MALATTIA GIUSTIFICATA ANCHE SE TARDIVAMENTE: storia di una stravagante sentenza della Cassazione

di Emilia Scalise – Consulente del lavoro in Milano

 

Come preannunciato dal titolo, oggetto di questo breve, seppur intenso (aggiungerei, per chi lo ha scritto!) articolo è proprio l’istituto della malattia.

Ma non come ormai ben lo conosciamo, bensì rivestito di un’interpretativa nuova. Partirei dalla definizione scolastica di malattia in ambito giuslavorista: è considerata malattia tutelabile l’alterazione dello stato di salute del lavoratore, cui conseguono un’assoluta o parziale incapacità al lavoro, la necessità di assistenza medica e la somministrazione di mezzi terapeutici.1

La legge e la contrattazione collettiva impongono al lavoratore malato, in caso di assenza dal lavoro, precisi adempimenti nei confronti del datore di lavoro e conseguentemente dell’Inps. In primo luogo, il lavoratore è tenuto a informare tempestivamente il datore di lavoro circa la propria assenza e l’indirizzo di reperibilità, se diverso dalla residenza o dal domicilio abituale, per effettuare gli opportuni controlli consentiti dalla legge.

Oltre all’obbligo di preavvertire circa la sua assenza, il lavoratore è tenuto altresì a trasmettere al datore di lavoro il numero di protocollo relativo al certificato medico, necessario per giustificare l’assenza legata alla malattia e beneficiare della relativa copertura economica prevista dalla contrattazione collettiva e dalla legge. In linea generale, ai fini del trattamento economico, la malattia decorre, in caso di visita ambulatoriale, dal giorno in cui la certificazione medica viene rilasciata (che generalmente coincide con il giorno in cui inizia l’evento morboso), mentre, in caso di visita domiciliare

può decorrere anche dal giorno precedente. Con riferimento ai termini entro cui il numero di protocollo relativo al certificato medico deve essere trasmesso al datore di lavoro, la disciplina è rimandata alla contrattazione collettiva.

Ma cosa succede nel momento in cui il lavoratore si assenta senza presentare alcun certificato medico o il certificato medico viene presentato tardivamente?

Domanda che parrebbe scontata, ma che in questo contesto diventa cruciale al fine della nostra analisi.

Partendo dall’aspetto economico, in caso di assenza del certificato medico o di un certificato medico presentato tardivamente, il trattamento economico spettante al lavoratore o non viene erogato o viene corrisposto solo per il periodo decorrente dal rilascio del certificato medico. In merito, invece, agli effetti che l’assenza del certificato medico o il certificato medico tardivo possono produrre sul rapporto di lavoro, a seguito di questa sentenza, questi sono molto più notevoli rispetto a quelli a cui eravamo abituati a pensare.

Partendo dall’assenza del certificato

medico, come precisato poco sopra, se il lavoratore non presenta alcun certificato, l’assenza si considera ingiustificata e può dar luogo, a seguito di procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della Legge n. 300/1970, a un licenziamento di natura disciplinare, laddove l’assenza priva di giustificazione si protrae oltre un periodo specifico individuato dalla contrattazione collettiva (per esempio il Ccnl Terziario Confcommercio considera assenza ➤ ingiustificata l’assenza oltre 3 giorni nell’anno solare; il Ccnl Metalmeccanica Industria l’assenza oltre 4 giorni consecutivi) e per la quale la stessa contrattazione collettiva preveda la possibile applicazione di una sanzione espulsiva. Per quanto riguarda, invece, il certificato consegnato tardivamente, e con tardivamente intendiamo oltre il tempo stabilito dalla contrattazione collettiva, si apre un vero e proprio vaso di Pandora.

Fino al 9 novembre 2022, riprendendo la corrente giurisprudenziale maggioritaria, si era ritenuto possibile equiparare all’assenza ingiustificata l’assenza tardivamente giustificata, laddove la stessa giustificazione non veniva resa entro i giorni decorsi i quali la contrattazione collettiva riteneva l’assenza stessa ingiustificata e comunque a ridosso dell’assenza stessa. In altre parole, la mancata giustificazione dell’assenza doveva essere rapportata al momento in cui la giustificazione stessa avrebbe dovuto essere data2.

Quindi, sul tenore letterale di tale interpretazione, l’assenza, seppur giustificata ma tardivamente (quindi già presentata oltre il termine fissato dal Ccnl), poteva configurare un giustificato motivo di licenziamento a seguito di apposito procedimento disciplinare, laddove la stessa veniva giustificata oltre il periodo che il contratto collettivo considera assenza ingiustificata.

Ho precisato fino al 9 novembre 2022 perché il 10 novembre 2022 la Cassazione è intervenuta nuovamente sul tema del certificato medico trasmesso al datore di lavoro tardivamente, fornendo un’interpretazione di grande portata e, per dirla in termini “fantasiosi”, anche un po’ stravagante: non si ha assenza ingiustificata qualora il lavoratore consegni il certificato medico di malattia tardivamente, anche ben oltre il periodo decorso il quale la contrattazione collettiva identifica l’assenza ingiustificata, laddove è la stessa contrattazione collettiva a prevedere due sanzioni differenti in caso di tardiva giustificazione e mancata giustificazione. È parimenti irrilevante il fatto che il certificato di malattia venga rilasciato tardivamente e retroattivamente. Il semplice fatto che il lavoratore abbia presentato il certificato, seppur tardivamente, anche dopo l’avvio dell’azione disciplinare, impedisce che si produca la fattispecie dell’assenza ingiustificata e quindi riconduce il fatto a una semplice ipotesi di giustificazione tardiva dell’assenza.

Direi che è utile, per comprendere meglio la portata di questa pronuncia giurisprudenziale, ripercorrere i fatti di causa.

La questione vede protagonista un lavoratore rimasto assente dal 21 luglio 2017 al 27 luglio 2017, senza che lo stesso avesse presentato alcuna giustificazione e relativa documentazione a copertura dell’assenza. A fronte di tale prolungata assenza, la Società aveva avviato apposito procedimento disciplinare, con il quale veniva addebitata la mancata giustificazione e consegna di documentazione a supporto dell’assenza alla data della contestazione (27 luglio 2017). Solo il giorno successivo alla consegna della contestazione disciplinare, il lavoratore presentava apposito certificato di malattia a copertura del periodo di assenza contestatogli (si trattava di una prosecuzione di malattia). In data 3 agosto 2017 la Società intimava licenziamento per giusta causa perché in violazione degli articoli 60 e 61 del Ccnl Tessile abbigliamento, essendo il lavoratore rimasto assente dal servizio senza alcuna giustificazione (per ben 7 giorni).

In primis la Corte d’Appello e successivamente la Corte di Cassazione ritenevano illegittimo il licenziamento eccependo due principali motivi. In primo luogo, i giudici di merito evidenziano come le disposizioni del contratto collettivo applicato non prevedono alcuna equiparazione tra assenza ingiustificata e assenza di cui non è stata tempestivamente comunicata la giustificazione.

Infatti, la contrattazione collettiva prevede non solo due fattispecie differenti (assenza ingiustificata e tardiva o irregolare giustificazione) ma anche due sanzioni di natura completamente diverse: l’assenza ingiustificata è sanzionata con il licenziamento mentre la tardiva o irregolare giustificazione prevede una sanzione di natura conservativa. Secondo i giudici di merito, quindi, è insita nella volontà delle parti sanzionare in due modi diversi tali fattispecie: stante il tenore testuale delle disposizioni contrattuali, infatti, il licenziamento si realizza non con qualunque assenza ingiustificata, ma proprio quella che non solo supera i 3 giorni lavorativi (continuativi o comunque ripetuti nell’arco di un anno), ma anche quella per la quale il lavoratore non abbia documentato le ragioni della stessa o che tali ragioni non siano risultate confermate all’esito del controllo datoriale. Pertanto, l’assenza, tardivamente giustificata, secondo quanto previsto dal Ccnl, andrebbe sanzionata con la multa. Il datore di lavoro potrà ricorrere al licenziamento laddove l’arco temporale tra l’assenza e la relativa giustificazione si dilati oltremodo (ricordiamoci questo avverbio), facendo sì che venga meno la possibilità stessa di ritenere l’assenza, seppur tardivamente, giustificata.

Fino a qui, starete pensando, non c’è nulla di così stravagante. Su questo siamo d’accordo, ma i giudici di merito, sostenendo la decisione della Corte d’Appello, proseguono secondo questa tesi sollevando un altro motivo di rigetto del ricorso ai nostri fini estremamente fondamentale.

Tra i diversi motivi di ricorso la società eccepiva anche l’eccessivo arco temporale decorso da quando l’assenza si era verificata a quando la documentazione a giustificazione della stessa era stata presentata, manifestandosi così una violazione degli adempimenti contrattuali legati all’assenza per malattia. In particolare, a norma dell’art. 60 Ccnl Tessile e Abbigliamento, l’assenza per malattia deve essere comunicata entro 24 ore salvo il caso di accertato impedimento e il certificato medico deve essere consegnato o fatto pervenire tempestivamente e comunque non oltre i tre giorni dall’inizio dell’assenza3. Il Ccnl prosegue nel disciplinare l’assenza dal lavoro, indicando le modalità di comunicazione delle assenze malattia: il lavoratore è tenuto a informare il datore di lavoro prima dell’inizio del suo orario lavorativo e il numero di protocollo del certificato medico attestante lo stato di infermità deve essere comunicato

all’azienda non oltre il secondo giorno di assenza ed anche l’eventuale proroga deve essere comunicata con le medesime modalità4. Analogamente la certificazione del medico curante che attesti il prolungamento dell’originaria malattia o l’inizio di una nuova va comunicata al datore di lavoro entro 24 ore.

L’art. 72, che reca le norme sui provvedimenti disciplinari, a titolo esemplificativo stabilisce che la multa o la sospensione possono essere inflitte al lavoratore, tra l’altro, nel caso in cui “non si presenti al lavoro, non comunichi (salvo il caso di comprovato impedimento) e non giustifichi l’assenza con le modalità e nei termini di cui agli artt. 55, 60 e 61”. Il successivo art. 74, che detta le disposizioni che regolano il licenziamento, nella sua elencazione non esclude quegli altri comportamenti che per loro natura o gravità configurano una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento.

Sulla base del fatto che il lavoratore si sia assentato per 7 giorni senza alcuna giustificazione e poiché la certificazione medica a supporto è stata presentata oltre i termini previsti dalla contrattazione collettiva, la Società ha ritenuto legittimo intimare il licenziamento in quanto tale fatto, per la sua gravità, configura una giusta causa di licenziamento.

Da ultimo, conclude la società ricorrente, la Corte territoriale avrebbe dovuto tener conto che non solo il certificato di malattia era stato tardivamente presentato, ma che lo stesso era stato rilasciato oltre 7 giorni di distanza dall’ultimo giorno di malattia coperto da precedente certificato medico, con una valutazione ex post eseguita dal medico sulla base delle dichiarazioni rese dal lavoratore. Sul tema la Corte di Cassazione si era già espressa con la sentenza n. 15226 del 2016; in quella occasione i giudici di merito avevano precisato che il medico non avrebbe potuto certificare retroattivamente la patologia e per tale aspetto si denunciava sia un vizio motivazionale sia la violazione delle disposizioni richiamate in tema di prova. Su questo motivo di ricorso la Cassazione abbraccia a pieno quanto pronunciato dalla Corte di Appello: è irrilevante che il certificato medico non solo sia stato rilasciato tardivamente ma anche retroattivamente a uno stato di malattia iniziato sette giorni prima. Secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante il tardivo rilascio della certificazione da parte del medico curante avendo valutato “sia l’aspetto della responsabilità che il medico si assume nell’attestare l’esistenza di determinate condizioni di salute sia la specifica natura dell’affezione riscontrata nella storia clinica del lavoratore”.

Mi preme sottolineare che l’unica differenza tra questa pronuncia e quella del 2016 sta nel fatto che qui si tratta di una continuazione di malattia, mentre nell’altro caso era un inizio di evento. L’ordinanza della Cassazione merita una profonda riflessione.

Sicuramente nella decisione adottata dai giudici di merito un ruolo fondamentale è stato affidato alla contrattazione collettiva che, nel caso di specie, prevedeva due tipologie di sanzioni applicabili totalmente differenti. Questo denota non poche difficoltà di carattere operativo da parte dei datori di lavoro i quali, di fronte a una tardiva giustificazione che si protrae non solo oltre il termine fissato dalla contrattazione collettiva entro cui la giustificazione deve essere resa, ma anche oltre il periodo entro cui il Ccnl contempla la fattispecie dell’assenza ingiustificata, si trovano schiacciati da una disposizione contrattuale che prevede come semplice punizione una sanzione di natura conservativa e conseguentemente determina una sorta di libero arbitrio per il lavoratore il quale non rischia la perdita del posto di lavoro.

La sentenza induce a mettere a confronto i contratti collettivi maggiormente applicati per verificare in che modo le due fattispecie (assenza ingiustificata e assenza tardivamente giustificata) sono collocate dal punto di vista disciplinare. 

Clicca qui per la tabella sul raffronto tra i Ccnl.

Un solo contratto collettivo analizzato a titolo esemplificativo distingue nettamente le due fattispecie e la relativa sanzione disciplinare applicabile: il Ccnl Terziario Confcommercio, infatti, prevede la sanzione di natura conservativa per l’assenza “senza comprovata giustificazione”, mentre prevede il licenziamento per l’assenza ingiustificata.

Gli altri contratti collettivi invece non fanno una distinzione netta tra le due fattispecie e determinano la differente sanzione applicabile solo in ragione del numero di giorni in cui l’assenza viene considerata ingiustificata: ad esempio il Ccnl Metalmeccanica – Aziende industriali prevede la sanzione di natura conservativa se l’assenza non viene giustificata entro il giorno successivo, mentre il licenziamento (addirittura con il rispetto del preavviso) in caso di assenza ingiustificata prolungata oltre a 4 giorni consecutivi; lo stesso vale per il Ccnl Chimica – Aziende industriali, dove cambia solo la disciplina del licenziamento in quanto configurabile dopo oltre 5 giorni consecutivi di assenza ingiustificata. Ma cosa succederebbe laddove lavoratori, alla quale si applicano i seguenti contratti collettivi, dovessero assentarsi per più dei giorni previsti per la multa e meno giorni rispetto a quelli che configurano il licenziamento ovvero dovessero presentare la comprovata giustificazione tardivamente oltre ai giorni di assenza che risulterebbero ingiustificati, non essendoci né equiparazione da parte del contratto collettivo tra assenza ingiustificata e assenza tardivamente giustificata né una disciplina ad hoc per l’assenza tardivamente giustificata? Balza all’occhio che l’assenza di un’armonia da parte di contratti collettivi, firmati anche dalle stesse sigle sindacali, crea non poche perplessità all’operato aziendale a parità di situazioni ma con diverso trattamento. Inoltre, poiché i giudici di merito hanno sostenuto che, a fronte di diversa fattispecie punitiva, “il datore di lavoro potrà ricorrere al licenziamento laddove l’arco temporale tra l’assenza e la relativa giustificazione si dilati oltremodo, facendo sì che venga meno la possibilità stessa di ritenere l’assenza, seppur tardivamente, giustificata”, è evidente che viene fortemente limitato il diritto di esercizio del potere disciplinare dal momento che non vi sono elementi oggettivi nel definire il parametro di “oltremodo”, venendo meno quello di equiparazione tra assenza tardivamente giustificata e assenza ingiustificata, qualora la giustificazione arriva oltre i giorni definiti dalla contrattazione collettiva come assenza ingiustificata. Altro aspetto fondamentale, che va poi a rafforzare quanto precisato nel paragrafo precedente, è la portata ad ampio raggio che questa sentenza porta con sé: la possibilità di giustificare tardivamente l’assenza e l’irrilevanza data al certificato di malattia rilasciato tardivamente e retroattivamente potrebbero far nascere un modus operandi pericoloso da parte dei lavoratori i quali si sentirebbero liberi di assentarsi senza doversi preoccupare di presentare l’apposito certificato nei tempi e quindi si sentirebbero autorizzati a produrre il certificato di malattia anche successivamente, nel caso in cui il datore di lavoro dovesse procedere ad una risoluzione del rapporto di lavoro al termine della procedura disciplinare.

La Corte d’Appello, prima, e la Corte di Cassazione, dopo, avevano rigettato il ricorso della società e ritenuto il licenziamento nullo per fatto insussistente in quanto oggetto della sanzione disciplinare era stata l’assenza ingiustificata ma, poiché la tardiva consegna del certificato giustifica l’assenza stessa, il fatto, per i giudici di merito, non sussiste e in quanto tale il licenziamento risulta illegittimo.

In altre parole, per il datore di lavoro oltre il danno la beffa.

 

1. D.l. n. 663/1979 conv. in L. n. 33/1980.

2. Cassazione 11 settembre 2020, n. 18956; Cassazione 3 maggio 2019, n. 11700.

3. Art. 60, comma 3, Ccnl Tessile Abbigliamento

4. Art. 61, comma 3, Ccnl Tessile Abbigliamento.

 

 

 

 

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IL RICONOSCIMENTO GIURIDICO E LAVORATIVO DELLE C.D. “MALATTIE FEMMINILI”: un passo verso una concreta parità di genere*

Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in  Paderno Dugnano (Mi),  Luciana Mari e Roberta Simone, Consulenti del lavoro in Milano

 

E’ passato l’ennesimo 8 marzo, ricco di avvenimenti, celebrazioni, riflessioni. Che certo non possono che far bene per l’obiettivo di un pieno accoglimento delle istanze antidiscriminatorie e di integrazione che riguardano, fra le tante discriminazioni, anche l’universo femminile, nel mondo del lavoro e non. Quello che vorremmo qui considerare, come piccolo ed iniziale spunto ad una discussione, e forse come l’avvio verso qualcosa di più concreto, è un dato strisciante e poco considerato, che si innesta proprio in quelle che sono differenze di genere, ma che proprio in quanto non siano riconosciute nella loro peculiarità, come diversità da valutare e sostenere, finiscono per discriminare nel pratico, nelle scelte ed indirizzi di ogni giorno.

Parlare di malattie femminili è difficile, anche per chi ne viene colpita.

In primo luogo c’è una forma di riservatezza, in parte comprensibile, in parte legata a retaggi culturali; quando si parla delle “parti basse” si cerca sempre di parafrasare, è come qualcosa di cui si fa fatica spesso anche solo a pronunciare il nome. Pensate ad un vocabolo, ora meno usato, con cui si era soliti definire certe zone del corpo, le pudenda: non c’è bisogno di essere degli esperti latinisti per andare all’etimo (pudere) e comprendere che si sta parlando di qualcosa da trattare con discrezione, anzi di cui in fondo in fondo vergognarsi un po’. E quindi è con vergogna e reticenza che chi soffre di queste patologie ne parla.

La seconda cosa che fatica ad entrare nella mentalità – non solo maschile, intendiamoci – è che è estremamente riduttivo trattare e definire questi malanni come “disturbi”. Quasi fossero nient’altro che un prolungamento dei dolori mestruali, e allora perché tanta scena, in fondo è un fatto che colpisce tutte, non bisogna farne una tragedia solo “per un po’ di dolore in più”.

L’unione di queste due devastanti percezioni mancate della gravità del problema (unite al fatto che la specializzazione in queste patologie è rara e la diagnosi è spesso difficoltosa) crea una terza, ancor più devastante complicazione: la persona colpita e che soffre, si sente in colpa, racchiusa in un circolo vizioso da cui è impossibile uscire. Un po’ quello che accade con i disturbi di natura psicologica, spesso sottovalutati e trattati con i buoni consigli della nonna; e se tiriamo in ballo, non a caso, i disturbi psicologici, è perché soffrire di alcune di queste malattia spesso si accompagna, e non si vede come non potrebbe, a ricadute di natura psichica, innescando un ulteriore tragico circolo (“vedi che è colpa tua, devi essere più positiva, se non reagisci sarà peggio”, e tutto il campionario delle cose dette, magari anche con affetto e da chi ti sta vicino, che restringono ancora di più il cerchio del soffocamento, della solitudine e della incomprensione).

Dare un nome a queste malattie, e cominciare a parlane seriamente, è la prima forma di caduta del velo di Maya. E allora, senza pretendere di fare un elenco esaustivo o di offrire un piccolo trattato di medicina che sarebbe davvero ben lontano dalla nostra portata professionale (anzi chiediamo anticipatamente scusa per le eventuali ipersemplificazioni), possiamo parlare di endometriosi o di vulvodinia.

L’endometrio è sostanzialmente una tonaca mucosa che riveste internamente la cavità dell’utero; il suo ispessimento o il suo sfaldamento (l’endometriosi, appunto) crea, insieme a dolori lancinanti nella zona addominale, il possibile e spesso pericoloso interessamento di altri organi adiacenti, nel qual caso è talvolta necessario intervenire chirurgicamente con uno o più interventi per la rimozione delle schegge impazzite di questo tessuto, che può portare gravi conseguenze. Chi ne è colpita in modo serio, quando va bene (cioè quando non subentrano le complicazioni suddette) è comunque interessata da forti dolori, abbastanza continui e non direttamente coincidenti con il periodo mestruale, in cui possono a volte intensificarsi. Si stima che soffrano di endometriosi in Italia circa tre milioni di donne, e che sul lavoro si parla di una media di 5/6 giornate lavorative perse al mese. Una certa attenzione è stata data includendo questa patologia nei LEA, i livelli essenziali di assistenza, ma si nota ancora un certo ritardo nel riconoscerne il potenziale invalidante.

La vulvodinia è ancor più rara e sconosciuta, ma interessa anch’essa un numero sempre crescente di pazienti (si calcola sfiori il mezzo milione in Italia, comprese le diagnosi sbagliate o incerte). Le cause della vulvodinia non sono ancora note, c’è chi la lega a fattori biologici, psicologici o relazionali. Tale patologia, chiamata anche vestibolite vulvare, determina un incremento esponenziale del volume e del numero di terminazioni nervose dolorifiche nella zona vulvare, manifestandosi all’inizio quasi come una normale infiammazione, ma con un dolore continuo e pressante che finisce per trasferirsi a livello di tutto il sistema nervoso. Dolore per cui esistono ad oggi solo terapie palliative e sintomatiche, senza una cura.

Come non citare a questo punto, anche una terza patologia, la fibromialgia, che ha diversi apparentamenti (si calcola infatti che oltre il 90% dei colpiti da fibromialgia siano donne) con le malattie precedenti, di cui talvolta è una spiacevole conseguenza (nei fatti, ma senza ad oggi alcun collegamento causale), che viene classificata, in mancanza di meglio, come una malattia reumatica. Il termine “fibromialgia” dall’etimo greco composto sta a significare appunto dolore dei muscoli e delle strutture connettivali fibrose (legamenti e tendini).

Le cause precise dell’insorgenza di questa sindrome cronica dolorosa sono poco note, ma normalmente i sintomi solitamente iniziano a manifestarsi dopo traumi fisici, infezioni o forti stress psicologici (ecco il possibile collegamento con la vulvodinia e con l’endometriosi).

Della fibromialgia si conoscono bene solo i sintomi, ad oggi il principale mezzo diagnostico: un dolore diffuso in tutto il corpo, vissuto come una sensazione di contrattura, rigidità e bruciore, e l’astenia, cioè una stanchezza

cronica, una debolezza generale con riduzione della forza muscolare. La pesantezza di tali sintomi può portare a volte a paralizzare completamente le attività sociali di chi ne è colpito in forma grave. Anche in questo caso le cure sono solo sintomatiche o palliative. Ma perché parlare di queste malattie in questo consesso lavoristico? Perché i risvolti di tali patologie nell’accesso e nel mantenimento al lavoro risultano evidenti.

Consideriamo la questione da un’altra angolazione. Il 20 dicembre 2021, il Parlamento ha approvato all’unanimità la Legge n. 227/2021, una delega al Governo in materia di disabilità (una delle riforme previste dalla Missione 5 “Inclusione e Coesione” del PNRR) per adottare, entro 20 mesi, uno o più decreti legislativi per la revisione ed il riordino delle disposizioni vigenti in materia di disabilità, partendo dalla  definizione di disabilità delle Nazioni Unite.
“Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva
partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri.”
Fra gli altri scopi della norma da approvare vi è anche l’elaborazione di un “progetto di vita personalizzato” che consenta alla persona con disabilità, fra le altre cose necessarie, il superamento delle condizioni di emarginazione nei diversi contesti sociali di riferimento, inclusi quelli lavorativi e scolastici.
Nell’ambito dell’accesso al lavoro, la nostra Legge n. 68/99 – con cui la legge delega dovrà in qualche modo  correlarsi – favorisce “la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel
mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”. Spesso si pensa alla disabilità solo come qualcosa di visibile, di concreto: ed è proprio questo il dramma delle patologie in argomento,  che costituiscono sicuramente una pesante barriera sociale, ma che sono striscianti, poco visibili, anche se terribilmente incidenti sulla
vita di molte donne.

Noi ovviamente ci auguriamo primariamente che per tutte le patologie invalidanti, fra cui quelle sopra descritte, come per le altre che sarebbe impossibile qui continuare a menzionare, si trovino presto cure efficaci e
risolutive e comunque livelli di assistenza sanitaria adeguati.
Ma non possiamo non pensare che il riconoscimento del grado invalidante di queste malattie sia indispensabile  per favorire un inserimento mirato ed attento nella vita sociale e lavorativa delle molte donne che ne sono colpite, con conseguenze umane e psicologiche spesso anche devastanti, con tutti gli strumenti che tale riconoscimento metterebbe a disposizione.
Come Centro Studi e Ricerche dei Consulenti del lavoro di Milano, insieme con la neocostituita Fondazione dei Consulenti del Lavoro di Milano, abbiamo intenzione di sollevare e tenere alta l’attenzione su questi problemi e di dare vita ad una campagna di ricerca e sensibilizzazione volta a favorire, attraverso ogni riconoscimento giuridico, ma anche attraverso forme di welfare e di contrattazione collettiva, il massimo sostegno a chi è colpito da queste patologie, mantenendo nel contempo un’attenzione a 360 gradi su tutte queste tematiche, ovviamente anche a prescindere dalla questione di genere.

 

 

* Pubblicato su LavoriDirittiEuropa, 1/2022.

 

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MALATTIE DELLA PELLE correlate al lavoro*

Luca di Sevo, Consulente del Lavoro in Bollate (Mi)

Giuseppina Paolantonio analizza i rischi per la salute della pelle connessi all’attività di lavoro

Le malattie della pelle possono avere conseguenze notevoli per i lavoratori; esse costituiscono circa il 40% delle malattie correlate al lavoro, e sono portatrici di una perdita di produttività di oltre 5 miliardi di euro all’anno (Italia). Essendo legate a fattori di origine lavorativa o extralavorativa, sono di difficile prevenzione e non è mai facile riconoscere il nesso causale.

La maggior parte delle malattie della pelle è legata a 3 gruppi di fattori:

‒ lavoro che implica contatto frequente con acqua o lavaggio frequente delle mani; ‒ esposizione ad agenti chimici;

‒ esposizione alle radiazioni ultraviolette naturali. Poiché la maggior parte delle attività lavorative prevede attività manuali, è molto probabile che venga coinvolta la pelle delle mani. Le donne sono più colpite degli uomini e sono maggiormente interessati i soggetti di età inferiore ai 35 anni. Viene proposto un excursus sulle categorie principali delle malattie della pelle e dei fattori di rischio.

 

MALATTIE CUTANEE DI ORIGINE CHIMICA

L’esposizione ad agenti chimici è una delle principali cause di malattie della pelle: le dermatiti costituiscono l’82% delle malattie professionali, tra le quali il 60% è di origine chimica. Le categorie professionali più interessate dal contatto con prodotti chimici sono parrucchieri, manicure e specialisti delle cure di bellezza; oli e grassi sono i fattori di rischio a cui sono esposti i lavoratori che utilizzano macchine utensili.

DERMATITE IRRITATIVA DA CONTATTO (DIC)

È la patologia più comune (50-80 % dei casi): comporta l’infiammazione della pelle nel punto di contatto con l’agente chimico irritante. I settori più colpiti sono parrucchieri ed estetisti, personale della sanità, lavoratori dell’edilizia, addetti alle lavorazioni agricole, tessili, alimentari e ristorazione, addetti alla produzione di gomma, conciatori, impiegati nelle lavorazioni dei metalli inclusi i processi di galvanica.

DERMATITE ALLERGICA DA CONTATTO (DAC)

Si tratta di un’infiammazione cutanea che si sviluppa per il contatto con agenti sensibilizzanti: il processo di sensibilizzazione può richiedere tempi variabili da poche settimane a mesi o addirittura anni, senza segnali di preavviso. I più importanti allergeni professionali sono metalli e loro composti (cromo, nichel, cobalto), additivi per gomme e plastiche, resine, pigmenti per il tessile, disinfettanti ambientali, componenti di detersivi e detergenti, conservanti, principi attivi farmaceutici.

ORTICARIA DA CONTATTO

Consiste in una reazione immunitaria che generalmente nel giro di un’ora conduce alla comparsa di pomfi e prurito nel punto di contatto con l’agente chimico. La reazione locale può essere accompagnata da rinite allergica, congiuntivite, asma manifestazioni sistemiche di tipo cardiovascolare, respiratorio o gastroenterico. Fonti di orticaria allergica sono:

‒ lattice, pesce, carne, uova che interessano operatori della sanità, delle pulizie e della ristorazione;

‒ piante, colture e piante ornamentali, legno nelle lavorazioni agricole, di giardinaggio e del legno;

‒ diversi agenti chimici sensibilizzanti; ‒ insetti (vespe o scorpioni).

ACNE PROFESSIONALE

Colpisce porzioni di pelle che si trovano in contatto con oli e grassi industriali, derivati del catrame, composti organici e alogeni, e comporta lo sviluppo di papule e pustole fastidiose e dolenti. I meccanici e gli addetti alla manutenzione sono i lavoratori più a rischio.

TUMORI DELLA PELLE

Composti organici complessi, miscele (pece, oli minerali, prodotti della distillazione e catrame) possono agire localmente originando irritazioni ripetute che, nel tempo, possono condurre alla comparsa di papillomi o acantomi e/o tumori maligni quali carcinomi a cellule basali e squamocellulari. 

MALATTIE CUTANEE DI ORIGINE FISICA

Vi sono agenti che per via fisica possono indurre alterazioni reversibili o irreversibili della pelle: traumi meccanici, effetti del calore, effetti del freddo, radiazioni non ionizzanti, radiazioni ionizzanti.

MALATTIE CUTANEE DI ORIGINE INFETTIVA

Agenti infettivi possono essere contratti durante il lavoro a causa di varie fonti, compreso il contatto con animali per motivi professionali.

MALATTIE DA BATTERI

Il lavoro in ambienti sporchi può provocare infezioni da Streptococcus e Staphylococcus: possono originarsi microtraumi della pelle che favoriscono l’ingresso dei batteri; lo stesso può verificarsi anche nel lavoro a contatto con persone infette o immunocompromesse (professioni sanitarie, socioassistenziali o di cura della persona).

MALATTIE DA VIRUS

Sono comuni nell’allevamento di animali: mungitura di mucche, pecore e capre possono condurre a contatto diretto con fluidi infetti da virus Paravaccinia o Parapox, che causano lesioni cutanee con interessamento dei linfonodi.

MALATTIE DA FUNGHI E LIEVITI

Le infezioni micotiche della pelle e delle unghie sono causate da vari funghi. Possono essere generate da organismi che vivono nei terreni e che possono avvenire durante le lavorazioni agricole e forestali, giardinaggio, o su animali d’allevamento che domestici.

MALATTIE DA PARASSITI

Queste patologie possono essere maggiormente diffuse in lavoratori a contatto con ambienti naturali, come nelle lavorazioni agricole e forestali o nel giardinaggio o nell’allevamento, o ancora in ambiti quali la clinica veterinaria o la ricerca.

L’IMPORTANZA DELLA PREVENZIONE

È evidente che la prevenzione delle malattie professionali della pelle non è di semplice gestione e richiede un intervento globale e interdisciplinare, richiedendo non da ultimo il coinvolgimento attivo dei lavoratori esposti. Gli operatori dei settori sopra descritti devono essere formati sul rischio, per essere in grado di individuarlo ed attivare le procedure di prevenzione e controllo.

Risalta intuitivamente l’importanza dell’uso dei guanti (e di tutti i DPI specifici): ad esempio, sapere come togliere un guanto senza contaminare le mani può fare la differenza quando si parla di microdosi, così come la corretta individuazione di tempi e spazi appropriati per la svestizione del personale. Risulta di primaria importanza la razionalizzazione dei processi, la minimizzazione dei quantitativi in uso e la messa a punto di procedure operative per le attività che necessitano una manipolazione o contatto diretto col prodotto. In conclusione, le norme di igiene del lavoro e personali rivestono la massima importanza per ridurre il livello del rischio.

È opportuno richiamare l’importanza del medico competente e del coordinamento tra quest’ultimo e l’azienda nella corretta analisi dei rischi e nella stesura delle procedure di sicurezza.

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in Igiene & Sicurezza del Lavoro, n. 3, 1 marzo 2022, p. 143 dal titolo Malattie della pelle: cause e ambiti lavorativi.

 

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Alle Sezioni Unite decidere se il licenziamento intimato durante la malattia sia nullo o solo inefficace

di Gabriele Fava – Avvocato in Milano

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con ordinanza n. 24766 dello scorso 19 ottobre 2017, ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione riguardante il licenziamento intimato durante la malattia del lavoratore.
In particolare, ciò che è stato chiesto alla Corte di legittimità è di stabilire se un licenziamento intimato per presunto superamento del periodo di comporto – per il quale si scopra poi che di fatto tale periodo non era ancora completamente decorso – sia riconducibile ad un’ipotesi di nullità, o, diversamente, di temporanea inefficacia dello stesso. Questione questa che ha dato luogo ad un acceso dibattito fino ad aversi un vero e proprio contrasto giurisprudenziale.
Oggetto di conflitto interpretativo è infatti il regime sanzionatorio applicabile all’atto di licenziamento intimato al lavoratore prima dell’effettivo superamento del periodo di comporto, che è quel periodo di garanzia stabilito dalla legge volto alla conservazione del posto di lavoro per il tempo nel quale vi è l’impossibilità della prestazione di lavoro a causa di impedimenti del lavoratore di cui all’art. 2110, co. 2, c.c.
Al riguardo, possono dirsi due i principali orientamenti giurisprudenziali.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (si veda Cass. n. 23063/2013; Cass. n. 9037/2001; Cass. n. 7098/1990; Cass. n. 1657/1993) il recesso datoriale intimato prima della fine del periodo di comporto non è invalido ma solo inefficace e produce i suoi effetti dal momento della cessazione della malattia. Il fondamento normativo di tale tesi è stato ravvisato nel principio di conservazione degli atti giuridici desumibile dall’art. 1367 c.c. ed applicabile al recesso datoriale in virtù del rinvio operato dall’art. 1324 c.c. agli atti unilaterali.
Altra parte della giurisprudenza (si veda Cass. n. 24525/2014; Cass. n. 12031/1999) ritiene invece che il licenziamento intimato prima della scadenza del comporto sia affetto da nullità e non da inefficacia. Tale diverso orientamento muove dalla considerazione secondo cui solo il superamento del periodo di comporto riconosce al datore di lavoro la facoltà di recedere dal contratto, tanto che in caso di licenziamento intimato per superamento di tale periodo anteriormente alla sua effettiva scadenza, l’atto di recesso datoriale deve considerarsi totalmente nullo per violazione di norma imperativa di cui proprio all’art. 2110 c.c. – il quale vieta il licenziamento stesso in costanza della malattia del lavoratore – e non già temporaneamente inefficace, con differimento dei relativi effetti al momento della scadenza. Il superamento del comporto costituisce, infatti, ai sensi del citato art. 2110 c.c., una situazione autonomamente giustificatrice del recesso che deve, perciò, esistere già anteriormente alla comunicazione dello stesso per legittimare il datore di lavoro al compimento di tale atto.
Ciò posto, un licenziamento irrogato in questo contesto sarebbe radicalmente nullo, con conseguente applicazione della tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Nel diverso caso invece di licenziamento esclusivamente inefficace, questo sarà di per sé valido, rimanendo i suoi effetti in sospeso sino al termine dello stato di incapacità lavorativa.
Considerate quindi le ben diverse conseguenze giuridiche scaturenti per il lavoratore a seconda della tesi accolta dai diversi organi giudicanti, un intervento risolutore delle Sezioni Unite sulla questione assume una importante rilevanza pratica.

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