CE LO DICE L’AGRICOLTURA: il lavoro atipico è bocciato, la soluzione arriva sempre dal rapporto di lavoro subordinato

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

 

PREMESSA

Il Legislatore, di tanto in tanto, plasma delle forme di lavoro alternative che si discostano dalla classica subordinazione, fulcro del nostro diritto del lavoro.

Tendenzialmente, o perlomeno negli intenti, lo fa, e lo ha fatto, non tanto per attuare il semplice e ordinario scambio “lavoro-retribuzione” in una diversa e inedita modalità, ma con degli specifici e diversi fini.

Ad esempio:

  • con scopi strettamente formativo-orientativo-esperienziali, al fine di semplificare e migliorare l’accesso al lavoro, come nel caso dei tirocini;
  • per promuovere e incentivare il bene sociale, come nell’ipotesi del volontariato;
  • nell’ottica di combattere il lavoro nero e sopperire a esigenze contingenti, generalmente non programmabili né tantomeno strutturali, ossia occasionali, come nel caso dei previgenti voucher o degli attuali “Prest.o” ex 54 bis, D.l. n. 50/2017.

Tali prestazioni, anche se non di lavoro subordinato, restano pur sempre lavorative, sebbene sui generis, in considerazione delle diverse (e ridotte) tutele per esse previste e delle differenti regole e formalizzazioni per loro predisposte. A tal proposito, in dottrina, si identifica uno specifico bacino di prestazioni lavorative speciali, catalogabili come di “lavoro senza contratto”1 o di “attività lavorativa senza rapporto di lavoro”2.

UN POSSIBILE PERCHÉ DEL LAVORO AL DI FUORI DELLA SUBORDINAZIONE

Risulta chiaro come, per i rapporti che vivono al di fuori della subordinazione, siano previste delle tutele ridotte rispetto a quest’ultima. Senza volersi addentrare eccessivamente nelle singole dinamiche regolatorie relative agli esempi sopra visti, nell’immediato si puo’ evidenziare:

  • l’assenza di tutele previdenziali per il tirocinante;
  • l’assenza di una retribuzione o di tutele previdenziali per il volontario;
  • l’assenza di stabilità e precedenza, ovvero di retribuzione differita, per il prestatore occasionale.

In buona sostanza, ciò che l’ordinamento giuridico sembra suggerirci è che, in linea di massima, la suddetta riduzione di tutele, e quindi il concepimento di forme di lavoro non soggette (per loro stessa essenza) alle salvifiche strutture della subordinazione, si giustifichi proprio a fronte dei particolari fini sopra visti. Come a dire che sussistono talune improrogabili esigenze statuali, le quali, astrattamente, consentono la creazione di forme lavorative non comuni, atteso che “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”3. Preso atto di questo aspetto, pare opportuno affermare che il ricorso, da parte del Legislatore, alle predette forma di lavoro senza contratto debba essere oculato e ben ponderato: non solo per l’evidente erosione di tutele a cui queste sono soggette, ma anche, se vogliamo, per non creare un inusuale bacino di lavoratori privo di un reale titolo nella contrattazione collettiva4 (fino a prova contraria, uno dei principali metodi di adeguamento e miglioramento delle condizioni di lavoro, posto anche che, tra i molti aspetti, la “contrattazione […] è stata tradizionalmente lo strumento principale di governo e di difesa delle retribuzioni”5). Se in taluni casi non v’è dubbio che la forma di lavoro non debba (e possa) essere subordinata, come nel caso del volontariato, posto che il volontario “per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà”6, in altri è lo stesso Legislatore, soprattutto negli ultimi tempi, ad ammetterne nemmeno troppo implicitamente la loro inutilità, e quindi, di fatto, la loro astratta ingiustificabilità. Nello specifico, si fa riferimento al settore dell’agricoltura, per il quale, tramite la “Legge di Bilancio 2023”, si è bocciato il “Prest.o”, sostituendolo con un ben più ordinario lavoro subordinato.

L’ESEMPIO DELL’AGRICOLTURA

Il contratto di prestazione occasionale nasce come evoluzione, in un secondo perfezionato stadio, del presumibilmente pluriabusato lavoro accessorio di cui agli artt. 48-50 del D.lgs. n. 81/20157 .

Per entrambe le misure, operativamente diverse ma comunque simili per l’intrinseca essenza, il motivo della loro genesi era ed è da ravvisarsi nella doppia esigenza di:

– rispondere a delle esigenze contingenti;

– far emergere quel lavoro occasionale tipicamente sommerso.

In dottrina, si è infatti evidenziato come le suddette discipline si pongano, con “funzione antifraudolenta”8, “in essenziale continuità con la risaputa istituzione e relativa regolamentazione del lavoro occasionale accessorio nell’ambito della c.d. riforma Biagi, da parte del D.lgs. n. 276/2003 (spec. artt. 70-73 e modificazioni successive), con la finalità di contrasto al lavoro irregolare e di lotta al sommerso, nonché dunque di promuovere l’emersione e corrispondente regolarizzazione di prestazioni svolte con saltuarietà ed occasionalità”9, ovvero “con l’evidente obiettivo di lasciare emergere alla luce del sole determinate attività lavorative, tradizionalmente sinora relegate nell’area dell’economia informale (e svolte solitamente in maniera irregolare)”10.

Evidentemente, le due ragioni qui indicate risultano tra loro fortemente connesse: vuoi perché il lavoro occasionale, proprio per la sua occasionalità, in una erronea logica di comodità, tenta di sfuggire a qualsiasi tipo di formalità, vuoi perché il lavoro nero è da considerarsi, in un certo qual modo, sempre occasionale, pur se reso in modo continuativo, poiché in assoluto, e per definizione, privo di stabilità11. Di fatto, il Legislatore ha creato una forma di lavoro acontrattuale, ovvero una prestazione di lavoro con tutele ridotte (si pensi alle tutele per il licenziamento, qui assenti), per garantire immediatezza, semplicità di utilizzo, così da annichilire il lavoro sommerso. Come accennato, per , di recente il Legislatore è intervenuto sulle prestazioni occasionali in agricoltura, esclusivamente per il biennio 2023-2024, riconducendole al più ordinario rapporto di lavoro subordinato, e questo al “fine di garantire la continuità produttiva delle imprese agricole e di creare le condizioni per facilitare il reperimento di manodopera per le attività stagionali, favorendo forme semplificate di utilizzo delle prestazioni di lavoro occasionale a tempo determinato in agricoltura assicurando ai lavoratori le tutele previste dal rapporto di lavoro subordinato”12. Anche agli occhi meno attenti, balza immediatamente all’occhio la contraddizione: il lavoro subordinato è chiamato, in disperato soccorso, a sostituire il contratto di prestazione occasionale, per permettere una maggiore facilità di utilizzo e una fruttuosa risposta alle esigenze datoriali. In altre parole, lo strumento che nasce, ed è plasmato, appositamente per rispondere a ragioni di urgente flessibilità, e che per tali motivi dovrebbe teoricamente giustificare una riduzione di tutele, viene soppiantato, perché inefficiente e macchinoso, dall’usuale rapporto di lavoro a dipendenza.

CONCLUSIONI

Il Legislatore, con l’intervento di cui all’art. 1, commi 343 – 354 della L. n. 197/2022, ha implicitamente confermato i dubbi circa le tutele e l’utilità delle forme di lavoro non standard. Senza voler peccare di presunzione, di seguito si intendono suggerire 3 possibili soluzioni, rispetto al problema evidenziato, su cui imbastire una successiva e più approfondita riflessione.

Per questi strumenti, si potrebbe:

  • assicurare un sistema di tutele maggiormente strutturato;
  • fare in modo che gli aspetti operativi e pratici, e non solo quelli normativi, non complichino macchinosamente il raggiungimento delle finalità mirate;
  • pensare a una loro definitiva abolizione, laddove non realmente funzionali.

Concludendo, ce lo dice l’agricoltura: al momento, il lavoro atipico è bocciato, la soluzione arriva sempre dal rapporto di lavoro subordinato.

 

1. Cfr. ex multis M. Tiraboschi, Teoria e pratica dei contratti di lavoro, Adapt University Press, quinta edizione, pag.163. Per un approfondimento sulla disciplina delle varie forme di lavoro senza contratto, mi si permetta di rimandare a M. Tuscano, Il Lavoro senza contratto, Adapt University Press.
2. M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli Editore, pag. 214.

3. Art. 1, D.lgs. n. 81/2015.
4. Sulla questione, a titolo esemplificativo, si veda S. Spattini, La copertura dei CCNL tra narrazione e realtà, nella prospettiva del salario minimo legale, Bollettino ADAPT 6 giugno 2022, n. 22: “Le persone […] escluse dalla copertura dei contratti collettivi […] sono tirocinanti, collaboratori autonomi, lavoratori occasionali, lavoratori in nero e altri lavoratori non dipendenti”.
5. Così T. Treu, La questione salariale: legislazione sui minimi e contrattazione collettiva, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT – 386/2019, pag. 135.
6. Art. 17, D.lgs. n. 117/2017.

7. Senza dimenticare l’esistenza di discipline precedenti.
8. M. Lamberti, Il lavoro occasionale accessorio: dalle vendemmie autunnali alla manovra d’estate, in DRI, n. 3, XVIII/2008, pag. 801.
9. Così E. Balletti, in F. Carinci, Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, a cura di, pag. 295.
10. Così M. Roccella, cit., pag. 216.
11. Cfr. per una riflessione sugli occasionali, M. Miscione, Il lavoro oltre la subordinazione, Lavoro Diritti Europa, Numero 1/2022.

12. Art. 1, comma 343, L. n. 197/2022. L’intero intervento normativo è contenuto nei commi da 343 a 354, dell’art. 1 della medesima legge.

 

 

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IL TIROCINANTE può lavorare?

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

 

Il tirocinante può lavorare? La risposta è sì, laddove per lavoro non si intenda quanto strettamente riconducibile all’art. 2094 c.c..

L’art. 2094 c.c., come noto, disciplina infatti la figura del lavoratore subordinato, e quindi la subordinazione, foriera di una gamma di doveri, diritti e obbligazioni in capo alle parti, indubbiamente peculiari.

Ai sensi dell’art. 1, comma 720, L. n. 234/2021, “Il tirocinio è un percorso formativo di alternanza tra studio e lavoro finalizzato all’orienta- mento e alla formazione professionale, anche per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro […]” e lo stesso, ex comma 723, “[…] non costituisce rapporto di lavoro e non può es- sere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente”, a sancire una volta ancora la sostanziale differenza tra lo strumento in analisi, da considerarsi puramente orientativo-formativo, e il reale rapporto di lavoro. E, sebbene quanto detto risulti piuttosto chiaro, preme notare come il dettato normativo menzionato non chiarisca in- vero la modalità di attuazione pratica del tirocinio, se non sancendo una non meglio spiegata alternanza1, identificandone invece in modo molto specifico unicamente la sua natura.

L’aspetto pratico, tuttavia, è indubitabilmente fondamentale per la corretta attuazione del periodo, al di là della (altrettanto fondamentale) qualificazione della sua natura giuridica. Se, com’è evidente, nell’attuazione e gestione del tirocinio ci si allontana da gran parte delle tutele (se non tutte) previste dal nostro ordinamento giuridico per il rapporto di lavoro subordinato, diverso aspetto è invece capire se il tirocinante possa lavorare alla stregua di un lavoratore dipendente, se possa quindi “sporcarsi le mani”, se possa operativamente manovrare gli strumenti, o fornire l’apporto concettuale tipico della figura impiegatizia, oppure se la sua debba essere una mera presenza sul luogo del Soggetto Ospitante, potendosi quindi rifiutare di rendere quella che, nei fatti e solo nei fatti, resta una prestazione di lavoro. La domanda potrebbe apparire banale, dalla risposta scontata, a maggior ragione se si tiene conto delle previsioni di cui alla Legge di Bi- lancio 2022, le quali scandiscono espressamente due momenti differenti all’interno del tirocinio, ossia lo studio e il lavoro, tra loro in alternanza.

D’altra parte, il dubbio sollevato non pare una novità, se si pensa che esistono casi in giurisprudenza che, in tutta evidenza, denotano l’insorgenza dello stesso in capo a taluni attori e ricorrenti2.

E, al fine di consegnare una risposta alla domanda che dà titolo al presente contributo, è proprio la giurisprudenza che potrà essere presa a riferimento definitivo, la quale consegna degli elementi indispensabili per comprendere cosa debba e possa fare il tirocinante nel luogo della sua esperienza formativa, così come si vedrà in conclusione.

Tuttavia, al fine di giustificare la risposta data in apertura, è possibile ricorrere anche ai documenti di prassi amministrativa, certamente espliciti nel confermare le modalità effettive di attuazione del tirocinio. Scendendo nel merito, fatte salve innanzi a tutto le precipue previsioni del singolo progetto formativo, che potrebbero delineare nello specifico la reale modalità di svolgimento dei percorsi, la prassi amministrativa sembra chiarire, a più riprese, la possibilità di adibire al lavoro il tirocinante.

In particolare, esaminando la circolare n. 8/2018 dell’Inl, si ritrovano alcuni evidenti riscontri di tale possibilità, purché non si realizzi un perfetto inserimento nell’attività aziendale (e cioè nel ciclo produttivo). In tema di riqualificazione del rapporto, dapprima la circolare in analisi chiarisce che l’“attività dei tirocinanti – benché finalizzata all’apprendimento on the Job – può presentare aspetti coincidenti con i profili dell’eterodirezione che tipicamente connotano i rapporti di lavoro subordinato”, successivamente la stessa chiarisce che tale attività debba essere “effettivamente funzionale all’apprendimento e non piuttosto all’esercizio di una mera prestazione lavorativa”.

Ciò che risulta chiaro è, in ogni caso, la presenza di un’attività lavorativa, sebbene (richiamandosi a un diverso riferimento di prassi) tale attività non possa essere svolta “come un vero e proprio rapporto di lavoro subordina- to”3, pur avendone delle sembianze in comune in termini di eterodirezione.

In tutta evidenza, l’ago della bilancia sulla legittimità del tirocinio non sarà quindi tanto la resa concreta di un’attività lavorativa di per sé, quanto l’eventuale “pregressa professionalità emergente dagli specifici compiti svolti”4 e il “ruolo assunto nell’azienda”5 dal tirocinante, tenuto conto anche (ma non esclusivamente) degli indici di subordinazione più volte enucleati dalla giurisprudenza6.

In altre parole, colui che effettua un tirocinio, pur lavorando: non potrà essere, nella resa di una determinata mansione lavorativa, titolare di doveri in termini di produttività oltreché titolare di parte7 di quelle responsabilità ascrivibili all’obbligo di diligenza; aspetti che sono normalmente da ricondurre alle obbligazioni che scaturiscono dall’instaurazione di un rapporto di lavoro dipendente e pertanto ti- pici appunto del rapporto sinallagmatico di cui all’art. 2094 cod. civ., cosa che il tirocinio assolutamente non è, pur conservando dei tratti di corrispettività8;

  • non potrà essere un elemento indispensabile dell’ossatura aziendale, posto che, come già chiarito, il tirocinante, ex lege, non può essere utilizzato per sostituire lavoratori dipendenti, tenuto conto in aggiunta che le linee guida del 2017 in materia di tirocini extracurricolari, teoricamente in procinto di essere sostituite ai sensi dell’art. 1, comma 721, L. n. 234/2021, chiariscono l’impossibilità di attivazione di un tirocinio da parte del Soggetto Ospitante laddove necessario “per ricoprire ruoli necessari all’organizzazione dello stesso”9;
  • e non potrà, infine, essere già competente e formato, il che si porrebbe in evidente contra- sto con la natura specifica dello strumento che nasce, expressis verbis, per orientare e formare.

Solo allora, egli, potrà rendere una prestazione di lavoro pur essendo un tirocinante, altri- menti si sarà in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, che, come tale, dovrà essere coerentemente trattato.

 

 

1. Sulla questione, preme sottolineare il passaggio da quanto sancito dalla risalente L. n. 196/1997 a quanto sancito dalla più recente L. n. 234/2021. In particolare, la L. n. 196/1997, all’art. 18, prevedeva il tirocinio “Al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro”, mentre la più recente norma, all’art. 1, comma 720, prevede un tirocinio che sia caratterizzato, esso stesso, dall’ “alternanza tra studio e lavoro”.

2. Cfr. ex multis Cass,. n. 25508/2022 e Cass., n. 18192/2016.

3. Nota Inl n. 1451/2022.
4. Cass., n. 18192/2016.
5. Ibidem.
6. Cfr. Cass., n. 25508/2022, in cui si richiamano gli indici rilevatori di subordinazione e quelli sussidiari.
7. Alcune sfumature dell’obbligo di diligenza sembrano permanere, si pensi alla correttezza e buona fede che devono essere riposte pur nella effettuazione di un tirocinio. D’altra parte, “la diligenza esigibile dal lavoratore come attitudine a rendere una prestazione positivamente inseribile nell’organizzazione produttiva predisposta dal datore di lavoro” non pare invece in linea con le caratteristiche intrinseche del tirocinio e del tirocinante, il quale deve restare una semplice appendice rispetto ad una struttura di per sé già autonoma e funzionante. Per la citazione tra virgolette si veda M. Roccella, Manuale di diritto del
lavoro, Giappichelli Editore, p. 267.
8. Cfr. M. Tiraboschi, che chiarisce come sia presente un diverso corrispettivo anche per il tirocinante che non è raffigurabile nella retribuzione, “il corrispettivo della attività lavorativa svolta dal tirocinante in azienda è cioè rappresentato dalla occasione di formazione e/o di orientamento”, in Diritto delle Relazioni Industriali, numero 1/XI-2001, Giuffrè Editore, p. 64.
9. Cfr. Linee Guida 2017, premesse, punto B)

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CERTIFICAZIONE DELLA PARITÀ DI GENERE come strumento di fidelizzazione dei dipendenti

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

 

UNA PREMESSA

Fidelizzare è un termine che, a ben osservare, può assumere diverse valenze1, soprattutto se riferito ai dipendenti e ai rapporti di lavoro e all’intento di pervenire ad una stabilizzazione dell’organico aziendale.
In ambito lavoristico, storicamente, oltre agli interventi in campo retributivo, per fidelizzare si è ricorso a strumenti dalla natura puramente negoziale, scatenando la fantasia e l’ingegno di professionisti, datori e operatori che sono pervenuti a clausole “vecchia maniera” fortemente rappresentative della poliformità dell’autonomia privata, sempre volte a trattenere il lavoratore.
Tra queste, vi è ad esempio il patto di stabilità, o il patto di prolungamento del periodo di preavviso; senza potersi escludere, in termini di fidelizzazione, il patto di non concorrenza di cui all’art. 2125 c.c., spesso stipulato con un chiaro intento di scoraggiare l’abbandono del posto di lavoro e, in ogni caso, salvaguardarsi difensivamente dalle insidie della concorrenza.
D’altronde il diritto del lavoro, fondato sul contratto, “è anche […] strumento di gestione dell’impresa e di regolamentazione delle modalità di incontro tra capitale e lavoro”2 e non solo fondamentale tutela del lavoratore, pur dovendosi i suddetti strumenti contrattuali scontrarsi con i “vincoli posti dal Legislatore,
[…] limitazioni al pieno esplicarsi dell’iniziativa economica privata delle parti negoziali”3.
Non è corretto, tuttavia, trattare di fidelizzazione senza richiamare strumenti dalla diversa essenza, che autorevole dottrina già in passato definì di “natura promozionale” od offensiva (il contrario di difensiva)4. A tale bacino, in particolare, possono essere incluse alcune particolari tipologie di leve retributive (generalmente premiali) laddove sfocino nel godimento di welfare aziendale5, oppure quegli strumenti che mirino ad aumentare la partecipazione e il coinvolgimento del lavoratore, provando a renderlo orgoglioso della realtà di cui fa (e auspicabilmente si sente) parte6, se non anche quegli strumenti che permettono un work life balance.
Ad una attenta riflessione, risulta pressoché impossibile individuare esaustivamente tutti i possibili strumenti volti a fidelizzare il dipendente; potendosi immaginare un caleidoscopio di strategie ed escamotage orientati in tal senso, legati tanto alle singole dinamiche manageriali, quanto alle soggettive leve motivazionali. Certo è che, senza voler (e poter) affermare quale scelta sia la migliore, appare possibile invero identificare alcuni strumenti “di nuova concezione”, che potrebbero indirettamente incidere nella partecipazione del dipendente all’organizzazione, disincentivandone la fuga.
A questi, senza dubbio, può essere ascritta la “Certificazione della parità di genere” di cui all’art. 46-bis, comma 1, D.lgs. n. 198/2006, inserito dall’art. 4, L. n. 162/2021.

PERCHÉ LA CERTIFICAZIONE DELLA PARITÀ DI GENERE PUÒ ESSERE CONSIDERATA UNO STRUMENTO DI FIDELIZZAZIONE DEI DIPENDENTI

Per ottenere la certificazione della parità di genere, l’organizzazione “di qualsiasi dimensione e forma giuridica, operante nel settore pubblico o privato”7 deve seguire le regole ed indicazioni contenute nel documento di prassi UNI/ PdR 125:2022, posto che “I parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere alle imprese sono quelli di cui alla Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, pubblicata il 16 marzo 2022, contenente «Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici KPI (Key Performance Indicator – indicatori chiave di prestazione) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni» e successive modifiche o integrazioni”8.
In particolare, in presenza dei requisiti sufficienti, “Al rilascio della certificazione della parità di genere alle imprese […] provvedono gli organismi di valutazione della conformità accreditati in questo ambito ai sensi del regolamento (CE) n. 765/2008”9, tenuto conto che, così come sancito dalle “norme collaterali”, taluni comportamenti e inadempienze “impediscono al datore di lavoro il conseguimento delle stesse certificazioni”10.
Orbene, assodate le agevolazioni e i benefici sanciti dalla normativa11, è indubbio che l’azienda certificata possa ottenere dei giovamenti in termini reputazionali12, in ragione del suo essere equa, inclusiva e sensibile a problematiche sociali. Tali benefici, a ben osservare, possono incidere fortemente al cospetto di clienti e fornitori, ma anche nei confronti di una diversa tipologia di stakeholders: i dipendenti.
Teoricamente, infatti, il lavoratore potrebbe maturare quell’ “orgoglio di appartenere all’azienda” 13 virtuosa, tipico della strumentazione promozionale che vive sulla logica partecipativa.
E, non a caso, in dottrina si è chiarito come “le emozioni rappresentano una sorta di tessuto connettivo che lega gli scopi organizzativi alle persone e ai gruppi influenzandone le direzioni di scambio e le prestazioni finali” 14, creando in tutta evidenza fidelizzazione e stabilità.
D’altra parte, anche nell’ipotesi in cui la certificazione della parità di genere non fosse ritenuta,  di per sé stessa, una leva fidelizzante, risulta facile notare come, ai fini del suo conseguimento,  siano da rispettare e garantire alcuni particolari parametri e misure, già ascritti a suo tempo all’alveo degli strumenti di fidelizzazione da autorevole dottrina15.
Nel dettaglio, il documento UNI/PdR 125:2022 richiede che, per mano del c.d. Comitato Guida16, sia redatto un Piano Strategico (condiviso dalla direzione e mantenuto aggiornato nel tempo), il quale viene definito dal suddetto documento di prassi come quel “Documento formale nel quale l’organizzazione definisce gli obiettivi da perseguire, stabilisce risorse, responsabilità, metodi e frequenze di monitoraggio”, e in cui vengono descritti, in particolare, i KPI adottati (Indicatori chiave di prestazione), utilizzati per il monitoraggio degli obiettivi stabiliti dalla politica organizzativa per la parità di genere.

Il Piano Strategico, più approfonditamente, così come descritto dalla UNI/PdR 125:2022, deve prevedere i seguenti temi principali:
– Selezione ed assunzione (recruitment);
– Gestione della carriera;
– Equità salariale;
– Genitorialità, cura;
– Conciliazione dei tempi vita-lavoro (worklife balance);
– Attività di prevenzione di ogni forma di abuso fisico, verbale, digitale (molestia) sui luoghi di lavoro.
Ogni tema prevede al suo interno dei punti essenziali, inquadrabili come obiettivi operativo-gestionali e strumenti attuativi, tra cui quelli indicati in seguito:
– rivolgere le opportunità di carriera ed i programmi per lo sviluppo professionale a tutto lo staff 17;
– creare un ambiente lavorativo che favorisca la diversity e tuteli il benessere psico-fisico dei/delle dipendenti18;
– informare periodicamente i/le dipendenti delle politiche retributive adottate in azienda anche con riferimento a benefit, bonus, programmi di welfare19;
– ove esistente, il programma di welfare deve considerare le esigenze delle persone di ogni genere ed età20;
– includere nell’ambito del programma di welfare aziendale, ove esistente, iniziative specifiche per supportare i/le dipendenti nelle loro attività genitoriali e di caregiver 21;
– offrire servizi specifici quali asili nido aziendale, dopo scuola per i bambini o durante le vacanze scolastiche, voucher per attività sportive dei figli, ecc.22;
– dotarsi di misure per garantire l’equilibrio vita-lavoro (work-life balance) rivolte a tutti/e i/le dipendenti23;
– stabilire/promuovere accordi specifici per consentire il lavoro part-time a chi ne faccia richiesta24;
– offrire flessibilità di orario, stabilendo e comunicando regole e procedure semplici ed accessibili per usufruirne25;
– offrire la possibilità di smart working/telelavoro o di altre forme di lavoro flessibile, e orario elastico26;
– garantire che le riunioni di lavoro siano tenute in orari compatibili con la conciliazione dei tempi di vita familiare e personale27;
– prevedere una specifica formazione a tutti i livelli, con frequenza definita, sulla “tolleranza zero” rispetto ad ogni forma di violenza nei confronti dei/delle dipendenti, incluse le molestie sessuali (sexual harassment) in ogni forma28.

In altre parole, in termini di fidelizzazione, si può mirare alla certificazione della parità di genere come obiettivo ultimo oppure al fine di conseguire i singoli vari tasselli che la compongono e la rendono possibile; questi ultimi, infatti, possono essere considerati come quei tipici “fattori che pongono attenzione alla persona, considerata non solamente con riferimento al proprio ruolo organizzativo, ma in quanto tale con esigenze e caratteristiche che non si fermano all’interno dell’azienda, ma abbracciano globalmente l’individuo” 29 e pertanto elementi fortemente fidelizzanti 30.
E se non si sarà riusciti a fidelizzare, si avrà senz’altro contribuito ad altri (e alti) livelli, posto che “la parità di genere può innescare circoli virtuosi che portano benefici per l’azienda, per la società e per l’economia” 31.

1. Cfr. C. Murena che a tal proposito scrive di “concetti […] non agevolmente inquadrabili”, in Welfare aziendale e fidelizzazione dei lavoratori, Lavoro Diritti Europa, n. 3/2020, p. 4.
2. Così M. Biagi, A. Russo, Problemi e prospettive nelle politiche di “fidelizzazione” del personale, Collana ADAPT Modena – n. 1/2001.
3. Ibidem.
4. Cfr M. Biagi, A. Russo, op. cit., i quali preziosamente individuano tre macrocategorie di strumenti di fidelizzazione del dipendente: strumenti economico-normativi volti a una regolamentazione prettamente contrattuale o retributiva tra le parti, strumenti difensivi volti alla tutela della concorrenza e strumenti promozionali, i quali garantendo trattamenti di welfare, work-life balance e tematiche connesse, indirettamente incidono nella partecipazione del dipendente all’organizzazione.
5. Cfr. Welfare for people, Quinto rapporto su Il welfare occupazionale e aziendale in Italia, a cura di M. Tiraboschi, Adapt University Press, in cui è chiarito, più volte, come il welfare aziendale possa essere considerato quale strumento di fidelizzazione.
6. Tra questi, ulteriormente, le cd. stockoption, la formazione professionale e alcune modalità di team-working.

7. UNI/PdR 125:2022.
8. D.P.C.M. 29 aprile 2022, art. 1.
9. Ibidem art. 2.
10. Cfr. a titolo esemplificativo l’art. 2, D.lgs. n 105/2022 in tema di congedi, l’art. 46, D.lgs. n. 198/2006 relativo alla presentazione del rapporto sulla situazione del personale delle imprese con più di 50 dipendenti e l’art. 18, comma 3-ter, L. n. 81/2017 in materia di smart working.
11. Cfr. art. 5, D.lgs. n. 162/2021. In particolare, alle aziende private che siano in possesso della certificazione della parità di genere è concesso:
a) un esonero dal versamento di una percentuale dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, b) l’ottenimento di un punteggio premiale per la valutazione di proposte progettuali, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti, c) una diminuzione del 30% della garanzia fideiussoria prevista per la partecipazione alle procedure di gara d’appalto pubbliche, d) la possibilità di ottenere un punteggio premiale nelle medesime gare.

12. Cfr. ex multis P. Cerulli, La certificazione della parità di genere: volano per i diritti e per il business.
Come ottenerla e conservarla, in Lavoro Diritti Europa, n. 1/2023.
13. Così M. Biagi, A. Russo, op. cit.
14. Così D. Pavoncello, Gestire il cambiamento in una situazione di crisi, «Osservatorio Isfol», II (2012), n. 3, p. 57.
15. Si fa nuovamente riferimento a M. Biagi, A. Russo, op. cit. e A. Russo, Problemi e prospettive nelle politiche di fidelizzazione del personale, Collana ADAPT – FONDAZIONE “Marco Biagi” n. 3, Giuffrè Editore.
16. Il Comitato Guida è, così come definito dal documento di prassi richiamato, un “Comitato istituito dall’Alta Direzione per l’efficace adozione e la continua ed efficace applicazione della Politica per la Parità di Genere”, la quale è definita come un “Documento formale nel quale l’organizzazione definisce il quadro generale all’interno del quale devono essere individuate le strategie e gli obiettivi riguardanti l’uguaglianza di genere”.

17. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.2 lett. c).
18. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.2 lett. e).
19. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.3 lett. c).
20. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.3 lett. d).
21. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.4 lett. e).
22. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.4 lett. f).
23. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.5 lett. a).
24. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.5 lett. b).
25. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.5 lett. c).
26. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.5 lett. e).
27. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.5 lett. f).
28. UNI/PdR 125:2022 punto 6.3.2.6 lett.
c). Si specifica che la formazione da sempre è considerata una leva fidelizzante, cfr. C.Murena, op. cit., p. 13.
29. Così M. Biagi, A. Russo, op. cit..

30. Peraltro, ad una attenta riflessione, gli strumenti di fidelizzazione “vecchia maniera” potrebbero risultare in antitesi rispetto alla fidelizzazione tramite la Certificazione della parità di genere. A titolo esemplificativo, uno degli elementi del Piano Strategico è “dotarsi di mansionario della singola impresa che completi e dettagli quello generico dei CCNL, per la segnalazione da parte dei/delle dipendenti di eventuali disparità retributive”; a ben vedere, gli accordi negoziali che comportano un incremento della retribuzione, potrebbero generare le predette disparità retributive.
31. Così UNI/PdR 125:2022, p. 9. Per alcune riflessioni sulla questione, mi si permetta di rimandare a M. Tuscano, Alcuni “semplici” motivi per stimolare la certificazione della Parità di genere, in Sintesi n. 03/2023.

 

 

 

 

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Alcuni “semplici” motivi per stimolare la certificazione della PARITÀ DI GENERE

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

 

Ne è passato di tempo dalle faticose lotte italiane per il ruolo della donna1, dalle battaglie per il suffragio2, da quando l’affacciarsi della donna alla vita sociale era visto con “più di un sospetto malevolo per questa sovra- esposizione femminile in territorio maschile e per una altrimenti inaudita promiscuità”3, tanto che pensare di avere ancora oggi l’esigenza e il dovere di parlare di parità di genere sembra una follia.

Eppure, è così. Non sempre con il tempo si sistema tutto e non sempre il tempo cura le ferite. Riconoscere, ancora oggi, la persistente necessità di mettere in atto quelle azioni positive volte ad assicurare l’eguaglianza sostanziale (in questo caso tra donna e uomo), così come sancito dall’art. 3, comma 2 della Costituzione, è un qualcosa che arreca tristezza. Soprattutto se si pensa che già 50 anni fa si ravvisava l’insopportabile squilibrio di genere, caratterizzato ad esempio dalla “supremazia marita- le”4, che portava alla Riforma del diritto di famiglia di cui alla L. n. 151/1975.

Ma è così, ce lo dicono e confermano studi5, indici6 e analisi7 che ci schiaffeggiano con la dura realtà. Una realtà che denota in Italia un gender gap presente in linea generale, oltreché riferibile più specificatamente al mondo del lavoro, nonostante già nel 1975, con la surrichiamata Riforma, si riconosceva come “Il la- voro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”8.

D’altra parte, “Che il mercato del lavoro, lascia- to alle sue spontanee dinamiche e fluttuazioni, possa incoraggiare differenze di trattamento e disuguaglianze, è in sé e per sé inconfutabile ed appare un dato per così dire normale”9, non esistendo peraltro un reale principio generale di parità di trattamento10; tuttavia tale dato manifesta l’esigenza improrogabile di un non facile cambio di cultura, così da abbattere “gran parte degli stereotipi e degli orientamenti che nei luoghi di lavoro spesso bloccano le donne in posizioni subalterne e di servizio”11.

Invero, in questo momento storico, obiettivi impegni e fondi sembrano convergere tutti fortemente al “sostegno del principio della parità di genere in tutte le sue forme e attività”12 (oltreché verso ulteriori temi certamente sensibili, quali l’ambiente e la sostenibilità). In particolare, tra i tanti:
– Agenda 2030, all’obiettivo n. 5, mira a “Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze”.
– Il Pnrr considera la parità di genere tra le tre priorità principali e trasversali in termini di inclusione sociale.
Ebbene, tenuto conto di tutto quanto detto, oggi come Consulenti del Lavoro abbiamo una possibilità, da tramutare in missione: stimolare la parità di genere consigliando la relativa certificazione di cui all’art. 46-bis, comma 1, D.lgs. n. 198/2006, posto che “La misura ha lo scopo di assicurare una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e ridurre il gender pay gap attraverso la creazione di un sistema nazionale di certificazione della parità di genere, che dovrà migliorare le condizioni di lavoro
delle donne anche in termini qualitativi, di remunerazione e di ruolo e promuovere la trasparenza sui processi lavorativi nelle imprese”13.
Suggerire la certificazione, quindi, come riconoscimento di un comportamento meritevole. Come la giusta medaglia consegnata “al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere”14. Un attestato che non è, come evidente, solo di facciata, ma che è frutto di un apposito Tavolo di lavoro sulla certificazione di genere, coordinato dal Dipartimento per le Pari Opportunità in collaborazione con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Ministero dello Sviluppo Economico15, e pertanto fortemente valevole.

E non si tratta di incentivare la certificazione solo perché foriera di tante agevolazioni e trattamenti di favore per il datore di lavoro ottemperante16. Come, d’altra parte, non si intende stimolare il comportamento per le correlate nuove opportunità professionali per il Consulente del Lavoro, certamente presenti e indubbiamente stimolanti17.
Ma è, soprattutto, per motivi dai tratti ben più nobili ed etici: il rispetto della Costituzione, il rispetto della Storia e il rispetto di chi ha lottato e ha sofferto per piccoli e grandi traguardi, talvolta dati per scontati.

1. Tra i tanti aspetti, si veda quanto scritto da F. Taricone: “Il risveglio e l’educazione politica di sei milioni di lavoratrici rappresenteranno la forza nuova per la vittoria su tutte le ingiustizie”, in La Difesa delle Lavoratrici: socialiste a confronto, Laboratoire italien, OpenEdition Journals.
2. Cfr. sito istituzionale Struttura di missione per gli anniversari di interesse nazionale e per la promozione degli eventi sportivi di rilevanza nazionale e internazionale, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Le donne e il voto del 1946: “Il diritto del voto alle donne è una grande conquista seppur recente […] All’inizio del secolo scorso la donna era ritenuta una sorta di accessorio dell’uomo”.
3. Così M. Isnenghi, G. Rochat, La Grande Guerra,
1914-1918, Sansoni, p. 334.
4. Così L. Menghini, Nuovi valori costituzionali e volontariato, Giuffrè Editore, Milano, 1989, pp. 30 e 31.
5. Cfr. A. Zilli, Un altro 8 marzo: i conti delle serve, in Equal Il diritto antidiscriminatorio, 8 marzo 2023.
6. Cfr. Global Gender Gap Report 2022, del World Economic Forum. In particolare, il “The Global Gender Gap Index 2022 rankings”, ivi contenuto, pone l’Italia al 63° posto della classifica mondiale sul Gender Gap, mentre il “The Global Gender Gap Index rankings by region, 2022” la pone al 25° in Europa.
7. Cfr. V. Di Santo, Le proposte dei partiti per ridurre il gender gap. Un’analisi, in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
8. Art. 230-bis, comma 2, cod. civ.
9. Così G. Fontana, Il problema dell’uguaglianza e il diritto del lavoro flessibile, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 398/2019, p. 168.
10. Cfr. A. Vallebona, A. D’Andrea, Discriminazioni e parità di trattamento nel rapporto di lavoro, in Il
diritto Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, diretto da A. Patti, Vol. 5, p. 473; in giurisprudenza cfr. Cass. SS.UU. n. 6030/1993.
11. Così I. Armaroli, S. Negri, La certificazione della parità di genere: siamo solo agli inizi, in Bollettino
ADAPT 19 settembre 2022, n. 31.

12. Cfr. Camera dei Deputati, Documentazione parlamentare, Aree Tematiche, Studi – Istituzioni Costituzione, diritti e libertà, Parità di genere.
13. Cfr. Sito istituzionale Italia Domani, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Investimenti, Sistema di certificazione della parità di genere.
14. Art. 46-bis, D.lgs. n. 198/2006.
15. Cfr. Pnrr, missione 5, componente 1, investimento 1.3.
16. Trattasi dei cosiddetti “Meccanismi di incentivazione” legati al possesso della Certificazione della parità di genere, tra cui: l’esonero dal versamento di una percentuale dei complessivi contributi previdenziali; il riconoscimento di un punteggio premiale per la valutazione di proposte progettuali, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, ai fini della concessione di aiuti di Stato
a cofinanziamento degli investimenti sostenuti; la diminuzione della garanzia prevista per la partecipazione alle procedure di gara di appalto da parte di aziende certificate e la possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici di istituire sistemi premiali nei bandi gara.
17. La certificazione della parità di genere si consegue secondo le indicazioni contenute nella Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, la quale individua una serie di indicatori prestazionali, generalmente ottenibili e misurabili tramite l’apporto e le competenze del Consulente del Lavoro.

 

 

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WELFARE PER I TIROCINANTI: una contraddizione in termini?

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

 

Un orientamento di qualche anno fa dell’Agenzia delle Entrate considera possibile, senza dubbio alcuno, integrare in un sistema di welfare gli stagisti.

Nel dettaglio, si fa riferimento alla risposta a interpello n. 10 del 2018, che così si espresse: “nel caso in esame lo stagista, essendo ricompreso nella categoria di dipendenti […] potrà godere del regime esentativo previsto dalla lettera f) del comma 2 dell’articolo 51 del TUIR relativamente al servizio […] previsto nel Piano Welfare1.

Orbene, pur nella piena consapevolezza che un intervento di prassi non rappresenta una fonte normativa, il chiarimento fornito dall’Agenzia delle Entrate appare piuttosto lapidario e dirimente.

A questo punto della riflessione, preme soffermarsi sulla natura delle varie fattispecie chiamate in causa.

Com’è noto, il tirocinio è, ex lege, “un percorso formativo di alternanza tra studio e lavoro, finalizzato all’orientamento e alla formazione professionale, anche per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”2, il quale “non costituisce rapporto di lavoro e non può essere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente”3. Per quanto riguarda il welfare, invece, non esistendo un’univoca definizione giuridica, la quale pare rinvenibile a “macchia di leopardo”4 nel nostro ordinamento giuridico, urge indagare sulla reale natura dello strumento, il quale nasce, storicamente,

  1. per mirare ad “un miglioramento nella produttività dei dipendenti, maggiormente motivati”, così come affermato dal Ministero del Lavoro5,
  2. inizialmente, tramite forme di previdenza integrativa6, chiaramente non previste per il “lavoro” del tirocinante, ovvero di sanità integrativa7, spesso imbastita sul perno fondamentale fornito dalla contrattazione collettiva (cui lo stagista astrattamente non è soggetto);
  3. per poi sfociare nelle forme attuali di welfare aziendale unilaterale o bilaterale, che niente o poco attengono alle forme non lavorative stricto sensu 8.

E, non a caso, autorevole dottrina ne ha sottolineato l’utilità, in particolar modo al fine del “miglioramento del clima aziendale, fidelizzazione e senso di appartenenza dei dipendenti, attrazione delle alte professionalità, risultati positivi sia per l’azienda (riduzione dell’assenteismo, livello di engagement del dipendente, qualità della produzione), sia per i dipendenti (risparmi dei tempi e delle spese personali e familiari, migliore rapporto fra quanto erogato dall’azienda e quanto percepito)”9.

Di certo, si è ben coscienti che il Tuir, ai sensi dell’art. 50, co. 1, lett. c), assimili il reddito prodotto dai tirocinanti a quello dei lavoratori dipendenti, eppure il tema non pare unicamente e strettamente fiscale10. Più approfonditamente, se applicare e garantire forme di welfare pare già di per sé una scelta matura e consapevole, che richiede coscienza e conoscenza fiscale, lavoristica, organizzativa e di psicologia, invero prevederle per i tirocinanti potrebbe risultare, ben più semplicemente, una contraddizione in termini. Come visto, il welfare nasce e cresce con l’intento di fidelizzare il dipendente, di motivarlo o attrarlo. Come potente arma, e premurosa coccola, espressamente costruita e architettata al fine di aumentare “tanto la soddisfazione dei lavoratori quanto la loro produttività, contribuendo in questo modo alla diffusione di un clima aziendale sereno, nonché alimentando la capacità di attrarre i migliori talenti” (parola del Ministero del Lavoro!11).

Lo stagista, tuttavia, non è di certo un lavoratore dipendente. E anzi, la sua scelta formalizzata di instaurare un tirocinio, le sue conseguenti attenuate responsabilità rispetto ad un rapporto di lavoro, e gli obiettivi stessi sottesi al percorso, non giustificano e non richiedono né una fidelizzazione (lo strumento nasce con fini orientativi) né, tantomeno, un aumento di produttività, laddove la produttività non dovrebbe essere richiesta.

D’altra parte, a quanto detto, si potrebbe ribattere che tutto ciò che è dato in più è, come tale, da apprezzarsi.

Invero, anche battendo strade parallele, la materia lavoristica non pare sempre ammettere trattamenti migliorativi rispetto a quelli base, nel rispetto dell’essenza delle fattispecie: si pensi all’ipotesi che all’apprendista sia corrisposta una retribuzione maggiore rispetto a quella dei lavoratori qualificati, il che risulta, com’è noto, di fatto non possibile12, poiché in evidente contrasto con la posizione di chi lavora certo, ma anche e fortemente per apprendere.
Non si può considerare, quindi, come assoluto principio in ambito lavoristico, la possibilità di prevedere trattamenti in melius, laddove gli stessi risultino in contrasto con la natura dello strumento, o con la singola fattispecie. E quanto detto, a parere di chi scrive, risulta da applicarsi anche all’alveo dei tirocini: una evidente impossibilità che nasce al cospetto dell’essenza orientativa del periodo.
Se fidelizzazione o engagement è richiesto, evidentemente, si è già in presenza di un lavoratore (e non tirocinante) che, come tale, esige un contratto di lavoro, ossia la completa e corretta ripartizione dei diritti e doveri in capo alle parti: non si tratta quindi di negare un qualche cosa, ma di riconoscere, presumibilmente, l’esistenza di presupposti differenti, al fine di consegnare l’intero novero dei corretti trattamenti (tra cui anche il welfare).
Come spesso accade, ad una attenta (ma anche personale) riflessione, prassi, norme e obiettivi potrebbero non risultare pienamente coerenti.
Ed è qui che subentra il ruolo di uno degli attori principali: il Consulente del Lavoro, Professionista del settore, il quale indubbiamente ha il dovere di presentare al cliente l’orientamento degli enti, ma che, certo, ha anche il potere, dai tratti etici e nobili, di illustrare la reale finalità e la logica degli strumenti.
D’altronde, in conclusione, non si dimentichi che “Il Consulente del Lavoro, in ogni sede, tutela la legalità e la dignità del lavoro, tenuto conto del rilievo costituzionale e sociale dei contenuti a fondamento della professione”13.

1. L’art. 51, co. 2, lett. f), Tuir, recita: “l’utilizzazione delle opere e dei servizi riconosciuti dal datore di lavoro volontariamente o in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale, offerti alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti e ai familiari indicati nell’articolo 12 per le finalità di cui al comma 1 dell’articolo 100”, laddove l’art. 100, comma 1, recita: “Le spese relative ad opere o servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o categorie di dipendenti volontariamente sostenute per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto, sono deducibili per un ammontare complessivo non superiore al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi”.
2. Art. 1, co. 720, L. n. 234/2021.
3. Art. 1, co. 723, L. n. 234/2021.
4. Così AA.VV., Il manuale del welfare per il consulente del lavoro, Teleconsul editore, 2019.
5. Così il sito istituzionale Cliclavoro, al link
https://www.cliclavoro.gov.it/pages/it/my_homepage/news/trend_interviste/trend_detail/?contentId=BLG13779 .
6. Cfr. T. Treu, Introduzione Welfare aziendale, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 297/2016, p. 11.
7. Ibidem.
8. Sempre T. Treu, op. cit., pone in atto alcune riflessioni in tema di welfare e lavoro atipico, denunciando il rischio di precarizzazione nel caso non siano previste forme di welfare per i lavoratori appartenenti a tale bacino. Tuttavia, l’Autore nell’opera non include espressamente all’alveo dei lavoratori atipici i tirocinanti.
9. Così T. Treu, op. cit., p. 21 e 22.

10. Ad evidenza delle differenze tra le norme di rango fiscale e quelle di tipo lavoristico, si valutino le Faq della Regione Lombardia in materia di tirocini: “nei casi di soggetti beneficiari di indennità NASpI titolari di borse lavoro, stage e tirocini professionali, premi o sussidi per fini di studio o addestramento professionale – pur a fronte dell’assimilazione, ai fini fiscali, delle somme percepite ai redditi da lavoro dipendente – non si ravvisa lo svolgimento di un’attività lavorativa prestata dal soggetto con correlativa remunerazione. In tali ipotesi, pertanto, le remunerazioni derivanti da borse lavoro, stage e
tirocini professionali, nonché i premi o sussidi per fini di studio o di addestramento professionale sono interamente cumulabili con l’indennità NASpI e il beneficiario della prestazione non è tenuto ad effettuare all’INPS comunicazioni relative all’attività e alle relative remunerazioni”.
11. Nuovamente, il sito Cliclavoro.
12. Sebbene, si chiarisce, la norma parli di semplice possibilità di retribuire in misura inferiore l’apprendista (cfr. art. 25, co. 5, lett. b), D.lgs. n. 81/2015), in linea con alcuni importanti precedenti orientamenti di prassi (cfr. circolare Min. Lav. n. 30/2015), è dato alla contrattazione collettiva il compito di delineare il corretto trattamento retributivo per il rapporto a causa mista. La stessa, in via generale, indica strettamente la retribuzione da corrispondere, sempre inferiore a quella del lavoratore qualificato (Cfr. Ccnl Studi Professionali Cipa, Ccnl Metalmeccanica industria, Ccnl Terziario distribuzione e servizi Confcommercio).
13. Art. 1, co. 1, Codice deontologico dei Consulenti del lavoro.

 

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TRACCE DI “AFFECTIONIS VEL BENEVOLENTIAE CAUSA” IN UN MONDO DI ONEROSITÀ Quando il lavoro non è reso per un corrispettivo economico-monetario

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

Com’è noto, nel nostro ordinamento giuridico vige una presunzione di onerosità della prestazione  lavorativa, talvolta accreditata come vero e proprio principio1 , che trova le sue stabili fondamenta sia nei dettami di legge che nelle varie pronunce giurisprudenziali.
Con riferimento alle fonti di legge, si vedano, ex multis, le seguenti previsioni normative:
– Art. 2094 c.c.: “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”;
– Art. 2222 c.c.: “Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”.
In tutta evidenza, nella generalità dei casi, il Legislatore sottende alla resa della prestazione di lavoro (nei casi richiamati a titolo subordinato o autonomo) un corrispettivo monetario, da definirsi retribuzione o compenso a seconda della modalità di resa della prestazione lavorativa.
Con riferimento alle fonti giurisprudenziali, invece, si prenda a riferimento la sentenza n. 7703,
del 28 marzo 2018, della Corte di Cassazione, nella quale fu chiarito che “[…] ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro si deve presumere come effettuata a titolo oneroso […]”, a confermare quale sia la normalità in presenza della resa di una attività lavorativa, ossia l’esistenza di una controprestazione.
Tuttavia, al di là della presunzione (o principio) di onerosità vista, il nostro ordinamento giuridico ammette la resa di una prestazione di lavoro a titolo gratuito, sebbene in circostanze specifiche, ovvero in eccezione alla predetta normalità.
Tra queste possono essere individuate le ipotesi riconducibili al concetto di lavoro reso “affectionis vel benevolentiae causa”.
Per una definizione di prestazione lavorativa resa “affectionis vel benevolentiae causa”, si leggano le parole di L. Menghini che così la definisce: “collaborazione dettata da sentimenti affettivi, rivolta  all’attuazione del principio morale […] esercitata non per averne in contraccambio una corrispettiva retribuzione materiale, bastando il conseguimento dei benefici spirituali […]” 2

Ma si valuti, in aggiunta, anche la voce della  giurisprudenza, che così si esprime: è un “criterio della causa del rapporto”3 , “caratterizzato dalla gratuità della prestazione; a tale fine non rileva il grado maggiore o minore di subordinazione, cooperazione o inserimento del prestatore di lavoro, ma la sussistenza o meno di una finalità ideale alternativa rispetto a quella lucrativa, che deve essere rigorosamente provata”4 ; in altre parole, si è in presenza di una “prestazione di lavoro […], non […] eseguita con spirito di subordinazione né in vista di adeguata retribuzione, ma affectionis vel  benevolentiae causa o in omaggio a principi di ordine morale o religioso o in vista di vantaggi che si traggano o si speri di trarre dall’esercizio dell’attività stessa”5.
A questo punto della disamina, si rende utile individuare i contesti in cui possa essere identificata la  prestazione lavorativa resa “affectionis vel benevolentiae causa”.
Indubbiamente, l’apporto di lavoro a tale titolo può essere individuato nelle prestazioni rese dai familiari. A tal proposito, si veda l’esaustiva Circolare M.L.P.S. n. 10478/2013, che così si esprime: “Nella maggior parte dei casi, la collaborazione prestata all’interno di un contesto familiare viene resa in virtù di una obbligazione “morale”, basata sulla c.d. affectio vel benevolentiae causa, ovvero sul legame solidaristico e affettivo proprio del contesto familiare, che si articola nel vincolo coniugale, di parentela e di affinità e che non prevede la corresponsione di alcun compenso”; tale documento di prassi, vi è da chiarire, risulta peraltro fortemente supportato da numerosissimi riferimenti  risalenti e non) di natura giurisprudenziale6.
D’altra parte, come del resto risulta evidente, le prestazioni lavorative caratterizzate da una causa riconducibile alla mera benevolenza possono essere identificate nell’ambito del volontariato, che si caratterizza proprio per lo spirito dei cittadini “[…] che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona […]”7 con spontaneità e autonomia “per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”8, laddove “Il volontario è una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà”9 . Tali prestazioni, pertanto, certamente sono da catalogarsi come di lavoro, benché rese “affectionis vel benevolentiae causa”10, secondo “Le motivazioni  profonde di ciascuno (psicologiche, affettive, ecc.)”11, nella piena consapevolezza “di effettuare la propria attività senza voler assolutamente ottenere in cambio un corrispettivo monetario o comunque rapportato al lavoro prestato”12. Ulteriormente, anche nell’ambito sportivo è stato ritenuto configurabile un rapporto reso “affectionis vel benevolentiae causa”; sulla questione, così si è espressa la dottrina : “I motivi che spingono un soggetto a prestare la propria attività lavorativa senza ricevere in cambio alcun compenso, possono essere molteplici, comunque riconducibili al brocardo  “affectionis vel benevolentiae causa” vale a dire la realizzazione di una determinata causa di natura non economica ossia a carattere sociale, culturale, assistenziale o  sportiva ritenuta comunque meritevole secondo l’ordinamento giuridico”13.
E, sul punto, vale la pena evidenziare quanto sancito dalla recente riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo, ai sensi del D.lgs. n.  36/2021, che all’art. 29, co. 1, recita: “Le società e le associazioni sportive, le Federazioni Sportive Nazionali, le Discipline Sportive Associate e gli Enti di Promozione Sportiva, anche paralimpici, il CONI, il CIP e la società Sport e salute S.p.a., possono avvalersi nello svolgimento delle proprie attività istituzionali di volontari che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente con finalità amatoriali. Le prestazioni dei volontari sono comprensive dello svolgimento diretto dell’attività sportiva, nonché della formazione, della didattica e della preparazione degli atleti”.
In conclusione, pur apparendo generalmente difficile legare il concetto di lavoro a quello di gratuità14, appare ormai chiaro come sia invece possibile lavorare lontani dall’idea di onerosità, ma certo solo per determinati e specifici ambiti, ben delimitati e riconosciuti da normativa, giurisprudenza, dottrina e prassi, tra cui, appunto, l’ambito del lavoro reso “affectionis vel benevolentiae causa” nelle sue diverse declinazioni.
E quanto sopra, del resto, risulta scontato, se si considera la “fonte dei principi generali del diritto”15, ossia la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, “a common standard of achievement for all  peoples and all nations” 16, la quale all’art. 23 sancisce che “Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione”, che “Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro” e che “Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale”.

 

1. Cfr. ex multis G. Quadri, Lavoro familiare e presunzione di gratuità, volume 5, n. 2 del 2013, temilavoro.it, p. 33 e T. Bussino, Vigilanza ispettiva nel lavoro a titolo gratuito e a titolo oneroso, Working Paper Adapt, 12 ottobre 2009, n. 95, p. 2.
2. L. Menghini, Nuovi valori costituzionali e volontariato, Giuffrè Editore, Milano, 1989, p. 2.

3. Così L. Gori, La disciplina del volontariato individuale, ovvero dell’applicazione diretta dell’art. 118, ultimo comma, cost., Rivista Aic, n. 1/2018, p. 18, richiamandosi a Cass. 6 aprile 1999, n. 3304.
4. Cass., 6 aprile 1999, n. 3304.
5. Cass., 7 novembre 2003, n. 16774.
6. Ex plurimis, si vedano Cass., 15 marzo 2006, n. 5632, Cass., 13 giugno 1987, n. 5221 e Cass., 21 agosto 1986, n. 5128.
7. Art. 1, comma 1, D.lgs. n. 117/2017.
8. Art. 2, D.lgs. n. 117/2017.
9. Art. 17, D.lgs. n. 117/2017.
10. Cfr. A. Lepore, Lavoro gratuito e subordinazione, Riv. giur. lav., 2006, II, p. 320.
11. Così L. Zoppoli, Volontariato e diritti dei lavoratori dopo il Jobs Act, WP CSDLE “Massimo D’Antona”, 2016, p. 11.
12. Ibidem.

13. Così G. Martinelli, Il rapporto di lavoro sportivo: aspetti giuridici, 2009, documentazione Coni Marche. Per l’ambito giurisprudenziale, si veda Cass. 20 febbraio 1990, n. 1236.
14. A tal proposito, si valutino le eloquenti parole di V. Bavaro: “la formula “lavoro gratuito”, per il diritto, è un ossimoro” in Questioni in diritto su lavoro digitale, tempo e  l libertà, in RGL, 2018., p. 37.
15. Così E. Bergamini, La Dichiarazione nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, rivista.eurojus.it, Fascicolo n. 4 – 2019, p. 60.

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DEFINIRE LO STRAINING (senza aprire il dizionario inglese-italiano)

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

È normale, di tanto in tanto, domandarsi  se, ai nostri tempi, sia sempre necessario l’utilizzo di termini anglofoni. Sostenitore o meno della questione, il giuslavorista spesso è chiamato a dare il corretto significato a parole esotiche che profondamente incidono nella materia del lavoro.
Tra queste, senz’altro, vi è lo “straining”, che impatta e certo impatterà, sempre più fortemente,
nella gestione e amministrazione dei lavoratori. Dare il corretto significato al termine “straining”
è tuttavia opera certamente complessa e meticolosa, da non relegare a processi meramente
traduttivi.
Il termine, infatti, trova la sua reale definizione giuridica1 soprattutto prater legem: tramite questioni e orientamenti prettamente giurisprudenziali, che, susseguendosi in un crescente e inarrestabile perfezionamento, ne disegnano i (prima sfumati, poi sempre più marcati) confini.
Tali orientamenti dapprima ne consegnano il significato generale: lo straining “si definisce come una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (quindi non rientranti nei parametri del mobbing) ma tale da provocarle una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa” e “può essere provocato appositamente ai danni della vittima con condotte caratterizzate da intenzionalità o discriminazione […] e può anche derivare dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro disagevole, per incuria e disinteresse nei confronti del benessere lavorativo”2; per poi intervenire, con maggior precisione, per definirne minuziosamente la portata.
In particolare, ad oggi e fino al prossimo tassello, tra i molti aspetti, è possibile chiarire che, affinché si configuri lo straining:

  • “è sufficiente […] anche un’unica azione ostile purché essa provochi conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima percepisca di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori”3
  • è necessario siano rispettati dei parametri di individuazione4, tra cui “ambiente lavorativo; frequenza e durata dell’azione ostile” e che “le azioni subite appartengono ad una delle categorie tipizzate dalla scienza (che sono: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni, attacchi contro la reputazione della persona, violenza o minacce di violenza)” 5;
  • non è necessaria la presenza di “una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli”  6 da parte del datore di lavoro, che laddove perpetrati comporterebbero la confifigurabilità del mobbing, considerato appunto che, per parte degli orientamenti giurisprudenziali 7, “lo straining altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie” 8;
  • non rileva il rapporto conflittuale tra le parti, laddove “non riferibile in via esclusiva a comportamenti tenuti dal solo datore di lavoro” 9 ossia da suoi “comportamenti stressogeni scientemente attuati” 10;
  • non rilevano i pregiudizi che “derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa […] o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili” 11;
  • è necessario che “il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative stressogene”, non avendo rilevanza alcuna, invece, la “situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa […] determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l’intera azienda” 12;
  • non è sufficiente “l’esistenza di un disagio lavorativo”, ma è necessaria l’“esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati” utilizzati da parte del datore di lavoro, anche laddove i contrasti comportino lo “sfociare in una malattia del lavoratore”13. 

Chiarito che incombe sul “lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno” 14.

La giurisprudenza, come visto, nella sua ondivaga immediatezza, tramite i suoi orientamenti imperterrita prosegue nell’attribuire significato allo straining.

Piacciano o non piacciano gli anglicismi, il datore di lavoro oggi è avvisato: tra i suoi must (o, se preferito, doveri) vi è, ufficialmente, “l’obbligo datoriale di assicurare, anche ai sensi dell’art. 2087 c.c., un ambiente idoneo allo svolgimento sicuro della prestazione, che dunque potrebbe non escludere l’inadempimento se il lavoro si manifesti in sé nocivo per la connotazione indebitamente stressogena” 15 . E, com’è noto, il suddetto inadempimento è foriero di risarcimento dei danni, tanto di tipo patrimoniale quanto di tipo non patrimoniale 16.

 

  1. Sebbene, come sancito dalla Corte di Cassazione, con sentenza 19 febbraio 2016, n. 3291, “le nozioni di mobbing e straining sono nozioni di tipo medico-legale, che non hanno autonoma rilevanza ai fini giuridici e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro”.
  2. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291. A titolo informativo, una delle prime tracce di straining a livello giurisprudenziale è contenuta in una sentenza assai più risalente: la n. 286 del 21 aprile 2005 del Tribunale di Bergamo.
  3. Nuovamente, Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291.
  4. I parametri sono stati inizialmente teorizzati dal Professor Harald Ege, Psicologo specializzato in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, e sono i seguenti: l’ambiente lavorativo, ovvero che il conflitto si svolga sul posto di lavoro; la frequenza, ovvero che le conseguenze dell’azione ostile debbano essere costanti; la durata, ovvero che il conflitto sia in corso da almeno sei mesi; il tipo di azioni, ovvero che le azioni subite appartengano ad almeno una dellecinque categorie del “LIPT Ege”; il dislivello tra gli antagonisti, ovvero che la vittima sia in una posizione di costante inferiorità; l’andamento secondo fasi successive, ovvero che la vicenda abbia raggiunto almeno la II fase (“Conseguenza percepita come permanente”) del Modello Ege di Straining a quattro fasi; l’intento persecutorio, ovvero nella vicenda devono essere riscontrabili uno scopo politico e un obiettivo discriminatorio. Cfr. Harald Ege, Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro.
  5. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291.
  6. Cass. 11 novembre 2022, n. 33428.
  7. Si fa riferimento alla sentenza n. 7844 della Corte di Cassazione, che ammette lo straining “anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio”, ovvero in presenza di una mera responsabilità colposa da parte del datore di lavoro.
  8. Cass.,10 luglio 2018, n. 18164.
  9. Cass., 5 dicembre 2018, n. 31485.
  10. Cass., 11 novembre 2022, n. 33428.
  11. Cass., 23 maggio 2022, n. 16580.
  12. Cass., 28 ottobre 2022, n. 32020.
  13. Cass. 06 ottobre 2022, n. 2905
  14. Cass. 04 ottobre 2019, n. 24883.
  15. Cass., 06 ottobre 2022, n. 29059.
  16. Cass. 29 marzo 2018, n. 7844.

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GIOVANI, YOLO ECONOMY e lavoro senza contratto

Marco Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

BREVI CENNI SULLA YOLO ECONOMY

Per definire la Yolo Economy possono essere senz’altro utilizzate le parole del Ministero del Lavoro che, nel proprio sito istituzionale Cliclavoro1, così si esprime: “Letteralmente è l’acronimo in inglese di You Only Live Once, Yolo appunto, che in italiano sarebbe il noto motto popolare “Si vive una volta sola”. Al di là della semplice traduzione, la Yolo Economy è una vera e propria forma mentis, una scelta volontaria di cambiamento, il desiderio di rischiare per ampliare i propri orizzonti e costruire un futuro migliore, alla portata delle proprie necessità e desideri”. Tale concezione di vita, talvolta chiamata “Yolo mentality” 2, riguarda, tendenzialmente, il giovane, e per lo stesso comporta, ovviamente, delle immediate conseguenze legate anche all’aspetto lavorativo e professionale. A tal proposito, così, nuovamente, il sito Cliclavoro: “Il fenomeno culturale e filosofico del momento, che si tramuta poi in scelte piuttosto concrete da un punto di vista professionale, coinvolge in particolare i Millennial dei giorni nostri […]. Sono infatti soprattutto loro che, dati statistici recenti alla mano, trovano poco soddisfacente lavorare esclusivamente per produrre e consumare e sono altresì alla ricerca di esperienze a cui dare valore, che li arricchiscano anche a livello umano”. Senza voler approfondire, eccessivamente, le ragioni intrinseche di questa spinta attitudinale, personale o collettiva, preme tuttavia indagare, brevemente, sulle possibili congiunture economico-sociali che, presumibilmente, hanno concorso (e concorrono) nel corroborare tale dinamica. Per farlo, si riporteranno, ancora, le parole di Cliclavoro: “La pandemia globale da Covid-19 ha sicuramente accelerato e supportato questo processo, costringendo le persone a rivalutare le proprie vite, a rivedere carriere e obiettivi da raggiungere”.

Invero, utile, a tal fine, pare considerare anche le riassuntive parole fornite dall’Istat nel rapporto annuale 2021, di cui si riporta un breve estratto3:

“Il quadro economico e sociale italiano è caratterizzato, alla metà del 2021, dai contraccolpi negativi della crisi derivata dall’emergenza sanitaria, ma anche dal delinearsi della ripresa dell’attività economica. La recessione globale è stata violenta e di breve durata, con un immediato rimbalzo favorito dalle misure di sostegno e ulteriori pause dovute ai provvedimenti di contenimento del contagio. I mesi più recenti vedono il convergere di tutte le principali economie verso un sentiero di veloce recupero a cui il nostro Paese sembra essersi agganciato. L’impatto della crisi sanitaria ha colpito l’economia italiana in maniera particolarmente acuta, […]. Nel primo trimestre 2021, nonostante il prolungarsi dell’emergenza, l’attività economica si è stabilizzata, con importanti progressi nella manifattura e nelle costruzioni e in alcuni comparti del terziario. In primavera, la ripresa dell’industria si è accentuata e il clima di fiducia delle imprese è divenuto via via più positivo anche in gran parte dei servizi. La crisi ha investito anche il mercato del lavoro: il calo dell’occupazione ha riguardato all’inizio principalmente i dipendenti a termine e gli indipendenti, poi anche i lavoratori a tempo indeterminato. Ad aprile 2021, rispetto a prima dell’emergenza, gli occupati risultano in diminuzione di oltre 800 mila unità. La contrazione dei posti di lavoro si è accompagnata a un calo della disoccupazione e all’aumento dell’inattività, ma nella fase recente di moderato recupero occupazionale emerge un ritorno alla ricerca di occupazione”.

Pertanto, è possibile affermare che con la Yolo Economy si assiste, in buona sostanza, a un abbandono della ricerca spasmodica del posto fisso. Prospettiva, questa, che sembra porsi in totale controtendenza rispetto al nostro ordinamento giuridico4, e su cui molti, peraltro, già da tempo avevano riposto le loro attenzioni5.

Un’altra volta, di seguito, considerandole indubbiamente esplicative, si utilizzeranno le spiegazioni di cui al sito Cliclavoro: “Ecco che la ricerca del “benessere lavorativo” passa per scelte anche molto forti, come ad esempio cambiare un lavoro dallo stipendio sicuro per approfondire la propria passione e farla diventare una professione. Insomma, non proprio una passeggiata questa Yolo Economy, che comporta spesso sacrifici e rischi da calcolare attentamente, a maggior ragione in tutti quei casi di autoimprenditorialità. La ventata di innovazione e cambiamento che sta prendendo piede in questi ultimi mesi era stata già annunciata da molti, fra cui Microsoft, che in una propria ricerca di marzo scorso aveva evidenziato come circa il 40% dei lavoratori a livello globale fosse intenzionato (o l’aveva già fatto al momento del sondaggio) a cambiare lavoro nel corso del 2021. Fra l’altro questo dato aumenta in Italia, dove parrebbe che questa voglia di avventura e rivalsa personale colga addirittura quasi il 50% dei giovani del Paese. Non a caso negli ultimi anni il numero di startup nostrane è cresciuto prepotentemente, con numeri importanti messi a segno proprio nei recenti tempi legati purtroppo al dramma sanitario del Coronavirus. Momenti temporali che sono stati evidentemente interpretati e valorizzati da molti come un momento in cui investire su se stessi e le proprie idee”, dettati dalla “voglia di avere a che fare con orari di lavoro decisamente più flessibili”, da “un desiderio di svolgere la propria professione all’interno di luoghi di lavoro non convenzionali e meno tradizionali”, oppure dall’ “intenzione di fare un lavoro che sia maggiormente in linea con le proprie attitudini”, se non anche per la “necessità di avere più tempo per dedicarsi alle proprie passioni”.

IL DIFFICILE INCASTRO TRA YOLO ECONOMY E LAVORO SENZA CONTRATTO

La flessibilità per il giovane, empiricamente, mal si contempera con i rapporti subordinati tipici del nostro ordinamento giuridico, pur quando maggiormente flessibili. Si pensi, a tal proposito, ai molti paletti di legge che limitano l’instaurazione dei contratti a tempo determinato, tra cui i limiti percentuali, le causali, lo “stop&go” o a quelli previsti per il rapporto di lavoro a tempo parziale, coerentemente soggetto a degli specifici obblighi normativi6; oltre, ovviamente, a doversi considerare i limiti contrattual-collettivi, come il consueto periodo di preavviso generalmente previsto per la cessazione dei rapporti di lavoro. D’altra parte, anche il lavoro di tipo autonomo, quando genuino e possibile, pur apparendo flessibile proprio in ragione della sua autonomia, appare invero attuabile e realmente sostenibile solo in presenza di importanti skills e competenze in capo al lavoratore, difficilmente già possedute laddove quest’ultimo sia giovane.

Orbene, resta da valutare il bacino delle prestazioni di lavoro acontrattuali (non appartenenti, quindi, alla classica dicotomia autonomia-subordinazione)7 che però, a loro volta, come meglio si vedrà, non sembrano poter rispondere alla richiesta di duttilità tipica della Yolo Economy.

Se infatti, come visto, il lavoro subordinato pare soggetto a forti (ma anche giustificate) limitazioni, il lavoro senza contratto, pur generalmente maggiormente deregolamentato (e quindi teoricamente maggiormente flessibile8), dal canto suo, nasce generalmente per altri precipui fini, oltre a risultare caratterizzato da un modesto sistema di tutele, che, in tutta evidenza, non permette di garantire la “liberazione dal bisogno” di cui alla nostra Costituzione9. Pensiamo, ad esempio, al tirocinio, specificatamente “finalizzato all’orientamento e alla formazione professionale, anche per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”10, da non confondersi come strumento di maggiore flessibilità per il datore di lavoro (qui soggetto ospitante) rispetto al classico rapporto di lavoro. Tramite tale strumento, più dettagliatamente, non si prevede una retribuzione sufficiente11, non viene garantita alcuna tutela previdenziale al giovane e non vi è nemmeno nessun tipo di maturazione di retribuzioni differite, le quali hanno anche il precipuo fine di salvaguardare il lavoratore sprovvisto di attività lavorativa.

Si pensi, in alternativa, al lavoro familiare reso affectionis vel benevolentiae causa, ovvero per ragioni solidaristiche e affettive e di partecipazione alla compagine familiare, il quale certamente, non essendo soggetto a particolari formalizzazioni (generalmente non serve, infatti, alcun contratto), consente al giovane

di essere più libero di scegliere e cambiare in via immediata; invero, vi è da considerare che l’apporto di lavoro in siffatte modalità è soggetto ad una risalente presunzione di gratuità, anche al fine di non permettere una “indebita maturazione di prestazioni sociali e di un diritto alla pensione”12. Il giovane, in buona sostanza, non ha diritto ad una retribuzione, ma rischia di non aver diritto nemmeno alle prestazioni previdenziali, rischiando, così, di rimanere ancorato, per necessità, all’attività di famiglia.

Ed ancora, si pensi alle prestazioni di lavoro rese tramite volontariato, di certo libere, posto che “Il volontario (come evidenziato anche dalla Corte dei conti nella deliberazione sez. autonomie n. 26 del 24/11/2017) deve potersi sentire sempre libero di recedere dalla propria scelta, revocando in qualsiasi momento la disponibilità dimostrata, senza condizioni o penali, poiché la sua attività risponde esclusivamente ad un vincolo morale”13. Tale apporto lavorativo, per sua essenza, ovviamente non permette la maturazione di alcun tipo di retribuzione, ma non comporta, neppure, alcun tipo di protezione previdenziale, pur essendo fortemente auspicato dal nostro ordinamento giuridico, anche come valido strumento al fine di “valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa”14. Ma, a ben osservare, anche il contratto di prestazione occasionale “Prest.o”, pur nascendo anche in risposta ad esigenze di flessibilità15, non riesce invero a rispondere a tale richiesta, in ragione delle sue importanti e sostanziali limitazioni economiche, ex D.l. n. 50/2017 convertito con modificazioni dalla L. n. 96/2017. Nel dettaglio, il limite annuo di 5.000 €16 percepibili da ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, non pare permettere di seguire realmente il “trend Yolo”, essendo gli introiti fortemente limitati.

ALCUNE RIFLESSIONI CONCLUSIVE

In questo periodo martoriato dall’emergenza pandemica, dalla guerra, dalla crisi ambientale e dagli inevitabili contraccolpi economici, appare eccessivamente semplicistico trattare (con leggerezza) di Yolo Economy. È troppo facile, infatti, parlare di lavoro non tradizionale, e di benessere e passioni, senza che vi sia, dietro le quinte, un sufficiente sistema di tutele per il giovane lavoratore, che permetta l’indispensabile rispetto dei fondamentali dettami costituzionali. A tal proposito, preme riflettere su quali strumenti metta a disposizione il Legislatore per raggiungere una flessibilità del lavoro sicura (flessicurezza o flexicurity17): in realtà, come visto, ben pochi. Ed anzi, la tendenza legislativa attuale appare totalmente marciare in senso opposto. Si pensi, a titolo esemplificativo, al recente art. 10, del D.lgs. n. 104/2022, c.d. Decreto Trasparenza, in cui viene sancito il diritto di richiedere la “Transizione a forme

di lavoro più prevedibili, sicure e stabili”. Se è quindi vero, e ufficialmente riconosciuto, che vi sia una tendenza alla Yolo Economy, urge meditare sul diritto, in particolare dei giovani, “nel lavoro” (e non, unicamente, “del lavoro”). Disquisire, quindi, di un rinnovamento del nostro sistema giuslavoristico, dovendo il diritto, e tutto ciò che ne consegue, certamente in parte adattarsi alle realtà sociali, senza poter vivere su un inscalfibile e immodificabile piedistallo18.

Ovviamente, non si intende qui suffragare l’idea di un abbassamento delle tutele appartenenti alla dicotomia autonomia-subordinazione, ma, piuttosto, sottolineare e sollecitare la necessità di attenzioni legislative verso le aree grigie del lavoro, verso le politiche attive, verso i sistemi di transizione occupazionale19, che, generalmente, sono da ascrivere al bacino del lavoro senza contratto.

Altrimenti, concetti come quello della Yolo Economy, e della flessibilità, rischiano di rimanere parole vuote o, peggio, ciniche nei confronti del giovane che si immerge nel mondo del lavoro.

 

 

1. Cfr. pagina internet https://www.cliclavoro.gov. it/page/yolo_economy_nel_mercato_del_lavoro_ cose_e_chi_coinvolge?contentId=BLG13300

2. Così M. Travers, per Forbes.

3. Cfr. Rapporto annuale Istat 2021. In particolare, Cap. 1, La crisi e il recupero: La congiuntura economica e sociale.

4. Cfr. ex multis art. 1, D.lgs n. 81/2015 (“Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”), ma anche l’emblematico art. 10, D.lgs. n. 104/2022 in cui si sancisce un (inconsueto) diritto di richiesta (e non di reale garanzia) di “Transizione a forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili”.

5. Cfr. ex multis A. Hinna, F. Homberg, C’era una volta la ricerca del posto fisso, in La rivista di organizzazione aziendale e F. Bano, Il contratto dominante e la noia del posto fisso, Il Mulino.

6. Cfr. art. 5, D.lgs n. 81/2015.

7. Di lavoro senza contratto si è già discus-so in Sintesi n. 09/2022, M. Tuscano, Il tirocinio come specchio della regolazione al di fuori della dicotomia autonomia-subordinazione, cui si rimanda.

8. In dottrina i concetti di flessibilità e de-regolamentazione sono di sovente trattati in contemporanea: cfr. ex multis L. Mariucci, Ridare senso al diritto del lavoro. Lo Statuto oggi, e S. Sciarra, S. Simitis, T. Treu, M. Weiss, Spiros Simitis giurista europeo, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 110, 2006, 2.

9. Cfr. M. Della Morte, La diseguaglianza nello Stato costituzionale, (a cura di), per un dibattito sulla “La liberazione dal bisogno”.

10. Art. 1, comma 720, L. n. 234/2021.

11. Invero, non è prevista alcuna retribuzione in senso stretto, ma un semplice rimborso spese, il quale non è assoggettato ai principi di cui all’art. 36, Cost.

12. Così T. Bussino, Vigilanza ispettiva nel lavoro a titolo gratuito e a titolo oneroso, Working Paper Adapt, 12 ottobre 2009, n. 95.

13. Nota n. 34/4011 del 10 marzo 2022 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

14. Art. 1, comma 1, L. n. 106/2016, “Riforma del terzo settore”.

15. Non è un caso che, la Camera dei Deputati, nella documentazione parlamentare del 20 gennaio 2022, riconduca tale apporto lavorativo alle cosiddette “Forme contrattuali flessibili”.

16. Gli importi percepiti sono da considerare al 75% laddove il giovane abbia meno di venticinque anni di età, se regolarmente iscritto a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado ovvero a un ciclo di studi presso l’università.

17. Così definita nel sito dell’Unione Europea: “Flexicurity is an integrated strategy for enhancing, at the same time, flexibility and security in the labour market. It attempts to reconcile employers’ need for a flexible workforce

with workers’ need for security – confidence that they will not face long periods of unemployment”.

18. Così, sulla questione, G. Vardaro, in Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, Angeli, Milano, 1985: “[…] fino a quando si pretende di adattare il mutamento sociale al diritto vigente e alle teorie e non il contrario […]”, parlando di “future possibilità”. Richiamato da M. Tiraboschi in Persona e lavoro tra tutele e mercato, in Mercati, Regole, Valori, Giornate di Studio Aidlass, Giuffrè, p .167. Esplicative, in aggiunta, le parole di P. Ichino: “Nel XXI secolo la vera protezione del lavoro non può avvenire con le tecniche del Novecento”, in Quanti luoghi comuni sul lavoro dei rider, https://www.pietroichino.it/. 19. Cfr. per un approfondimento L. Casano, Le transizioni occupazionali nella nuova geografia del lavoro: dieci domande di ricerca, in Bollettino Adapt 27 febbraio 2017.

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IL TIROCINIO COME SPECCHIO DELLA REGOLAZIONE al di fuori della dicotomia autonomia-subordinazione

Marco Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

L’ACCOSTAMENTO DELLA PERSONA AL LAVORO: LA DICOTOMIA AUTONOMIA E SUBORDINAZIONE

Disquisire di diritto del lavoro, generalmente, significa trattare strettamente di quanto attiene alla tutela del lavoro subordinato1 , di tutto ciò che consente, quindi, di assicurare le necessarie forme di protezione per il lavoratore dipendente, soggetto alla eterodirezione del datore di lavoro e pertanto parte debole nel rapporto di lavoro.
A ben osservare, non mancano filoni dottrinali che ascrivono al diritto del lavoro anche altri ambiti, ipotizzandone talora una sua estensione, talaltra un suo aggiornamento2 , e, per dovere di precisione, va chiarito che in dottrina di sovente si è sollevato il problema dell’inefficienza qualificatoria delle disposizioni di cui all’art. 2094 cod. civ.3 , anche con riferimento all’evoluzione del mondo del lavoro e delle modalità di resa dello stesso4 .
Ad ogni modo, rifacendosi anche al percorso storico della tutela del lavoro, si può affermare che il diritto del lavoro sia quel diritto nato e cresciuto per garantire (almeno negli intenti) le tutele necessarie per il rapporto di lavoro subordinato, sommariamente riuscendovi.
Va da sé, quindi, che le prestazioni di lavoro al di fuori della subordinazione non ricadono nell’insieme delle protezioni fornite dal diritto del lavoro, sebbene, a tal proposito, non si possa che richiamare il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale: ultimo appiglio per quelle prestazioni di lavoro con un diverso nomen iuris, ma che di fatto si svolgono nelle tipiche modalità del lavoro subordinato5 , da valutare anche secondo quegli indici periodicamente individuati dalla giurisprudenza6.
Sintetizzando, il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale implica che “alle parti non è consentito scegliere il tipo contrattuale nel senso di escludere l’applicazione del diritto del lavoro laddove le modalità di esecuzione
presentino i tratti tipici della subordinazione”7 .
Ovviamente, vivere al di fuori della subordinazione non implica l’assenza di tutela alcuna, sebbene vada  affermato che, innegabilmente, il grado di protezione, al di fuori di quest’ambito, sia sensibilmente ridotto8 .
Nel nostro ordinamento giuridico, infatti, in via prioritaria, vi è certamente un’altra faccia della medaglia da dover considerare, ossia il lavoro reso in modalità autonoma, enunciato dall’art. 2222 cod. civ., storicamente in antitesi rispetto alla subordinazione, pur anch’esso soggetto a peculiari protezioni.
Da una parte, pertanto, si può affermare che vi sia il diritto del lavoro, dall’altra un diritto per il lavoro autonomo (o “disciplina del lavoro autonomo” 9 ), composto da tutele diverse e specifiche, ovvero quelle contenute, in particolar modo, nello  Statuto del lavoro autonomo (L. n. 81/2017), così come talvolta definito10.

Non è errato, a tal proposito, parlare di sostanziale dicotomia, o di assetto binario come già definito in dottrina11. Sintomatiche, a tal proposito, sono le parole consegnate da giurisprudenza ormai nota: “ogni attività umana
economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, […] l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione”12.
A ben osservare, la rilevanza della dicotomia in analisi è peraltro confermata dall’avvento di alcune particolari tipologie contrattuali, non apparentemente riconducibili (perlomeno in via immediata) all’alveo del lavoro subordinato o autonomo. Si fa riferimento, in particolare, alle collaborazioni di cui all’art. 409, comma 3, c.p.c., ovvero a quella parasubordinazione che taluno attribuì inizialmente ad un teorico a sé stante tertium genus (il
terzo, quindi, oltre la citata dicotomia). Tali forme di lavoro, in tutta evidenza, hanno manifestato invece la necessità di richiamarsi nuovamente alla bipartizione “autonomiasubordinazione”, sia al fine di una loro plausibile catalogazione (generalmente all’alveo del lavoro autonomo13), sia al fine di garantire sufficienti tutele per il lavoratore, di fatto appoggiandosi alle protezioni tipiche del lavoro subordinato in presenza dei requisiti necessari
(si veda a tal proposito l’art. 2, comma 1, D.lgs. n. 81/201514).
Anche valutando, quindi, queste forme di lavoro del tutto peculiari, appare evidente come la suddetta dicotomia si sia rivelata un perpetuo punto di riferimento, soprattutto allo scopo di riconoscere un appropriato meccanismo di tutele che fosse confacente ai dettami costituzionali.
In conclusione, nel valutare l’accostamento della persona al lavoro, e le sue necessarie protezioni, certamente difficile per il giuslavorista appare abbandonare la logica binaria tipica del nostro ordinamento giuridico15, sebbene le considerazioni non possano necessariamente fermarsi a questo punto.

IL LAVORO SENZA CONTRATTO
A questo punto della riflessione, preme notare che le surrichiamate modalità di accostamento della persona al lavoro trovano la loro effettiva genesi in un contratto e, a tal proposito, pare necessario sottolineare che la dottrina maggioritaria ritiene che il rapporto di lavoro in genere, o perlomeno quello appartenente alle tradizionali forme di lavoro, abbia un’origine puramente contrattuale16.
Eppure, non si può dimenticare che esiste un bacino di forme lavorative diverse, le quali, evidentemente ed empiricamente, non trovano la loro fonte in un contratto tra le parti, pur concretizzandosi, a tutti gli effetti, nella
resa di un’attività lavorativa. Le stesse, con una mera esigenza classificatoria, possono essere ascritte alla macrocategoria del lavoro senza contratto, intendendosi per tale l’intero alveo di quelle esperienze lavorative rese al di fuori di un preciso vincolo contrattuale. A titolo esemplificativo, tra queste forme di lavoro è possibile identificare l’intero complesso dei tirocini (tra cui quello curricolare e quello extracurricolare), regolamentati tramite convenzioni e progetti formativi, il contratto di prestazione occasionale di cui all’art. 54-bis, L. n. 96/2017 (che contratto invero non è), che trova la sua regolamentazione e attuazione tramite una piattaforma online e non di certo in un contratto17, oppure il periodo di pratica professionale, altrimenti detto praticantato, anch’esso ascrivibile all’alveo dei tirocini18, se non anche il compartimento del lavoro familiare reso affectionis vel benevolentiae causa.
Come evidente, nelle circostanze summenzionate  è certamente possibile identificare la resa di una prestazione di lavoro, con specifici e peculiari vincoli giuridici19, sebbene questi ultimi non scaturiscano dalle rigide maglie
di un contratto di lavoro e, quindi, da un reale animus contrahendi delle parti.
Orbene, vi è da chiarire, in conclusione, che i lavoratori appartenenti a tale bacino appaiono spesso  insufficientemente tutelati, vuoi per la frequentissima assenza di significative tutele pensionistico-previdenziali, vuoi per la innegabile precarietà che contraddistingue tali prestazioni. Come a dire che, superando i confini della citata dicotomia, il lavoro non sia meritevole di rilevanti tutele. Peraltro, a tal proposito, la dottrina più volte ha rimarcato la necessità di istituire sufficienti protezioni anche per questa gamma di esperienze lavorative non standard 20, finanche rivisitando completamente larga parte degli istituti21, così da combattere l’istituzionalizzazione del lavoro povero e la diffusione dei cosiddetti working poors.

IL TIROCINIO COME SPECCHIO DELLA REGOLAMENTAZIONE AL DI FUORI DELLA DICOTOMIA
Un’analisi empirica, certamente, può coadiuvare la comprensione delle generali criticità che appartengono al lavoro che vive oltre i confini dell’autonomia e della subordinazione. Da qui l’esigenza di scegliere e valutare con occhio critico una specifica forma di lavoro  senza contratto.
Come si vedrà, gran parte delle criticità rilevate non riguardano, unicamente, le specifiche tutele previste, la loro natura e la loro estensione, ma spesso, bensì, la carente qualità della regolazione, che poi, di conseguenza, sfocia in situazioni di insufficiente protezione per il lavoratore debole22. In particolare, si prenderà qui a riferimento il tirocinio extracurricolare, da definirsi oggi “un percorso formativo di alternanza tra studio e lavoro, finalizzato all’orientamento e alla formazione professionale, anche per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”23,
evidentemente, ma anche per espressa previsione24, da non considerarsi lavoro subordinato.
Innanzi a tutto, preme chiarire che, per le forme di lavoro acontrattuali, il già richiamato principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale risulta assai depotenziato; proprio perché, in tali casi, è il Legislatore a dire cosa il lavoro sia, o meglio non sia, attenuando il potere riqualificatorio, essenza del principio25.
In altre parole, abbandonando la logica del contratto di lavoro, e finendo al di fuori dei confini di autonomia e subordinazione, si pone il problema della necessaria rivisitazione della portata del suddetto principio, poiché
il Legislatore, in buona sostanza, converge prioritariamente sull’importanza del nomen iuris, più che sulle modalità effettive di svolgimento della prestazione26.
A tal proposito, va considerato che il tirocinio consente, se non addirittura esige27, la resa di attività lavorativa, anche sotto una certa direzione del datore di lavoro (qui soggetto ospitante)28, nonostante non sia per espressa previsione, come visto, da considerarsi lavoro subordinato. Certo, non va dimenticato che, ex lege, “il tirocinio […] non può essere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente”29, e che la giurisprudenza più volte ha consegnato dei parametri per identificare una prestazione ascrivibile alla subordinazione (ad esempio, l’assenza di formazione o la ripetitività ed elementarità dei compiti assegnati), eppure il rischio di cadere in situazioni di abuso appare permanente e difficilmente scardinabile se si considera l’“economicità” dello strumento rispetto ad un ordinario rapporto di lavoro. A titolo esemplificativo, è previsto un semplice rimborso spese per l’attività lavorativa (non paragonabile alla retribuzione di cui all’art. 36, Cost.) e non vi sono costi pensionistico- previdenziali, posto che non vi è una tutela pensionistico-previdenziale per il tirocinante. Il rischio è, in tutta evidenza, quello di trovarsi
di fronte alla legittimazione di un lavoro dal corrispettivo povero, e povero di tutele: una beffa. Una prospettiva inaccettabile poiché del tutto antitetica rispetto ai sacri principi sanciti dalla nostra Costituzione. Tuttavia, pare difficile in poche righe affrontare nello specifico la discussione sulla natura dello strumento, e sulle tutele per esso previste, se non anche sulla reale necessità che debba esistere un tirocinio dall’essenza extracurricolare30, volendosi invece focalizzare l’attenzione sulla inadeguatezza dell’intero impianto regolatorio, il quale certamente denota la poca attenzione rivolta nei confronti del lavoro oltre i confini dell’autonomia e della subordinazione. A tal proposito, si considerino le ultime previsioni normative da parte della Legge di Bilancio 2022, con le quali il Legislatore ha voluto porre le basi per una riforma del tirocinio tramite specifiche e dettagliate disposizioni. Ebbene, tali disposizioni, in primis, sono parse da subito in contrasto con precedenti pronunce della Corte costituzionale (non vi può essere, infatti, una “indebita invasione dello Stato in una materia di competenza residuale delle Regioni”31), in secundis hanno evidenziato la scarsa attenzione riposta nella loro trascrizione. Si noti infatti come all’art. 1,  comma 724, (forse involontariamente?) sia stata prevista l’obbligatorietà della comunicazione obbligatoria Unilav per il tirocinio in genere, e non unicamente per quello extracurricolare, in totale controtendenza rispetto a quanto previsto dalla nota M.L.P.S. n. 4746/2007, la quale prevedeva di “escludere l’obbligo di comunicazione per i tirocini promossi
da soggetti ed istituzioni formative a favore dei propri studenti ed allievi frequentanti, per realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro”. Tuttavia, successivamente, con nota n. 530/2022 l’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) ha chiarito che, in merito all’obbligo di comunicazione preventiva, “si ritiene, in coerenza con i precedenti orientamenti, che lo stesso riguardi unicamente i tirocini extracurriculari”; anche se, agli occhi del giuslavorista, il verbo ritenere non pare equiparabile al verbo legiferare.
E, richiamandosi proprio all’intervento dell’Inl summenzionato, preme sottolineare la sempre forte incidenza che la prassi amministrativa ha avuto nel settore: sempre decisiva per determinare i corretti perimetri dello strumento. A titolo esemplificativo, si veda la circolare Inl n. 08/2018 in tema di riqualificazione del rapporto.
Ivi si afferma, tra le molte precisazioni, che la “corresponsione significativa e non episodica di somme ulteriori rispetto a quanto previsto nel PFI” può essere causa di riqualificazione del rapporto: tale specifica, invero, appare
più sostanziale che chiarificatrice ai fini della corretta gestione del rapporto.
Come evidente, una così forte rilevanza della prassi amministrativa può essere foriera di criticità non indifferenti, oltreché manifestare una presumibile insufficienza regolatoria. A tal proposito, non pare fuori fuoco richiamarsi
a quanto avvenuto nelle circostanze del bonus 200 € di cui al D.l. n. 50/2022, ovvero alle incongruenze manifestatesi tra passi e norma32 e alle notevoli difficoltà causate tanto agli operatori, quanto ai lavoratori. In aggiunta,
va notato che in dottrina si è già più volte  evidenziato, anche se per altri ambiti, come la prassi amministrativa sia servita, di frequente, per supplire al silenzio del Legislatore33, a volte manifestando, peraltro, un problema di
coerenza con le disposizioni normative34. Orbene, come se quanto illustrato non fosse sufficiente, va da ultimo evidenziato un ripetuto (e smodato) ricorso alle Faq, le quali, spesso, hanno consegnato informazioni da
considerarsi imprescindibili. A tal proposito, si vedano le Faq fornite dal Sito Cliclavoro in materia di Tirocini formativi e di orientamento35, ma anche quelle fornite, molto spesso, dalle singole regioni36. Sulle Faq, tuttavia, preme riportare quanto deciso dai giudici del Consiglio di Stato con sentenza n. 1275/2021: “In linea generale,
occorre prendere atto del sempre maggiore ricorso da parte delle pubbliche amministrazioni alle Frequently Asked Questions (FAQ) […]. Si tratta di una serie di risposte alle domande che sono state poste (o potrebbero essere
poste) […]. In tal modo viene data risposta pubblica, su un sito web, a interrogativi ricorrenti, sì da chiarire erga omnes e pubblicamente le questioni poste con maggiore frequenza. Il ricorso alle FAQ, evidentemente, è
normalmente da ricondurre a esigenze di trasparenza dell’attività della pubblica amministrazione e di economicità della medesima. […]. Tuttavia, non si può neppure dimenticare che le FAQ sono sconosciute all’ordinamento
giuridico, in particolare all’art. 1 delle preleggi al Codice civile. Esse svolgono una funzione eminentemente pratica […]. È quindi da escludere che le risposte alle FAQ possano essere assimilate a una fonte del diritto, né primaria, né secondaria. Neppure possono essere considerate affini alle circolari, dal momento che non costituiscono un
obbligo interno per gli organi amministrativi. In difetto dei necessari presupposti legali, esse non possono costituire neppure atti di interpretazione autentica”.
In tutta evidenza, l’emanazione delle perigliose Faq manifesta l’incontrovertibile necessità di meglio chiarire e perimetrare i confini dello strumento, quest’ultimo presumibilmente maldisciplinato ab origine dalla norma.

CONCLUSIONI
Si è testé trattato, in particolare, di tirocinio extracurricolare, invero, si badi bene, la carenza di tutele appare caratteristica intrinseca di tutto quelle forme di lavoro che abbandonano la logica contrattuale e che vivono al di
fuori del caldo abbraccio delle protezioni tipiche della subordinazione, se non anche di quelle specifiche per il lavoro autonomo. Prendere atto della carenza di tutele, come si è visto, non è però sufficiente. Urge infatti, in primis, interrogarsi sulle modalità con cui il lavoro acontrattuale viene regolamentato, ovvero sulla attenzione e sulla tecnica riposte dal Legislatore nei confronti di quest’alveo. Come ormai chiaro, il bacino del lavoro senza contratto molto spesso pare bistrattato, “Eppure, si tratta di lavoro, la cui tutela «in tutte le sue forme» è garantita dall’art. 35 Cost”37. In apertura si è discusso della sostanziale dicotomia che permea il nostro ordinamento giuridico. Al di là delle discussioni forse squisitamente dottrinali riguardanti la definizione di “diritto del lavoro”, o la presumibilmente
evidente necessità di allargamento del suo perimetro, piuttosto sembra doveroso riconoscere, innanzi a tutto, la dignità per il lavoro in quanto tale.
La necessità di un’evoluzione generale, quindi, verso un diritto delle “relazioni personali di lavoro”38, o “del mercato del lavoro”, che sfoci in una nuova “cultura del diritto del lavoro” 39 in cui si riesca pienamente a garantire
la tutela dei più deboli al cospetto dei più forti40, indubbiamente tramite più certezze e minori ambiguità.

 

1. Cfr. ex multis M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli Editore, e M. V. Ballestrero, La dicotomia autonomia/subordinazione.
Uno sguardo in prospettiva, Labour & Law Issues, vol. 6, no. 2, 2020.
2. Cfr. sulla questione M. V. Ballestrero, La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva, cit.. 3. Ibidem.
4. Cfr. ex multis M. Pallini, La subordinazione è morta! Lunga vita alla subordinazione!, Labour & Law Issues, vol. 6, no. 2, 2020.
5. Cfr. Corte costituzionale n. 121/1993 e n. 115/1994, in dottrina M. V. Ballestrero, Brevi note sulla dialettica tra posizioni contrattualistiche e acontrattualistiche, in Lavoro Diritti Europa n. 2020/3.
6. A titolo esemplificativo si veda la recente ordinanza n. 22846/2022 della Corte di Cassazione.
7. Così M. V. Ballestrero, Brevi note sulla dialettica tra posizioni contrattualistiche e a-contrattualistiche, cit., p. 7.
8. Cfr. A. Perulli, Il diritto del lavoro e il “problema” della subordinazione, Labour & Law Issues, vol. 6, no. 2, 2020, p. I.103. In aggiunta, per uno studio delle tutele al di fuori del contratto di lavoro, mi si permetta di rimandare a M. Tuscano, il lavoro senza contratto, Adapt University Press.
9. Così M. V. Ballestrero, La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva,
cit,, p. I.14.
10. Cfr. ex multis M. V. Ballestrero, op. cit. e G. Cavallini, Il «nuovo» lavoro autonomo dopo la stagione delle riforme, Lavoro@confronto.

11. Cfr. A. Perulli, op. cit..
12. Cfr. ex multis Corte di Cassazione n. 9251/2010.
13. Cfr. in dottrina M. V. Ballestrero.
14. Il quale recita: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui
modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
15. A tal proposito, si veda nuovamente M. V. Ballestrero che non condivide un teorico superamento della dicotomia in analisi, in La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva, cit,, p. I.14.
16. Cfr. M. V. Ballestrero, Brevi note sulla dialettica tra posizioni contrattualistiche e a-contrattualistiche, cit. e M. Roccella, op. cit..
17. Cfr. V. Pinto, Prestazioni occasionali e modalità agevolate di impiego tra passato e futuro, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 343/2017.
18. Cfr. in dottrina ex multis L. Casano.

30. Molto spesso in dottrina si è sollevato  il problema di come il tirocinio possa depotenziare la possibilità di  inserimento del giovane nel mondo del lavoro tramite un vero e proprio contratto, ad esempio di apprendistato.
Cfr. ex multis M. Tiraboschi, Persona e lavoro tra tutele e mercato, cit..

31. Cfr. sentenza n. 287/2012, Corte costituzionale.
32. Cfr. ex multis A. Borella, L’indennità una tantum di 200 euro ai dipendenti. Chiarimenti inps in ordine
sparso, in Sintesi n. 06/2022.
33. Cfr. I. Corso, La c.d. maxisanzione: elementi caratterizzanti e ambito di applicazione della fattispecie sanzionata,
in Legalità e rapporti di lavoro, Incentivi e sanzioni, a cura di M. Brollo, C. Cester, L. Menghini, EUT, p. 456.
34. Ibidem, pp. 461 e 462.

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