Una proposta al mese – VORREI… NON VORREI… ma se vuoi…

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Il disegno di legge in materia di lavoro approvato dal Consiglio dei Ministri del 1° maggio 2023, introduce una norma a tutela delle aziende in tutti quei casi dove i lavoratori, strategicamente, “spariscono” fisicamente dal posto di lavoro e diventano irreperibili ad oltranza. In tali situazioni, altro non può fare il datore di lavoro se non procedere a contestare l’assenza ingiustificata, secondo quanto stabilito dall’art.7 della L. n. 300/1970, attendere eventuali giustificazioni, per poi procedere, entro i termini stabiliti dalla norma o dal Ccnl al licenziamento per giusta causa, da cui scaturisce l’obbligo del pagamento del ticket Naspi che, ricordiamo, per il 2023 è pari a € 603,19 annuali e € 1.809,57 come importo massimo per 3 anni di anzianità.

In seguito a ciò, oltre al disagio creato in azienda, il “furbetto” percepisce beatamente anche la Naspi fino ad un massimo di 24 mesi. L’alternativa a quanto sopra descritto è perseverare in una molteplicità di contestazioni in cui si esorta il lavoratore a rassegnare le proprie dimissioni volontarie, poiché la volontà di interrompere il rapporto è abbastanza chiara, e a comunicarlo secondo quanto stabilito dall’articolo 26 del decreto legislativo n. 151/2015; seppure raramente, a volte il lavoratore desiste dal suo atteggiamento da “desaparecidos” manifestando la volontà di rescindere unilateralmente il rapporto ma, purtroppo, nella maggior parte dei casi ciò non accade. In tutte le situazioni in cui il lavoratore “cede”, ovviamente l’azienda non è tenuta al pagamento del ticket ed egli non percepisce la Naspi.

A tal proposito si era espresso il Tribunale di Udine, con la sentenza n. 20 del 27 maggio 2022, affermando che

“le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015”.

Il Giudice prosegue analizzando il contenuto della Legge delega del D.lgs. n. 151/2015, ovvero la L. n. 183/2014, che prevedeva “… modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore”.

Tale ultimo assunto risulta inattuato nel D. lgs. n. 151/2015, ma comunque, afferma il Giudice, pienamente valido: “Si deve ritenere, di contro, che non sia affatto riconducibile all’ambito applicativo dell’esaminato art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata, come accaduto nella vicenda al vaglio, in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti -anche omissivi- idonei ad assicurare un’agevole verifica della sua genuinità”. La sentenza afferma inoltre che, poiché in caso di inerzia del lavoratore nel rassegnare formali dimissioni già fattualmente intervenute, è possibile pervenire alla risoluzione del rapporto di lavoro solo attraverso il licenziamento per giusta causa, si pone il dubbio sulla compatibilità costituzionale con gli articoli 41 e 38 Cost.. Nello specifico, si paventa violazione dell’art. 41 Cost. per la limitazione dell’autonomia imprenditoriale, causata dall’imposizione in capo al datore di lavoro di farsi carico dei rischi relativi ad un eventuale giudizio e del costo del ticket Naspi, nonché di procedere con l’atto del licenziamento disciplinare che il datore medesimo non avrebbe assunto a fronte del comportamento del lavoratore rimasto a lungo assente senza giustificazione. Relativamente all’art. 38 Cost., si evidenzia l’ingiusta sottrazione di risorse (Naspi) destinate ai lavoratori che si siano trovati in stato di disoccupazione involontaria, “giacché, proprio attraverso un licenziamento strumentalmente sollecitato e, di fatto, indebitamente imposto al datore, si darebbe luogo, a favore del licenziato, ad un esborso di provvidenze pubbliche per la tutela di un fittizio stato di disoccupazione, in realtà costituente l’esito di una scelta libera ed in alcun modo involontariamente subita dall’ex dipendente”.

Orbene, perfettamente in linea con la pronuncia giurisprudenziale citata, l’art. 26 della citata bozza del D.D.L. lavoro, titolato “Modifiche in materia di dimissioni”, inserisce il nuovo comma 7-bis all’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015, in cui si afferma: “In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo”. FINALMENTE! Verrebbe da dire, anche perché, purtroppo, abbiamo assistito negli anni a comunicazioni di dimissioni volontarie verbali dei lavoratori che poi, improvvisamente, magari dopo adeguata analisi, si sono magicamente trasformate in assenze strategiche volte a produrre quanto sopra descritto. Assolutamente encomiabile l’iniziativa, che reca però qualche criticità di gestione.

In primo luogo, i rumors comparsi all’indomani della bozza approvata paventavano già strategie risolutive per i lavoratori e, poiché siamo la patria del “trovata la legge, fatto l’inganno”, uno dei possibili escamotage è quello di assentarsi per un numero di giorni inferiore a quello stabilito dalla norma o dal Ccnl, rientrare successivamente al lavoro, per poi riassentarsi e così via, costringendo di fatto il datore di lavoro ad attivare la procedura disciplinare L. n. 300/70. Sarebbe quindi opportuno identificare un lasso di tempo determinato entro cui valutare le assenze, che dovrebbero essere considerate utili allo scopo anche qualora non siano continuative, per evitare che i lavoratori disonesti ne possano approfittare.

Inoltre, l’assenza ingiustificata non ha una definizione giuridica propria, ma viene definita tale in virtù del procedimento disciplinare, che ha però come conclusione il licenziamento, così come stabilito negli stessi Ccnl. Nasce quindi la problematica di istituire una nuova procedura pseudo-disciplinare che si concluda con la definizione delle dimissioni per factia concludentia o, in alternativa, e senza dubbio molto più semplice e snello, si potrebbe stabilire che in caso di licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata non trova applicazione l’obbligo di pagamento del ticket Naspi e, di conseguenza, non sorgerà in capo al lavoratore il diritto alla prestazione. L’occasione della discussione di questa novità inserita nella bozza del D.D.L. potrebbe essere propedeutica alla valutazione di qualche modifica relativa alla gestione delle dimissioni del lavoratore.

Sarebbe opportuno pensare di eliminare la possibilità attualmente prevista di revocare le dimissioni on-line entro 7 giorni dall’invio telematico (c.2, art. 26, D.lgs. n. 151/2015), anche per evitare situazioni pregiudizievoli qualora il datore di lavoro avesse, nel frattempo,  già provveduto ad assumere un nuovo lavoratore al posto del dimissionario. Per quanto riguarda i genitori dimissionari, appare priva di utilità la convalida obbligatoria delle dimissioni oltre il primo anno ed entro il terzo anno di età o di ingresso in famiglia del figlio mentre, al contrario, è pienamente condivisibile l’obbligo entro il periodo in cui vige il divieto di licenziamento.

Inoltre, ferma restando la legittimità dell’ulteriore tutela relativa alla percezione della Naspi in caso di dimissioni entro il primo anno del figlio, così come l’esonero dall’obbligo del preavviso, non appare altrettanto equo l’obbligo in capo all’azienda di erogare l’indennità di mancato preavviso al lavoratore, che comunque ha scelto unilateralmente di interrompere il rapporto di lavoro, quantomeno nella formula attuale in cui la relativa somma resta totalmente in capo al datore di lavoro, così come il pagamento del ticket Naspi che sarebbe opportuno porre a carico dello Stato, costituendo una specifica tutela alla genitorialità. Relativamente alle tutele derivanti dal congedo di paternità, sia obbligatorio che alternativo, qualora il padre lavoratore non abbia reso noto al datore di lavoro l’avvenimento della paternità e decidesse poi di dimettersi entro l’anno del figlio, senza convalidare le proprie dimissioni, laddove il lavoratore pretendesse successivamente il reintegro per inefficacia delle dimissioni non convalidate, si dovrebbe prevedere una qualche tutela della buona fede del datore di lavoro che, di fatto, è stato tenuto totalmente allo scuro della situazione, e quindi non in grado di valutare l’obbligo di convalida delle dimissioni rassegnate nel periodo “protetto”.

Confidiamo che i lavori di consolidamento del disegno di legge siano forieri di utili semplificazioni.

 

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DECRETO LAVORO QUO VADIS? breve carrellata delle prime indiscrezioni

Manuela Baltolu, Consulente del Lavoro in Sassari (Ss)

Il provvedimento, atteso in questi giorni al tavolo del Consiglio dei Ministri, è decisamente corposo e prevede interventi in vari ambiti. Proviamo a sintetizzare alcune delle misure contenute nella bozza diffusa il 18 aprile u.s..

CONTRATTI A TERMINE

L’unico intervento sui contratti a tempo determinato riguarda la rivisitazione delle “causali impossibili” introdotte dal c.d. Decreto Dignità, che saranno sostituite dalle seguenti casistiche: “a) specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ovvero dalle rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria; b) specifiche esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti in assenza della previsione della contrattazione collettiva, previa certificazione delle stesse presso una delle commissioni di cui agli articoli 75 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276; c) esigenze di sostituzione di altri lavoratori”.

In buona sostanza, solo nel caso in cui i Ccnl non abbiano provveduto ad identificare specifiche causali le parti potranno procedere in autonomia, certificandole ai sensi del D.lgs. n. 276/2003.

In tutta sincerità ci si aspettava un intervento maggiormente incisivo, pur consapevoli che la contrattazione a termine costituisce da sempre terreno di scontro cruento tra le parti sociali. La certificazione obbligatoria necessita peraltro dei tempi “tecnici” di attivazione, di conseguenza l’utilizzo non risulterebbe particolarmente agevole in caso di assunzioni o proroghe urgenti, anche se, ad onor del vero, la normativa non ne vieta la formalizzazione anche a contratto stipulato ma, chiaramente, la causale deve essere certificata nel momento stesso in cui viene apposta. Si rende quindi necessario, in tal senso, un adeguamento mirato del percorso di certificazione, diversamente la soluzione prospettata rischia di diventare un aggravio burocratico. Nulla cambia rispetto all’identificazione del momento in cui sorge l’obbligo di apporre la causale obbligatoria, ovvero in caso di superamento della durata di 12 mesi, anche mediante proroga, e in caso di qualsiasi rinnovo, anche all’interno dei 12 mesi. Abolire la necessità di apporre la causale nei primi 12 mesi anche in caso di rinnovo, sarebbe stata una piccola modifica ma con un impatto decisamente importante.

Non è stato invece soppresso il contributo addizionale Naspi dello 0,50% previsto per i rinnovi, come invece si era ipotizzato in precedenza.

MODIFICHE AL D.LGS. N.104/2022

Gli obblighi di informazione al lavoratore sulle condizioni di lavoro di cui all’art. 1, D.lgs. n. 152/97, come modificato dal D.lgs. 104/2022, e precisamente le lettere da h) a r) esclusa la q)1, potranno essere assolti con l’indicazione del riferimento normativo o della contrattazione collettiva, anche aziendale, che ne disciplina le materia, e che dovrà essere consegnata o comunque messa a disposizione del lavoratore. Anche in questo caso, in luogo di una modifica strutturata si è preferito agire con una veloce riammissione del riferimento alla contrattazione, considerato inadeguato e insufficiente dalla circolare n. 19/2022 del Ministero del lavoro.

SANZIONI PER OMESSO VERSAMENTO DEI CONTRIBUTI TRATTENUTI AI LAVORATORI Viene finalmente modificato il testo dell’art. 2, co. 1-bis, del D.l. n. 463/1983, che prevede, in caso di omesso versamento dei contributi trattenuti ai lavoratori per importi inferiori a 10.000 euro, l’applicazione della sanzione con importo minimo fissato a 10.000 euro, indipendentemente dall’importo di contribuzione omessa. A causa di ciò, anche in caso di omesso versamento di importo pari, per fare un esempio, a 50 euro, paradossalmente la sanzione dovuta è sempre 10.000 euro.

Con questa modifica la sanzione sarà da una volta e mezzo a quattro volte, stabilendo un’equa proporzionalità tra omissione e sanzione.

DEDUCIBILITÀ CONTRIBUTI LAVORATORI DOMESTICI L’attuale soglia di deducibilità prevista per i datori di lavoro domestico della contribuzione versata per i lavoratori domestici, pari a 1.549,37 euro, sarà elevata a 3.000 euro.

INCENTIVI ALL’OCCUPAZIONE DEI GIOVANI Una nuova misura incentivante viene introdotta per gli under 30 che non studiano e non lavorano (c.d. neet), iscritti al programma “iniziativa occupazione giovani”.

L’incentivo sarà pari al 60% della retribuzione imponibile ai fini contributivi erogata al giovane assunto a tempo indeterminato o con contratto di apprendistato dal 1° giugno al 31 dicembre 2023, e potrà essere fruito per un massimo di 12 mesi. Sarà cumulabile con l’under 36 e con altri esoneri; il testo della bozza afferma inoltre che in caso di cumulo con altre misure, il beneficio in trattazione spetterà in misura pari al 20% della retribuzione imponibile Inps, e, pertanto, si presume anche in eccedenza a credito rispetto all’importo dei contributi a carico del datore di lavoro.

G.I.L. – GARANZIA PER L’INCLUSIONE Dal 1° gennaio 2024, abrogato il reddito di cittadinanza (R.d.C.), occuperà il suo posto una nuova misura di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro, la “garanzia per l’inclusione”– G.I.L., riservata ai nuclei familiari aventi al loro interno disabili, minori, over 60 o titolari di invalidità civile.

Le caratteristiche e il funzionamento ricalcano quelle del R.d.C., con opportune modifiche ed integrazioni.

REQUISITI DEI BENEFICIARI

I nuclei che potranno richiederla dovranno avere un valore ISEE non superiore a 7.200 euro e un reddito familiare non superiore a 6.000 euro rapportato al corrispondente parametro della scala di equivalenza identificata; sono state inoltre riproposte molte condizioni già previste per il reddito di cittadinanza, quali, ad esempio, il non essere intestatari di autoveicoli di cilindrata superiore a 1.600 c.c. e di navi e imbarcazioni da diporto, aeromobili etc. Non avranno diritto alla misura coloro che risultano disoccupati a seguito di dimissioni volontarie, per i 2 mesi successivi alla cessazione del rapporto.

MISURA, DURATA E CONDIZIONALITÀ DELL’ASSEGNO

L’importo dell’assegno non potrà superare i 6.000 euro annui moltiplicati per la scala di equivalenza e sarà esente da prelievo fiscale; l’utilizzo potrà avvenire mediante la “carta di inclusione” (sistema di pagamento elettronico). Ai nuclei familiari residenti in abitazione concessa in locazione potrà essere erogato un ulteriore importo, pari all’ammontare del canone annuo di locazione e fino ad un massimo di euro 3.360 euro annui, ovvero 280 euro mensili. La somma delle due provvidenze è pari 780 euro mensili, esattamente quanto previsto attualmente a titolo di R.d.C.. Esso potrà essere erogato per un massimo di 18 mesi con una sola proroga di ulteriori 12, previa sospensione di 1 mese. Resta l’obbligo di comunicare all’Inps, entro 30 giorni, l’eventuale avvio di rapporti di lavoro dipendente che, qualora non producano un reddito superiore a 3.000 euro annui non modificheranno l’importo dell’assegno; al contrario, l’eventuale importo eccedente la somma indicata concorrerà alla determinazione del beneficio. In caso di mancata comunicazione l’erogazione viene sospesa fino ad avvenuto adempimento. Più o meno le stesse regole varranno per l’avvio di nuova attività autonoma, ma in tal caso la comunicazione all’istituto di previdenza dovrà avvenire entro il giorno antecedente l’inizio della stessa.

I beneficiari sono tenuti ad accertare offerte di lavoro a tempo indeterminato e determinato di durata non inferiore a 3 mesi, a tempo pieno o parziale non inferiore al 60% rispetto al tempo pieno, con minimi salariali non inferiori a quelli previsti dai Ccnl ex art. 51, D.lgs. n. 81/2015. Se l’offerta di lavoro ha durata compresa tra 1 e 6 mesi, la G.I.L. viene sospesa d’ufficio per tutta la durata del contratto.

MODALITÀ DI FUNZIONAMENTO

Una volta trasmessa la domanda nell’apposita piattaforma, i servizi sociali effettueranno una valutazione multidimensionale dei bisogni del nucleo familiare, finalizzata alla sottoscrizione di un patto per l’inclusione e, nell’ambito di tale valutazione, i componenti di età compresa tra 18 e 59 anni attivabili al lavoro, verranno inviati ai centri per l’impiego per la sottoscrizione del patto di servizio personalizzato, che potrà essere anche coordinato con quanto previsto dal programma G.O.L. (garanzia di occupabilità dei lavoratori). Sarà istituito il “Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa – SIISL”, che consentirà l’interscambio di informazioni tra tutte le piattaforme digitali dei soggetti accreditati al sistema sociale e del lavoro che concorrono alla realizzazione di itinerari personalizzati per i beneficiari, favorendone i percorsi autonomi di ricerca di lavoro e il rafforzamento delle competenze. I beneficiari della misura attivabili al lavoro iscritti al SIISL accederanno ad informazioni e proposte sulle offerte di lavoro, corsi di formazione, tirocini e politiche attive a loro adeguati, selezionati sulla base delle esperienze educative e formative e delle competenze professionali pregresse del soggetto stesso.

I  CONTROLLI

I controlli sulla spettanza della misura saranno effettuati preventivamente all’erogazione del beneficio da Inl, Inps, Comando Carabinieri per la tutela del lavoro e, su apposite convenzioni, dalla Guardia di Finanza.

Per le finalità di cui sopra vi sarà condivisione tra Inps e Inl di tutte le informazioni e banche dati detenute dall’istituto di previdenza, con modalità che saranno definite con apposito decreto ministeriale.

I controlli anagrafici saranno in capo ai singoli comuni, ed eventuali mancanze determineranno la responsabilità amministrativo – contabile delle amministrazioni interessate e di tutti gli altri soggetti incaricati e preposti alle citate funzioni (art. 1, L. n. 20/1994), oltre ad integrare eventuale responsabilità disciplinare degli stessi.

LE SANZIONI

Per dichiarazioni o documentazioni false è prevista la reclusione da due a sei anni, mentre l’omissione della variazione di redditi e patrimonio o altre informazioni rilevanti, è punita con la reclusione da uno a tre anni, in entrambi i casi unitamente alla revoca immediata del beneficio e all’obbligo di restituzione di quanto indebitamente percepito. Per casi particolari è inoltre prevista la decadenza della G.I.L. per tutto il nucleo familiare (mancata presentazione ai servizi sociali e per il lavoro, mancata partecipazione alle attività formative etc.)

In caso di lavoro irregolare di percettori di G.I.L. è applicata la maggiorazione del 20% delle sanzioni previste dal c. 3/quater, art. 3, D.l. n. 12/2002.

Il beneficio sarà sospeso in caso di determinate condanne per reati vari nonché in caso di provvedimento definitivo di misure di prevenzione da parte dell’autorità giudiziaria.

INCENTIVI PER ASSUNZIONE DI PERCETTORI DI G.I.L.

  • assunzioni a tempo indeterminato o apprendistato e trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, f.time o p.time: esonero pari al 100% dei contributi Inps per massimo 24 mesi e fino a 8.000 euro anno;
  • assunzioni a termine e stagionali, f.time o p.time: esonero pari al 50% dei contributi Inps, fino a 4000 euro l’anno per massimo 12 mesi.

In entrambi i casi il regime di riferimento dell’incentivo sarà il regolamento UE n. 1408/2013, il c.d. regime de minimis”, che consentirà l’immediata applicazione della misura in quanto non soggetta ad autorizzazione preventiva UE.

Inoltre, qualora le agenzie per il lavoro prendano parte alla ricollocazione dei lavoratori, spetterà ad esse il 30% dell’incentivo complessivo.

Vengono inoltre riproposti due elementi di dubbia utilità già presenti nella regolamentazione del R.d.C.:

  • la bizzarra condizione secondo cui, nel caso di licenziamento del beneficiario di G.I.L. effettuato nei ventiquattro mesi successivi all’assunzione (a tempo indeterminato), il datore di lavoro dovrà restituire l’incentivo fruito maggiorato delle sanzioni civili ma, udite udite, fatti salvi i licenziamenti per G.S. e per G.M.O., che, di fatto, costituiscono la quasi totalità dei licenziamenti possibili, essendo il G.M.S. un’ipotesi abbastanza residuale;
  • la spettanza dell’incentivo legata all’inserimento dell’offerta di lavoro da parte dell’azienda nel SSISSL, obbligo anch’esso previsto per i percettori di R.d.C., cancellato dalla L. n.234/2021 anche perché difficilmente effettuabile, poiché la piattaforma preesistente non è mai stata pienamente funzionante. La registrazione potrebbe essere vantaggiosa solo se fosse obbligatorio dare evidenza dell’eventuale rifiuto della proposta di assunzione da parte del percettore, in modo non solo da tracciare tale evento per poter revocare il beneficio, ma anche, qualora il rifiuto sia motivato dall’assenza di una delle caratteristiche previste per le offerte, per poter individuare ulteriori proposte di impiego maggiormente valide2.

Infine, gli incentivi descritti sono compatibili e aggiuntivi rispetto ad under 36 ed esonero donne di cui all’art. 1, commi 297 e 298, L. n. 197/2022, fermo restando che se già con tali sgravi contributivi l’aliquota Inps viene azzerata, non è chiaro come si potrà cumulare con questa nuova misura, in quanto il cumulo andrebbe oltre i contributi dovuti, a meno che non venga considerata oggetto di sgravio anche l’Inps a carico del lavoratore, come avviene per lo sgravio previsto dal D.l. n. 4/2019 per i percettori di R.d.C..

È inoltre previsto un beneficio di 500 euro per un massimo di 6 mesi per i percettori di G.I.L. che avviano un’attività di lavoro autonomo, erogabile in un’unica soluzione entro i primi 12 mesi.

PRESTAZIONE DI ACCOMPAGNAMENTO AL LAVORO PER I PERCETTORI DI R.D.C.

I percettori di R.d.C. che hanno terminato il periodo massimo di fruizione, stabilito per il 2023 in 7 mensilità, potranno richiedere dal 1° settembre la nuova “Prestazione di Accompagnamento al Lavoro” – PAL, pari a 350 euro mensili per ciascun richiedente fino a dicembre 2023, compatibile con redditi di lavoro fino a 3.000 euro annui.

G.A.L. GARANZIA PER L’ATTIVAZIONE LAVORATIVA La G.A.L., “Garanzia per l’Attivazione Lavorativa”, è un sostegno previsto per i soggetti di età compresa tra 18 e 59 anni in condizione di povertà (ISEE fino a 6.000 euro) a rischio di esclusione sociale e lavorativa, facenti parte di nuclei familiari che non hanno i requisiti per accedere alla G.I.L.

La G.A.L. potrà essere riconosciuta per un massimo di due persone per nucleo familiare, con requisiti pressoché identici a quelli previsti per la G.I.L., e sarà pari a 350 euro mensili per 12 mensilità senza possibilità di rinnovo per il primo beneficiario, e 175 euro mensili per il secondo.

Per poter richiedere la G.A.L. dovrà essere sottoscritto il patto di attivazione digitale, in seguito alla convocazione presso il centro per l’impiego competente che dovrà avvenire entro 120 giorni dalla richiesta; in mancanza di tale sottoscrizione il beneficio sarà sospeso.

Una volta sottoscritto il patto di attivazione il percettore sarà tenuto ad aderire ad un percorso personalizzato di inserimento lavorativo, mediante la sottoscrizione di un patto di servizio personalizzato, anche coordinato con GOL. Come detto, la bozza di decreto tocca diverse argomentazioni; sono presenti numerosi ulteriori interventi che saranno oggetto di futura trattazione, in materia di sicurezza sul lavoro, Fondo nuove competenze, contratto di espansione, familiari degli studenti vittime di infortuni in occasione delle attività formative, lavoro sportivo, assegno unico universale, etc.

1. h) periodo di prova; i) formazione erogata dal datore di lavoro; l) ferie e altri congedi retribuiti; m) preavviso; n) retribuzione con periodo modalità di pagamento; o) la programmazione dell’orario normale di lavoro e le eventuali condizioni relative al lavoro straordinario; p) elementi relativi a lavori con modalità organizzative in gran parte o interamente imprevedibili; r) gli enti e gli istituti che ricevono i contributi dal datore di lavoro.

2. Sia concesso il rinvio a Baltolu M., La politica (in) attiva del reddito di cittadinanza, Sintesi, giugno 2022.

 

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LA CARICA DEI 104

Loredana Salis, Consulente del Lavoro in Milano
e Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Si può coniugare semplicità con tutela? Si può concepire il rapporto di lavoro come una relazione e non come una gabbia? Si può applicare una direttiva UE senza complicarla? Sono queste le domande che hanno indirizzato il lavoro del Centro Studi della Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano che qui siamo lieti di presentare: un testo di legge come l’avremmo scritto noi e che quindi sostituisce completamente il D.lgs. n. 104/2022 (e anche il D.lgs. n. 152/1997). Le esigenze, nate dallo sconcerto e dallo sconforto che fin dai primi giorni erano scaturiti dalla lettura del Decreto in questione, erano molteplici e stringenti: – concepire un testo di legge che non fosse il solito patchwork normativo, fatto di rimandi poco chiari, sovrapposizioni, stratificazioni; – evitare la formazione obbligatoria di documenti chilometrici ma poco, o per nulla utili (anzi, con il rischio di essere addirittura confusivi e fuorvianti) in un’epoca in cui le informazioni sono disponibili – o possono essere rese – con pochi e intelligenti mezzi; – bilanciare la gestione del rapporto e l’esercizio dei diritti di tutti senza squilibri impropri e costi ed oneri iniqui per i datori di lavoro. Dati questi presupposti, offriamo alcune brevi note di lettura per il testo che seguirà e per quanto abbiamo cercato di realizzare con questa proposta.

a) Dal decreto e dagli obblighi sono stati quasi completamente espunti i committenti (e correlativamente anche i collaboratori coordinati e continuativi): in un Paese serio – prima o poi lo diventeremo – gli autonomi sono autonomi e i subordinati sono subordinati, senza commistioni confusive. Siamo per rafforzare le tutele serie, non per annacquarle in fattispecie di dubbia o equivoca definizione.

b) I contenuti dell’informativa da fornire sono stati resi più chiari ed equilibrati, così come i modi di comunicazione ed i tempi di conservazione.

c) Gli obblighi non previsti dalla Direttiva, ma di mera invenzione italiana, sono stati aboliti: in un ambito di competizione internazionale non sembra il caso di distinguersi sempre per italici lacci e lacciuoli o per complicazioni burocratiche di derivazione vetero-ideologica.

d) È stato conservato, ancorché razionalizzato, il nucleo delle tutele che si volevano inserire o specificare: non siamo per un mercato del lavoro volto al più spinto liberismo. Dove il legislatore ha operato in ragione di un forte sbilanciamento abbiamo cercato di equilibrare le posizioni delle parti, peraltro in modo non dissimile a quello di altre norme con analogo scopo.

e) Abbiamo pensato ad un sistema sanzionatorio semplice e chiaro, che favorisca l’intesa e la rettitudine anziché meccanismi esclusivamente punitivi.

f) Abbiamo rivalutato la funzione della contrattazione, anzitutto collettiva (completamente ignorata nella stesura del decreto originario, contrariamente a quanto prevedeva la stessa Direttiva) e, in qualche caso, individuale.

g) In alcuni passaggi abbiamo anche mantenuto il testo di legge originario, integralmente o quasi: il nostro non è stato infatti un lavoro “contro” ma una riflessione “per”. Come ci è capitato di dire in casi analoghi, la (ri)scrittura normativa – certamente non facile e irta di insidie– non è stato esercizio velleitario di stile o manifestazione di presunzione ma semplice esigenza di chiarezza e di efficacia. Non abbiamo pertanto alcuna pretesa di essere stati perfetti o esaustivi, ma confidiamo di avere comunque confezionato una buona esemplificazione del senso sotteso alla Direttiva, nonché di quel che vorremmo vedere e che si potrebbe fare. Offriamo pertanto questo lavoro alla riflessione di tutti, aperti a critiche, suggerimenti, dibattito: il tentativo non è quello di sostituirsi a nessuno ma di sollecitare un confronto costruttivo non partendo da meri principi o desideri ma da un progetto concreto, misurabile parola per parola. È da ultimo doveroso un ringraziamento a tutti i colleghi che, oltre a noi, hanno contribuito a questo progetto, sacrificando tempo e risorse con la segreta speranza di non dover più perdere il sonno (o il senno) rincorrendo norme assurde o scritte in modo discutibile e approssimativo.

 

Hanno collaborato alla stesura del presente lavoro i colleghi del Centro Studi della Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano: Andrea Asnaghi, Manuela Baltolu, Alberto Borella, Margherita Bottino, Loredana Buzzanca, Mariagrazia Di Nunzio, Potito Di Nunzio, Sabrina Pagani, Maria Paladini, Paolo Reja, Alessia Riva, Loredana Salis, Federica Sgambato.

 

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Una proposta al mese – RENDIAMO IL DURC veramente positivo – 2a puntata

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Nello scorso numero della nostra Rivista1 abbiamo elencato una serie di piccole, ma a nostro avviso efficaci semplificazioni, sulla gestione amministrativa del Durc on-line, in modo da renderlo maggiormente accessibile alle aziende senza snaturarne la funzione di garanzia di regolarità, ponendo rimedio agli ostacoli che attualmente lo rendono un vero e proprio strumento di tortura.

Ahinoi, non è solo in ambito amministrativo che rinveniamo delle criticità, ma anche sotto altri aspetti che possiamo definire “di merito”, le contraddizioni non sono poche.

IL CO. 1175, ART.1 DELLA L. N. 296/2006

E Durc fu.

E non solo, poiché il celeberrimo co. 1175, art. 1 della L. n. 296/2006 ha reso obbligatorio, per usufruire di qualsivoglia agevolazione contributiva, oltre al possesso del Durc regolare, anche il pieno rispetto degli altri obblighi di legge, nonché degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale che, la cui definizione attendiamo tutti con apprensione di conoscere, da che mondo è mondo, come fossimo in attesa del messia. Tralasciando la mancata individuazione dei contratti collettivi citati dal co. 1175, la cui discussione meriterebbe fiumi di inchiostro, e soffermandoci invece sulla necessità di dover dimostrare la regolarità aziendale ai fini di beneficiare degli sgravi contributivi, il punto fondamentale da evidenziare è che il Durc (come già abbiamo avuto modo di affermare nel numero precedente di questa Rivista), altro non è che una mera certificazione amministrativa della regolarità aziendale, che non costituisce elemento fondante del diritto al beneficio, ma solo condizione di mantenimento o perdita di quello stesso beneficio, qualora abbia esito irregolare. Il diritto dell’azienda a fruire degli sgravi nasce nel momento in cui essa ha tutti i requisiti stabiliti dalla norma che regolamenta lo sgravio stesso e, per tale motivo, può immediatamente usufruirne.

È a posteriori che interviene l’obbligo di Durc regolare che, se assente, preclude il proseguimento alla fruizione del beneficio, dal momento in cui si accerta l’irregolarità e fino al momento in cui la stessa viene ristabilita, come puntualmente confermato dall’Inl nella circolare n. 3/2017 che richiamava a sua volta la risposta ad interpello del Ministero del lavoro n. 33/2013.

Resta pertanto sconcertante la prassi adottata da diverse sedi Inps che, anziché limitare il recupero delle agevolazioni contributive al solo periodo di accertata irregolarità aziendale, sfruttano il limite massimo di prescrizione, per procedere al diniego degli sgravi fruiti negli ultimi 5 anni.

A tal proposito,  sarebbe quindi quantomeno opportuno un chiaro ed immediato intervento normativo che limiti una volta per tutte il recupero delle agevolazioni con esclusivo riferimento al periodo di accertata irregolarità aziendale.

Andando oltre, sarebbe opportuno riportare nel medesimo intervento normativo anche quanto previsto dalla citata circolare Inl n. 3/2017 “Va pertanto chiarito che, mentre l’eventuale assenza del Durc (che può peraltro derivare da un accertata violazione di legge e/o di contratto) incide sulla intera compagine aziendale e quindi sulla fruizione, per tutto il periodo di scopertura, dei benefici, le violazioni di legge e/o di contratto (che non abbiano riflessi sulla posizione contributiva) assumono rilevanza limitatamente al lavoratore cui gli stessi benefici si riferiscono ed esclusivamente per una durata pari al periodo in cui si sia protratta la violazione”, per evitare che il giudice eccessivamente rispettoso della gerarchia delle fonti non consideri pienamente valido tale importantissimo concetto poichè contenuto in un atto di prassi, magari ribaltando sull’intera azienda l’irregolarità accertata sul singolo lavoratore, qualora trattasi, appunto, di violazione di legge e/o di contratto senza riflessi sulla posizione contributiva.

IL DISCONOSCIMENTO DELLE COMPENSAZIONI DEI DEBITI CONTRIBUTIVI CON CREDITI DI ALTRA NATURA

Continuano inoltre a spuntare come funghi sentenze (per fortuna finora di merito), che affermano l’illegittimità della compensazione tra debiti contributivi e crediti di altra natura, argomento già trattato su questa Rivista2, e di cui anche Assonime si è preoccupata nel caso n.3/2023 pubblicato sul proprio sito. Tale preoccupante orientamento deriva da un’interpretazione distorta dell’art. 17 del D.lgs.241/1997, che recita “I contribuenti eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all’Inps e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggettirisultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Orbene, i giudici che si sono espressi in materia considerano l’espressione nei confronti dei medesimi soggetti”, riferita non al singolo contribuente, come è logico ed immediato intuire, ma ritengono invece che il legislatore si riferisca al singolo ente, precludendo, di conseguenza, compensazione tra debiti e crediti di differente natura.

Eppure, già il comma 1 dell’art.22 del medesimo D.lgs. n. 241/1997, intitolato “Suddivisione delle somme tra gli enti destinatari” afferma che “Entro il primo giorno lavorativo successivo a quello di versamento delle somme da parte delle banche e di ricevimento dei relativi dati riepilogativi, un’apposita struttura di gestione attribuisce agli enti destinatari le somme a ciascuno di essi spettanti, tenendo conto dell’eventuale compensazione eseguita dai contribuenti”, ergo, come confermato anche nell’interpretazione di Assonime, in caso di compensazione di debiti previdenziali con crediti fiscali, l’Inps riceve in accredito da parte dell’Erario l’importo portato in compensazione, con assolvimento del debito previdenziale. E pensare che la legge delega del D.lgs. n. 241/97, ovvero la L. n. 662/1996, alla lettera b), c. 134, art. 3, menziona candidamente i “versamenti unitari, anche in unica soluzione, con eventuale compensazione, in relazione alle esigenze organizzative e alle caratteristiche dei soggetti passivi, delle partite attive e passive, con ripartizione del gettito tra gli enti a cura dell’ente percettoreprevedendo chiaramente ciò che oggi i giudici di merito negano a spada tratta.

È doveroso aggiungere che nelle sentenze contro tali compensazioni (Trib. Milano n. 2207/2021 e n. 7823/2022, Trib. Brescia n. 1251 /2022), vi è un ulteriore elemento, ovvero la paventata inesistenza dei crediti portati in compensazione, dei quali l’Inps si prodiga di accertare la sussistenza e, nelle more di ciò, ,  ritiene preclusa la compensazione. Considerato quanto disposto dal citato c.1, art. 22, D.lgs. n. 241/97, nasce spontaneo il dubbio relativamente alla legittimità dell’azione diretta dell’Inps contro il contribuente nel recupero del debito previdenziale, poiché appare logico dedurre che, come confermato anche dalla circolare del Ministero delle finanze n. 101/2000, nonché dalla risoluzione Ag. Entrate n. 452/2008, la compensazione su F24 non dovrebbe risentire dell’effettiva sussistenza del credito su cui, invece, l’ente legittimato al recupero del corrispondente importo appare essere la stessa Agenzia delle Entrate, fatti salvi naturalmente i casi in cui l’Inps non abbia ricevuto dalla stessa il “giroconto” a copertura del debito. È inoltre banale ma doveroso ricordare che i crediti previdenziali possono essere compensati in F24 con qualsiasi tipologia di debito, a maggior ragione davvero non si comprende il recente accanimento contro l’operazione contraria. Per dissipare qualsivoglia dubbio, è necessario un brevissimo intervento normativo che chiarisca la piena legittimità delle compensazioni tra partite di origine diversa, confermando le regole introdotte sia dalla L. n. 662/96 nonché, visto quando accaduto con il D.lgs. n. 241/97, inserendo una maggiore rigidità nell’emanazione dei decreti attuativi delle leggi delega, che dovranno riportare in maniera pedissequa la volontà espressa nella legge delega, onde evitare pericolose

elucubrazioni nelle aule dei tribunali come nel caso in trattazione. Infine, è doverosa una riflessione finale sui 4 miliardi3 destinati ad incentivare l’occupazione nelle aree svantaggiate del nostro paese, nonché l’occupazione delle donne e dei giovani mediante il sistema degli sgravi contributivi che è sempre più complicato applicare e mantenere: una sostanziale e strutturale riduzione del costo del lavoro a fronte di riduzioni temporanee che spesso si rivelano “trappole”, anche in conseguenza delle criticità di gestione del Durc, è l’unica soluzione logica da percorrere.

Oltre ad un beneficio immediato per le aziende, anche la collettività ne tratterebbe giovamento, non solo per la maggiore propensione ad occupare nuove risorse umane, ma anche perché la riduzione del contenzioso che inevitabilmente si verrebbe a creare, comporterebbe un ingente risparmio di tempo e denaro da parte sia delle amministrazioni pubbliche (e quindi di ogni singolo cittadino), che delle imprese coinvolte.

Per la tabella delle proposte clicca qui.

 

  1. M.Baltolu, Rendiamo il Durc veramente positivo!!!, Sintesi, 1, 2023.
  2. M. Baltolu, Giù le mani dalle compensazioni, Sintesi, 3, 2022.
  3. Fonte: Piano italiano REACT-EU.

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Una proposta al mese – RENDIAMO IL DURC veramente positivo

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Compie tra poco 16 anni, ormai è quasi “maggiorenne” ma, a quanto pare, non ancora “matura” – per usare il termine scolastico che dovrebbe sancire l’avvenuta crescita cognitiva dello studente – la norma che da luglio 20071 ha subordinato la spettanza di benefici normativi e contributivi ad una serie di condizioni imprescindibili, ovvero il possesso da parte dei datori di lavoro del documento unico di regolarità contributiva – Durc con esito regolare, oltre al rispetto degli altri obblighi di legge nonché degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Sempre nel mese di luglio, nel 20152, la procedura di richiesta del Durc è stata resa completamente telematica e da diversi anni, pertanto, aziende e professionisti hanno a che fare con il “grande fratello” Durc, la cui finalità è certamente encomiabile, ovvero consentire la partecipazione a bandi ed appalti e premiare mediante facilitazioni contributive e normative solo le aziende perfettamente in regola con il pagamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi ma, purtroppo, date le molteplici criticità della procedura che porta al tanto agognato rilascio del certificato, per molte aziende e di riflesso per chi, come noi, le assiste, è diventato un vero e proprio “strumento di tortura”, che ha dato adito a numerosi procedimenti legali.
Come noto, laddove vi è un cospicuo contenzioso vi è evidentemente poca chiarezza normativa e/o farraginosità delle procedure.
Orbene, semplificare, nel senso letterale del termine “Rendere semplice o più semplice; rendere più agile e funzionale; facilitare, agevolare, alleggerire 3”, può certamente comportare una riduzione delle   controversie, con risparmio di tempo e di denaro pubblico e privato nonché, risultato ben più importante, coadiuvare le aziende, soprattutto le micro imprese che, ricordiamo, costituiscono oltre il 90% del nostro tessuto produttivo, a ristabilire la regolarità nel momento in cui si fosse perduta, per tutta una serie di motivazioni che possono andare dalla banalissima momentanea mancanza di liquidità
all’errore formale. Le imprese prive di Durc regolare non possono accedere a benefici che spesso rappresentano quella piccola ma indispensabile boccata di ossigeno nell’ambito della riduzione del costo contributivo dei rapporti di lavoro, che sappiamo bene essere nel nostro paese il secondo nell’area Ocse4, oltre ad aver preclusa la partecipazione a bandi, appalti ed affidamenti pubblici. Permettere ai datori di lavoro un accesso più semplice alla regolarità significherebbe rendere liquidi i crediti provenienti dalla pubblica amministrazione in primis, ma anche dai privati, favorendo un atteggiamento di fiducia nel futuro, che gioco-forza porterebbe ad una maggiore predisposizione agli investimenti volti alla crescita aziendale e, di conseguenza, con immancabili effetti positivi sull’intero sistema economico.
Ad oggi purtroppo, anche dal punto di vista amministrativo, i paletti sono parecchi, ma la buona notizia è che con piccoli interventi si potrebbero ottenere grandi risultati.
Tanto per cominciare, il Durc ha una validità di 120 giorni dalla data di effettuazione della verifica5, ma nella quasi totalità dei casi tale  periodo viene considerato decorrente, invece, dalla data in cui viene inoltrata la richiesta telematica. Inoltre, la richiesta non può essere inoltrata se non a partire dal giorno successivo alla scadenza del Durc precedentemente valido.
Ipotizziamo dunque che si richieda il Durc in data 1° marzo; poiché gli enti coinvolti hanno 30 giorni di tempo per il rilascio, il documento potrebbe essere emesso il 31 marzo, ma scadrà il 28 giugno (120 giorni dalla data della richiesta, cioè dal 1° marzo).
Il Durc successivo potrà essere richiesto solo a partire dal 29 giugno e, per effetto dei 30 giorni di cui sopra, potrebbe essere emesso anche il 29 luglio (ovviamente con data di validità 29 giugno e via discorrendo). In sostanza l’azienda potrebbe restare orfana di Durc dal 29 giugno al 29 luglio, e nelle dinamiche aziendali sappiamo bene cosa significa procrastinare gli incassi di un mese, ovvero non poter accedere ad agevolazioni, partecipare ad appalti ecc., con l’aggravante del particolare momento post  covid ed in costanza delle conseguenze derivanti dal conflitto russo ucraino relative al caro gas ed energia, nonché all’aumento dell’inflazione ed al conseguente rincaro del costo della vita.
In considerazione dei 30 giorni di tempo concessi agli enti per emettere il certificato, ci sembra quantomeno doveroso concedere agli utenti di poter richiedere il nuovo documento almeno 30 giorni prima della scadenza, al fine di evitare “vuoti” come descritto nell’esempio.
Tra l’altro, anche far decorrere la validità del documento dalla data di emissione e non dalla data della richiesta, dovrebbe essere una conseguenza piuttosto logica.
Soffermandoci sulle tempistiche di rilascio che, come detto, possono arrivare fino a 30 giorni, definire inadeguato il termine di 15 giorni concesso al contribuente per regolarizzare è un eufemismo, come lo è considerare tali 15 giorni di calendario anziché lavorativi, poiché siamo tutti consapevoli che enti  pubblici e banche osservano prevalentemente la chiusura nei giorni festivi e prefestivi e, pertanto, spesso riuscire a sanare eventuali scoperti diventa veramente un’impresa titanica. Per non parlare delle  situazioni in cui le aziende sono costrette a chiedere una dilazione del pagamento, dovendo in tali casi attendere obbligatoriamente i tempi di lavorazione delle pratiche, evidentemente indipendenti dalla loro volontà, che la L. n. 241/1990 fissa in 30 giorni (termine ordinario per l’emissione del provvedimento di autorizzazione al pagamento dilazionato)6, palesemente in contrasto con i 15 giorni concessi al contribuente per regolarizzare. È utile ricordare che senza la notifica del piano di  ammortamento del debito, non è possibile versare la prima rata e, quindi, accedere alla regolarizzazione.
A tal fine quindi, portare il termine della regolarizzazione a 30 giorni lavorativi pare veramente il minimo sindacale, termine che dovrebbe essere elevato a 45 giorni in caso di  richiesta di dilazione.
A sostegno di quanto proposto, se la stessa norma prevede che “L’interessato, avvalendosi delle procedure in uso presso ciascun Ente, può regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a 15 giorni dalla notifica dell’invito di cui al comma 1”, il Ministero del lavoro nella circolare n. 19/2015, ha chiarito che “tuttavia gli istituti non potranno dichiarare l’irregolarità qualora la  regolarizzazione avvenga comunque prima della definizione dell’esito della verifica che altrimenti attesterebbe una situazione – il mancato versamento di somme dovute – non corrispondente alla realtà. Conseguentemente, il rilascio del Durc terrà conto dell’avvenuta regolarizzazione, che in ogni caso dovrà avvenire prima del trentesimo giorno dalla data della prima richiesta”.
Alla luce di ciò appare ancor più ragionevole estendere tout court il termine per la regolarizzazione, oltre alla necessità di prevedere la riapertura del Durc irregolare qualora l’istruttoria sia stata ultimata ed il certificato emesso prima dei 30 giorni, ma il contribuente abbia nel frattempo regolarizzato entro tale  termine, anche se successivo all’emissione del documento, purché all’interno dei 30 giorni.
D’altronde sono note le lungaggini derivanti dalle più disparate casistiche, quali ad esempio i debiti in fase legale-amministrativa appena “ceduti” all’agente della riscossione, il cui ruolo esecutivo non sia ancora stato formato; in tale fattispecie non è possibile saldare il debito presso l’agente della riscossione, in quanto non ancora formalizzato, né presso l’istituto di previdenza, in quanto non più in fase legale- amministrativa. Anche qualora gli importi siano già iscritti a ruolo si verifica comunque un allungamento dei tempi di risoluzione della situazione debitoria, poiché l’eventuale richiesta di dilazione deve essere lavorata da un ente terzo rispetto ad Inps ed Inail; pertanto, in presenza di debiti a ruolo e non, occorre operare su due ambiti paralleli, ovvero, con l’Agenzia delle Entrate per le somme in cartella esattoriale, e con gli enti per i restanti importi.
Se poi, come spesso accade, le gestioni con esposizioni debitorie sono più di una, per fare un banale esempio, DM10, Gestione separata e Gestione autonomi artigiani, le corsie su cui lavorare si moltiplicano e vi è l’ulteriore aggravio di dover inviare a ciascuna gestione l’allegato “SC18”, con il riepilogo degli importi dovuti su tutte le altre gestioni, con esclusione di quella a cui si invia; in pratica, nel caso prospettato, è necessario produrre tre diversi “SC18”, ognuno dei quali soggiace alle tempistiche di lavorazione delle tre diverse gestioni.
Appare allora chiara l’urgenza di un sistema unitario, che permetta alle singole gestioni di comunicare e poter avere contezza in tempo reale della regolarizzazione operata anche negli altri comparti.
Altra criticità è costituita dal “periodo di osservazione” della regolarità ai fini del Durc, ovvero la verifica che gli enti devono operare che non può arrivare oltre il secondo mese precedente la richiesta7.
Questa apparente facilitazione non è però operativa in caso di domanda di dilazione che, come noto, deve comprendere tutto il debito esistente alla data di inoltro della domanda stessa, annullando di fatto il limite di verifica al secondo mese precedente la richiesta di Durc.
Sarebbe logico, pertanto, adeguare anche il sistema di dilazione alla verifica ai fini del Durc, consentendo di rateizzare solo ciò che concretamente viene esposto nel preavviso di irregolarità, senza andare oltre.
In aggiunta a ciò, molte sedi Inps esigono anche l’invio del modello Uniemens riferito all’ultimo mese di retribuzioni, nonché il relativo pagamento, anche se entrambe le scadenze non sono ancora spirate.
In pratica, per chiudere un Durc entro il giorno 10 del mese di marzo, ad esempio, viene preteso l’invio del modello Uniemens riferito a febbraio, la cui scadenza è al 31 marzo, ed il pagamento di quanto  dovuto, benché la scadenza sia al 16 di marzo.
L’intera istruttoria gioverebbe di un importante snellimento se venisse identificata un’unica dead line di riferimento dei controlli di regolarità, verosimilmente stabilita nel secondo mese precedente all’inoltro della richiesta.
Fin qui sono state esaminate le possibili modifiche di tipo amministrativo, che incidono prevalentemente sulla parte gestionale-operativa di rilascio del Durc, ma non possiamo non spendere qualche parola sulle problematiche di merito, tutte peraltro già affrontate in più round dalla giurisprudenza nonché da questa stessa Rivista.
La prima considerazione doverosa riguarda la corretta decorrenza del disconoscimento delle agevolazioni in caso di Durc irregolare. L’Ispettorato nazionale del lavoro nella circolare n. 3/2017 afferma che “L’assenza del Durc chiaramente determina il mancato godimento dei benefici di cui gode l’intera compagine aziendale per il relativo periodo, così come del resto già chiarito dal Ministero del lavoro con risposta ad interpello n. 33/2013, secondo l a quale “una volta esaurito il periodo di non rilascio del Durc l’impresa potrà evidentemente tornare a godere di benefici “normativi e contributivi”, ivi compresi quei benefici di cui è ancora possibile usufruire in quanto non legati a particolari vincoli temporali”. È quindi lapalissiano che in presenza di Durc non regolare il disconoscimento dei benefici
eventualmente spettanti potrà avvenire solo per il periodo in cui l’irregolarità sia stata accertata e fino all’avvenuta regolarizzazione, cioè per il lasso di tempo intercorrente tra l’emissione del Durc non regolare e il successivo rilascio del Durc regolare.
Ma, ahimè, tra gli operatori è tristemente nota la prassi utilizzata da molte sedi Inps che procedono al recupero di tutti i benefici fruiti nei 5 anni precedenti l’accertata irregolarità, in applicazione della prescrizione quinquennale.
Ebbene, tale applicazione restrittiva non è certamente condivisibile, poiché il beneficio contributivo
costituisce un diritto in capo all’impresa, derivante dal rispetto di determinate condizioni stabilite dalla normativa di riferimento, allorquando si stipulino determinate tipologie contrattuali, con determinate tipologie di soggetti, aventi determinate tipologie di requisiti, diritto che, evidentemente, non viene generato con l’emissione del Durc. Il co. 1175, art.1 della L. n. 296/2006, subordina la mera continuità di applicazione dei benefici alla presenza del Durc regolare, che costituisce quindi una sorta di autorizzazione al proseguimento della fruizione, assunto pienamente sposato dall’interpretazione dell’Inl.
Altro boccone amaro, fortunatamente addolcito da alcune sentenze di merito, riguarda le irregolarità
“formali”, quali, ad esempio, il mancato invio del modello Uniemens a fronte dell’avvenuto pagamento dei contributi dovuti, che spesso e volentieri ha determinato emissione di Durc con esito negativo.
Recenti pronunce8 confermano che l’assenza di regolarità che dà luogoall’emissione di Durc negativo, è determinata esclusivamente dalla condizione indicata dall’art. 3 del D.M. del M.L.P.S. del 30.01.2015 che al co. 1 recita: “La verifica della regolarità in tempo reale riguarda i pagamenti dovuti dall’impresa in relazione ai lavoratori subordinati e a quelli impiegati con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, che operano nell’impresa stessa nonché, i pagamenti dovuti dai lavoratori autonomi, scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive”.
Argomenta il Giudice romano nella sentenza del 16.03.22 che “nessuna disposizione (…..) autorizza l’Inps ad emettere, come ha fatto in questa vicenda, un Durc negativo che genera poi le conseguenze previste dall’art. 1 co.1175 in una situazione in cui nessuna omissione nei “pagamenti dovuti all’impresa” si è mai verificata”.
Tale chiosa non può che trovarci d’accordo, fermo restando che, naturalmente, su invito dell’istituto, l’azienda dovrà adempiere al mancato invio entro i 30 giorni paventati per la regolarizzazione.
Il Durc è ormai uno strumento di lavoro indispensabile, dall’indubbia valenza, ma che deve essere reso il più accessibile possibile, in modo da affiancare le aziende nel cammino verso la legalità ma, allo stesso tempo, non può e non deve diventare un ostacolo a causa delle descritte criticità che tuttavia appaiono sanabili con alcuni interventi correttivi.

Clicca qui per la tabella delle proposte.

 

 

1. Art.1, c.1175, L. n. 296/2006.

2. D.M. M.L.P.S., M.E.F. e Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione del 30 gennaio 2015.

3. Cit.: Treccani.it

4. Lucini G., Tasse, il cuneo fiscale in Italia è il quinto più alto tra i Paesi Ocse: 46,5% nel 2021, Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2022-.

5. Art.7, co.2, D.M. 30 gennaio 2015.

6. Sito web Inps – “Rateazione dei debiti contributivi in fase amministrativa”- https://www.inps.it/prestazioni-servizi/rateazione- dei-debiti-contributivi-in-fase-amministrativa.

7. Art.3, co.2, D.M. 30 gennaio 2015.

8. Tribunale di Roma 11.03.2022 e 16.03.2022.

 

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Una proposta al mese – 2999 PIÙ UNO: no, semplifichiamo

di Manuela Baltolu, Consulente del lavoro in Sassari e Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi) 

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

DUE RIFLESSIONI PRELIMINARI
Ci sono cose di cui non si sente minimamente il bisogno: una gomma bucata,
un’auto che ti schizza passando sopra una pozzanghera, l’ombrello che si inceppa nel bel mezzo di un acquazzone, la visita di un parente noioso, l’influenza a ridosso di una vacanza.
Fra di esse c’è anche un conguaglio dicembrino che si prospetta  articolarmente oneroso e complicato, come vedremo. Infatti, in seguito all’innalzamento della soglia di esenzione fiscale e previdenziale a 3.000 euro dei fringe benefit introdotta dal c. 10, art. 3 del D.l. n. 176/2022, chi già ha percepito durante tutto l’anno retribuzioni in natura (oltre i 258,23 euro fino al 9 agosto 2022, ovvero oltre 600 euro dal 10 agosto 2022 in poi per effetto dell’art. 12, D.l. n. 115/2022) e, come previsto dal c. 3, art. 51 del TUIR ha subito le prescritte trattenute previdenziali e fiscali, ora, in virtù  dell’ulteriore modifica del limite imponibile, qualora tali importi in natura non sforino l’importo di 3.000 euro avrà diritto al recupero di tutte le ritenute subite in seguito al ricalcolo del conguaglio previdenziale e fiscale cui il datore di lavoro è tenuto.
Ciò avverrà con tutte le criticità del caso, ovvero difficoltà di reperimento degli importi eventualmente percepiti in altri rapporti di lavoro, nonché gestione delle situazioni relative a rapporti di lavoro cessati prima dell’entrata in vigore del nuovo limite, per i quali si paventa l’obbligo di emissione di un cedolino
aggiuntivo con il solo conguaglio.
Fiscalmente parlando, anche la dichiarazione dei redditi potrebbe venire in aiuto degli addetti ai lavori, consentendo il conguaglio definitivo in quella sede.
Ma è la parte previdenziale che appare particolarmente complessa da gestire, poiché dover inserire nel libro unico del lavoro (LUL) un imponibile  contributivo a credito per un importo fino a 3.000 euro potrebbe comportare non solo l’azzeramento dell’imponibile del mese, ma anche, in qualche caso,
trasformarlo con segno negativo qualora fosse di importo inferiore all’imponibile del fringe benefit, condizione questa che renderebbe impossibile la trasmissione del flusso uniemens.
L’eventuale importo negativo potrebbe inoltre “trascinarsi” in periodi successivi, ad esempio nel caso di riduzione dell’imponibile previdenziale per trasformazione di contratto da full-time a part-time e situazioni similari.
Ci giunge notizia che l’Inps sta approntando una circolare con la quale comunicherà l’introduzione di un meccanismo che dovrebbe consentire comunque l’invio dei flussi, probabilmente creando un apposito codice con cui indicare l’importo a credito, ma resta da vedere come potranno essere gestite le casistiche in cui il credito non venga esaurito in un’unica mensilità.
L’alternativa può essere una sola purtroppo, ovvero la procedura di  regolarizzazione Vig, che comunque creerebbe il solito disallineamento
tra il momento dell’effettiva erogazione del rimborso delle somme a credito ai lavoratori da parte del datore di lavoro e il recupero delle stesse, oltre che moltiplicare gli adempimenti per aziende e addetti ai lavori che, nel 2022, hanno visto forse l’anno peggiore per quanto riguarda recuperi di ogni genere (vedi esonero contributivo per i lavoratori nonché quello specifico per lavoratrici madri), erogazioni di indennità una tantum moltiplicate per  due/tre  periodi a seconda dei casi, ad esempio per imponibili contributivi  azzerati in seguito ad eventi con copertura previdenziale figurativa, nonché per i lavoratori “sbadati” che non avessero consegnato la dichiarazione nei  termini, oltre a variazione di flussi già trasmessi, nonché recuperi di alcune tipologie di sgravi contributivi sostituite da altre tipologie, e quant’altro accaduto nell’anno che sta per lasciarci. Insomma, diciamocelo, variare un limite di esenzione sul rushfinale dell’anno non è stata proprio un’ideona in termini gestionali, fermo restando l’evidente vantaggio economico per lavoratori e imprese.
Sono tutte cose che sarebbe stato decisamente meglio non fare: snaturare il welfare,dare agevolazioni fisco-contributive a pioggia, raggiungendo spesso anche chi non ne aveva assoluto bisogno (che capiremmo se nuotassimo nell’oro, ma siccome le risorse sono limitate …).
Il rischio aggiuntivo che si corre è proprio quello di banalizzare la finalità  sociale del welfare aziendale che rappresenta l’elemento che giustifica la tassazione agevolata attualmente in essere per imprese e lavoratori. Una quota così elevata di fringe benefit formalizzata a poco più di un mese dalla fine dell’anno rischia infatti di scoraggiare la costruzione dei piani di welfare“puro”, ovvero incentrato sui reali bisogni sociali dei propri  collaboratori, poiché è molto più semplice e veloce erogare, ad esempio, buoni acquisto o carburante, con un impegno minimo dal punto di vista organizzativo e amministrativo. Senza contare l’assoluta discrezionalità del datore riguardo ai soggetti a cui destinare tali benefit. Ma siccome tutto questo purtroppo ci capita, un po’ ne parliamo ma poi proattivamente proponiamo. Anche perché speriamo, magari, che non ci capiti più.

LA NOSTRA PROPOSTA
Note esplicative preliminari alle modifiche proposte.
L’art. 51 cambia, rispetto all’attuale, in tre punti essenziali, relativi al terzo periodo del comma e all’aggiunta di un quarto periodo, restando invariata la modalità generale di determinazione del valore normale dei beni o delle prestazioni in natura come stabilita dai primi due periodi.
Si introduce un mero aumento del valore, prima fissato a 258,23 euro (le vecchie 500.000 lire), che viene elevato a 600 euro, in funzione dell’andamento del costo della vita dalla data di approvazione del testo originale ad oggi.
Secondariamente, tale valore viene fissato come franchigia, prevedendo la tassazione solo per la parte eccedente 600 euro. Esemplificando, se un dipendente riceve beni per 1000 euro, la parte imponibile risulta quella di 400, cioè quella oltre il valore franchigia.
Il criterio permette di avere una rapida certezza a tutte le parti in causa (datore, lavoratore, enti) della tassazione di quanto erogato. Inoltre, consente di non penalizzare enormemente sforamenti irrisori (e magari involontari o ingenui) di detto limite, andando a riprendere a tassazione quanto già acquisito come esente. Più complessa, ma egualmente informata ad un senso di giustizia, semplicità e chiarezza, è l’introduzione dell’ultimo periodo, che prevede che, ai fini del computo del raggiungimento del predetto limite, non vadano considerati beni e servizi o prestazioni in natura già soggetti a tassazione secondo il valore normale o convenzionale del bene.
Se infatti su tali prestazioni il contribuente già paga una tassazione, normale o agevolata (rectius,forfetaria) non si vede perché i valori dovrebbero essere nuovamente posti in gioco. Ciò deprimerebbe lo scopo della norma in questione, che sostanzialmente prevede una soglia minima di liberalità o benefit non tassabile. Si tratta di un’ampia gamma di ipotesi che vanno dal regalo occasionale in occasione di festività (normalmente quelle natalizie) alle  cene o gite aziendali o a prestazioni di piccoli beni/servizi occasionali interni all’azienda (ad es. il caffè, la compilazione del mod. 730 etc.), cifre irrisorie sulle quali giustamente lo Stato non intende incidere per evidenti ragioni e buona pace di tutti.
Tuttavia, nemmeno pare equo che qualora tali prestazioni siano rivolte a dipendenti che fruiscono di beni soggetti a tassazione (un caso su tutti, l’autovettura ad uso promiscuo per l’intero anno), qualsiasi benefit o liberalità sia soggetta a tassazione, magari per importi risibili.
D’altronde si rifletta per assurdo su una considerazione molto semplice: se per tali beni (poniamo di valore 4.000 euro) l’azienda corrispondesse al  dipendente un lordo del medesimo importo (4.000 euro ) come retribuzione e poi rivendesse al dipendente tali beni/servizi percependo dal lavoratore la stessa cifra (4.000) come corrispettivo, si determinerebbe una situazione per cui il dipendente pagherebbe le stesse tasse (e l’azienda la medesima contribuzione), come se il tutto fosse stato trattato come retribuzione in natura, ma il dipendente risulterebbe non aver ricevuto alcun bene dall’azienda (li ha comprati) e quindi ritornerebbe nella disponibilità di ricevere beni dall’azienda per il pieno importo (quale che sia) del comma 3 in questione.
La specifica all’art. 95 del TUIR, invece, vuole solo evitare (sembra scontato, ma sempre meglio precisare), che qualora i beni omaggiati al lavoratore siano della stessa qualità di quelli all’art. 100 (ad esempio, un biglietto di teatro o di concerto, inquadrabili teoricamente in un bene con finalità ricreativa), possa insorgere il sospetto su un limite alla loro detraibilità in funzione delle specifiche previsioni dell’art. 100.
Anche questo sarebbe tuttavia un assurdo: è di tutta evidenza che le opere o i servizi dell’art. 100 hanno una loro specifica deducibilità in funzione di una  “vocazione welfare” (lo riconosce la stessa Agenzia delle Entrate nella circolare n. 28/2016, inserendo nell’articolo 100 tutte le poste di welfare della lettera f comprese le f/bis ed f/ter) dell’art. 51, comma 2. Ora sembra a chi scrive contraddittorio che beni o servizi di cui viene riconosciuta un’utilità sociale potrebbero avere delle limitazioni di detraibilità fiscale rispetto a benefit del tutto generici.
Il dubbio appare però legittimo, in particolare in seguito all’affermazione dell’Agenzia delle entrate contenuta nella circolare n. 27/2022 relativa al bonuscarburante introdotto dall’art. 2 del D.l. n. 21/2022: “non rientrando la fattispecie in commento nelle ipotesi di cui all’articolo 100, comma 1 del TUIR, il costo connesso all’acquisto dei buoni carburante in commento sia integralmente deducibile dal reddito d’ impresa, ai sensi del richiamato articolo 95 del TUIR, sempreché l’erogazione di tali buoni sia, comunque, riconducibile al rapporto di lavoro e, per tale motivo, il relativo costo possa qualificarsi come inerente”; ergo, il bonus carburante è pienamente deducibile dal reddito d’impresa in ragione della finalità della sua erogazione, che non risulta essere di educazione, né di istruzione, né di ricreazione, né di assistenza sociale, né sanitaria o di culto.
Ecco, quindi, le modifiche che proponiamo.

In grassetto quanto modificato rispetto al testo attuale. L’art. 51, comma 3 del TUIR (D.P.R. n. 917/86) è così modificato

3. Ai fini della determinazione in denaro dei valori di cui al comma 1, compresi quelli dei beni ceduti e dei servizi prestati  al coniuge del dipendente o a familiari indicati nell’articolo 12, o il diritto di ottenerli da terzi, si applicano le disposizioni relative alla determinazione del valore normale dei beni e dei servizi contenute nell’articolo 9. Il valore normale dei generi in natura prodotti  dall’azienda e ceduti ai dipendenti è determinato in misura pari al  prezzo mediamente praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista.
Non concorre a formare il reddito il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se complessivamente di importo non superiore nel periodo d’imposta ad euro 600; se il predetto valore è superiore al citato limite, concorre a formare il reddito esclusivamente la quota eccedente dello stesso.
Ai fini del raggiungimento del predetto valore non concorrono i beni e servizi il cui valore, determinato ai sensi del presente comma, primo periodo, e del successivo comma 4, viene corrisposto dal dipendente o costituisce per esso reddito imponibile nel medesimo periodo di imposta.
L’art. 95, comma 1 del TUIR (D.P.R. n. 917/86) è così modificato:
1. Le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito comprendono anche quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori, salvo il disposto dell’articolo 100, comma 1.
Le spese per prestazioni in beni o servizi di cui all’art. 51 comma 3, nei limiti ivi stabiliti, sono altresì sempre interamente deducibili, qualunque sia la loro natura e finalità.

Ah sì ci sarebbe un’ultima cosa, ma non riusciamo a scriverla compiutamente in senso positivo, perché è una cosa che semplicemente non si dovrebbe più fare. Qualora venisse in mente a qualcuno di dare altri benefit, lasciate stare il comma 3, scrivete quel che volete ma in un’altra parte dell’art. 51. Ve ne saremo infinitamente grati.

 

 

 

 

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L’ANNO CHE VERRÀ – prime indiscrezioni sulla Legge di Bilancio per il 2023

Manuela Baltolu, Consulente del Lavoro in Sassari (Ss)

Il 22 novembre 2022 si è tenuta la conferenza stampa del Consiglio dei Ministri che ha presentato la prima manovra di bilancio del neo insediato governo. Fatte le dovute premesse sul fatto che i tempi per elaborare la bozza del disegno di legge siano stati oltremodo ristretti, e che le risorse a disposizione fossero piuttosto scarse, in linea di massima l’intento è quello di apportare correttivi temporanei all’attuale scenario, per poi procedere dal 2024 a riforme strutturali in materia di riduzione del cuneo fiscale, reddito di cittadinanza e sistema pensionistico. Sul fronte lavoro sono state rivisitate misure già esistenti, apportando qualche variazione e prorogandone la validità.

Relativamente alla celeberrima e blasonata riduzione del cuneo fiscale, viene prorogata a tutto il 2023 (art. 52 della bozza di Legge di Bilancio attualmente conosciuta) l’attuale decontribuzione del 2% a favore dei lavoratori, introdotta dalla L. n. 234/2021 (art. 1, co. 121), come modificata dal decreto “aiuti-bis” (D.l. n. 115/2022, art. 20, co. 1), per coloro che hanno un imponibile previdenziale annuo non superiore a 34.992,00 euro1, con buona pace di telegiornali e testate giornalistiche che continuano ad indicare come parametro di riferimento il “reddito”. La medesima misura viene innalzata al 3% per tutti coloro che avranno un imponibile previdenziale annuale non superiore a 19.994,00 euro2, definito “retribuzione imponibile” nell’art. 52 della bozza che, anche in questo caso, non si riferisce al “reddito”, nonostante gli slogan giornalistici lo definiscano così. Resta pertanto inattuata la redistribuzione della riduzione del cuneo tra aziende e lavoratori richiesta a gran voce da Confindustria, 1/3 alle prime e 2/3 ai secondi, anche se il Governo ha comunque espresso la volontà di portare la percentuale al 5% entro fine legislatura. Per quanto riguarda gli incentivi per l’occupazione (art. 57 della bozza diffusa al 27 novembre 2022), vengono riproposte tout court due misure introdotte dalla L. n. 178/2020 per il biennio 2021-2022, anche se materialmente attive fino al 30 giugno 2022 per mancata proroga dell’autorizzazione da parte della UE conseguente alla scadenza, nella medesima data, del temporary framework, ovvero l’incentivo under 36 (co. 10 art. 1 L. n. 178/2020), e l’esonero donne al 100% (co. 16, art. 1 L. n. 178/2020), entrambe attuabili solo previa autorizzazione UE ai sensi dell’art. 108, par. 3, del T.F.U.E.3

Facendo espresso richiamo al solo co.1 art. 1 della L. n. 178/2020, pare che la durata di 48 mesi dell’under 36 nelle regioni del mezzogiorno non sia, per ora, prevista. L’unica novità vera e propria in materia di incentivi al lavoro è costituita dal nuovo esonero contributivo per assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato di percettori di reddito di cittadinanza, anch’esso pari al 100% dei contributi carico ditta, per massimo 12 mesi e con importo limite pari a 6.000 euro che, recita la bozza, sarà alternativo alla misura incentivante attualmente esistente per le assunzioni di beneficiari del reddito prevista dall’art. 8 del D.l. n. 4/2019. Non vi è scritto che “sostituisce” o “abroga” il vecchio incentivo, ma che “è alternativo” ad esso. In sostanza il datore di lavoro, sulla base di questa affermazione, dovrebbe poter valutare cosa sia più conveniente tra il “vecchio” esonero, pari al 100% dei contributi a carico dell’azienda e del lavoratore, con una durata pari alle mensilità residue di r.d.c. non ancora percepite al momento dell’assunzione, e il nuovo esonero del 100% per 12 mesi che avvantaggia però solo il datore di lavoro. Inoltre, la versione originaria dell’agevolazione era applicabile anche ai rapporti a tempo determinato, mentre la nuova è limitata, come detto, ad assunzioni o trasformazioni a tempo indeterminato.

L’introduzione del nuovo esonero è senz’altro legata alla rimodulazione del reddito di cittadinanza, in quanto, dal 1° gennaio 2023 i percettori di età compresa tra 18 e 59 anni considerati occupabili, potranno percepire fino ad un massimo di 8 mensilità, non rinnovabili. Va da sè che tra 8 e 12 mensilità è senza dubbio maggiormente conveniente il nuovo incentivo. Un aspetto da evidenziare è quello relativo alla spettanza del 20% dell’incentivo precedentemente spettante alle agenzie del lavoro intervenute nel percorso di ricollocazione del percettore di r.d.c., che la nuova versione contenuta nella bozza non prevede.

Appare pertanto improbabile che, qualora vi sia l’intervento dell’agenzia del lavoro, questa possa rimanere esclusa dal beneficio in conseguenza di una mera scelta di convenienza da parte del datore di lavoro, ma ovviamente queste sono considerazioni sulla prima stesura del testo che inevitabilmente subirà modifiche ed integrazioni prima di arrivare alla stesura definitiva. L’art. 59, che ridisegna il reddito di cittadinanza, prevede la non concorrenza alla determinazione dell’importo del r.d.c. della retribuzione spettante per contratti di lavoro stagionale o intermittente fino ad un massimo di 3.000 euro lordi, con il chiaro intento di scoraggiare il fenomeno, diffusosi nella stagione estiva 2022, ovvero il rifiuto all’occupazione stagionale da parte dei beneficiari, volto ad evitare la perdita o la diminuzione dell’assegno. L’art. 64 della bozza ritocca i “prest-O”, portando l’importo complessivo utilizzabile per azienda da 5.000 a 10.000 euro, e aumentando il limite massimo del numero dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato che ne precludono l’utilizzo da 5 a 10, eliminando tale restrizione per le aziende del settore turistico. Inoltre, viene ripristinato l’uso dei prest-O per le attività lavorative di natura occasionale svolte nell’ambito delle attività agricole di carattere stagionale, per un periodo non superiore a 45 giorni nel corso dell’anno solare, senza ulteriori limitazioni, e il compenso minimo per ogni giornata di lavoro viene determinato in misura pari a quella “minima fissata per la remunerazione di tre ore lavorative prevista per il settore agricoltura”.

Non è chiaro se il riferimento corretto sia la retribuzione spettante al livello retributivo più basso, come disciplinato dalla contrattazione nazionale o dalla provinciale che, generalmente, prevede retribuzioni maggiori.

Viene dunque eliminata nel settore agricolo la disposizione che consentiva il ricorso al contratto di prestazione occasionale esclusivamente per:

  • titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità;
  • giovani con meno di venticinque anni di età, se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado ovvero a un ciclo di studi universitario;
  • disoccupati;
  • percettori di prestazioni integrative del reddi-to, di reddito di inclusione (REI o SIA), ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito.

L’art. 14 introduce la tassazione sostitutiva al 5% delle mance destinate dal cliente ai lavoratori occupati nei settori di distribuzione di pasti e bevande purché tali somme non superino il 25% del reddito percepito nell’anno per tali prestazioni di lavoro, e con un reddito da lavoro dipendente percepito nel 2022 non superiore a 50.000 euro. Inoltre, le somme di cui sopra non rientreranno nell’imponibile previdenziale, né nella retribuzione utile TFR, disposizione apprezzabile poiché prima di questa previsione tali importi erano totalmente sommersi, anche se l’elemento dirimente sarà il “come” saranno concretamente portati alla luce. Fortunatamente è stata eliminata una frase contenuta nella prima bozza diffusa il 23 novembre, che identificava queste somme come importi versati dal cliente al datore di lavoro e poi da questi redistribuiti ai lavoratori, “previamente individuati”; praticamente il cliente, paradossalmente, avrebbe dovuto porre particolare attenzione nell’elargizione delle liberalità, identificando previamente i destinatari in maniera chiara e inequivocabile, per evitare che il datore di lavoro facesse confusione nell’attribuzione degli importi. La tassazione delle mance, curiosamente, va contro le previsioni contenute in vari Ccnl del settore turismo: il Ccnl Confcommercio all’art. 140 intitolato “Divieto di accettazione delle mance”, recita che “Le mance sono vietate. Il personale che comunque le solleciti potrà essere punito dal datore di lavoro con provvedimenti disciplinari”; le medesime parole sono inserite all’art. 97 del Ccnl Confindustria, all’art. 140 del Ccnl Confesercenti e all’art. 146 del CcnlPubblici esercizi Fipe.

L’art. 15 riduce infine l’imposta sui premi aziendali dal 10% al 5%, e l’art. 59, che riorganizza il reddito di cittadinanza, ne prevede la totale abrogazione dal 1° gennaio 2024, oltre a prevedere per il 2023 la decadenza dalla misura in caso di rifiuto anche della prima offerta di lavoro congrua (in precedenza due su tre, poi modificate in una su due).

In attesa delle vicende legate all’iter parlamentare che potranno stravolgere il testo della bozza qui commentato, possiamo dire, a caldo, che gli interventi elencati sono piccoli passi rispetto ai roboanti annunci elettorali, ma comunque utili, senza dubbio migliorabili. Chiaro che con risorse spendibili così limitate, nel contesto attuale di crisi energetica e di aumento generalizzato dei prezzi, non ci si potevano attendere miracoli, oltre al fatto che l’attuale governo è insediato da poco più di un mese.

Confidiamo pertanto in provvedimenti futuri maggiormente incisivi, strategici e, possibilmente, ben scritti e aventi una logica, senza necessità di atti amministrativi che debbano entrare nel merito del testo normativo per interpretarlo e/o modificarlo.

Ci preme rilevare che questo articolo è stato scritto analizzando i contenuti dell’ultima bozza disponibile, ovvero quella diffusa in data 27 novembre 2022, pertanto eventuali ulteriori modifiche saranno oggetto di successive integrazioni.

 

1. L’importo massimo annuale calcolato come da L. 234/2021 non raggiunge i 35.000 euro pubblicizzati, in quanto il limite mensile previso di 2.692 euro per 13 mensilità, è, appunto, pari a 34.992 euro.
2. Anche in questo caso l’importo massimo annuale non raggiunge i 20.000 euro pubblicizzati, in quanto il limite mensile previsto di 1.538 euro per 13 mensilità, è, appunto, pari a 19.994 euro.
3. Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

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GESTIONE SEMPLIFICATA DEL RAPPORTO DI LAVORO OCCASIONALE: fine di un’epoca

Manuela Baltolu, Consulente del Lavoro in Sassari (Ss)

Il D.lgs. n. 104/2022 ha messo le sue grinfie anche sui rapporti di lavoro occasionale.

E pensare che, nonostante la loro storia travagliata, fino al 12 agosto 2022 erano rimasti l’ultimo, vero e forse unico baluardo della gestione “semplificata” dei rapporti di lavoro. Ma facciamo un passo indietro nella storia: c’era una volta il rapporto di lavoro occasionale accessorio, introdotto (sulla carta) dal D.lgs. n. 276/2003 e riservato, in origine, ai prestatori a rischio di esclusione sociale ed a soggetti non ancora entrati nel mercato del lavoro, od in procinto di uscirne.

Era infatti limitato ai disoccupati da oltre un anno, casalinghe, studenti e pensionati, disabili e soggetti in comunità di recupero, lavoratori extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia nei 6 mesi successivi alla perdita del lavoro. La durata delle prestazioni non doveva superare i 30 giorni e/o 3mila euro di compenso nell’anno solare, e poteva essere svolta esclusivamente in specifici ambiti, quali piccoli lavori domestici a carattere straordinario compresa l’assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con handicap, insegnamento privato supplementare, piccoli lavori di giardinaggio e di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti, realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli, collaborazioni con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza causati da calamità, eventi naturali improvvisi. Il sistema non venne però concretamente applicato fino al 2008, quando l’art. 22 del D.l. n. 112/2008 convertito dalla L. n. 133/2008 aggiunse all’ambito di applicazione anche le attività agricole di carattere stagionale nonché quelle svolte nell’ambito dell’impresa familiare limitatamente al commercio, al turismo e ai servizi, le consegne porta a porta e la vendita ambulante di stampa quotidiana e periodica, oltre ad estenderne l’utilizzo ai giovani con meno di 25 anni regolarmente iscritti ad un ciclo di studi presso l’università o un istituto scolastico di ogni ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, in qualsiasi settore produttivo il sabato e la domenica e durante i periodi di vacanza. Successivamente, il D.l. n. 5/2009 convertito dalla L. n. 33/2009, aggiunse alla platea dei prestatori occasionali anche i percettori di prestazioni integrative del salario o con sostegno al reddito.

I lavoratori venivano allora retribuiti con i “buoni lavoro” o “voucher” cartacei, ciascuno del valore di 7,5 euro di cui 5,8 euro di compenso, fiscalmente esente, acquistato dal committente e ceduto al lavoratore, che lo convertiva in danaro presso l’ente in cui era stato acquistato.

Ulteriore importante modifica al sistema voucher, volta a limitarne l’abuso, si ebbe poi con la L. n. 92/2012, in cui venne stabilito che “per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative di natura meramente occasionale che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare”. Ancora, la L. n. 99/2013 eliminava il riferimento alla “natura meramente occasionale” e, successivamente, il D.lgs. n. 81/2015 (art.. 48, 49, 50) innalzava il limite economico massimo generico per anno da 5.000 euro a 7.000 euro (3.000 euro per anno civile per i percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito, specificando che per le prestazioni svolte nei confronti di ciascun committente imprenditore commerciale o professionista tale importo massimo era invece pari a 2.000 euro per anno). Inoltre, venne introdotto il divieto di utilizzo dei buoni lavoro in ambito di appalti di forniture e/o servizi, e il valore nominale del singolo buono fu modificato in 10 euro, a fronte di un compenso netto per il prestatore di 7,50 euro. Infine, venne resa obbligatoria la procedura telematica per le imprese che, per la prima volta, dovevano registrare preventivamente le prestazioni nella piattaforma telematica Inps,  ma senza indicare orario di inizio e fine dell’attività lavorativa, e ciò, come è facile intuire, rendeva comunque fin troppo semplice eludere la reale entità delle ore lavorate.

Proprio in conseguenza dell’abuso dell’utilizzo dei buoni lavoro (o almeno, questa era stata la motivazione all’epoca pubblicizzata), il D.l. n. 25/2017, pubblicato ed entrato in vigore immediatamente, nella serata di venerdì 17 marzo 2017, con un fulmineo colpo di spugna che tutti ricordiamo, li abrogò totalmente, come contro-partita concessa dall’allora governo Gentiloni ai sindacati in cambio della loro rinuncia al referendum abrogativo del Jobs Act. Dopo poco più di un mese dall’abrogazione dei voucher, in data 24 aprile 2017, con l’entrata in vigore del D.l. n. 50/2017, vide la luce il nuovo assetto gestionale delle prestazioni occasionali, che è rimasto più o meno intatto fino a giorni nostri (fino al 12 agosto scorso, sic!). Nello specifico, furono individuati due ambiti di utilizzo caratterizzati da diverse specificità, ovvero il libretto famiglia (in seguito L.F., di cui all’art. 54-bis, c.6, lettera a), D.l. n. 50/2017) per l’utilizzo in ambito familiare e delle società sportive (lettera b-bis), e i prest-O in ambito imprenditoriale (lettera b) e pubblico (c.7). I limiti di utilizzo stabiliti erano (e sono tutt’ora) i medesimi per entrambi i sistemi, pari a 280 ore annue e/o 5.000 euro annui per ciascun prestatore con riferimento alla totalità degli utilizzatori, 5.000 euro annui per ciascun utilizzatore con riferimento alla totalità dei prestatori, e 2.500 euro per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore (5.000 euro per gli steward nelle società sportive). Altri paletti limitanti sono costituiti dal divieto di utilizzo da soggetti con i quali l’utilizzatore abbia in corso o abbia cessato da meno di 6 mesi un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa, da aziende che abbiamo una media semestrale di lavoratori a tempo indeterminato superiore a 5 (8 nel settore turistico-alberghiero per le sole prestazioni svolte dai medesimi soggetti autorizzati nel settore agricolo), da aziende del settore edile ed affini e lapideo, fermo restando il divieto già esistente in caso di esecuzione di contratti d’appalto. Le prestazioni occasionali non sono ammesse, inoltre, nel settore agricolo, fatta eccezione per i soggetti che, purché non iscritti nell’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli, siano pensionati, giovani con meno di 25 anni regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado e università, e percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI o SIA), ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito. Il L.F. retribuisce ogni ora di lavoro con un netto i 8 euro a fronte di un costo, per il committente, di 10 euro; il prest-O prevede invece un netto orario minimo di 9 euro ad un costo complessivo di 12,48 euro. Relativamente ai prest-O, per ogni giornata di lavoro il prestatore deve ricevere un minimo di retribuzione pari 36 euro, ovvero l’equivalente di 4 ore, indipendentemente dalle ore effettivamente lavorate; inoltre, 4 è il numero massimo consentito di ore lavorate continuative giornaliere.

La gestione di questo sistema è interamente telematica: prest-O e L.F. possono essere acquistati dal committente con pagamento elettronico mediante la piattaforma Inps o utilizzando il Modello F24 Elide, previa registrazione dello stesso e del prestatore; successivamente, il datore di lavoro registrerà le prestazioni di lavoro, entro 60 minuti prima dell’inizio delle stesse per il prest-O, non oltre il terzo giorno del mese successivo allo svolgimento per il L.F. L’Inps eroga il compenso direttamente al lavoratore entro il giorno 15 del mese successivo a quello in cui la prestazione è avvenuta. Non vi è obbligo di redigere alcuna lettera/ contratto di assunzione, né di inviare il modello Unilav al Ministero. Nessun periodo di prova da formalizzare, nessuna elaborazione del Lul, Uniemens, versamento mensile di contributi e ritenute fiscali. Nessuna CU, autoliquidazione Inail, modello 770.

Praticamente il paradiso degli adempimenti, solo la mera compilazione dei dati minimi necessari sulla piattaforma Inps e, per questo, quasi totalmente gestita in autonomia dai datori di lavoro senza costi aggiuntivi.

Troppo facile?

Si, tant’è che, a due giorni dall’ultima festa dell’assunzione di Maria (!!!!!!), l’ormai celeberrimo D.lgs. n. 104/2022, ha spezzato l’incantesimo, affermando, all’art. 1, c.1, lettera f, che tutte le disposizioni ivi contenute si applicano anche al “contratto di prestazione occasionale di cui all’articolo 54-bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96”.

Ei fu.

Finita la favola della gestione snella e sburocratizzata, anche i datori di lavoro dei prestatori occasionali dovranno ora redigere l’informativa con le informazioni previste dalla lettera a) alla lettera e) del co.1, art. 1 del D.lgs. n. 104/2022.

Se non fosse tragico, sarebbe quasi divertente analizzare quanto sia necessario ed opportuno informare il lavoratore di ogni singolo elemento previsto, confrontandolo con quanto già in essere nella gestione consolidata pre-D.lgs. n. 104: Lettera a) – identità delle parti: informazione già a disposizione del lavoratore mediante registrazione sulla piattaforma Inps. Lettera b) – luogo di lavoro: idem come lettera a). Lettera c) – sede o il domicilio del datore di lavoro: idem come lettere a) e b). Lettera d) – caratteristiche o descrizione sommaria del lavoro (non compatibili le informazioni relative a inquadramento, livello e qualifica): idem come lettere a), b) e c). Lettera e) – data di inizio del rapporto di lavoro: idem come lettere a), b), c) e d). Alla luce di ciò, nascono difficoltà oggettive a cogliere l’utilità del nuovo obbligo, in considerazione del fatto che, come sopra descritto, tutti gli elementi richiesti sono già conosciuti. L’unico dato estremamente chiaro ed inequivocabile è l’importo delle sanzioni previste in caso di inadempimento, di importo variabile da 250 a 1.500 euro per ogni lavoratore interessato che, malignamente, potrebbe essere considerato l’unico scopo del nuovo adempimento. Tra l’altro, relativamente alla lettera e), un ulteriore dubbio sorge in considerazione del fatto che lo svolgimento del lavoro occasionale è soggetto a limiti meramente economici, risulta complicato identificare con precisione il momento esatto della costituzione del rapporto. Consideriamo ad esempio che un lavoratore effettui prestazioni nel mese di febbraio 2022, e successivamente a dicembre 2022, dopo ben 9 mesi di inattività, faranno comunque capo ad un unico rapporto di lavoro o, al contrario, dovranno essere considerate come due distinti rapporti, con conseguente necessità di due diverse informative, una per ogni rapporto?

A chiusura di questa triste storia non possiamo esimerci dall’evidenziare che, citando l’art. 54-bis, D.l. n. 50/2017, il D.lgs. n. 104/2022 si riferisce sia i rapporti gestiti con L.F. che quelli gestiti con prest-O, e il novellato testo (ad opera sempre del D.lgs. n. 104/2022, art. 5, co.1) del secondo periodo del co.17, art. 54-bis, D.l. n. 50, inserisce l’obbligo delle informazioni relative alla trasparenza affermando che “copia della dichiarazione, contenente le informazioni di cui alle lettere da a) ad e) è trasmessa, in formato elettronico, oppure è consegnata in forma cartacea prima dell’inizio della prestazione”.

Ma il comma 17 dell’art. 54-bis rimanda espressamente agli utilizzatori di cui al comma 6, lettera b) del medesimo articolo, ovvero gli “altri utilizzatori, nei limiti di cui al comma 14, per l’acquisizione di prestazioni di lavoro mediante il contratto di prestazione occasionale di cui al comma 13”; in ragione di ciò, l’obbligo di consegna della dichiarazione di cui al D.lgs.n. 104/2022 risulta essere limitato ai soli rapporti “prest-O”, con esclusione sia del L.F. che delle società sportive (lettere a e b-bis, c.17, art. 54-bis).

In sostanza, il testo del D.lgs. n. 104/2022 afferma che tutti i rapporti occasionali sono assoggettati alle previsioni del medesimo decreto, mentre il nuovo testo del D.l. n. 50/2017 riconduce l’obbligo solo ai “prest-O”. Il conflitto potrebbe essere risolto considerando che lo stesso D.lgs. n. 104/2022 è applicabile anche ai rapporti di lavoro domestico, ed essendo di fatto il L.F. la versione “domestica” del prest-O, l’esclusione dagli obblighi di trasparenza del L.F. non appare del tutto coerente, anche se questa mancanza di coerenza fa pendant con tutto l’impianto normativo. Ai posteri l’ardua sentenza, per ora confidiamo nell’abrogazione di queste previsioni assurde o, in subordine, di una sostanziale e realmente utile modifica.

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Una proposta al mese – IL PATTO DI PROVA DEL DECRETO TRASPARENZA: superare le disparità di trattamento e le discriminazioni

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Lo dico a chiare lettere: non mi convince affatto la nuova disciplina legale del patto di prova introdotta dall’art. 7 del D.lgs. 104 del 27 giugno 2022 che, in modo troppo succinto, così lo disciplina:

Durata massima del periodo di prova 1. Nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi.

  1. Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova.
  2. In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

Questo articolo è, per buona parte, la pessima trasposizione di quanto previsto dall’art. 8 della direttiva (UE) N. 2019/1152 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.

Come si noterà la nuova disciplina della prova si basa su quattro principi:

  1. durata massima del periodo di prova;
  2. riproporzionamento della durata del patto di prova nei contratti a termine;
  3. divieto di reiterazione del patto di prova in caso di riassunzione per le stesse mansioni;
  4. prolungamento del periodo di prova in presenza di sospensione della prestazione. Ognuno di questi presenta delle evidenti criticità, specie in un’ottica di palese violazione del diritto alla parità di trattamento e di divieto di discriminazione.1

 

LA DURATA MASSIMA DEL PERIODO DI PROVA

La problematica che qui emerge è la mancanza di un periodo minimo di prova garantito ex lege, carenza che consentirà ai vari contratti collettivi di prevedere ancora durate ridicole, anche di pochi giorni. Una cosa che stride con la riconosciuta finalità del patto di prova che una consolidata giurisprudenza individua nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (Cass. n. 1099 del 14 gennaio 2022). Anche perché non va dimenticato che durante la prova può essere valutato – se espressamente previsto – non solo la capacità professionale ma anche il comportamento complessivo del lavoratore, quale è desumibile dalla correttezza e dal modo in cui si manifesta la personalità: capacità nel comunicare, entusiasmo nel lavoro, riservatezza, attitudine alla collaborazione, senso di responsabilità, spirito di iniziativa e di adattamento.

Ma soprattutto teniamo presente che la sottoscrizione del patto di prova rappresenta il mezzo con cui il neoassunto può dimostrare al futuro datore di essere lui il candidato migliore per quel posto e di meritarsi un contratto a tempo indeterminato o anche solo di concludere il contratto a termine appena sottoscritto. Rammentiamo infine che è lo stesso Considerando n. 27 della Direttiva europea a ritenere che i periodi di prova dovrebbero pertanto essere di durata ragionevole. Una ragionevolezza che, considerate le richiamate finalità del patto di prova, dovrebbe appunto riguardare sia un termine di durata massima ma, a maggior ragione, anche un termine minimo. È possibile ritenere “ragionevole” una prova di soli 5 giorni lavorativi ove considerassimo che il lavoratore dovrà sfruttare questo periodo per dimostrare non solo la sua capacità professionale ma, come sopra detto, anche le altre sue apprezzabili ed encomiabili qualità personali?

 

IL RIPROPORZIONAMENTO DEL PERIODO DI PROVA DEI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO

Qui la criticità rilevata è la codificazione del principio che nei contratti a termine deve essere operata una riduzione del periodo di prova in modo proporzionale alla durata del contratto: mi son sempre chiesto per qual motivo un lavoratore assunto con un contratto iniziale di 3 mesi dovrebbe avere, rispetto ad uno assunto per 12 mesi, meno tempo per valutare e farsi valutare, considerata l’aspirazione di tutti e due a concludere quantomeno l’iniziale rapporto di lavoro a termine. Senza contare l’imbarazzante ignoranza matematica (peraltro già emersa nella giurisprudenza di merito italiana) nel non sapere che in una equazione matematica è operazione impossibile trovare l’incognita “x” (durata della prova nel TD) quando uno degli elementi conosciuti (la durata del contratto a TI) è un valore “infinito” (o quantomeno matematicamente non definibile, dato che il rapporto può durare un’intera vita lavorativa). Non scordiamo poi che nella disciplina del contratto a tempo determinato vige, in relazione al trattamento economico e normativo, un principio di non discriminazione del lavoratore assunto con tale tipologia contrattuale rispetto ai lavoratori in forza a tempo indeterminato. Il legislatore se lo deve essere scordato.

 

IL RIPROPORZIONAMENTO DEL PERIODO DI PROVA NEI CONTRATTI A TEMPO PARZIALE

Anche qui non manca una criticità anche se in termini di mancata previsione: il legislatore europeo, e di conseguenza quello italiano, si dimentica infatti di dare indicazioni circa un eventuale riproporzionamento nei casi di contratti a tempo parziale. Ci si riempie la bocca di concetti quali la parità di trattamento, il divieto di discriminazione e poi si ammette bellamente che due lavoratori assunti il medesimo giorno, presso la stessa azienda, con le medesime mansioni, si vedano proporre la medesima data di scadenza del patto di prova senza che si tenga conto che, lavorando il primo a tempo pieno ed il secondo al 50%, il primo disporrà di un tempo doppio per dimostrare al datore di lavoro di che pasta è fatto. Rasentando praticamente il ridicolo si continua a sostenere che sarebbe proprio in base al principio di non discriminazione che al lavoratore part-time spetterebbe, pur svolgendo un orario di lavoro ridotto, gli stessi diritti previsti per il lavoratore full-time. Chiaro invece che, proprio per il richiamato principio di non discriminazione, è esattamente il contrario. Andrebbe qui magari rammentata la Direttiva europea n. 97/81/CE del Consiglio Europeo del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES ed in particolare la Clausola 4: Principio di non-discriminazione che dispone che Per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive.2 Nella fattispecie appare difficile a chi scrive ravvisare ragioni obiettive per cui per il lavoratore part-time abbia meno tempo rispetto ad un lavoratore full-time per valutare – lo abbiamo già evidenziato sopra – l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni, chiamiamole ambientali, di svolgimento del rapporto.

IL DIVIETO DI REITERAZIONE DEL PATTO DI PROVA

Anche nel negare un nuovo periodo di prova nel caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni il legislatore comunitario dimostra tutta la sua superficialità non prevedendo alcuna ipotesi derogatoria al principio di non reiterazione della prova. Il lavoratore potrebbe essere riassunto dopo 20 anni dal precedente rapporto che l’espletamento della prova non sarebbe ugualmente ammesso. Non importa se nel frattempo le mansioni hanno avuto uno sviluppo tecnologico enorme (pensiamo ad un addetto paghe o alla contabilità assunto vent’anni prima) o che l’azienda abbia modificato il proprio modo di operare, sia per l’introduzione di nuovi macchinari o di software ma anche per un cambio dirigenziale. Non importa che l’ambiente aziendale, magari in termini di organico o di clientela, sia mutato e quindi l’adattamento caratteriale alla nuova realtà potrebbe essere più difficoltoso. Se uno ha già lavorato anche un solo giorno non potrà esser sottoposto ad alcuna prova. Pensare che ciò aiuti in qualche modo il lavoratore a trovare un lavoro stabile significa non conoscere le dinamiche del mondo del lavoro.

 

IL PROLUNGAMENTO DEL PERIODO DI PROVA

Anche su questo aspetto il legislatore italiano lascia molto a desiderare. L’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 fa infatti una certa confusione tra ciò che il Considerando n. 28 auspicava ovvero che i periodi di prova dovrebbero poter essere prorogati in misura corrispondente qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, ad esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di lavoro di verificare l’idoneità del lavoratore al compito in questione e l’art. 8 della Direttiva che non indica analiticamente le varie tipologie di assenza ma si limita a suggerire che Qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell’assenza.

Il legislatore nostrano, evidentemente senza ragionare troppo, aggiunge alla malattia un gruppetto di assenze assimilabili in senso lato alla malattia, quali infortuni, maternità o paternità obbligatori.

Di contro i congedi parentali (quelli facoltativi per capirci), i permessi legge 104, i permessi sindacali, le ferie collettive, i permessi individuali, la donazione sangue, i permessi per lutto, gli scioperi non avrebbero alcuna rilevanza per un eventuale prolungamento del patto di prova. Dobbiamo infine evidenziare come il legislatore non abbia nemmeno preso in considerazione la possibile interruzione dell’espletamento della prova verificatasi nel precedente rapporto, ad esempio causa dimissioni. Nulla prevede di conseguenza in merito ad un eventuale completamento di una prova lasciata a metà ma parla solo di divieto di reiterazione.

LA NOSTRA PROPOSTA

La nuova disciplina non convince soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi di parità di trattamento e di superamento di ogni discriminazione.

In quest’ottica si ritiene necessario rimetter mano all’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 quantomeno nei seguenti termini:

1. prevedere una reale durata del patto di prova uguale per tutti diversificata esclusi vamente in funzione del livello di assunzione e quindi a prescindere che si tratti di tempi indeterminati o determinati, part-time verticali, orizzontali o misti.
Per fare questo si dovrebbe trasformare la durata massima della prova da mesi in ore: se pertanto i 6 mesi sono circa 26 settimane e ogni settimana composta (di norma) da 40 ore lavorative, la durata limite della prova potrebbe essere fissata in 1040 ore. Considerando così solo le ore di effettiva prestazione si andrebbe peraltro a superare la evidenziate criticità dell’art. 7 del D.lgs n. 104/2022 che, maldestramente, ha previsto il prolungamento solo per determinate assenze.

2. prevedere un periodo minimo di espletamento della prova per tutti i livelli previsti dalle declaratorie contrattuali.
Questo in considerazione che la prova comprende non solo la valutazione della specifica professionalità richiesta al lavoratore ma anche di un comportamento complessivo che non è riproporzionabile in base alla durata del contratto, del livello o delle mansioni: educazione e rispetto valgono in egual misura per tutti.
La durata minima potrebbe quindi essere fissata in circa un quarto del periodo massimo, diciamo 240 ore (ragionando alla vecchia maniera pari a 6 settimane a tempo pieno) per tutti i lavoratori senza distinzioni tra tempo indeterminato e a termine, tra tempo pieno e tempo parziale. La restante quota di 800 ore andrebbe riproporzionata dai contratti collettivi in base ai livelli dagli stessi previsti secondo una scala parametrale liberamente individuata dalle parti sociali.

3. prevedere la possibilità di reiterazione e di completamento di un periodo di prova già parzialmente espletato.
La questione si pone in presenza di precedenti contratti subordinati, a termine o a tempo indeterminato, con o senza prova, ma anche in somministrazione.
In questi casi volgono le seguenti regole:
a) le parti sono libere di sottoscrivere un patto di prova in assenza di prestazioni lavorative nei 12 mesi precedenti la nuova assunzione (rilevano solo quelle svolte presso lo stesso datore di lavoro).
b) in presenza di attività lavorativa potrà essere previsto il completamento della prova a suo tempo concordata considerandola superata in riferimento alle ore svolte in prova nell’anno precedente.
c) considerare, anche se esclusivamente ai fini della durata complessiva della prova, tutte le “normali” ore di lavoro svolte nei 12 mesi precedenti l’ultima assunzione come una sorta di prova informale parzialmente già svolta, da sommare eventualmente alle formali ore di prova già effettuate. In pratica un correttivo alle regole generali motivato da ragioni di equità verso tutti i lavoratori che, prova o non prova, vantano presso la medesima azienda la stessa anzianità lavorativa. In un certo senso ciò fungerebbe come una sorta di periodo transitorio considerando che, in vigenza delle attuali regole, le parti potrebbero aver rinunciato a sottoscrivere un formale patto in relazione a contratti a termine molto brevi e quindi evidenziarsi delle prestazioni lavorative senza che le parti le abbiano formalmente identificate quale prova. Ed il pensiero va qui all’assurda regola (che con questa nostra proposta si intende superare) del riproporzionamento della durata del patto nei contratti a termine che rende spesso non significativo se non addirittura irrilevante l’espletamento della prova.

 

 

 

 

1. Si veda anche: A. Borella Il patto di prova del Decreto Trasparenza: irrisolte le vecchie criticità, La circolare di lavoro e previdenza, 35/2022.

2. Per un approfondimento si veda A. Borella, Le discriminazioni contrattuali nell’accesso al tempo parziale in questa Rivista, agosto 2022, pag. 47.

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CONTRIBUZIONE INPS SU UTILI NON DISTRIBUITI: qualche riflessione

Manuela Baltolu, Consulente del Lavoro in Sassari (Ss)

l termine “trasparenza” nel nostro ordinamento risulta piuttosto inflazionato, come dimostra il recentissimo D.lgs. n.104/2022 e le numerose criticità, già analizzate in questa stessa Rivista1.

Evidentemente il Legislatore ha una particolare attrazione per questo sostantivo, infatti “trasparenza” è anche la definizione attribuita al regime introdotto dall’art. 115 del Tuir (D.P.R. n. 917/1986), mediante il quale è imputato a ciascun socio, indipendentemente dall’effettiva percezione e proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, il reddito imponibile delle S.p.a delle S.a.p.a., delle S.r.l., delle Coop. e delle società di mutua assicurazione, nonché delle società europee di cui al regolamento CE n. 2157/2001 e n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato, al cui capitale sociale partecipano esclusivamente i soggetti citati, ciascuno con una percentuale del diritto di voto di cui all’articolo 2346 del codice civile, e di partecipazione agli utili non inferiore al 10 per cento e non superiore al 50 per cento. Il successivo articolo 116 allarga tale regime anche alle S.r.l. il cui volume di ricavi non superi le soglie previste per l’applicazione degli studi di settore, e con una compagine sociale composta esclusivamente da persone fisiche in numero non superiore a 10 (20 nelle Coop.).

In sostanza, qualora si opti per il suddetto regime di trasparenza, gli utili vengono tassati in capo al singolo socio in base al criterio “di competenza”, a prescindere dall’effettivo momento in cui gli stessi utili siano stati concretamente distribuiti (“criterio di cassa”). Sulla base di tale principio, l’Inps fonda l’obbligo di pagamento della contribuzione di cui alla gestione artigiani e commercianti di tipo variabile, in aggiunta alla contribuzione c.d. “fissa” – calcolata su un minimale pari per il 2022 a € 16.243,00 -, da quantificarsi in percentuale sul

reddito effettivamente prodotto dal socio, comprensivo degli utili della società attribuiti per effetto del regime di trasparenza, anche qualora non si sia proceduto a distribuirli materialmente.

Tale principio potrebbe per  essere scardinato, d’altronde non sarebbe la prima volta che tassazione fiscale e prelievo contributivo seguono due distinti principi. Ad esempio, per i lavoratori subordinati avviene esattamente il contrario di quanto descritto, ovvero l’imposizione contributiva segue il principio di competenza, e le trattenute fiscali il principio di cassa, mentre, per gli iscritti alla gestione separata Inps, vale il principio di cassa anche per il prelievo contributivo. Nel caso specifico, rimodulando l’attuale sistema, ci si troverebbe ad applicare il criterio di competenza per quanto riguarda il prelievo fiscale, essendo il regime della trasparenza operante esclusivamente in tale ambito, mentre il trattamento ai fini contributivi potrebbe invece seguire il criterio di cassa, in considerazione del fatto che l’autonomia patrimoniale delle società di capitali è definita “perfetta”, e che la mancata distribuzione degli utili ai soci comporta comunque che gli stessi restino nella piena ed esclusiva disponibilità della società quale soggetto giuridico distinto.

Tralasciando il regime di trasparenza, nel 2021 l’Istituto previdenziale ha cambiato orientamento relativamente al presupposto necessario per il sorgere dell’obbligo contributivo nella sola gestione commercianti, recependo il contenuto della sentenza della Corte di Cassazione n. 23790/2019, ovvero l’effettiva prestazione di attività lavorativa da parte del socio all’interno della società (Circolare n. 84/2021). Di contro quindi, la sola partecipazione senza apporto di lavoro, non avrebbe più fatto scattare il rapporto giuridico previdenziale, poiché, in tal caso, i redditi derivanti da tale partecipazione societaria costituiscono redditi di capitale, e non d’impresa.

Ci  risulta in linea anche con la Costituzione, che al 2° comma dell’art. 38 destina la tutela previdenziale ai lavoratori, senza fare alcun riferimento a coloro che invece si limitino ad investire i propri capitali a scopo di lucro.

E poiché le disposizioni di cui all’articolo 3-bis del Decreto legge n. 384/1992, individuano la base imponibile dell’obbligazione contributiva per artigiani e commercianti nei redditi di impresa denunciati ai fini Irpef, i redditi di capitale ne sono esclusi.

Come detto, grazie all’illuminata sentenza citata e ad altre dello stesso filone, la bagarre in questione ha avuto termine, per i soli commercianti “non lavoratori”, a partire dal 2020, come affermato dall’Inps nella richiamata circolare n. 84/2021.

Chiarito quanto sopra, resta pienamente operativo il regime preesistente sia per i soci commercianti lavoratori che per i soci artigiani, questi ultimi lavoratori per eccellenza.

Per entrambe le categorie di soggetti risulta evidente l’iniquità del ragionamento elaborato dall’Inps, che in sostanza afferma che restano dovuti dal socio i contributi in percentuale sugli utili societari, anche se non concretamente entrati nella disponibilità dello stesso in quanto non distribuiti.

Questo assunto contrasta con il fatto che gli utili prodotti dalla società non costituiscono reddito d’impresa e non devono pertanto essere dichiarati ai fini Irpef; conseguentemente, cade il presupposto oggettivo (base imponibile) per la determinazione della contribuzione previdenziale. L’art.3-bis del D.l. n. 384/1992, convertito dalla L. n. 438/1992, prevede, al comma 1, che l’ammontare del contributo previdenziale annuo dovuto da artigiani e commercianti è “rapportato alla totalità dei redditi di impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”. Poiché costituiscono reddito di impresa da dichiararsi ai fini Irpef soltanto gli utili realmente distribuiti e percepiti dal socio di società di capitali, sia che esso presti o meno attività lavorativa nella società, in quanto vige il principio di cassa e non di competenza, la tassazione Irpef in capo ai soci riguarda solo gli utili e le somme di analoga natura distribuiti dalla società e quindi effettivamente incassati dai soci.

In pratica, i dividendi, sia derivanti da utili d’esercizio che da distribuzione di riserve, erogati in denaro o in natura, dalle società menzionate dall’art. 73, c.1 del Tuir vengono tassati e conseguentemente sottoposti a contribuzione previdenziale in capo ai soci, nell’esercizio in cui sono percepiti. A seguito di quanto esposto, l’utile potrà diventare imponibile Inps ed Irpef del socio di S.r.l. solo qualora in futuro la società decidesse di distribuirlo.

Anche qualora gli utili dovessero essere destinati a riserva, o essere utilizzati per ripianare perdite, o in qualsiasi altro modo consentito, essi non potranno costituire, evidentemente, reddito da dichiararsi ai fini Irpef da parte dei soci. Tale percorso logico-giuridico è confermato dalla S.C. di Cassazione nella sentenza numero 40314/2021, (e anche nelle precedenti nn. 21540/2019, 18594/2020, 19001/2020), nonché dal Tribunale di Bologna nella sentenza n. 210/2019, in cui veniva accolto il ricorso proposto dal socio che non aveva percepito gli utili (non distribuiti e destinati a riserva) dalla società in cui prestava attività lavorativa proprio in conseguenza dell’esclusione di tali importi dal reddito d’impresa in capo al socio.

In conclusione, gli utili non distribuiti non dovrebbero costituire base imponibile ai fini contributivi sia in caso di partecipazione alla società senza prestazione lavorativa, sia nel caso di apporto lavoro, per ragioni distinte:

  • nel caso in cui il socio non presti la propria opera lavorativa presso la società, in quanto costituiscono redditi di capitale, principio affermato e confermato più volte dalla Corte di Cassazione e recepito dall’Inps;
  • nel caso in cui vi sia prestazione lavorativa del socio, poiché gli importi degli utili restano nella sfera giuridica della società e non in capo alla persona fisica, tant’è che gli stessi saranno assoggettati al pagamento delle imposte in capo alla società.

Tuttavia quest’ultimo principio, sulla scia della coraggiosa pronuncia del Tribunale di Bologna,

ha ancora un lungo cammino giuridico da compiere, prima di arrivare, eventualmente, al recepimento da parte dell’Istituto di previdenza.

 

  1. Vedi “DIRETTIVA UE 2019-1152: dalla trasparenza alla confusione” di Roberta Simone, Sintesi rassegna di giurisprudenza e di dottrina di luglio 2022.

 

 

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