonire l’Istituto ad attenersi solo all’applicazione di ciò che sta scritto effettivamente nella disposizione di legge(cfr.Corte di Cassazione n. 5825/2021: nel caso si trattava di concedere o meno l’anelato Durc). Per cui l’ente previdenziale preposto al rilascio del Durc non è chiamato ad esercitare, nell’ambito del relativo procedimento, poteri  discrezionali, ma deve esclusivamente verificare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti normativamente previsti nello svolgimento di una attività  vincolata, di carattere meramente ricognitivo, della cui natura partecipa anche il giudizio tecnico concernente la verifica di cause che non siano ostative al suo rilascio.
In definitiva, il suggerimento utile per il singolo contribuente che ritenga di  subire indebite pretese dall’Inps -dopo un doveroso e molto rapido confronto “pacificatorio” con l’Istituto (in via amministrativa e in autotutela)-, è quello di agire senza timore, rapidamente (con azioni di accertamento tempestive, prima dell’arrivo di cartelle esattoriali: nel quale caso si è costretti a  “inseguire”, come si sa) e in forme tecnicamente competenti e adeguate, per provare con decisione a superare eventuali gap ambientali.
Incertezze strategiche, ottimismo nella resipiscenza dell’Istituto  e  temporeggiamenti sono spesso all’origine dei peggiori guasti al diritto dei contribuenti.
Per professionisti, aziende, ordini e associazioni è invece tempo di creare Osservatori per studiare e conoscere approfonditamente le dinamiche effettive dei contenziosi con l’Inps (e pure con gli altri Istituti impositori). Occorre potere appurare direttamente e scientificamente le percentuali di vittorie e soccombenze per casi, discipline e materie, sede giudiziaria per sede  giudiziaria. È ormai  opportuno potere analizzare i modi con cui si valutano in concreto le rispettive posizioni e difese e considerare il grado di attenzione
prestato alle espresse previsioni di legge, quando si discute di previdenza e di tutela pubblica del lavoro. C’è senz’altro ancora molto da fare per tutti.

 

(*) L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

CORTE COSTITUZIONALE e sanzioni sproporzionate per omessi versamenti *

Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano

 

La questione delle sanzioni amministrative per gli omessi versamenti delle ritenute sulle retribuzioni dei dipendenti, malgrado il recente revirement favorevole dell’Inps, approda oggi alla Corte Costituzionale. Il Giudice ordinario rileva, infatti, come appaiono comunque sproporzionate le potenziali sanzioni pecuniarie in misura anche centuplicata rispetto all’effettiva omissione di versamento del datore di lavoro. Rilievi di incostituzionalità che potrebbero però riguardare anche altre fattispecie punitive.

 

La vicenda delle sanzioni amministrative Inps per gli omessi versamenti del datore di lavoro (quelle monstre fino a € 50mila, per intenderci, ex art. 2, c. 1bis, D.l. n. 463/1983) si arricchisce a ritmo serrato di nuovi capitoli ed evoluzioni repentine. Tutte in favore dei datori di lavoro, vi è da dire, seppure accertati trasgressori. Come si ricorda, nell’anno in corso, nella materia, era stato suscitato un allarme molto giustificato, a causa della presa di posizione dell’Inps in chiave decisamente repressiva (con la circolare Inps n. 32/2022: cfr. “Omessi versamenti di ritenute Inps e la campagna di sanzioni monstre”: Sintesi, giugno 2022, pag. 19). Quindi, nel volgere di qualche mese, si era riscontrato il ripensamento da parte dello stesso Istituto, quanto alla determinazione della misura delle sanzioni da adottare. Almeno per i fatti commessi prima del febbraio 2016. Sanzioni amministrative non più monstre, comunque troppo consistenti, ma decisamente più “accomodanti”, quelle attuali, rispetto alle precedenti. Alla rivalutazione dei propri orientamenti, l’Inps era stato costretto dal notevole e fondato contenzioso che, come prevedibile, era sorto nel frattempo presso i Tribunali. Tanto da costringerlo a un mea culpa giuridico -per essersi discostato da una corretta interpretazione della legge di depenalizzazione del 2016-, con il lancio di una campagna di rideterminazione in autotutela delle sanzioni già notificate o notificande (con il messaggio n. 3516 del 27.9.2022: cfr. “Contrordine Inps. Tagli alla sanzione per gli omessi versamenti”: Sintesi, ottobre 2022, pag. 15). Una rilettura della legge -e, in particolare, dell’art. 9, comma 5, D.lgs. n. 8/2016 (“l’interessato è ammesso al pagamento in misura ridotta, pari alla metà della sanzione, oltre alle spese del procedimento”)- che ha garantito la possibilità per i trasgressori di essere ammessi a una generosa “scontistica”. Così, il richiesto versamento in misura ridotta -che estingue la procedura sanzionatoria, evitando l’ordinanza-ingiunzione dell’Inps-, prima indefettibilmente determinato nella misura di € 16.666, diventa oggi pari a € 5000. O almeno lo diventa nella maggiore parte dei casi, precedenti al 6 febbraio 2016. La stessa sanzione amministrativa definitiva, irrogabile per la circolare Inps n. 32/2022 sempre in misura non inferiore di € 17000, si attesta ora sul minimo edittale di € 10000. E ciò in tutte quelle situazioni (che sono del resto le medesime per cui la misura ridotta per gli illeciti sarà pari a € 5000) nelle quali l’omissione contributiva relativa alle ritenute sulla retribuzione del lavoratore è pari o inferiore a € 8333 per anno.

La semplice equazione che delimita la misura dell’omissione contributiva da sanzionare al minimo, la si ricava senza difficoltà dalle stesse indicazioni dell’Inps offerte ai propri Uffici territoriali, i quali si dovranno attenere ai criteri matematici di cui alla tabella allegata al messaggio n. 3516/2022 (l’Istituto ha in particolare predeterminato coefficienti di

calcolo diverso importo, in proporzione alla gravità obiettiva dell’evasione). Nell’ipotesi di omissioni per un anno, la misura della sanzione pecuniaria sarà perciò ricavata dal risultato dell’operazione: “importo ritenute omesse x 1,2”.

Non vi è dubbio, in definitiva, che negli ultimi mesi il “clima” della questione sia mutato in senso più favorevole a trasgressori e datori di lavoro. Oltre al revirement dell’Inps, sono da segnalare le attente disamine dei Giudici di merito investiti dai procedimenti di opposizione di ansiosi datori di lavoro, i quali hanno tra l’altro riconosciuto come l’Istituto debba, non solo dimostrare il merito dei fatti contestati (ossia, con esattezza, che la contribuzione non versata attenga proprio alla quota del lavoratore), ma anche la correttezza della procedura sanzionatoria seguita.

Ci si è infatti spesso accorti che, soprattutto per fatti più risalenti, anche al cospetto di prove provate di omissione, le tempistiche inderogabili previste dalla Legge n. 689/1981 non sono state rispettate. Ciò sia rispetto alla possibilità di contestare gli illeciti amministrativi (novanta giorni dall’accertamento, di norma, ex art. 14), sia di recuperare sanzioni amministrative (cinque anni, ex art. 28).

In tale senso, tra i primi interventi significativi si è registrato quello del Tribunale di Arezzo (sentenza 3.8.2022, n. 166), il quale ha chiarito, come pure in materia di illeciti amministrativi in materia di omesse ritenute, alla stregua dell’orientamento della S.C. (cfr. Cass., sentenza n. 1921/2019) all’Inps incombe -ove costituiscano oggetto di contestazione ad opera del ritenuto trasgressore- sia l’assolvimento della prova relativa alla legittimità dell’accertamento presupposto dal provvedimento irrogativo della sanzione amministrativa sotto il profilo dell’osservanza degli adempimenti formali previsti dalla legge, sia quello della piena prova della legittimità del susseguente procedimento sanzionatorio fino al rituale compimento dell’atto finale che consente la valida conoscenza del provvedimento applicativo della sanzione alla parte che ne è destinataria.

In sostanza, è confermato che non sussistono meccanismi automatici e indimostrati di irrogazione delle sanzioni amministrative da parte dell’Istituto.

Seppure si sono fatti indubitabilmente dei progressi in ordine alla sostenibilità delle sanzioni amministrative irrogabili (non meno che delle somme da corrispondere in misura ridotta), tuttavia, obiettivamente, esse appaiono ancora del tutto spropositate rispetto all’offensività comune dei fatti da punire. Che, si ricorda, potrebbero essere avvenuti pure per mere e transitorie difficoltà finanziaria, per semplici fraintendimenti o in altre ipotesi colpose, sostanzialmente bagatellari. Una tesi condivisa oggi anche dai Giudici di merito, che hanno ritenuto in fondo non eque e proporzionate le sanzioni amministrative previste dall’ordinamento.

L’attenzione alla proporzionalità della misura della punizione rispetto all’illecito, che come è risaputo, costituisce attualmente una costante ragione di richiamo e leit motiv della stessa Corte di Giustizia UE. La quale, anche di recente, per esempio in materia di distacco transnazionale di lavoratori (cfr. Corte di Giustizia UE 8.3.2022, C. 205-20), ha ricordato come “Il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso impone alle autorità nazionali l’obbligo di disapplicare una normativa nazionale, parte della quale è contraria al requisito di proporzionalità delle sanzioni…, nei soli limiti necessari per consentire l’irrogazione di sanzioni proporzionate” (sul tema della proporzionalità, ex multis, si veda anche la nota pronuncia della Corte di Giustizia UE 3.3.2020, C. 482-18). Per cui non sorprende che ora il Giudice ordinario, come nel caso di quello presso il Tribunale di Verbania, si accorga come, malgrado l’intervento mitigatorio dell’Inps con il messaggio n. 3516/2022, residui ancora un’irragionevole sproporzione tra fatti pure contra ius e punizioni irrogabili.

Per cui, non essendogli stato difficile immaginare una potenziale lesione dell’art. 3 della Costituzione, rispetto alla previsione dell’art. art. 2, co. 1bis, D.l. n. 463/1983, nel corso di un giudizio di opposizione contro l’Inps, il medesimo Giudice ha deciso di sollevare la questione di legittimità costituzionale in riferimento alla sanzione amministrativa in discorso, disponendo il rinvio della questione alla Corte costituzionale. Al riguardo il Tribunale di Verbania (Ordinanza del 13 ottobre 2022), tra l’altro,

osserva come il legislatore nella fissazione di un minimo e di un massimo della sanzione amministrativa che “parte” da € 10.000 e “arriva” fino a € 50.000 abbia sottoposto a un’irragionevole disparità di trattamento i trasgressori della norma per le omissioni contributive sotto la soglia di rilevanza penale fino all’omissione di € 10.000. Ciò che si intende sottolineare è, cioè, il fatto che in astratto il trasgressore che massimamente viola il precetto normativo nel suo massimo valore sottosoglia (per € 10.000) può soffrire una sanzione amministrativa che, nella sua previsione massima, pari a € 50.000, rappresenta il quintuplo della violazione. Diversamente, il trasgressore per un importo minimo oggetto della omissione, pari a esempio a € 100, anche nella irrogazione della sanzione amministrativa minima prevista dalla legge, pari a € 10.000, viene in realtà sanzionato per un importo che rappresenta il centuplo della propria violazione. Ciò con un’evidente asimmetria di trattamento dei cittadini che, pure, violando con diversa gravità il precetto normativo, non vedono tale diversa gravità altrettanto diversamente ponderata e graduata nella determinazione della sanzione.

Né, in tale senso, costituisce un valido correttivo della norma il richiamo ai criteri di commisurazione della sanzione di cui all’art. 11, Legge n. 689/1981 -pure applicabile alla fattispecie del caso concreto per effetto dell’art. 6 del D.lgs n. 8/2016- poiché, per quanto detto, la previsione della sanzione minima pari a € 10.000, prevista dalla norma dell’art. 3, comma 6 del decreto legislativo 8/2016, non consente una effettiva graduazione della sanzione commisurata alla “gravità della violazione”.

La segnalata irragionevole sperequazione si presenta lampante proprio ed anche nella fattispecie del caso concreto laddove, a fronte di una omissione contributiva di € 190,52 la norma sanzionatoria, anche laddove fosse applicata nella minima afflizione pari a € 10.000 da parte di questo Giudice, comporterebbe l’irrogazione di una sanzione pari a 52 volte la violazione commessa. Questo Giudice osserva, infine, come la novità esposta dall’Inps non incida sui termini della questione come sopra proposti. Infatti, l’Inps, richiamando una propria nota del Direttore Generale, la n. 3516 del 27.09.2022, ha invitato le proprie articolazioni locali a “rivedere” la sanzione irrogabile alla luce del comma 5 dell’art. 9, D.lgs. n. 8 del 2016, osservando che per le omissioni accertate con riferimento al periodo antecedente alla entrata in vigore della depenalizzazione (prima cioè del 6 febbraio 2016), la sanzione possa essere limitata nella misura della metà. Si osserva come, però, anche in questo caso, pure ipotizzando nella fattispecie del caso concreto che attiene ad un’omissione effettivamente avvenuta anteriormente al febbraio 2016, l’applicazione della sanzione in Euro 5.000, si tratti comunque di una misura di oltre 25 volte l’omissione contributiva accertata. Dunque, si ritiene, ancora sperequata.

Un rinvio alla Corte costituzionale, quello in parola, che, al cospetto dei molti interventi punitivi sproporzionati in materia di lavoro (si pensi al caso del recupero di agevolazioni per centinaia di migliaia di euro, ex art. 1, co. 1175, L. n. 296/2006, per “scoperture” pure minime), assume un interesse più ampio e di carattere generale, rivestendo tutto sommato la funzione di aprire una breccia a consimili riponderazioni in chiave costituzionale dell’impianto punitivo del nostro ordinamento del lavoro.

 

(*) L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

CONTRORDINE INPS. Tagli alla sanzione per gli omessi versamenti*

Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano

 

Con il messaggio n. 3516 del 27.9.2022 l’Inps corregge in modo sostanziale se stesso e le precedenti indicazioni alle proprie sedi circa le abnormi sanzioni per gli omessi versamenti contributivi delle ritenute sulle retribuzioni dei lavoratori. Un revirement, rispetto alla circolare Inps n. 32/2022, che riproporziona parzialmente le misure pecuniarie irrogabili e può comportare per i trasgressori “risparmi” anche di oltre € 11.500 a illecito.

 

Come già si ricordava su questa rivista alcuni numeri fa (cfr. “Omessi versamenti di ritenute Inps e la campagna di sanzioni monstre”: Sintesi, giugno 2022, pag. 19), a causa della previsione dell’art. 2, co. 1 bis, D.l. n. 463/1983, per l’omesso versamento delle ritenute sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, per un importo omesso non superiore a € 10.000 nell’anno, viene irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di € 10.000 a € 50.000. Sempre che, beninteso, il datore di lavoro non abbia provveduto al versamento delle ritenute evase entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione. La citata previsione sanzionatoria e le circostanze dei vari casi, nel tempo, erano passate piuttosto in sordina, con l’Inps che procedeva a saltuarie contestazioni e raramente a irrogare sanzioni amministrative.

Poi, in tempi recenti, e soprattutto nell’anno in corso, con la circolare Inps n. 32/2022, l’Istituto si è dato una “scossa” e sono incominciate a imperversare le misure punitive. Così, mentre nei Verbali di contestazione dell’illecito amministrativo i datori di lavoro trasgressori venivano ammessi a corrispondere l’importo in misura ridotta (quello che permette di estingue la procedura punitiva) in € 16.666, la direttiva dell’Istituto impegnava ogni sede -in caso di mancata resipiscenza, con versamento delle ritenute omesse o corresponsione della detta somma in misura ridotta- all’ “irrogazione di una sanzione amministrativa di importo superiore a quello determinato in misura ridotta”. Pertanto, la circolare n. 32/2022 stabiliva che la sanzione amministrativa irrogata con l’ordinanza-ingiunzione avrebbe avuto un “importo da un minimo di 17.000 euro fino a un massimo di euro 50.000”.

Importi decisamente notevolissimi, anche al cospetto di minime infrazione. Per cui, a titolo di esempio, a fronte dell’omesso versamento di € 350, l’Inps avrebbe dovuto irrogare una sanzione pecuniaria minima a partire da € 17.000 a crescere.

Il recente intervento del messaggio Inps del 27.9.2022, n. 3516 ha però preso atto di una serie di criticità emerse fino a oggi, specialmente nei contenziosi che sono conseguiti alle numerose sanzioni irrogate. Va detto che la nota dell’Istituto, relativa alla notifica degli atti di accertamento della violazione ed emissione dell’ordinanza-ingiunzione e alle nuove indicazioni operative al riguardo, si presenta di una certa complessità espositiva. Volendo limitare la disamina agli aspetti immediatamente rilevanti per i potenziali trasgressori, si può osservare come il messaggio, nel tentativo di chiarire quali debbano essere i termini della quantificazione delle sanzioni amministrative imposti dalla legge, oltre a confermare che quanto determinato fino a oggi, nella sostanza, non appare corretto, individua un metodo certo di quantificazione degli importi irrogabili.

L’Inps pone l’accento, in particolare modo, sulla previsione dell’art. 9, comma 5, D.lgs. n. 8/2016 -decreto attuativo che ha disposto la depenalizzazione in discorso-, il quale stabilisce che

Entro sessanta giorni dalla notificazione degli estremi della violazione l’interessato è ammesso al pagamento in misura ridotta, pari alla metà della sanzione, oltre alle spese del procedimento. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

La disposizione indiscutibilmente introduce una previsione speciale di misura ridotta, idonea all’estinzione del procedimento sanzionatorio.

Come noto, alla luce della legge n. 689 del 1981, il procedimento sanzionatorio amministrativo, che inizia con la contestazione dell’illecito amministrativo (con il verbale di accertamento), si conclude con l’irrogazione della sanzione amministrativa vera e propria (a mezzo dell’ordinanza-ingiunzione). Con la contestazione dell’illecito (cioè degli estremi della violazione accertata), salvo specifici casi esclusi per legge, il trasgressore e l’obbligato in solido vengono ammessi al versamento di una somma, in c.d. misura ridotta, prevista con modalità predeterminate “pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa o, se più favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale, pari al doppio del relativo importo”. Nel caso degli omessi versamenti ai sensi dell’art. 2, comma 1bis, D.l. n. 463/1983, tale misura ridotta, ai sensi dell’art. 16, L. n. 689/1981, come osservato sarebbe pari a € 16.666. Ma a quanto equivale, invece, l’importo “pari alla metà della sanzione” di cui all’art. 9, comma 5, D.lgs. n. 8/2016?

In effetti, al momento della contestazione e notificazione degli estremi della violazione, in senso tecnico, non parrebbero ancora esserci “sanzioni” comminate (salvo casi di condanne penali definitive, per cui si trasformi la pena in misura pecuniaria: art. 8, D. lgs. n. 8/2016). Per cui -tecnicamente-, non sarebbe dato comprendersi a quale dimezzamento di sanzioni amministrative faccia riferimento l’art. 9, comma 5, D.lgs. n. 8/2016. Tuttavia, una soluzione in termini di fattibilità e, per di più, favorevole ai trasgressori oggi la fornisce l’Inps. Il quale, proprio con il messaggio n. 3516/2022 precisa che va garantita

la rimodulazione dell’importo delle sanzioni amministrative pecuniarie da irrogare con la notifica dell’ordinanza-ingiunzione, consentendo la loro determinazione a partire dal minimo edittale fissato in euro 10.000. In ragione di ciò, le ordinanze-ingiunzione in corso di emissione o emesse e non notificate alla data di pubblicazione del presente messaggio dovranno prevedere l’irrogazione di una sanzione amministrativa determinata tenendo conto dell’importo delle ritenute omesse e delle eventuali reiterazioni della violazione.

Perciò, calcolata la “sanzione” (in modo “automatico”, anche senza attendere l’ordinanzaingiunzione), la misura ridotta speciale dovrà intendersi pari alla sua metà.

Una tabella allegata al messaggio spiega come opera il nuovo meccanismo di determinazione, che tiene conto di coefficienti predefiniti di conteggio.

In sostanza, nel caso di omissione dei versamenti occorsi in un anno, la sanzione amministrativa irrogabile sarà pari all’importo delle ritenute sulle retribuzioni dei lavoratori non versate, moltiplicate per il coefficiente 1,2. Facciamo l’esempio di due trasgressori, l’uno che nel corso dell’anno non ha versato € 1000 di ritenute, mentre il secondo non ha versate € 9000.

Nel primo caso la sanzione amministrativa sarà pari a € 1000 x 1,2 = € 1200. Ma, come espone la tabella Inps allegata al messaggio (“se la misura della sanzione amministrativa, determinata secondo il criterio indicato in ciascuna colonna della tabella, sia pari ad un importo inferiore a euro 10.000 ovvero superiore a euro 50.000, la sanzione sarà irrogata rispettivamente nella misura di euro 10.000 e di euro 50.000”), non essendo prevista una sanzione inferiore a € 10000, sarà quest’ultima, nel caso, la “sanzione” da applicarsi. Per cui la misura ridotta “dimezzata” risulterà pari a € 5000 (e, dunque, non a € 16.666). Nell’ipotesi in cui, invece, l’omissione contributiva sia di € 9.000, il medesimo schema di calcolo ci condurrà a una sanzione amministrativa pari a € 10.800 (€ 9000 x 1,2 = € 10.800), con importo in misura ridotta pari a € 5.400. Nel caso di reiterazione delle omissioni, sono previste, poi, a seconda degli anni di reiterazione, dei coefficienti di aggravio della sanzione (per esempio, nel caso di reiterazione per un anno: “importo ritenute omesse x 1,2 + importo ritenute omesse x 0,5”). Per cui, stando ai casi di cui sopra, nel primo caso (omissioni di € 1000 per anno) potremmo avere una sanzione di € 1700 (quindi, da ricondurre al minimo edittale di € 10.000); nel secondo, una sanzione pecuniaria di € 15.800. Anche qui con importi da calcolare al 50% (€ 7.900 nel secondo caso).

Fissata la sanzione, pertanto, come rileva anche il messaggio dell’Inps, vi sarebbe la possibilità di applicare in via alternativa la misura ridotta “speciale” (per evasioni meno gravi, di € 5000) oppure quella degli € 16.666 (“se più favorevole, il responsabile dovrà essere ammesso al pagamento della sanzione amministrativa nella misura ridotta, definita dall’articolo 16 della legge n. 689/1981”). Vale a dire che, nella stragrande maggioranza dei casi (salvo reiterazioni rilevanti e tendenzialmente di almeno quattro anni), l’illecito potrà essere estinto versando un più contenuto importo “speciale”, in misura notevolmente inferiore alla misura ridotta ex art. 16, L. n. 689/1981. Quella applicata dall’Istituto fino a oggi.

Una determinante precisazione dell’Inps, in definitiva, che consente finalmente di riproporzionare (seppure parzialmente) le sanzioni amministrative dell’art. 2, co. 1 bis, D.l. n. 463/1983 alla gravità effettiva degli illeciti.

 

 

(*) L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

Maggiore rappresentatività oo.ss. PROVA ALL’INPS SOLO SE L’ECCEZIONE È SPECIFICA

Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano

 

La questione del riconoscimento di quali siano i Ccnl di sigle maggiormente rappresentative, conosce un nuovo capitolo con la significativa sentenza della Corte d’Appello di Bologna n. 759/2021. La quale, da un lato opera un revirement di proprie precedenti posizioni -imponendo l’onere della prova agli Istituti di previdenza creditori-, mentre dall’altro richiede che l’eccezione del debitore sia specifica e puntuale. Pena il ribaltamento dell’onere probatorio.

 

Il dibattito operativo, dottrinale e giurisprudenziale su quali organizzazioni sindacali  possano definirsi comparativamente più rappresentative nelle rispettive categorie sul piano nazionale appare oggi quanto mai aperto.
In difetto di interventi legislativi finalmente risolutivi e in grado di fornire parametri certi, con cui “misurare” la superiore rappresentatività di talune oo.ss. su altre, le questioni pratiche che ne discendono (su tutte quella relativa al rispetto dei minimali di retribuzione imponibile da riconoscere ai lavoratori, ex art. 1, D.l .n. 338/1989) appaiono ancora irrisolte. Che nel nostro ordinamento non sussistano, allo stato, Ccnl erga omnes (cfr. Corte Cost.,
sentenza n. 51/2015), dovrebbe essere per tutti una nozione chiara e  insuperabile. Tuttavia, la semplificata interpretazione e l’applicazione effettiva e omnibus che ancora oggi (soprattutto da parte degli Istituti di previdenza) si danno dei Ccnl c.d. leader, o presunti tali, dimostra come il tema non sia stato ben inteso.
Specialmente nelle sue reali problematicità e implicazioni e quantomeno non da tutti. La stessa giurisprudenza appare muoversi in modo ondivago nella materia, oscillando tra il ritenere sufficienti presunzioni e tradizioni storiche sulla conferenza sindacale di talune organizzazioni, all’ammettere che la maggiore rappresentatività su base nazionale delle oo.ss. stipulanti il contratto collettivo non è “un fatto notorio ex art. 115 c.p.c., trattandosi, tra l’altro, di un dato che può variare nel corso del tempo” (cfr. Tribunale di Pavia, sentenza del 26.2.2019, n. 80).
La “percezione” diffusa della maggiore rappresentatività -nella realtà dei fatti pressoché mai dimostrata dai soggetti che ne pretendono il riconoscimento- rende assolutamente incerte le scelte e posizioni delle aziende e
dei professionisti che le assistono, quanto alla scelta dei Ccnl da applicare e agli effetti che ne derivano.
Un’incertezza che si fa ancora maggiore alla luce della considerazione evidente che più potrebbero essere i Ccnl di organizzazioni maggiormente più rappresentative, e non uno solo, come comunemente si ritiene.
La giurisprudenza ha spesso inteso contribuire a offrire una certa stabilità alle vertenze, “surrogandosi” alla norma mancante e garantendo, di fatto, una sorta di status quo. Tuttavia, non sono poche le sedi giudiziarie che nel tempo hanno operato una revisione dei propri originari convincimenti e percorsi argomentativi sulla maggiore rappresentatività delle organizzazioni sindacali. Per cui, a fronte di passate sentenze “certe”, quanto alla
storica prevalenza di taluni soggetti e sigle sindacali, nel tempo -e soprattutto di recente-, come si potrebbe dire, si è “modificato il tiro” a favore di concezioni giurisprudenziali più possibiliste e pure più consone all’attuale (scarno) dettato legislativo e ai  responsi costituzionali.
Per esempio, è recente il caso del sostanziale revirement della Corte d’Appello di Bologna (sentenza n. 759/2021, pubblicata il 5.9.2022), la quale a fronte di precedenti e note decisioni in cui si negava di principio la maggiore rappresentatività di talune sigle, inerendone piuttosto la riferibilità alle restanti altre, ora riconosce (sia pure con le dovute “accortezze” che diremo) come sia chi pretende di applicare un diverso Ccnl che ne deve dimostrare il titolo.
Per esempio, con la sentenza n. 26/2015, la Corte d’Appello di Bologna confermava la posizione del Tribunale del medesimo capoluogo. Il quale, con le sentenze nn. 29/2011 e 228/2012, aveva stabilito che “poiché la finalità della legge è quella di assicurare che lavoratori del medesimo settore economico e produttivo non subiscano disparità di trattamento ai fini previdenziali, la retribuzione contributiva va determinata sulla base della maggiore  rappresentatività delle organizzazioni sindacali che hanno stipulato i contratti collettivi del settore in considerazione e, con la conseguenza che la circostanza che l’UNCI disponga di una rappresentatività all’interno del movimento cooperativistico non può essere considerato un indice di maggiore rappresentatività nell’ambito del settore economico e produttivo nel quale viene svolta l’attività produttiva del datore di lavoro.
Dunque, considerando che il contratto collettivo cui ha fatto riferimento l’INPS interessa un maggior numero di sigle sindacali tutte qualificabili cine maggiormente rappresentative, al pari dell’UNCI e della CONFASL, non vi è dubbio che la contribuzione previdenziale deve essere calcolata avendo come parametro di riferimento il trattamento retributivo previso dal C.C.N.L. multiservizi stipulato il 19 dicembre 2007, restando a tal
fine irrilevante che la cooperativa opponente fosse tenuta a retribuire i propri soci dipendenti con lo stipendio previsto dal contratto collettivo applicato in azienda”.

Una posizione netta che permetteva tra gli altri agli Istituti di previdenza di non dovere  neppure sforzarsi di giustificare l’operata indicazione d’ufficio di Ccnl, a dispetto di altri diversi applicati dal datore di lavoro. Eppure,
come noto, per legge l’onere della prova spetta pacificamente a chi si pretende creditore.
Tuttavia, oggi, intraprendendo una meritoria evoluzione pretoria, anche la Corte di Appello bolognese viene infine a confermare l’anzidetto principio, ammettendo che “è certo che sulla base dei criteri di ripartizione dell’onere della prova gravi sugli Istituti la dimostrazione che il contratto applicato dalla società opponente non sia quello
da considerare “leader” del settore in cui l’impresa datrice di lavoro opera quale condizione dimostrativa della sussistenza del credito contributivo vantato e agito a mezzo dell’emissione della carte… secondo i noti principi infatti anche nelle cause di accertamento negativo, l’onere probatorio della sussistenza del credito agito grava sul
creditore che è onerato dalla dimostrazione della sussistenza del credito sotto il profilo oggettivo e soggettivo”.
Tutto sembrerebbe chiarirsi, pertanto. Il creditore che intenda disconoscere un Ccnl di una organizzazione dotata di riconoscimento ministeriale di rappresentatività -come nel caso esaminato dalla sentenza n. 759/2021-, in effetti sarà chiamato a provare in positivo la maggiore rappresentatività di coloro che hanno siglato il Ccnl che altrimenti si intende applicare.
Dunque, per chi dovesse contrastare le posizioni degli Istituti sembrerebbe sufficiente potere “stare alla finestra” ad attendere che essi provino le proprie pretese. Una dimostrazione non certo facile, se non diabolica, come noto.
Ma al riguardo, proprio la predetta pronuncia prospetta una nuova e inaspettata visione del riparto probatorio, osservando come “Il punto di diritto di rilievo nella controversia non è, come detto, l’individuazione della parte su cui ricade l’onere della prova della maggiore rappresentatività delle oo.ss. stipulanti i contratti collettivi di settore, cioè sul deducente Inps, ma la sua declinazione in concreto”. Cosa significa?
A parere della Corte d’Appello di Bologna l’onere della prova si delineerebbe in concreto,
tenendo conto del grado di specificità dell’eccezione mosse, per cui nel ricorso introduttivo già si dovrebbe evincere “una contestazione diretta e specifica della maggiore rappresentatività delle oo.ss. dei cui contratti collettivi”. Per cui cosa dovrebbe affermare un ricorrente?
Per la sentenza, nella declinazione in concreto dell’onere della prova, assume rilievo l’indicazione di elementi presuntivi (quali quelli riferiti sempre, ex professo, dagli Istituti sull’apparente maggiormente rappresentatività delle parti firmatarie) cui si correla, come definito in giurisprudenza e dottrina, una sorta di ribaltamento dell’onere della prova: “di fronte all’elemento presuntivo sorge l’interesse pratico alla  smentita da parte dell’opponente”.
Cosa fa presumere che la “presunzione” semplice di maggiore rappresentatività basti a ribaltare l’onere della prova, non è dato sapere, anche nel caso in questione. A maggiore ragione, va osservato che di “fatti notori” in materia, pare proprio non ce ne siano poi molti.
L’effetto finale, malgrado il revirement giurisprudenziale e il riconoscimento dell’esigenza che sia il creditore a dovere provare la maggiore rappresentatività del Ccnl, rischia di essere che nei fatti si torni punto e a capo. Con
il presunto debitore chiamato ad “eccepire” in una forma tanto specifica e puntuale da costituire, tutto sommato, un vero e proprio indizio di “minore rappresentatività” del preteso Ccnl Leader.
Se riuscirà a tanto, però, come riconosce la Corte d’Appello di Bologna, il contribuente avrà costituito una “pista probatoria” che il Giudice non potrà eludere e dovrà indagare anche mediante i propri poteri ufficiosi.
“Ove la formulazione dell’eccezione dell’opponente non fosse apodittica ovvero il quadro probatorio non si fosse ricomposto, in senso favorevole all’allegazione fornita dagli Istituti sulla base del ragionamento presuntivo –che,
va rammentato, assume forza di piena prova dei fatti ove non idoneamente contestato– l’allegazione avrebbe di per sé costituito “pista probatoria”, cui dare seguito mediante l’esercizio dei poteri istruttori ufficiosi previsti in
primo grado dall’art. 421 c.p.c. e in sede d’appello dall’art. 437 c.p.c.

 

 

(*) L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf