IL RICONOSCIMENTO GIURIDICO E LAVORATIVO DELLE C.D. “MALATTIE FEMMINILI”: un passo verso una concreta parità di genere*

Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in  Paderno Dugnano (Mi),  Luciana Mari e Roberta Simone, Consulenti del lavoro in Milano

 

E’ passato l’ennesimo 8 marzo, ricco di avvenimenti, celebrazioni, riflessioni. Che certo non possono che far bene per l’obiettivo di un pieno accoglimento delle istanze antidiscriminatorie e di integrazione che riguardano, fra le tante discriminazioni, anche l’universo femminile, nel mondo del lavoro e non. Quello che vorremmo qui considerare, come piccolo ed iniziale spunto ad una discussione, e forse come l’avvio verso qualcosa di più concreto, è un dato strisciante e poco considerato, che si innesta proprio in quelle che sono differenze di genere, ma che proprio in quanto non siano riconosciute nella loro peculiarità, come diversità da valutare e sostenere, finiscono per discriminare nel pratico, nelle scelte ed indirizzi di ogni giorno.

Parlare di malattie femminili è difficile, anche per chi ne viene colpita.

In primo luogo c’è una forma di riservatezza, in parte comprensibile, in parte legata a retaggi culturali; quando si parla delle “parti basse” si cerca sempre di parafrasare, è come qualcosa di cui si fa fatica spesso anche solo a pronunciare il nome. Pensate ad un vocabolo, ora meno usato, con cui si era soliti definire certe zone del corpo, le pudenda: non c’è bisogno di essere degli esperti latinisti per andare all’etimo (pudere) e comprendere che si sta parlando di qualcosa da trattare con discrezione, anzi di cui in fondo in fondo vergognarsi un po’. E quindi è con vergogna e reticenza che chi soffre di queste patologie ne parla.

La seconda cosa che fatica ad entrare nella mentalità – non solo maschile, intendiamoci – è che è estremamente riduttivo trattare e definire questi malanni come “disturbi”. Quasi fossero nient’altro che un prolungamento dei dolori mestruali, e allora perché tanta scena, in fondo è un fatto che colpisce tutte, non bisogna farne una tragedia solo “per un po’ di dolore in più”.

L’unione di queste due devastanti percezioni mancate della gravità del problema (unite al fatto che la specializzazione in queste patologie è rara e la diagnosi è spesso difficoltosa) crea una terza, ancor più devastante complicazione: la persona colpita e che soffre, si sente in colpa, racchiusa in un circolo vizioso da cui è impossibile uscire. Un po’ quello che accade con i disturbi di natura psicologica, spesso sottovalutati e trattati con i buoni consigli della nonna; e se tiriamo in ballo, non a caso, i disturbi psicologici, è perché soffrire di alcune di queste malattia spesso si accompagna, e non si vede come non potrebbe, a ricadute di natura psichica, innescando un ulteriore tragico circolo (“vedi che è colpa tua, devi essere più positiva, se non reagisci sarà peggio”, e tutto il campionario delle cose dette, magari anche con affetto e da chi ti sta vicino, che restringono ancora di più il cerchio del soffocamento, della solitudine e della incomprensione).

Dare un nome a queste malattie, e cominciare a parlane seriamente, è la prima forma di caduta del velo di Maya. E allora, senza pretendere di fare un elenco esaustivo o di offrire un piccolo trattato di medicina che sarebbe davvero ben lontano dalla nostra portata professionale (anzi chiediamo anticipatamente scusa per le eventuali ipersemplificazioni), possiamo parlare di endometriosi o di vulvodinia.

L’endometrio è sostanzialmente una tonaca mucosa che riveste internamente la cavità dell’utero; il suo ispessimento o il suo sfaldamento (l’endometriosi, appunto) crea, insieme a dolori lancinanti nella zona addominale, il possibile e spesso pericoloso interessamento di altri organi adiacenti, nel qual caso è talvolta necessario intervenire chirurgicamente con uno o più interventi per la rimozione delle schegge impazzite di questo tessuto, che può portare gravi conseguenze. Chi ne è colpita in modo serio, quando va bene (cioè quando non subentrano le complicazioni suddette) è comunque interessata da forti dolori, abbastanza continui e non direttamente coincidenti con il periodo mestruale, in cui possono a volte intensificarsi. Si stima che soffrano di endometriosi in Italia circa tre milioni di donne, e che sul lavoro si parla di una media di 5/6 giornate lavorative perse al mese. Una certa attenzione è stata data includendo questa patologia nei LEA, i livelli essenziali di assistenza, ma si nota ancora un certo ritardo nel riconoscerne il potenziale invalidante.

La vulvodinia è ancor più rara e sconosciuta, ma interessa anch’essa un numero sempre crescente di pazienti (si calcola sfiori il mezzo milione in Italia, comprese le diagnosi sbagliate o incerte). Le cause della vulvodinia non sono ancora note, c’è chi la lega a fattori biologici, psicologici o relazionali. Tale patologia, chiamata anche vestibolite vulvare, determina un incremento esponenziale del volume e del numero di terminazioni nervose dolorifiche nella zona vulvare, manifestandosi all’inizio quasi come una normale infiammazione, ma con un dolore continuo e pressante che finisce per trasferirsi a livello di tutto il sistema nervoso. Dolore per cui esistono ad oggi solo terapie palliative e sintomatiche, senza una cura.

Come non citare a questo punto, anche una terza patologia, la fibromialgia, che ha diversi apparentamenti (si calcola infatti che oltre il 90% dei colpiti da fibromialgia siano donne) con le malattie precedenti, di cui talvolta è una spiacevole conseguenza (nei fatti, ma senza ad oggi alcun collegamento causale), che viene classificata, in mancanza di meglio, come una malattia reumatica. Il termine “fibromialgia” dall’etimo greco composto sta a significare appunto dolore dei muscoli e delle strutture connettivali fibrose (legamenti e tendini).

Le cause precise dell’insorgenza di questa sindrome cronica dolorosa sono poco note, ma normalmente i sintomi solitamente iniziano a manifestarsi dopo traumi fisici, infezioni o forti stress psicologici (ecco il possibile collegamento con la vulvodinia e con l’endometriosi).

Della fibromialgia si conoscono bene solo i sintomi, ad oggi il principale mezzo diagnostico: un dolore diffuso in tutto il corpo, vissuto come una sensazione di contrattura, rigidità e bruciore, e l’astenia, cioè una stanchezza

cronica, una debolezza generale con riduzione della forza muscolare. La pesantezza di tali sintomi può portare a volte a paralizzare completamente le attività sociali di chi ne è colpito in forma grave. Anche in questo caso le cure sono solo sintomatiche o palliative. Ma perché parlare di queste malattie in questo consesso lavoristico? Perché i risvolti di tali patologie nell’accesso e nel mantenimento al lavoro risultano evidenti.

Consideriamo la questione da un’altra angolazione. Il 20 dicembre 2021, il Parlamento ha approvato all’unanimità la Legge n. 227/2021, una delega al Governo in materia di disabilità (una delle riforme previste dalla Missione 5 “Inclusione e Coesione” del PNRR) per adottare, entro 20 mesi, uno o più decreti legislativi per la revisione ed il riordino delle disposizioni vigenti in materia di disabilità, partendo dalla  definizione di disabilità delle Nazioni Unite.
“Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva
partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri.”
Fra gli altri scopi della norma da approvare vi è anche l’elaborazione di un “progetto di vita personalizzato” che consenta alla persona con disabilità, fra le altre cose necessarie, il superamento delle condizioni di emarginazione nei diversi contesti sociali di riferimento, inclusi quelli lavorativi e scolastici.
Nell’ambito dell’accesso al lavoro, la nostra Legge n. 68/99 – con cui la legge delega dovrà in qualche modo  correlarsi – favorisce “la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel
mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”. Spesso si pensa alla disabilità solo come qualcosa di visibile, di concreto: ed è proprio questo il dramma delle patologie in argomento,  che costituiscono sicuramente una pesante barriera sociale, ma che sono striscianti, poco visibili, anche se terribilmente incidenti sulla
vita di molte donne.

Noi ovviamente ci auguriamo primariamente che per tutte le patologie invalidanti, fra cui quelle sopra descritte, come per le altre che sarebbe impossibile qui continuare a menzionare, si trovino presto cure efficaci e
risolutive e comunque livelli di assistenza sanitaria adeguati.
Ma non possiamo non pensare che il riconoscimento del grado invalidante di queste malattie sia indispensabile  per favorire un inserimento mirato ed attento nella vita sociale e lavorativa delle molte donne che ne sono colpite, con conseguenze umane e psicologiche spesso anche devastanti, con tutti gli strumenti che tale riconoscimento metterebbe a disposizione.
Come Centro Studi e Ricerche dei Consulenti del lavoro di Milano, insieme con la neocostituita Fondazione dei Consulenti del Lavoro di Milano, abbiamo intenzione di sollevare e tenere alta l’attenzione su questi problemi e di dare vita ad una campagna di ricerca e sensibilizzazione volta a favorire, attraverso ogni riconoscimento giuridico, ma anche attraverso forme di welfare e di contrattazione collettiva, il massimo sostegno a chi è colpito da queste patologie, mantenendo nel contempo un’attenzione a 360 gradi su tutte queste tematiche, ovviamente anche a prescindere dalla questione di genere.

 

 

* Pubblicato su LavoriDirittiEuropa, 1/2022.

 

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Sentenze

Nel pubblico i contratti a termine ritenuti illegittimi non si convertono in rapporti stabili

Cass., sez. Lavoro, 28 febbraio 2022, n. 6493

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

 

Un lavoratore della Azienda Unità Sanitaria Locale ottiene dalla Corte di Appello de L’Aquila il risarcimento del danno subito in ragione dell’illegittimità dei contratti di lavoro a termine e delle relative proroghe, senza soluzione di continuità, per il periodo di 9 anni di cui solo 4 in modo discontinuo. La  decisione della Corte territoriale è conseguenza della natura pubblica del datore di lavoro per cui i contratti a termine, sebbene con violazione del regime di proroga, sono insuscettibili di conversione. Tale comportamento però legittima la pretesa al risarcimento del danno, parametrato sul regime sanzionatorio di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’Azienda USL ricorre in Cassazione denunciando la violazione e la falsa applicazione del D.lgs. n. 165 del 2001, della L. n. 300 del 1970 e dell’art. 2697 c.c., lamentando la non conformità a diritto con cui la Corte, ritenuto provato il danno, ha proceduto alla determinazione equitativa del medesimo, assumendo a parametro la norma statutaria con sommatoria dell’importo della sanzione minima pari a 5 mensilità e dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
La Suprema Corte accoglie il ricorso confermando che il pregiudizio sofferto dal lavoratore, correttamente ritenuto sussistente, deve considerarsi normalmente correlato alla perdita di “chance” di altre occasioni di lavoro stabile e non alla mancata conversione del rapporto, esclusa per legge (nel pubblico) con norma conforme sia ai parametri costituzionali che a quelli comunitari. Inoltre, il parametro per la quantificazione del danno va individuato nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, la cui disposizione è espressamente riferita al risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine. Il ricorso, accolto, è rinviato alla Corte di Appello de L’Aquila.


 

Tirocinio: su salute e sicurezza il datore di lavoro ha gli stessi doveri previsti per i lavoratori dipendenti

Cass., sez. Penale, 1 marzo 2022, n. 7093

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7093 del 1° marzo 2022, si è espressa in merito alle responsabilità datoriali circa gli obblighi di salute e sicurezza sul lavoro nei confronti dei tirocinanti.
In particolare, la vicenda ha origine da un episodio infortunistico verificatosi ai danni di una studentessa tirocinante presso un’azienda agricola. La ragazza, nell’atto di pulire un grosso tino, era salita su una scala con in  mano un tubo di gomma collegato al rubinetto dell’acqua. Insieme al proprio tutor, il tino era stato aperto e il pesante coperchio
metallico appoggiato, in equilibrio, sul bordo del tino. Durante le operazioni di pulizia, il coperchio era rovinato sulla tirocinante, colpendole la mano destra e causando una profonda ferita da taglio con lesione al tendine.
L’iter giudiziale che ha fatto seguito all’avvenimento ha visto il datore di lavoro addossato della responsabilità penale dell’accaduto, data la contestazione di aver cagionato alla tirocinante lesioni personali giudicate guaribili in 105 giorni. In particolare, nei diversi gradi di giudizio è stato osservato come, ai sensi dell’art. 2, lett. a), del D.lgs. n. 81/2008 (c.d. “Testo unico sulla sicurezza sul lavoro”), la tirocinante debba essere ricompresa nella più ampia categoria di “lavoratore”, in quanto ai fini della sicurezza sul lavoro è considerato tale chiunque svolga “un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari”, indipendente dalla tipologia contrattuale.
Alla luce di tale previsione, veniva addebitato al datore di lavoro di avere violato le norme in materia di sicurezza sul lavoro e, segnatamente, di “avere disposto che l’attività di lavaggio della vasca venisse eseguita senza alcuna  preventiva valutazione del rischio, in carenza assoluta di una precipua formazione e senza munire la tirocinante dei necessari dispositivi di protezione (artt. 17, 37 e 71 D.lgs. n. 81/2008)”.
Avverso la pronuncia di cui sopra, l’azienda ha proposto ricorso per cassazione, avanzando diversi motivi di doglianza.
Anzitutto, l’azienda non riteneva di doversi fare carico delle disposizioni di cui al Testo unico sulla sicurezza, nella convinzione che l’adempimento degli obblighi di sicurezza del tirocinante fosse riferibile esclusivamente al soggetto promotore, a meno che un’apposita convenzione non facesse convergere gli stessi sull’azienda ospitante. Sul  punto, il datore di lavoro osservava come nella convenzione fosse esplicitamente previsto che la copertura assicurativa del tirocinante contro gli infortuni sul lavoro rientrasse tra gli obblighi del soggetto promotore, ossia l’università  presso cui la tirocinante era iscritta all’epoca dei fatti.
Inoltre, il datore di lavoro osservava come fosse altrettanto chiara la circostanza che gli spazi ed i relativi impianti messi a disposizione dei tirocinanti nei locali aziendali fossero assolutamente a norma, in totale ottemperanza rispetto a quanto stabilito dalla convenzione stipulata con l’università. Pertanto, nessuna responsabilità penale sarebbe potuta gravare sul datore di lavoro – a suo dire – considerato che, in tema di sicurezza sul lavoro, era stato inoltre incaricato un tecnico specializzato per la valutazione dei rischi all’interno dell’azienda.
Da ultimo, il datore di lavoro riteneva che fosse lampante come l’infortunio occorso alla tirocinante fosse dipeso da un comportamento istantaneo e imprevedibile della stessa, non collegato al compito affidatole. In particolare, durante l’attività di pulizia realizzata dalla ragazza, il coperchio, probabilmente a causa degli spruzzi di acqua ricevuti, si sbilanciava verso l’interno della vasca; in tale momento e senza alcuna logica, la tirocinante tentava di fermare il coperchio con la sola mano destra, continuando a tenere il tubo dell’irrigazione con la sinistra. Così operando, a dire del datore di lavoro, la tirocinante era assolutamente conscia del fatto che stava attuando una condotta pericolosa per la propria incolumità, riferibile ad un comportamento abnorme suscettibile di escludere ogni responsabilità da parte dell’azienda. “Anche in presenza di adeguata formazione in punto di sicurezza –  sosteneva il datore di lavoro – l’infortunio si sarebbe egualmente verificato, esulando il comportamento della persona offesa dalle più elementari regole di prudenza”. Stanti le motivazioni avanzate dal datore di lavoro con il proprio ricorso, i giudici della Cassazione hanno ritenuto che i motivi di doglianza fossero manifestamente infondati,
respingendo il ricorso datoriale. In particolare, l’applicazione al caso di specie delle previsioni del D.lgs. n. 81/2008 è stata ritenuta corretta, poiché la figura del tirocinante è, a tutti gli effetti, assimilabile a quella del normale lavoratore dipendente. Conseguentemente, nella specifica ipotesi in cui presso un’azienda siano presenti soggetti che svolgano tirocini formativi, il datore di lavoro sarà tenuto ad osservare tutti gli obblighi previsti dal citato Testo Unico al fine di garantire la salute e la sicurezza degli stessi.
Inoltre, non ha avuto rilievo l’obbligo assicurativo gravante sul soggetto promotore, poiché, come si evince dal titolo della circolare Inail n. 16/2014, esso riguarda l’“obbligo assicurativo dei tirocinanti e relativa determinazione del premio”, senza alcuna attinenza con la sicurezza sui luoghi di lavoro. Alla Suprema Corte è risultato, dunque, di tutta evidenza come non possa validamente sostenersi la esistenza di una fonte di esonero da responsabilità del datore di lavoro nei confronti dei tirocinanti, partecipanti a stage formativi in un’azienda, nella disciplina e nella convenzione richiamata nel ricorso.
La Corte di Cassazione ha osservato come nella sentenza di secondo grado fosse stata acclarata l’omissione di “qualunque attività di informazione e formazione sull’attività da espletare” da parte della tirocinante, “la quale aveva precisato di non aver ricevuto alcuna istruzione sulle modalità esecutive del lavoro da compiere”. Il datore di lavoro, a sua volta, aveva affermato di “non sapere come doveva essere compiuta l’operazione di lavaggio della vasca e di non possedere alcuna preparazione per lo svolgimento dell’attività di tutoraggio”. Altrettanto, risultava chiaro come il datore di lavoro non avesse dotato la tirocinante “dei mezzi di protezione individuali (guanti antitaglio) necessari per eseguire l’operazione, tenuto conto delle caratteristiche del coperchio e del fatto che esso non fosse trattenuto in nessun modo nel momento in cui veniva spostato”.
I giudici, in merito, hanno osservato come la qualità datoriale imponesse “la previa valutazione del rischio a cui era esposta la tirocinante, la cui posizione è equiparata al lavoratore per quanto detto sopra, e l’adozione delle necessarie
misure di sicurezza”.
Non ha avuto rilievo, invece, la circostanza, segnalata nel ricorso, che la titolare dell’azienda si fosse avvalsa della  collaborazione di un professionista incaricato di risolvere ogni problematica in materia di sicurezza. Sul punto, infatti, la valutazione del rischio, ai sensi dell’art. 17, D.lgs n.81/2008, è compito affidato al datore di lavoro, non delegabile.
Infine, è stato ritenuto inconferente il richiamo al comportamento “abnorme” della tirocinante: in tema di  infortuni sul lavoro, infatti, “qualora l’evento sia riconducibile alla violazione di una molteplicità di disposizioni
in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato anche elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall’area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia.

 


Licenziamento legittimo in caso di rifiuto al trasferimento

Cass., sez. Lavoro, 7 marzo 2022, n. 7392

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano 

La Cassazione Civile, sezione Lavoro, con questa sentenza, ha ritenuto che in ipotesi di trasferimento adottato in violazione dell’articolo 2103, c.c., l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore a eseguire la prestazione, ma dovrà pur sempre essere valutato in relazione alle circostanze concrete, onde verificare se risulti contrario a buona fede. Nella specie, in applicazione del predetto principio, la Suprema Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento di una lavoratrice, intimato previa contestazione disciplinare per assenza ingiustificata, essendosi la stessa rifiutata di prestare la propria attività lavorativa nella sede presso la quale era stata trasferita, con applicazione della tutela indennitaria di cui all’articolo 18, comma 6, L. n. 300/1970, senza diritto della lavoratrice alla reintegra nel posto di lavoro. La lavoratrice impugna giudizialmente il licenziamento irrogatole per assenza ingiustificata per non essersi presentata presso la sede aziendale ove era stata trasferita.
La Corte d’Appello accoglie solo parzialmente la predetta domanda, ritenendo che il recesso fosse nel merito fondato seppur affetto da un vizio formale.
La Cassazione – confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello – rileva che, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione. In particolare, se giudici di legittimità, è necessaria una ulteriore valutazione, posto che il rifiuto dello svolgimento delle mansioni presso la nuova sede di assegnazione risulta disciplinarmente rilevante laddove sia contrario a buona fede. La suddetta verifica della “buona fede” deve essere condotta sulla base delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie nell’ambito delle quali si può tenere conto dell’entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, della concreta incidenza dell’inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale, formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore nell’organizzazione datoriale e più in nella realizzazione degli interessi aziendali.
Pertanto, l’inottemperanza del lavoratore al provvedimento di trasferimento illegittimo dovrà, essere valutata sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460 c.c., co. 2, secondo il quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non può rifiutare l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso della lavoratrice, ritenendo fondato il licenziamento per rifiuto del trasferimento.


Infortunio del lavoratore:criterio di liquidazione  danni e danno lamentato dal coniuge

Cass., sez. Lavoro, 10 marzo 2022, n. 7821

Daniela Stochino, Consulente del Lavoro in Milano

 

La Corte di Appello di Trieste ha riformato la sentenza del Giudice di primo grado sostenendo che, ai fini della liquidazione del danno da incapacità lavorativa del lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro, si deve far riferimento alle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403/1922, e non alle tavole di mortalità elaborate dall’ISTAT nel 1981, posto che quest’ultime non hanno natura legislativa. La stessa sentenza escludeva inoltre qualunque risarcimento al coniuge non essendo stato provato alcun pregiudizio della stessa in seguito all’infortunio. Investita la Corte di Cassazione della questione, la stessa ha rilevato che effettivamente la Corte d’Appello è incorsa in un errore di diritto, violando il principio dell’integrale ristoro dei danni, lì dove pretende di determinare il quantum esclusivamente ricorrendo a parametri tratti da fonti legislativi ed escludendo altri parametri (più recenti) ma non di fonte legislativa. Ha quindi rimandato a propri precedenti nei quali aveva già affermato la inadeguatezza del criterio di liquidazione rappresentato dalle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403/1922 e la necessità di garantire l’integrale ristoro del danno attraverso il ricorso a parametri non necessariamente tratti da fonti legislative. Ha quindi ribadito il principio già affermato secondo il quale: “Il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’artt. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano”. La Corte di Cassazione ha quindi cassato la sentenza rinviando alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione, per il riesame della fattispecie alla luce del principio enunciato. La stessa Corte di Cassazione ha invece rigettato il ricorso presentato dal coniuge, atteso che i giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello) hanno ritenuto non provato il danno addotto  e, alla Corte di Cassazione è preclusa la possibilità di esaminare il merito.
Parimenti non meritevoli di accoglimento le doglianze della ricorrente rispetto alla presunta violazione di norme di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello per non aver fatto ricorso al ragionamento presuntivo: in realtà la ricorrente si è limitata a prospettare la necessità di valorizzazione di alcuni elementi senza evidenziare la assoluta illogicità delle diverse conclusioni attinte dal giudice di merito. Conseguentemente il ricorso presentato dalla coniuge è stato rigettato


Licenziamento per superamento del periodo di comporto: è necessario lo scomputo delle assenze dovute ad infortunio

Cass., sez. Lavoro, 4 marzo 2022, n. 7247

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello de L’Aquila ha rigettato il reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Vasto che aveva accertato l’illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro per avvenuto superamento del periodo di comporto.
La Corte di merito ha accertato che l’art. 52 del Ccnl di settore prevedeva, in relazione ad un’anzianità superiore a sei anni, un periodo di comporto di sedici mesi da calcolare nell’ambito di un triennio. Ha preso atto del fatto che il lavoratore si era assentato per cinquecentosei giorni ma che dalle assenze andavano scomputate quelle  comunque riferibili ai tre infortuni sul lavoro sofferti, tenuto conto – anche del mancato mutamento delle  mansioni, che pure era stato sollecitato dal lavoratore, evidenziando che aveva provato il nesso causale tra dette assenze ed in particolare uno dei tre infortuni – oltre che l’avvenuta violazione da parte della datrice di lavoro dell’art. 2087 c.c.. Ha ritenuto del pari provato che le operazioni cui si era dovuto sottoporre il lavoratore erano anch’esse causalmente collegate all’infortunio citato.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il datore di lavoro; dagli atti processuali emerge che la Corte di Appello si è attenuta a principi ripetutamente affermati dalla stessa Corte di Cassazione (cfr. tra le altre Cass. 27/06/2017, n. 15972 e Cass. 28/03/2011, n. 7037) secondo cui “le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che  la stessa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c. c.. ” In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.


Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo fondato sulle medesime ragioni del licenziamento collettivo è nullo

Cass., sez. Lavoro, 7 marzo 2022, n. 7400

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Con ordinanza del 7 marzo 2022 la Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito circa la nullità di un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (GMO) in quanto fondato sulle medesime ragioni che avevano determinato la procedura dei licenziamenti collettivi precedentemente verificatasi in azienda.
Avallando le pronunce nel merito anche la Cassazione ritiene che il licenziamento per GMO rappresenti un contratto in frode alla legge ai sensi dell’articolo 1344 del c.c. in quanto, fondandosi sulle medesime ragioni che avevano determinato la procedura di cui alla Legge 23 luglio 1991, n. 223, non ne rispetta tutti i vincoli previsti dalla disciplina relativa ai licenziamenti collettivi.
Se è vero che i giudici in una procedura collettiva non possono entrare nel merito delle logiche datoriali circa la metodologia di calcolo degli esuberi, questione di totale discrezionalità aziendale ed eventualmente trattabile in fase di negoziazione con le oo.ss., è pure vero che non è consentito al datore di lavoro di tornare sulle scelte compiute circa il numero, la collocazione aziendale ed i profili professionali dei lavoratori in esubero, ovvero i criteri di scelta dei lavoratori da estromettere, utilizzando il mezzo dei licenziamenti individuali la cui legittimità effettiva può essere subordinata soltanto alla presenza di ragioni diverse da quelle poste a base del  licenziamento collettivo.
Per tale ragione la Cassazione conferma la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo essendosi realizzato un contratto in frode alla legge attraverso accordi contrattuali tesi ad eludere le disposizioni normative.


La soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro qualifica la prestazione lavorativa come subordinata

Cass., sez. Lavoro, 8 febbraio 2022, n. 3967

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La Suprema corte di Catanzaro si esprime sulla vicenda dell’azienda che, a seguito di un controllo, risultava avere assunto dei lavoratori con mansione di personale paramedico inquadrandoli come collaboratori coordinati e continuativi. Nel 2015 la Corte di Appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava inefficace la cartella opposta in primo grado, portante un credito per omissione contributiva, per la somma pari ai contributi già versati per i lavoratori con mansioni di personale paramedico, formalmente inquadrati come  collaboratori coordinati e continuativi. L’Inps opponeva difese e si arrivava dunque alla Suprema Corte.
L’azienda sosteneva una mancanza di motivazioni delle sentenze e un eccesso di potere nell’applicazione dell’art. 421 c.p.c., violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte di merito, pur a fronte della mancata allegazione di prova, ritenuto fondata la pretesa dell’Inps, valorizzando le dichiarazioni degli ispettori verbalizzanti su quali fatti, asseritamente non dedotti dall’Inps, sarebbero stati esercitati i poteri officiosi.
Ritengono gli Ermellini infondati ed inammissibili i motivi indicati. Sulla denuncia dell’omesso esame di fatti decisivi, che se esaminati avrebbero portato all’accertamento della natura autonoma e non subordinata dei rapporti di lavoro in oggetto, ricordano, al riguardo, che ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali
e astratti da applicare al caso concreto, cioè l’individuazione del parametro normativo, mentre costituisce accertamento di fatto la valutazione delle risultanze processuali al fine della verifica dell’integrazione del parametro normativo.
Si ribadisce nuovamente che costituisce elemento essenziale, come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e non già soltanto al suo risultato. Tale assoggettamento non costituisce un dato di fatto elementare quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze e, ove non agevolmente apprezzabile, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi (fra i quali, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l’assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale), di carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria. Questi elementi costituiscono indizi idonei ad integrare una prova presuntiva della  subordinazione, a condizione che essi siano fatti oggetto di una valutazione complessiva e globale. Invece, per quanto concerne le prestazioni di natura intellettuale, che mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro e con una continuità regolare, anche negli orari, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari, che il giudice deve individuare in concreto dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall’effettivo svolgimento del rapporto.
Secondo questi principi, la Corte di merito ha correttamente privilegiato il piano dell’effettività, piuttosto che quello delle formali risultanze documentali nell’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro,
sia per il personale medico che paramedico, per gli assistenti dei dentisti e per gli impiegati amministrativi.
Pertanto viene confermata la natura subordinata dei rapporti lavorativi e, poiché l’omessa o infedele denuncia mensile all’Inps circa i rapporti di lavoro e le retribuzioni erogate, integra un’evasione contributiva ex art. 116,
comma 8, lett. b), Legge n. 388 del 2000, e non la meno grave omissione contributiva di cui alla lettera a) della medesima disposizione, dovendosi ritenere che l’omessa o infedele denuncia configuri occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi e faccia presumere l’esistenza della volontà datoriale di realizzare tale  tale occultamento allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti, gli Ermellini rigettano il ricorso della Società e condannano al pagamento delle spese e della contribuzione arretrata.

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