I NUOVI CONTRATTI A TERMINE e l’azzeramento del periodo “acausale”

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

“Se si consente al legislatore (e alla prassi) l’utilizzo
di un linguaggio giuridico inadeguato,
non ci si può poi lamentare dell’incertezza del diritto.”

 

Fiumi di parole sul contratto a termine che pare proprio non trovare pace. Del resto norme scritte male portano al proliferare di indicazioni contrastanti della dottrina, di circolari fantasiosamente interpretative, di sentenze che dicono tutto e il contrario di tutto. Con incertezze operative che durano anni, con inevitabili ricadute sul raggiungimento degli obiettivi che i provvedimenti si prefiggono. La Legge n. 85 del 3 luglio 2023, di conversione del D.l. n. 48 del 4 maggio 2023 è, ahimè, destinata a produrre altro spreco di inchiostro in quanto da un lato non ha risolto alcuni dubbi dell’originario decreto-legge e dall’altro ne ha introdotti dei nuovi. E pure di un certo peso.

LE NUOVE CAUSALI

Con il D.l. n. 48/2023 come sappiamo si è provveduto alla riscrittura della Disciplina del contratto di lavoro a termine di cui all’articolo 19 del D.lgs n. 81 del 15 giugno 2015, nei seguenti termini:

  1. Al contratto di lavoro subordinato pu essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto pu avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:
  2. nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51;
  3. in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; b-bis) in sostituzione di altri lavoratori.

Partiamo dalla premessa che l’inciso solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni letto in tutt’uno con ognuna delle tre ipotesi non aiuta di certo la comprensione del testo, motivo per il quale sarebbe stata opportuna la sua espunzione e una migliore riscrittura delle singole casistiche.

Va da sé che molti commentatori – tra cui chi scrive – si sono domandati il senso della previsione della lettera b), un confuso mix di condizioni e di motivi, che si presta ad una duplice lettura. Proviamo a riassumere la questione.

Il passaggio va letto in stretta connessione con la precedente lettera a) che consente il superamento del limite dei primi dodici mesi complessivi di acausalità (senza superare comunque i ventiquattro) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51. Qui non vi è alcun dubbio che il rimando è ai contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.lgs. n. 81/2015 che, lo ricordiamo, sono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.

La lettera b) invece è scritta davvero male. Nulla questio sulla prima parte del periodo che ci segnala come la possibilità prevista dalla lettera b) di superare l’anno di acausalità rilevi solo nel caso si registri una assenza delle previsioni di cui alla lettera a). Una premessa assolutamente chiara.

Il problema nasce dal successivo periodo che risulta separato da una virgola, segno di interpunzione la cui presenza o assenza cambia, e di molto, il senso del discorso. Una cosa infatti è dire in assenza delle previsioni di cui alla lettera a) nei contratti collettivi applicati in azienda (senza virgola), la cui conseguenza è che in tale ipotesi rilevano le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti. In questo caso risulta pacifico che il riferimento ai contratti collettivi (seppur ridondante) è sempre a quelli di cui all’art. 51.

Altra cosa è leggere la frase come è stata scritta – appunto con la virgola – che per taluni deve essere interpretata nel senso che, in assenza delle previsioni derogatorie nei contratti collettivi ex art. 51, rilevano quelli applicati in azienda anche se non comparativamente più rappresentativi oltre che, ma solo sino al 30 aprile 2024, le casistiche individuate dalle parti del contratto individuale riferite ad esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva. Questa lettura è senza dubbio intrigante potendosi basare sul fatto che proprio l’art. 51 sopra citato dispone che Salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono … Non si puo’  quindi escludere che con la lettera b) si sia voluto fare riferimento proprio ai contratti collettivi non comparativamente più rappresentativi ma comunque applicati in azienda. Un ostacolo a questa lettura è dato per , ancora una volta, dal mal posizionamento di una virgola. Quella virgola posta all’inizio dell’inciso “e comunque entro il 30 aprile 2024” che andrebbe spostata da prima a dopo la congiunzione “e”.

Volendo far finta di nulla, secondo questa tesi avremmo una sorta di podio che vede: – al primo posto i contratti leader;

  • al secondo qualsiasi contratto collettivo applicato in azienda;
  • medaglia d’argento ex aequo, ma solo fino al 30 aprile 2024, alle pattuizioni individuali siglate tra ditta e lavoratore.

Il che avrebbe un senso ovvero di sprone ai contratti comparativamente più rappresentativi di darsi da fare. E pure in fretta perché il dubbio che sovviene è che non abbiano tutta questa voglia di farlo.

Comunque la si veda – e intenzionalmente si son volute evitare disquisizioni troppo tecniche che del resto lascerebbero il tempo che trovano dato che un punto fermo lo metterà, ahinoi, la magistratura non prima di qualche decennio – è pacifico che oggi il passaggio di questa disposizione non puo’  ricevere una lettura univoca. Proprio per questo, a fronte di tutte le richieste di aiuto partite dalla dottrina, ci saremmo aspettati una puntuale modifica della norma che chiarisse definitivamente il punto. Un po’ di sana umiltà da parte del legislatore sarebbe stata apprezzata.

L’AZZERAMENTO DEL CONTATORE “PRECEDENTI RAPPORTI”

La legge di conversione introduce una novità sulla cui lettura la dottrina, manco a dirlo, si sta nuovamente dividendo.

Ci riferiamo alla introduzione nell’art. 24 del D.l. n. 48/2023 del nuovo comma 1-ter. Ai fini del computo del termine di dodici mesi previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, del decreto legislativo n. 81 del 2015, come modificati dai commi 1 e 1-bis del presente articolo, si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

In questo caso i dubbi riguardano la portata del termine “contratti” sul quale si registrano due letture.

  1. Per parte della dottrina i contratti di cui non tenere conto sono solo i rinnovi stipulati dal 5 maggio 2023. Continuerebbero invece a rilevare, ai fini della durata massima di 12 mesi di acausalità, le eventuali proroghe concordate dopo la data di entrata in vigore del D.l. n. 48/2023 in quanto si dovrebbe considerare la proroga non quale contratto ma unicamente la volontà delle parti di spostare in avanti la scadenza di un contratto già in essere.
  1. Secondo altri commentatori invece anche ! le eventuali proroghe beneficerebbero dell’azzeramento dei termini in quanto la proroga è a tutti gli effetti, civilisticamente parlando, un contratto ai sensi dell’art. 1321 c.c. che stabilisce che

Il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. Lo spostamento del termine è infatti un modo di “regolare” un precedente contratto che, senza questo nuovo patto, cesserebbe di esistere. Tale effetto lo si ottiene con un altro accordo tra le parti che rappresenta quindi un fatto sostanziale che – seppur innegabilmente collegato al precedente contratto – non pu  essere derubricato a qualcosa di secondaria o marginale importanza rispetto all’accordo originale. Chi scrive aderisce a questo secondo schieramento anche perché va sottolineato che il D.lgs n. 81/2015 non dà alcuna specifica definizione, per le proprie finalità, del termine contratto così come non lo ha mai fatto per i termini proroga e rinnovi. In assenza di una simile precisazione si ritiene che per il termine contratto non possano che rilevare le definizioni civilistiche. Ulteriore conferma la si trova nello spirito della legge di conversione dove si registra la volontà di assimilare le ipotesi di proroga e di rinnovo modificando, in questa direzione, il comma 01 dell’art. 21 del D.lgs. n. 81/2015, disponendo così che

Il contratto pu  essere prorogato e rinnovato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1.

Del resto proroga e rinnovo sono per la lingua italiana dei sinonimi. Se proprio vogliamo operare un distinguo il rinnovo è la proroga di pari durata del contratto originario. Si rinnova l’abbonamento alla piscina, l’assicurazione; si proroga il soggiorno al mare, la scadenza di un pagamento.

Altra considerazione che si pu  fare è che una lettura restrittiva della disposizione verrebbe agilmente superata in quelle realtà dove la contrattazione aziendale ha ridotto di molto o addirittura eliminato il cosiddetto Stop&Go. In sostanza per bypassare questa lettura restrittiva basterebbe licenziare il lavoratore il venerdì e riassumerlo il lunedì seguente. Del resto, inutile nasconderlo, la differenza tra proroga e rinnovo – soprattutto nella situazione sopra descritta di accordi aziendali – riguarda, nella sostanza, la presenza di un periodo di stacco. Gli effetti che si ottengono sono assolutamente identici: proseguire il medesimo rapporto di lavoro fino ad una data successiva.

DELUSIONE ED AMAREZZA

Abbiamo già evidenziato tutta la nostra delusione per il mancato chiarimento legislativo sulla prima problematica. Come al solito ci toccherà navigare a vista nel mare magnum dell’incertezza.

Chi scrive deve anche esprimere la propria amarezza nel prendere atto della cronica rassegnazione di molti degli operatori del settore, pubblicisti in primis, che confidano in rapidi chiarimenti da parte del Ministero del Lavoro. Ministero che, per inciso, a distanza di oramai quattro mesi dal D.l. n. 48/2023 ancora non si è espresso sulle questioni qui evidenziate. Ovviamente un intervento ministeriale rappresenterebbe un più che autorevole parere sulla portata delle disposizioni qui in commento dato che le modifiche alla disciplina dei contratti a termine sono state dettate proprio dal Dicastero a guida Calderone. Ma sappiamo bene che spesso la magistratura se ne infischia bellamente delle circolari. A volte pure della legge: ve lo ricordate cosa è successo alla disciplina dei licenziamenti introdotta dal Jobs Act?

Per questi motivi si auspica sulle problematiche qui trattate un rapido intervento di interpretazione autentica.

Magari facendosi aiutare non solo nel rigoroso ed incisivo utilizzo della terminologia ma anche per il necessario corretto posizionamento delle virgole.

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IL CONTRATTO A TERMINE E I SUOI DODICI MESI. Cosa cambia col decreto Lavoro

Andrea Morzenti, Curatore e autore di intornoallavoro.com

 

Lasciatemi innanzitutto dire che sono molto contento di tornare a scrivere su Sintesi, rivista piena di spunti interessanti e che leggo sempre con grande interesse e con piacere. Colpevolmente assente qui da troppo tempo, provo a dare ora il mio contributo in merito alle recenti novità introdotte al contratto a termine (tanto diretto quanto a scopo di somministrazione) dal decreto Lavoro e dalla sua legge di conversione.

Forse ci si aspettava di più da questo decreto. Puo’ darsi. Anche perché le anticipazioni diffuse dalla stampa nei primi mesi dell’anno facevano pensare ad un superamento totale del decreto dignità con un sostanziale ritorno al Jobs Act (salvo la conferma, ormai consolidata, della riduzione da trentasei a ventiquattro mesi della durata massima contrattuale). Si dava infatti ormai per certa l’eliminazione delle causali, con un conseguente ritorno pieno alla acausalità dei contratti a termine. Ma sappiamo non è stato così. Cosa sia avvenuto nei palazzi romani non è dato sapersi con esattezza. I ben informati dicono di un governo preoccupato di non innervosire troppo la CGIL vista l’abrogazione del reddito di cittadinanza, questa sì avvenuta ad opera del decreto Lavoro con la sua sostituzione mediante il diverso istituto dell’assegno di inclusione, che a Maurizio Landini non è piaciuta per nulla.

Ma torniamo al punto. Dopo aver accantonato (Deo gratias) l’impraticabile idea della certificazione dei contratti, il governo Meloni decide di riscrivere completamente il meccanismo delle causali introdotto dal decreto Dignità.

Nessun ritorno alla acausalità sempre e comunque, come detto, ma un primo colpo al decreto Dignità è servito (l’altro arriverà con la legge di conversione, vedremo dopo). Ricordate cos’era necessario per prorogare un contratto oltre i dodici mesi o, semplicemente, per rinnovarlo? Non era sufficiente, ad esempio, un incremento dell’attività ordinaria, ma era necessario che tale incremento fosse i) temporaneo, ii) significativo e iii) non programmabile, con specifica declinazione dei tre aggettivi. Insomma, una prova diabolica a cui era possibile assolvere solo – forse – a seguito di un allineamento di tutti i pianeti del nostro sistema solare. Pensiamo a un gelataio che registra un incremento della produzione di gelato alla crema (attività ordinaria), in pieno inverno (non programmabile), per un mese o poco più (temporaneo), pari al triplo, anzi facciamo al quadruplo, della produzione media di quel periodo (significativo). Che poi, chissà, se questo allineamento planetario avrebbe anche trovato accoglimento da parte dei nostri giudici del lavoro.

Ora tutto questo non c’è più. E, lasciatemelo dire, io lo trovo un profondo senso di liberazione. Il governo col decreto Lavoro decide, infatti, di assegnare in prima battuta (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1, novellata lettera a)) ai contratti collettivi, di ogni livello anche aziendali, l’individuazione in via normale dei “casi” per cui, vedremo meglio dopo, è possibile “andare oltre i dodici mesi” di contratto/i (pur sempre entro i ventiquattro mesi). E anche la scelta del termine “casi” va letta con favore, in quanto molto ampia. Non più “specifiche esigenze” come fece in epoca Covid il governo Draghi col decreto Sostegni bis, ma “casi” appunto. Aprendo in questo modo alla contrattazione nazionale (che con “specifiche esigenze” era forse un po’ sacrificata) oltre che confermare, certo, quella aziendale. E avvalorando ora, senza dubbio alcuno, la possibilità di avere causali (rectius casi) anche soggettive e quindi rivolte a particolari tipologie di lavoratori e non solo, oggettive, legate all’organizzazione aziendale. In seconda battuta (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1, novellata lettera b), solo se e finché i contratti collettivi nulla dicono in tema di causali, sono le parti individuali del contratto di lavoro, datore di lavoro e lavoratore, a poter individuare una esigenza tecnica, organizzativa o produttiva a “far da causale”. Una funzione suppletiva pero’ a tempo, in quanto esercitabile solo sino al 30 aprile 2024. Poi, dall’1 maggio 2024, o i contratti collettivi saranno intervenuti oppure, salvo l’utilizzo della causale sostitutiva laddove possibile, il limite dei dodici mesi diverrà un limite temporale invalicabile.

In molti hanno osservato come, per un anno, potremmo essere in presenza di un ritorno al cosiddetto “causalone”. Un balzo indietro sino al 2001, al decreto legislativo n. 368, con tanto di pesante contenzioso giudiziale che ne è seguito? Sul punto, personalmente, preferisco l’interpretazione che porta a dare una risposta negativa a tale equiparazione. Perché, se da un lato la formulazione testuale è pressoché identica a quella del 2001, dall’altro lato molto diverso è l’impianto normativo in cui è oggi inserita rispetto a quello del passato. Se infatti il causalone di allora era sostanzialmente l’unica misura prevista per contrastare l’abuso derivante dalla successione di più contratti a termine (che è quanto chiede la direttiva europea) e quindi la causale oltre ad essere specifica doveva anche far emergere il necessario requisito della temporaneità, ora – fermo l’onere della specificazione in capo al datore di lavoro – la presenza di un limite temporale alla successione dei contratti che nel 2001 non era presente, i ventiquattro mesi, potrebbe da solo essere sufficiente per soddisfare la prerogativa della temporaneità. Vedremo se i giudici del lavoro terranno conto di questa possibile lettura nel valutare la bontà di una causale individuata dalle parti individuali.

Ci si è anche domandati se le causali introdotte dalla contrattazione collettiva prima del decreto Lavoro siano ancora utilizzabili oppure no. E, se sì, quali gli effetti sulla possibilità per le parti individuali di procedere con il causalone che, come detto, risulta precluso in caso di intervento della contrattazione collettiva. Personalmente ritengo che le “specifiche esigenze” introdotte dai contratti collettivi in attuazione del decreto Sostegni bis siano certamente ancora valide, per due ordini di motivi.

Il primo attiene al fatto che si tratta di norma successiva al decreto Dignità, nel tentativo di allargarne le maglie. Per lo stesso motivo, ri- ! tengo quindi che non abbiano più valore le causali collettive introdotte prima del decreto Dignità, dato che quest’ultimo aveva fatto tabula rasa di tutto quanto introdotto e normato prima della sua entrata in vigore. Il secondo ordine di motivi attiene al dato letterale. E cioè se le parti collettive erano state così brave nell’individuare una “specifica esigenza”, di certo questa previsione puo’ ora avere cittadinanza anche come “caso” che indubbiamente ha una accezione molto più ampia. Sono anche del parere, pero’, che queste causali collettive ante decreto Lavoro non siano, come lo saranno invece le post per espressa previsione di legge, impeditive della causale individuale (causalone). E questo perché, a ragionare diversamente, si assegnerebbe alla fonte collettiva ante decreto Lavoro una funzione che certo il Legislatore dell’epoca non aveva previsto. In altri termini, quando, ad esempio, nel 2022 le parti sociali intorno al tavolo hanno di comune accordo individuato le causali, l’hanno fatto per allargare le maglie del decreto Dignità e non certo, neppure, potendo immaginare che quell’allargamento, da lì a poco, avrebbe comportato al contrario un restringimento, essendo di fatto l’unico impianto causale possibile. Ora, dopo aver analizzato il primo colpo che il decreto Lavoro ha inferto al decreto Dignità (la completa riscrittura e semplificazione delle causali, come visto), proviamo ad analizzare il secondo colpo infertogli dalla legge di conversione. Premessa doverosa. Il decreto Dignità prevede(va) che la causale fosse necessaria in tre situazioni: i) contratto di durata iniziale superiore a 12 mesi, ii) proroga che porta la durata del contratto a superare i dodici mesi, iii) rinnovi, cioè riassunzioni del lavoratore a termine, indipendentemente dalle durate.

Questa impostazione era rimasta immutata con l’entrata in vigore, il 5 maggio 2023, del decreto Lavoro. La legge di conversione, in vigore dal 4 luglio 2023, ci consegna invece una novità importante: anche coi rinnovi la causale non serve sempre e a prescindere ma, invece, è necessaria solo quando “il termine complessivo eccede i dodici mesi” (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 4, ultimo periodo). Quindi, d’ora in avanti – riporto il testo novellato del D.lgs. n. 81/2015, art. 21, comma 01, primo periodo – “Il contratto puo’ essere prorogato e rinnovato liberamente nei primi dodici mesi”. Sul punto si sono già confrontate almeno due diverse interpretazioni. La prima afferma che i dodici mesi sono di calendario cioè, in altre parole, un contratto sottoscritto ad esempio il 1° settembre 2023 potrà essere (oltre che prorogato anche) rinnovato per dodici mesi, tenendo pero’ come ultimo giorno di contratto sempre e comunque il 31 agosto 2024. Una seconda e diversa, a mio parere più aderente alla lettera della norma (“termine complessivo”) e che credo collimi anche con la ratio della novella in commento, considera invece i dodici mesi non come anno solare ma come sommatoria delle durate dei vari contratti (il primo e i successivi rinnovi). Aderendo alla prima interpretazione, tra l’altro, i dodici mesi complessivi potrebbero non raggiungersi mai in considerazione della necessità di rispettare uno stacco (il cosiddetto stop & go) tra un contratto a termine e il successivo (previsione che, ricordo, non si applica in caso di contratti a termine a scopo di somministrazione). Anche in base a questo assunto, oltre al fatto di voler riconoscere al rinnovo una distinta connotazione rispetto al diverso istituto della proroga, la mia preferenza va appunto all’interpretazione che considera i dodici mesi raggiungibili per sommatoria in forza di diversi contratti stipulati anche in un arco temporale superiore all’anno. Ma non è finita qui. Perché la legge di conversione del decreto Lavoro introduce anche un’ulteriore novità. Si prevede infatti una sorta di franchigia che, in sostanza e ai soli fini dei dodici mesi sopra trattati, azzera tutti i contratti sottoscritti prima dell’entrata in vigore del decreto Lavoro (5 maggio 2023). Riporto testualmente: “Ai fini del computo del termine di dodici mesi previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, del decreto legislativo n. 81 del 2015, come modificati dai commi 1 e 1-bis del presente articolo, si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Quindi, tanto ai fini delle proroghe (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1) quanto ai fini dei rinnovi (D.lgs. n. 81/2015, art. 21, comma 01), i dodici mesi superati i quali si rende necessaria una causale, decorrono solo a partire dalla stipula dei contratti (attenzione, non proroga che non è un contratto ma la sua prosecuzione) dal 5 maggio 2023 in avanti.

Concludendo sul punto, possiamo dire che la legge di conversione introduce un nuovo e diverso contatore, di dodici mesi, necessario per sapere se e quando è necessario apporre una causale. Conteggio che si affianca (non sostituisce e non modifica) a quello dei ventiquattro mesi di durata complessiva di uno o più (salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi) contratti a termine.

Chiudo questo mio scritto con una domanda: alla luce della seconda novità introdotta dalla legge di conversione sopra descritta (computo dei dodici mesi solo a partire dai contratti post 5 maggio 2023), è possibile sostenere che il causalone (ricordo utilizzabile entro il 30 aprile 2024 in assenza della contrattazione collettiva) sia stato in sostanza ora definitamente abbandonato dal Legislatore, pur senza una abrogazione esplicita, in quanto fatto rivivere solo per i due mesi intercorrenti tra l’entrata in vigore del decreto lavoro e la sua conversione in legge?

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Una proposta al mese – IL PATTO DI PROVA DEL DECRETO TRASPARENZA: superare le disparità di trattamento e le discriminazioni

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Lo dico a chiare lettere: non mi convince affatto la nuova disciplina legale del patto di prova introdotta dall’art. 7 del D.lgs. 104 del 27 giugno 2022 che, in modo troppo succinto, così lo disciplina:

Durata massima del periodo di prova 1. Nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi.

  1. Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova.
  2. In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

Questo articolo è, per buona parte, la pessima trasposizione di quanto previsto dall’art. 8 della direttiva (UE) N. 2019/1152 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.

Come si noterà la nuova disciplina della prova si basa su quattro principi:

  1. durata massima del periodo di prova;
  2. riproporzionamento della durata del patto di prova nei contratti a termine;
  3. divieto di reiterazione del patto di prova in caso di riassunzione per le stesse mansioni;
  4. prolungamento del periodo di prova in presenza di sospensione della prestazione. Ognuno di questi presenta delle evidenti criticità, specie in un’ottica di palese violazione del diritto alla parità di trattamento e di divieto di discriminazione.1

 

LA DURATA MASSIMA DEL PERIODO DI PROVA

La problematica che qui emerge è la mancanza di un periodo minimo di prova garantito ex lege, carenza che consentirà ai vari contratti collettivi di prevedere ancora durate ridicole, anche di pochi giorni. Una cosa che stride con la riconosciuta finalità del patto di prova che una consolidata giurisprudenza individua nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (Cass. n. 1099 del 14 gennaio 2022). Anche perché non va dimenticato che durante la prova può essere valutato – se espressamente previsto – non solo la capacità professionale ma anche il comportamento complessivo del lavoratore, quale è desumibile dalla correttezza e dal modo in cui si manifesta la personalità: capacità nel comunicare, entusiasmo nel lavoro, riservatezza, attitudine alla collaborazione, senso di responsabilità, spirito di iniziativa e di adattamento.

Ma soprattutto teniamo presente che la sottoscrizione del patto di prova rappresenta il mezzo con cui il neoassunto può dimostrare al futuro datore di essere lui il candidato migliore per quel posto e di meritarsi un contratto a tempo indeterminato o anche solo di concludere il contratto a termine appena sottoscritto. Rammentiamo infine che è lo stesso Considerando n. 27 della Direttiva europea a ritenere che i periodi di prova dovrebbero pertanto essere di durata ragionevole. Una ragionevolezza che, considerate le richiamate finalità del patto di prova, dovrebbe appunto riguardare sia un termine di durata massima ma, a maggior ragione, anche un termine minimo. È possibile ritenere “ragionevole” una prova di soli 5 giorni lavorativi ove considerassimo che il lavoratore dovrà sfruttare questo periodo per dimostrare non solo la sua capacità professionale ma, come sopra detto, anche le altre sue apprezzabili ed encomiabili qualità personali?

 

IL RIPROPORZIONAMENTO DEL PERIODO DI PROVA DEI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO

Qui la criticità rilevata è la codificazione del principio che nei contratti a termine deve essere operata una riduzione del periodo di prova in modo proporzionale alla durata del contratto: mi son sempre chiesto per qual motivo un lavoratore assunto con un contratto iniziale di 3 mesi dovrebbe avere, rispetto ad uno assunto per 12 mesi, meno tempo per valutare e farsi valutare, considerata l’aspirazione di tutti e due a concludere quantomeno l’iniziale rapporto di lavoro a termine. Senza contare l’imbarazzante ignoranza matematica (peraltro già emersa nella giurisprudenza di merito italiana) nel non sapere che in una equazione matematica è operazione impossibile trovare l’incognita “x” (durata della prova nel TD) quando uno degli elementi conosciuti (la durata del contratto a TI) è un valore “infinito” (o quantomeno matematicamente non definibile, dato che il rapporto può durare un’intera vita lavorativa). Non scordiamo poi che nella disciplina del contratto a tempo determinato vige, in relazione al trattamento economico e normativo, un principio di non discriminazione del lavoratore assunto con tale tipologia contrattuale rispetto ai lavoratori in forza a tempo indeterminato. Il legislatore se lo deve essere scordato.

 

IL RIPROPORZIONAMENTO DEL PERIODO DI PROVA NEI CONTRATTI A TEMPO PARZIALE

Anche qui non manca una criticità anche se in termini di mancata previsione: il legislatore europeo, e di conseguenza quello italiano, si dimentica infatti di dare indicazioni circa un eventuale riproporzionamento nei casi di contratti a tempo parziale. Ci si riempie la bocca di concetti quali la parità di trattamento, il divieto di discriminazione e poi si ammette bellamente che due lavoratori assunti il medesimo giorno, presso la stessa azienda, con le medesime mansioni, si vedano proporre la medesima data di scadenza del patto di prova senza che si tenga conto che, lavorando il primo a tempo pieno ed il secondo al 50%, il primo disporrà di un tempo doppio per dimostrare al datore di lavoro di che pasta è fatto. Rasentando praticamente il ridicolo si continua a sostenere che sarebbe proprio in base al principio di non discriminazione che al lavoratore part-time spetterebbe, pur svolgendo un orario di lavoro ridotto, gli stessi diritti previsti per il lavoratore full-time. Chiaro invece che, proprio per il richiamato principio di non discriminazione, è esattamente il contrario. Andrebbe qui magari rammentata la Direttiva europea n. 97/81/CE del Consiglio Europeo del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES ed in particolare la Clausola 4: Principio di non-discriminazione che dispone che Per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive.2 Nella fattispecie appare difficile a chi scrive ravvisare ragioni obiettive per cui per il lavoratore part-time abbia meno tempo rispetto ad un lavoratore full-time per valutare – lo abbiamo già evidenziato sopra – l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni, chiamiamole ambientali, di svolgimento del rapporto.

IL DIVIETO DI REITERAZIONE DEL PATTO DI PROVA

Anche nel negare un nuovo periodo di prova nel caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni il legislatore comunitario dimostra tutta la sua superficialità non prevedendo alcuna ipotesi derogatoria al principio di non reiterazione della prova. Il lavoratore potrebbe essere riassunto dopo 20 anni dal precedente rapporto che l’espletamento della prova non sarebbe ugualmente ammesso. Non importa se nel frattempo le mansioni hanno avuto uno sviluppo tecnologico enorme (pensiamo ad un addetto paghe o alla contabilità assunto vent’anni prima) o che l’azienda abbia modificato il proprio modo di operare, sia per l’introduzione di nuovi macchinari o di software ma anche per un cambio dirigenziale. Non importa che l’ambiente aziendale, magari in termini di organico o di clientela, sia mutato e quindi l’adattamento caratteriale alla nuova realtà potrebbe essere più difficoltoso. Se uno ha già lavorato anche un solo giorno non potrà esser sottoposto ad alcuna prova. Pensare che ciò aiuti in qualche modo il lavoratore a trovare un lavoro stabile significa non conoscere le dinamiche del mondo del lavoro.

 

IL PROLUNGAMENTO DEL PERIODO DI PROVA

Anche su questo aspetto il legislatore italiano lascia molto a desiderare. L’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 fa infatti una certa confusione tra ciò che il Considerando n. 28 auspicava ovvero che i periodi di prova dovrebbero poter essere prorogati in misura corrispondente qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, ad esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di lavoro di verificare l’idoneità del lavoratore al compito in questione e l’art. 8 della Direttiva che non indica analiticamente le varie tipologie di assenza ma si limita a suggerire che Qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell’assenza.

Il legislatore nostrano, evidentemente senza ragionare troppo, aggiunge alla malattia un gruppetto di assenze assimilabili in senso lato alla malattia, quali infortuni, maternità o paternità obbligatori.

Di contro i congedi parentali (quelli facoltativi per capirci), i permessi legge 104, i permessi sindacali, le ferie collettive, i permessi individuali, la donazione sangue, i permessi per lutto, gli scioperi non avrebbero alcuna rilevanza per un eventuale prolungamento del patto di prova. Dobbiamo infine evidenziare come il legislatore non abbia nemmeno preso in considerazione la possibile interruzione dell’espletamento della prova verificatasi nel precedente rapporto, ad esempio causa dimissioni. Nulla prevede di conseguenza in merito ad un eventuale completamento di una prova lasciata a metà ma parla solo di divieto di reiterazione.

LA NOSTRA PROPOSTA

La nuova disciplina non convince soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi di parità di trattamento e di superamento di ogni discriminazione.

In quest’ottica si ritiene necessario rimetter mano all’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 quantomeno nei seguenti termini:

1. prevedere una reale durata del patto di prova uguale per tutti diversificata esclusi vamente in funzione del livello di assunzione e quindi a prescindere che si tratti di tempi indeterminati o determinati, part-time verticali, orizzontali o misti.
Per fare questo si dovrebbe trasformare la durata massima della prova da mesi in ore: se pertanto i 6 mesi sono circa 26 settimane e ogni settimana composta (di norma) da 40 ore lavorative, la durata limite della prova potrebbe essere fissata in 1040 ore. Considerando così solo le ore di effettiva prestazione si andrebbe peraltro a superare la evidenziate criticità dell’art. 7 del D.lgs n. 104/2022 che, maldestramente, ha previsto il prolungamento solo per determinate assenze.

2. prevedere un periodo minimo di espletamento della prova per tutti i livelli previsti dalle declaratorie contrattuali.
Questo in considerazione che la prova comprende non solo la valutazione della specifica professionalità richiesta al lavoratore ma anche di un comportamento complessivo che non è riproporzionabile in base alla durata del contratto, del livello o delle mansioni: educazione e rispetto valgono in egual misura per tutti.
La durata minima potrebbe quindi essere fissata in circa un quarto del periodo massimo, diciamo 240 ore (ragionando alla vecchia maniera pari a 6 settimane a tempo pieno) per tutti i lavoratori senza distinzioni tra tempo indeterminato e a termine, tra tempo pieno e tempo parziale. La restante quota di 800 ore andrebbe riproporzionata dai contratti collettivi in base ai livelli dagli stessi previsti secondo una scala parametrale liberamente individuata dalle parti sociali.

3. prevedere la possibilità di reiterazione e di completamento di un periodo di prova già parzialmente espletato.
La questione si pone in presenza di precedenti contratti subordinati, a termine o a tempo indeterminato, con o senza prova, ma anche in somministrazione.
In questi casi volgono le seguenti regole:
a) le parti sono libere di sottoscrivere un patto di prova in assenza di prestazioni lavorative nei 12 mesi precedenti la nuova assunzione (rilevano solo quelle svolte presso lo stesso datore di lavoro).
b) in presenza di attività lavorativa potrà essere previsto il completamento della prova a suo tempo concordata considerandola superata in riferimento alle ore svolte in prova nell’anno precedente.
c) considerare, anche se esclusivamente ai fini della durata complessiva della prova, tutte le “normali” ore di lavoro svolte nei 12 mesi precedenti l’ultima assunzione come una sorta di prova informale parzialmente già svolta, da sommare eventualmente alle formali ore di prova già effettuate. In pratica un correttivo alle regole generali motivato da ragioni di equità verso tutti i lavoratori che, prova o non prova, vantano presso la medesima azienda la stessa anzianità lavorativa. In un certo senso ciò fungerebbe come una sorta di periodo transitorio considerando che, in vigenza delle attuali regole, le parti potrebbero aver rinunciato a sottoscrivere un formale patto in relazione a contratti a termine molto brevi e quindi evidenziarsi delle prestazioni lavorative senza che le parti le abbiano formalmente identificate quale prova. Ed il pensiero va qui all’assurda regola (che con questa nostra proposta si intende superare) del riproporzionamento della durata del patto nei contratti a termine che rende spesso non significativo se non addirittura irrilevante l’espletamento della prova.

 

 

 

 

1. Si veda anche: A. Borella Il patto di prova del Decreto Trasparenza: irrisolte le vecchie criticità, La circolare di lavoro e previdenza, 35/2022.

2. Per un approfondimento si veda A. Borella, Le discriminazioni contrattuali nell’accesso al tempo parziale in questa Rivista, agosto 2022, pag. 47.

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Una proposta al mese – CARO CONTRATTO A TERMINE, il nostro è un amore impossibile!

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

E’ senza dubbio uno degli argomenti che negli anni il nostro ordinamento ha maggiormente modificato, integrato, trasformato, ritoccato, quasi sempre bistrattato e, a volte, poche per la verità, migliorato, ma comunque reso sempre di difficilissima, complessa e rischiosa applicazione.

Di fatto, quasi ogni ministro competente ha sentito il bisogno irrefrenabile di apporre il suo “tocco personale”, per quanto, spesso ininfluente ed in alcuni casi persino dannoso. Le 34 modifiche normative intervenute nell’arco di 14 anni1 sono chiara espressione di un grande – e disturbato – amore per la materia. Eppure, a ben vedere, questa forma contrattuale, i cui paletti applicativi sempre più rigidi sono diventati politicamente il baluardo della lotta alla precarietà, con piccoli, ma incisivi ritocchi, potrebbe divenire un elemento fondamentale per gestire la flessibilità del personale, con notevole vantaggio per le aziende e, senza per questo, cagionare alcun danno al lavoratore.

Partiamo dalla Direttiva 1999/70/CE (consiglio del 28 giugno 1999), relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato che, al comma 1 della clausola n. 5 – Misure di prevenzione degli abusi – recita:

“Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma

delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a:

  1. ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
  2. la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
  3. il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.”

Secondo la allora CE, pertanto, per evitare l’abuso dei contratti a termine, sarebbe stato sufficiente adottare UNA-O- PIÙ-MISURE tra quelle proposte. Una o più… noi italiani, super efficienti, non solo ne abbiamo recepito due – le causali, di cui alla lettera a), e la durata massima, di cui alla lettera b) -, ma ne abbiamo addirittura introdotte delle altre, ovvero un limite al numero massimo di contratti stipulabili per azienda e un limite ulteriore al numero massimo di proroghe. E non solo: abbiamo anche stabilito che detti limiti debbano essere riferiti all’intera vita dei medesimi soggetti datore di lavoro – lavoratore. Fermo restando che gli abusi vanno sempre limitati e combattuti, tutta questa regolamentazione, neanche a dirlo, rende quantomeno complesso, per usare un eufemismo,  l’utilizzo di questa tipologia contrattuale, e anche quando, per una serie di fortunate congiunture astrali si riesca ad utilizzarla, meglio fare i dovuti scongiuri in quanto cadere in fallo è di una facilità estrema. Per iniziare, la prima idea che ci sovviene, è di limitare il periodo a cui riferire le verifiche del rispetto di tutti i limiti ad un tempo “congruo”, ed evidentemente congruo non può essere illimitato, come lo è attualmente. A tal proposito è intervenuta recentemente anche la Corte d’Appello di Milano ritenendo un lasso di tempo pari a 7 anni un ragionevole lasso di tempo superato il quale i rapporti a termine tra i medesimi soggetti “decadono” e non devono più essere computati nella durata massima dei 24 mesi (sentenza n. 1375/2021). Questo servirebbe ad evitare sanzioni per chi, in assoluta buona fede, dovesse malauguratamente escludere dal computo della durata massima uno o più rapporti di lavoro vetusti, magari risalenti – e non sarebbe infrequente – in tempi in cui non esistevano le comunicazioni telematiche, o i cui documenti cartacei sono stati eliminati poiché trascorsi oltre 5 anni2.

Altro paletto eccessivamente limitante è il numero massimo di 4 proroghe, soprattutto per i lavoratori stagionali, per i quali non è mai stato affermato in modo incontrovertibile che, vista la natura dell’attività svolta, non rientrino in tale casistica. D’altronde, se già abbiamo limitato la durata massima del contratto, viene spontaneo chiedersi per quale motivo debba esserci anche un numero massimo di proroghe, il primo potrebbe tranquillamente escludere il secondo. Relativamente alle proroghe, vi è anche poca chiarezza per quanto riguarda i contratti a termine stipulati per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, ed in particolare in caso di apposizione del ter

mine senza una data ben definita, ma condizionata al rientro del lavoratore sostituito. In tali casi, se l’assenza del lavoratore si protrae, siamo dinanzi ad una proroga? E se il lavoratore assente protrae la sua assenza per oltre 4 volte, e quindi, qualora considerassimo lo spostamento del termine condizionato come una proroga, arrivati alla quarta saremmo obbligati a cessare il rapporto o, in alternativa, a trasformarlo a tempo indeterminato pur non avendone alcuna intenzione, poiché la stipula è avvenuta per una necessità contingente che ha un fine ben definito? In realtà il caso specifico potrebbe essere gestito con la “modifica del termine inizialmente fissato” come una delle alternative presenti nel modello Unilav, d’altronde, se non è una modifica del termine (necessaria) questa, non si comprende quale potrebbe esserlo. In questo modo ci si libererebbe dal problema proroga, ma nessuno ha mai scritto nero su bianco tutto ciò.

In alternativa, liberalizzare la durata del contratto per sostituzione, o comunque prevedere un termine più ampio di 36 o 48 mesi, sarebbe senz’altro un’azione di buon senso. Relativamente alla sostituzione del lavoratore assente, un’altra problematica frequente si verifica allorquando il lavoratore sostituito rientra a lavoro, ma nel frattempo l’azienda ha maturato la necessità di prorogare il rapporto del lavoratore assunto in sostituzione. Ebbene, il Ministero del lavoro nella circolare n. 17/2018 ha affermato che “la proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, fatta eccezione per la necessità di prorogarne la durata entro il termine di scadenza. Pertanto, non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avviene senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.”, precludendo secondo tale assunto la possibilità di procedere alla proroga nel caso prospettato e obbligando le parti contraenti a stipulare un rinnovo, quindi con due obblighi contestuali: l’apposizione della causale al rinnovo e il rispetto dello stop-and-go, pena la trasformazione del secondo contratto a tempo indeterminato.

Si potrebbe quindi eliminare lo stop-and-go, almeno in caso di rinnovo contrattuale conseguente ad un precedente contratto a termine per sostituzione.

E, diciamolo, a fronte di tutte le limitazioni esistenti, ben si potrebbe escludere, almeno entro i 12 mesi, l’obbligo di causale agli intervenuti rinnovi, che, come nel caso analizzato, di fatto sono delle proroghe per cui è variata la motivazione.

Curiosamente, tra l’altro, la differenziazione tra rinnovo e proroga è squisitamente made in Italy, l’Unione Europea nella sua direttiva menziona infatti solo i rinnovi. Certo, tutto potrebbe essere risolto con l’identificazione della mitica causale, se non fosse che, come già approfondito in questa stessa Rivista3, le causali identificate dal Legislatore sono:

-esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività; quindi, per inciso, attività diverse da quella abitualmente svolta. L’azienda dovrebbe quindi diversificare per poter utilizzare tale causale;

-esigenze di sostituzione di altri lavoratori, con le criticità su esposte;

-esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. Non si comprende bene il senso della frase non programmabili. Giusto per fare un esempio, la vincita di una gara d’appalto è da considerarsi programmabile perché partecipando alla gara in qualche

modo ho coscienza della probabilità dell’incremento dell’attività, e quindi non potrei utilizzare l’appalto come causale per il contratto a termine o, al contrario, è da considerarsi non programmabile perché non vi è certezza di vincerla?

Sarebbe utile, anche in tal senso, chiarire meglio il concetto, o anche stabilire un limite temporale di riferimento entro il quale l’incremento di attività si possa considerare o meno programmabile.

Qualche contratto collettivo ha introdotto alcune causali, che spesso si sono però rivelate inadeguate in quanto, come da giurisprudenza consolidata, esse devono indicare in modo specifico “le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e l’utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa” (Cassazione n. 22496/2019). In buona sostanza la causale è idonea se identifica in maniera chiara e verificabile la necessità che ha reso legittima l’applicazione del termine contrattuale.

Nell’attesa che permane dal 2018, anno del decreto “Dignità”, di parti sociali impavide che individuino tali ragioni giustificatrici, perché non interviene il Legislatore onde evitare impugnazioni fin troppo facili? Si parla tanto della necessità di deflazionare il contenzioso, non a caso è in atto proprio in questi mesi la riforma del processo civile, sarebbe pertanto oltremodo propizio il momento per rendere chiaro a tutti quando il termine contrattuale sia legittimamente applicabile.

Inoltre, sarebbe opportuno prendere coscienza che, nonostante il termine, vi potrebbe essere, ahimè, la necessità di interrompere il contratto prima della scadenza da ambo le parti, e non solo per giusta causa. Perché non prevedere tale possibilità allora, magari come già da più parti proposto, stabilendo delle penali a carico del soggetto che recede, proporzionandole alla durata del contratto, o al tempo che residua dalla cessazione alla scadenza inizialmente stabilita.

Anche sul periodo di prova il Legislatore nicchia da sempre, nemmeno nello schema di decreto approvato in Consiglio dei Ministri che modifica il D.lgs. n. 152/97 è riuscito a dare una definizione certa della durata della prova nei contratti a tempo determinato. Eppure, il modo ci sarebbe, il più immediato potrebbe essere quello di rapportare il periodo di prova previsto per il contratto a tempo indeterminato alla durata del contratto a termine, identificando la durata minima e massima, ma, in effetti, così sarebbe troppo semplice… Infine, la previsione che consente di “ripartire da zero” ai fini del raggiungimento della durata massima di 24 mesi in caso di stipula di un contratto a termine con lo stesso lavoratore, ma per mansioni di livello e categoria legale differenti, non è comunque da considerarsi un rinnovo? Sarà quindi soggetto a causale pur nell’ambito dei primi 12 mesi e assoggettato alla contribuzione addizionale, che tra l’altro cresce esponenzialmente ad ogni rinnovo? Anche in riferimento a ciò, senz’altro sarebbe cosa buona e giusta chiarire la problematica, oltre che fissare una misura massima del contributo addizionale. Nell’attuale momento storico, con la condizione economica in cui versano le aziende, probabilmente sarebbe utile agevolare l’occupazione flessibile, anziché costringerle forzosamente ad utilizzare il solo contratto a tempo indeterminato.

Non dobbiamo mai dimenticare che la flessibilità iniziale spesso rappresenta il biglietto d’ingresso per la stabilità, ma a condizione che vi siano regole certe per tutti. E allora, a conclusione alla nostra riflessione, da sognatori innamorati del diritto in quanto fondamento di certezze per chi lo deve interpretare ed applicare, la semplificazione estrema, perfettamente in linea con quanto impartito dall’Unione Europea, è indicare UNA sola delle misure proposte, ovvero, ad esempio, la durata massima consentita, abolendo tutti gli altri farraginosi limiti, in attuazione anche del comma 4 della clausola 8 – Disposizioni di attuazione – della già citata direttiva CE, in cui si afferma: “Il presente accordo non pregiudica il diritto delle parti sociali di concludere, al livello appropriato, ivi compreso quello europeo, accordi che adattino e/o completino le disposizioni del presente accordo in modo da tenere conto delle esigenze specifiche delle parti sociali interessate.”

Ma si sa, quando un concetto è troppo semplice, chissà come mai, diviene automaticamente impopolare.

 

 

 

1.   Camera R., Contratto a tempo determinato: come scrivere la causale prevista dal CCNL, Qi, Ipsoa, 26 agosto 2021.

2. A tal proposito vedi Asnaghi A., Una proposta al mese: Il tempo determinato…con una memoria a tempo indeterminato?, Sintesi, ottobre 2019.

3. A tal proposito vedi A. Asnaghi, Sul tempo determinato (a partire dal Decreto Dignità), Sintesi, luglio 2018.

 

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Una proposta al mese – LAVORO A TERMINE e il limite alle proroghe nel contratto stagionale

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

É noto a tutti che alle assunzione a termine motivate dalla stagionalità non si applicano, saggiamente diremmo, una serie di limitazioni previste invece dal D.lgs. n. 81 del 15.06.2015 per i “tradizionali” contratti a tempo determinato.
In primis, alle attività stagionali, non si applica la disciplina sulla durata massima di 24 mesi riferita a tutti i rapporti a termine intervenuti tra la  stessa azienda e lo stesso lavoratore (art. 19, comma 2). Anche per i rinnovi si prevede una eccezione alle regole generali ovvero che i contratti stipulati per esigenze stagionali possono essere rinnovati anche in assenza delle famose causali. Così come, allo stesso modo, l’obbligo di ricorso alle causali non vale nemmeno nei casi di proroga, cosa che invece sappiamo vigere qualora un  normale contratto a tempo determinato superasse i primi 12 mesi di durata (art. 21, comma 01).
Sempre in riferimento alle riassunzioni a termine dello stesso lavoratore  non vale, per le attività stagionali, la regola dello stop & go, ovvero il periodo cuscinetto di 10 o 20 giorni che deve intercorrere tra un rapporto a termine ed il successivo (art. 21, comma 2).
Ed ancora, ai contratti stagionali non si applicano i limiti numerici previsti per i normali contratti a tempo determinato (art. 23, comma 2, lettera c).
Infine, nel caso di nuove assunzioni a termine per le stesse attività  stagionali, il diritto di precedenza deve essere esercitato dal lavoratore entro 3 mesi anziché i consueti 6 mesi (art. 24, comma 3).
Non c’è che dire: tanta roba. Ma come capita spesso al Legislatore è sfuggito qualcosa. Vige infatti un limite che deve essere comunque rispettato anche in caso di ricorso ai contratti di tipo stagionale: parliamo del numero massimo di proroghe che la norma prevede, senza esclusione alcuna, non possano superare il numero massimo e complessivo di quattro.
Per superare questo scoglio normativo qualcuno ha suggerito il modo di aggirare il divieto, e ciò grazie proprio alla combinazione delle specifiche eccezioni riservate ai contratti stagionali che abbiamo detto possono essere rinnovati senza obbligo di causale, rinnovi ai quali non si applica il c.d. stop & go.
In pratica si permetterebbe sempre di far seguire  – senza alcuna soluzione di continuità – ad un contratto stagionale, non più prorogabile per aver  raggiunto il numero massimo di 4 proroghe, un nuovo contratto a tempo determinato, sempre di tipo stagionale. E alla sua scadenza, ove occorresse un’altra proroga, si potrà stipularne uno nuovo. E così via.
Basta tutto questo per escludere la necessità di un intervento modificativo della normativa? Assolutamente no. In primis perché quando una legge permette l’aggiramento del suo significato letterale grazie ad un escamotage significa che la norma è scritta male e a questo bisogna sempre porre rimedio.

In secondo luogo, perché l’espediente comporta non solo un aggravio burocratico ma comporta delle criticità per le possibili penalizzazioni economiche per lo stesso lavoratore stagionale.
Ipotizziamo infatti che il nostro contratto venga a scadere il 10 gennaio 2022 e avessimo necessità di prorogarlo sino al giorno 24 dello stesso mese.L’azienda, avendo esaurito nelle passate stagioni il numero massimo di proroghe, si vedrà necessariamente costretta:

– a lasciare cessare il corrente contratto con il 10 gennaio 2022;
– a stipulare un nuovo contratto stagionale dall’11 gennaio al 24 gennaio 2022.
Per il datore di lavoro questo significa dover procedere a:
– segnalare al competente Centro Impiego la nuova assunzione a termine (non necessita ovviamente la segnalazione della cessazione del precedente rapporto in quanto il suo termine è già stato indicato nel precedente Unilav);
– predisporre un nuovo contratto di lavoro (oltre alla documentazione di prassi) da sottoporre ovviamente alla firma del lavoratore;
– elaborare nello stesso mese due distinte buste paga, una per la prima decade del mese e un’altra per le ulteriori due settimane dal 11 al 24 gennaio.
E tutto ciò andrebbe ripetuto, nella necessità di un nuovo prolungamento del termine finale, in relazione ai successivi “rinnovi”. E nel turismo, si sa, capita.
Per il lavoratore, come detto, ciò può comportare possibili penalizzazioni con conseguente rischio di contenzioso. Ove, ad esempio, fosse stato assunto nel settore del commercio (Ccnl Confcommercio) – dove per l’anzianità  aziendale le frazioni di anno sono computate per dodicesimi, computandosi come mese intero le frazioni di mese superiori o uguali a 15 giorni e per mesi si intendono quelli del calendario civile (gen., feb., mar.) – vi sarebbe la
perdita sia del rateo delle mensilità aggiuntive (13.ma e 14.ma) che dei ratei ferie e permessi retribuiti per il gennaio 2022. E questo perché né dall’1 al 10 né dall’11 al 24 vi è una prestazione pari o uguale ai fatidici 15 giorni.
Per taluni (ma non per chi scrive) in questa situazione potrebbe pure non spettare, in relazione all’ultimo rapporto, alcun importo a titolo di trattamento fine rapporto, seguendo la tesi che nel caso di frazioni di mese inferiori ai 15 giorni non vi sia alcuna retribuzione utile alla maturazione del Tfr e di conseguenza non vi sia maturazione del rateo1.
Da queste considerazioni nasce la nostra proposta ovvero un intervento di modifica del comma 1 dell’art. 21 – Proroghe e rinnovi, del D.lgs. n. 81/2015
1. Il termine del contratto a tempo determinato può essere prorogato, con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a ventiquattro mesi, e, comunque, per un massimo di quattro volte nell’arco di ventiquattro mesi a prescindere dal numero dei contratti. Qualora il numero delle proroghe sia superiore, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta proroga. I contratti per attività stagionali non sono soggetti al limite delle quattro proroghe previste al periodo precedente.
Volendo si potrebbe pure dedicare un articolo ad hoc riservato ai contratti stagionali ove riposizionare tutte le eccezioni oggi previste alla disciplina generale dei contratti a termine, eccezioni che, ovviamente, andrebbero
espunte dalla loro originaria collocazione. Ma meglio evitare: il rischio pastrocchio in questi casi è sempre dietro l’angolo.

1. Cass., sez. lav. n. 4057/1987 (Contra Cass., sez. lav. n. 13934/2002).

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Causali nel tempo determinato: un ritorno al passato?

di Antonella Rosati – Ricercatrice del Centro Studi e Ricerche

 

Sergio Vergari analizza il tema delle causali nel contratto a tempo determinato[*] 

L’Autore esamina la reintroduzione delle causali del contratto a termine, una tecnica normativa molto denigrata poiché edificata sulla restrizione dell’autonomia imprenditoriale attraverso la previsione di requisiti non misurabili e riscontrabili[1].

Il Legislatore, con il D.l. n. 34/2014[2], aveva scelto la soppressione delle causali al fine di arginare il contenzioso in materia e restituire alle imprese più certezza delle regole e più opportunità occupazionali.

Al criterio sfuggente e generico del giustificato motivo espresso dalle causali erano stati anteposti due criteri certi[3] costituiti dalla percentuale massima sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato[4] e dalla durata massima complessiva dei rapporti a termine.

Ma oggi il dichiarato obiettivo politico – ancor prima che legislativo – è mutato.

Al centro non c’è più il problema dell’accertamento giudiziale sulla legittimità delle causali ma il contrasto alla precarietà del lavoro e all’abuso di contratti a termine.

La vera sfida ora è sfuggire alla tentazione di dare spinta unicamente a rapporti di lavoro di durata pari o inferiore a dodici mesi con tutti i conseguenti problemi di fidelizzazione e specializzazione della manodopera.

Il ritorno delle causali e il concetto di attività ordinaria

La legge di conversione lascia sul campo i seguenti due giustificati motivi:

  1. esigenze temporanee e oggettive, estranee all’attività ordinaria, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  2. esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

A parte le esigenze di sostituzione del personale con diritto alla conservazione del posto, le altre due ruotano attorno all’attività ordinaria del datore di lavoro: per le prime, si chiede che ne siano estranee; per le seconde se ne ammette il collegamento, purché sussistano incrementi temporanei, significativi e non programmabili di quell’attività[5].

Il concetto di ordinario, etimologicamente determinabile, si riferisce alle attività svolte con regolarità e stabilmente perpetrate per il conseguimento dello scopo sociale.

Per dire che un’attività è ordinaria si deve prescindere dal suo contenuto e non è richiesto alcun giudizio di valore sulla sua pertinenza al core business del soggetto interessato.

Si deve fare riferimento alle attività esercitate in forma complessiva, periodica e duratura, anche se non permanente.

Il carattere ordinario dell’attività appartiene, in definitiva, più al suo aspetto quantitativo, che a quello qualitativo.

L’attività richiamata è quella aziendale, ma riferita all’ambito specifico in cui si intende attivare un posto di lavoro cercando di capire se la prestazione richiesta si unisca ad un’attività aziendale già esercitata in forma ricorrente e duratura.

Esigenze estranee all’attività ordinaria

La legge chiede in un primo caso che siano “temporanee e oggettive”.

Con il primo aggettivo si vuole ribadire la prescrizione normativa a non utilizzare contratti a termine per soddisfare esigenze di lungo periodo o il cui termine non sia prevedibile.

La nozione delle esigenze temporanee dev’essere ritenuta comprensiva sia di situazioni intrinsecamente e necessariamente temporanee[6], quanto di esigenze ingenerate da decisioni, scelte o programmi del datore di lavoro.

Un’esigenza deve essere poi oggettiva: o esiste o non esiste.

Se esiste, vi deve essere la possibilità di sottoporla a controllo e i riscontri devono essere necessariamente obiettivi; in relazione a ciò, il datore di lavoro deve essere in grado di offrire elementi accessibili e misurabili per l’accertamento di esistenza della stessa.

Esigenze inerenti all’attività ordinaria

In questo secondo caso, è richiesto che il giustificato motivo del contratto a termine coincida con incrementi dell’attività congiuntamente temporanei, significativi e non programmabili.

Per quanto riguarda la nozione di incremento significativo, non esiste una misura predefinita normativamente, lo può conoscere solo il datore di lavoro.

In senso giuridico, l’aggettivo significativo, associato all’incremento di attività, richiama solo l’esistenza di un bisogno di consistenza tale da produrre la conseguenza di un’assunzione, da riferire alla gestione dell’incremento.

Il carattere significativo dell’incremento serve, in definitiva, a richiedere l’esistenza di un’attività integrativa sufficiente a giustificare economicamente l’assunzione di un nuovo lavoratore.

Va istituita, in questo senso, una correlazione tra il valore economico dell’incremento ed il costo del lavoro generato dalla nuova assunzione.

Gli incrementi di attività devono essere altresì non programmabili.

Anche in questo caso, l’interpretazione della condizione deve riflettere lo scopo perseguito dal Legislatore.

L’incremento deve considerarsi programmabile se è dipendente dall’iniziativa propria del datore di lavoro ovvero se è ascrivibile ad un percorso di consolidamento dell’attività aziendale.

Viceversa, se l’incremento dipende da fattori o eventi esterni non controllabili, legati a oscillazioni del mercato o ad eventi non ricorrenti della domanda (es. i saldi di fine stagione) o a nuove commesse non previste (es. le variazioni in aumento di commesse già esistenti), l’incremento va catalogato come non programmabile.

Conclusioni: quali effetti dalla reintroduzione delle causali?

Le reazioni alla reintroduzione delle causali sono state sfavorevoli[7].

Il rischio paventato è l’incremento della precarietà in ragione della moltiplicazione di contratti di durata complessiva non superiore a dodici mesi.

La questione andrà affrontata in due modi: rifuggendo le causali ovvero affrontandole con ponderatezza.

La miglior tutela per il datore di lavoro sarà applicare il criterio di trasparenza e, a tal fine, la documentazione interna all’azienda (un progetto, una delibera degli organi sociali, un contratto, degli ordinativi o qualunque ulteriore elemento certo) potrà rivelarsi determinante.

I dati dei prossimi mesi ci riveleranno se l’intento del Legislatore è stato onorato o disatteso, e se l’effetto prodotto sarà distante dalle aspettative.

Il rischio del contenzioso è ineluttabile[8] ma le condizioni richieste vanno lette unicamente nell’ottica della lotta agli abusi promossa dal Legislatore.

Condizioni che potranno non solo rivelarsi meno oppressive di quanto il dibattito politico abbia fatto sin qui credere ma anche in grado di lasciare agli operatori spazi di azione stabili, pur se ridotti.

[1] Tra gli effetti più rilevanti va segnalato l’ingresso di ben quattro distinti regimi del contratto a termine (cfr. G. Falasca – A. Maresca, Quattro regimi in quattro mesi per i contratti a termine, ne Il Sole24 ore, 17 agosto 2018) corrispondenti alle norme in vigore.

[2] Sull’approccio al tema della (a)causalità di altri Paesi europei, cfr. M. Biasi, La (a)causalità del contratto a termine in Europa. Riflessioni comparative sulle novità in Italia, in Dir. lav. merc., 2014, 3, 763 ss.

[3] Per un’analoga valutazione, cfr. A. Pandolfo e P. Passalacqua, Il contratto di lavoro a tempo determinato, cit., 109 ss., che parlano di passaggio da una “limitazione qualitativa” ad una “regolazione fondata su criteri quantitativi.

[4] Quel limite, poi ripreso nel D.lgs. n. 81/2015 ed oggi ancora in vigore, prevede che per le imprese con organico superiore a cinque dipendenti il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro non possa eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione.

[5] È evidente la differente impostazione rispetto a quanto previsto dal D.lgs. n. 368/2001 nella sua versione originaria. In quel testo la causale era unica, risultando articolata nella formula omnicomprensiva delle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” (di qui la denominazione di “causalone”). Soprattutto, essa faceva richiamo ad esigenze proprie dell’attività ordinaria del datore di lavoro, la cui descrizione era decisamente meno selettiva di quella prevista dal c.d. “decreto dignità”, che riferisce tali esigenze ai soli incrementi di attività.

[6] Per l’approfondimento degli orientamenti interpretativi in tema di temporaneità delle esigenze aziendali, cfr. A. Miscione, L’apposizione del termine al contratto di lavoro: questioni interpretative sulla temporaneità delle esigenze datoriali, in Arg. dir. lav., 2005, 2, 615 ss.; A. D’Andrea, Eccezionalità e temporaneità quali requisiti intrinseci delle causali del contratto a termine, in Dir. lav.,2006,157ss.; L. Menghini, L’apposizione del termine, in M. Martone (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, in M. Persiani – F. Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Padova, 2012, IV,275 ss.

[7] Tra i più critici, cfr P. Ichino, La “causale” che protegge il lavoro…degli avvocati, in La voce.info, 24 luglio 2018, per il quale “Che il vaglio (…) dell’assunzione a termine sia soggetto a una elevatissima alea giudiziale, dal punto di vista della protezione del lavoro non ha senso. O meglio, un senso ce l’ha: quello di dar lavoro agli avvocati. I quali, infatti sono per lo più favorevolissimi alla tecnica normativa del “giustificato motivo oggettivo”.

[8] Va ricordato chel’art.1, co. 1, lett. c), D.l. n. 87/2018, convertito con modificazioni dalla L. n. 96/2018, emenda l’art.28 del D.lgs. n. 81/2015, nel senso di elevare da centoventi giorni a centottanta giorni il termine per l’impugnazione del contratto a tempo determinato a decorrere dalla cessazione del singolo contratto. Si dà così più tempo ai lavoratori, ma nel contempo si incrementa il periodo di incertezza per le imprese, con corrispondente ulteriore disincentivo ad apporre termini lunghi al contratto a termine.

 

 

[*] .Sintesi dell’articolo pubblicato ne Il Lavoro nella giurisprudenza,11/2018, pag. 989 ss. dal titolo Le causali nel contratto a termine riformato.

 

 

 

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Considerazioni sulla legittimità della proroga anticipata dei contratti a termine effettuata entro il 31 ottobre 2018

a cura di Alberto Borella, Consulente del lavoro in Chiavenna

 

La problematica

Una delle questioni che negli scorsi mesi più ha preoccupato aziende e Consulenti del lavoro ha riguardato l’obbligo, in vigore dal 1° novembre 2018, dell’indicazione di una delle causali giustificatrici l’apposizione del termine nel caso di proroga di contratti a tempo determinato al raggiungimento della durata massima di 12 mesi.

E proprio al fine di sottrarsi alle nuove e più stringenti regole in molti hanno sfruttato il periodo transitorio – durante il quale, lo ricordiamo, la precedente disciplina non prevedeva il richiamo alle causali e permetteva la durata complessiva del contratto a termine fino a 36 mesi – concordando con il lavoratore la proroga del rapporto di lavoro con largo anticipo rispetto alla data di scadenza del termine inizialmente pattuito.

Sulla legittimità di tale pattuizione è stato sollevato da alcuni commentatori qualche dubbio ipotizzando che una siffatta operazione potesse essere giudicata illegittima in relazione ad un utilizzo improprio del periodo transitorio. Onde evitare possibili contestazioni veniva consigliato il ricorso alla proroga anticipata solo nel caso in cui il datore di lavoro potesse dimostrare l’esistenza di circostanze che giustificassero l’anticipo dell’accordo con il lavoratore. Qualcuno addirittura, spingendosi oltre, sino a richiedere “il sopraggiungere di circostanze inattese”.

La vecchia normativa in materia di proroghe

Vediamo innanzitutto di ricapitolare il quadro giuridico entro cui gli operatori hanno disposto l’anticipo della proroga dei contratti a termine per beneficiare del, più favorevole, vecchio regime.

Va subito chiarito che ante Decreto Dignità la norma concedeva al datore di lavoro la più ampia autonomia in materia di gestione del contratto a termine. Fatto salvo il limite di 5 proroghe e dei 36 mesi egli risultava totalmente libero di stabilire la durata sia del contratto iniziale che delle eventuali proroghe, non avendo alcun obbligo di esplicitare i motivi del ricorso al contratto a termine. E poteva, allo stesso modo, lasciar scadere il rapporto e ripartire, nel rispetto dello stop & go, con un nuovo contratto. Che ci fosse o meno un motivo legittimo non interessava a nessuno: l’individuazione temporale del termine finale era insindacabile.

Se quindi un datore di lavoro aveva un’esigenza sostitutiva per 5 mesi e assumeva un lavoratore per soli 3 mesi o addirittura per 10 mesi, nessuno poteva obiettare alcunché. L’unico paletto era il rispetto della durata complessiva degli allora 36 mesi.

Poteva ovviamente anticipare la trasformazione a tempo indeterminato rispetto alla scadenza originaria ma soprattutto, vigente la precedente disciplina, aveva la facoltà – e qui è quanto più interessa nella presente disamina – di concordare con il lavoratore, e sottolineiamo in qualsiasi momento nel corso del contratto, la proroga della scadenza senza dover giustificare la sussistenza o la fondatezza dei motivi sottostanti. Motivi in ogni caso da considerarsi civilisticamente irrilevanti, costituendo quegli interessi personali e particolari che la parte tende a realizzare con la conclusione di un contratto (che quindi non rientrano nel contenuto di questo) e per i quali non era ovviamente richiesta la coincidenza con il novero delle causali previste dal Decreto Dignità (perché non ancora in vigore), potendo quindi soddisfare qualsiasi esigenza aziendale, sopraggiunta ma anche, si ritiene, preesistente.

La nuova normativa in materia di proroghe

L’articolo 21 del D.lgs n. 81/2015, riscritto dal Decreto Dignità, dispone che “Il contratto può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi” (seppur nel limite di quattro proroghe), richiedendo, solo nel caso di superamento di tale durata, il rispetto delle condizioni di cui all’articolo 19 ovvero l’esplicitazione dei motivi di ricorso al contratto a termine.

La nuova normativa quindi, pur introducendo dopo i primi dodici mesi l’obbligo delle causali, lascia inalterata la precedente situazione giuridica per il primo anno. Il potere di modificare, anticipare o posticipare il termine del contratto a tempo determinato inizialmente concordato tra le parti non viene infatti toccato dal Decreto Dignità.

La norma transitoria e i primi dubbi

Il D.l. 12 luglio 2018 n. 87 ha opportunamente individuato un periodo transitorio durante il quale

Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018”.

In questo quadro la stampa specializzata si è posta la domanda se la posticipazione, concordata prima del 1° novembre 2018, del termine di scadenza del rapporto potesse essere sindacata dal punto di vista della liceità della causa in quanto finalizzata a beneficiare di un trattamento più favorevole rispetto ad una proroga stipulata dopo la scadenza del periodo transitorio. Si è parlato di negozio in frode alla legge ed anche di utilizzo di schema legale lecito per il conseguimento di un interesse illecito.

La contestazione e la possibile difesa

In attesa di capire come la giurisprudenza valuterà eventuali contenziosi sul punto, si vuole qui condividere alcune riflessioni che, senza alcuna pretesa di suggerire strategie difensive processuali, si ritiene possano avvallare la tesi che ritiene corretto l’operato di coloro che, più o meno consapevoli dei possibili rischi, hanno proceduto alla stipula di proroghe durante il periodo transitorio.

  1. La ratio della norma

La prima osservazione che può essere fatta è che un periodo transitorio, in cui non valgono le future regole, è di norma previsto proprio per permettere ai soggetti, teoricamente interessati dalle modifiche normative, di organizzarsi al meglio, operando liberamente fino ad una certa data con le vecchie regole. E nel caso di specie, rammentiamolo, le vecchie regole non impedivano un accordo anticipato di proroga del contratto.

Se la norma avesse voluto vietare un determinato comportamento nel periodo transitorio avrebbe dovuto semplicemente non prevedere un periodo transitorio. Se una condotta è considerata contraria ai principi giuridici non ha alcun senso dire che le regole valgono da una certa data in avanti per poi sanzionare quei comportamenti, posti in essere prima di tale modifica normativa, sulla base di una presunta frode alla legge riferita ad una norma di cui scientemente si è posticipata l’entrata in vigore.

Sarebbe stato più coerente da parte del Legislatore anticipare gli effetti della nuova disciplina o quantomeno imporre delle condizioni specifiche o più restrittive. Ad esempio condizionando la proroga anticipata alla sussistenza di ragioni oggettive, senza necessariamente richiamare le causali di cui al riscritto articolo 19 del D.lgs n. 81/2015.

Se niente di tutto ciò risulta o emerge dal dettato normativo, c’è da chiedersi se vale ancora il brocardo latino Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.

  1. Il contratto in frode alla legge

Altre considerazioni nascono dall’esame di una delle tante definizioni del contratto in frode alla legge che troviamo nella giurisprudenza di legittimità.

È noto che nel contratto in frode alla legge di cui all’art. 1344 c.c., gli stipulanti raggiungono attraverso gli accordi contrattuali il medesimo risultato vietato dalla legge, con la conseguenza che, nonostante il mezzo impiegato sia in thesi lecito, è illecito il risultato che attraverso l’abuso del mezzo e la distorsione della sua funzione ordinaria si vuole in concreto realizzare. Dunque, presupposto indefettibile perché si possa parlare di contratto in frode alla legge è che il negozio posto in essere non realizzi quella che è una causa tipica – o comunque meritevole di tutela ex art. 1322, secondo comma, c.c. -, bensì una causa illecita in quanto appunto finalizzata alla violazione della legge. (Cass. 6 aprile 2018, n. 8499).

Da questa e da altre sentenze pare emergere un dato comune: il configurarsi di un negozio in frode alla legge necessita che l’aggiramento operato delle parti del divieto imposto dalla legge – per forza vigente quando questo si realizza – venga ottenuto ricorrendo ad un diverso negozio giuridico (o più negozi combinati tra loro) che consente ugualmente di raggiungere l’effetto giuridico vietato.

  1. La legittimità della proroga anticipata

Da quanto sopra possiamo ricavare alcune considerazioni circa il ricorso ad una proroga anticipata del contratto a termine la cui scadenza è prevista anche a distanza di molto tempo dopo:

  1. a) il comportamento adottato è coerente e rispettoso della normativa vigente. Viene infatti disposta una proroga utilizzando la vigente disciplina giuridica della proroga del contratto a tempo determinato. Non vi è alcun ricorso a schemi contrattuali diversi dato che quello utilizzato è esattamente lo schema tipico previsto per ottenere gli effetti desiderati. Si dichiara di voler predisporre una proroga perché si vuole prorogare il contratto a termine. Né più né meno, senza sotterfugi.
  2. b) la norma imperativa di cui si denuncia la violazione fraudolenta non è norma vigente. Non può essere violata una norma che non esiste nell’ordinamento giuridico attuale ma solo in quello futuro. Per contestare la fattispecie del negozio in frode alla legge si dovrebbe infatti fare riferimento a delle limitazioni previste però da una norma giuridica che entrerà successivamente in vigore per esplicita volontà del Legislatore, che ha, per l’appunto, previsto una disciplina transitoria.

Considerazioni finali

L’osservazione conclusiva riguarda anche il risultato illegittimo che la fattispecie del contratto in frode alla legge richiede debba essere ottenuto. Un beneficio, spesso economico, che per essere tale dovrebbe avere quantomeno un danneggiato.

Non sembra possa essere lo Stato che sul contratto a termine incassa contributi più alti e per un periodo lavorativo più lungo grazie all’accordo delle parti di posticiparne, da subito, la scadenza.

E non si ravvisa alcun danno anche per il lavoratore che ottiene ante tempus la formalizzazione della sua permanenza al lavoro, seppur a termine (del resto nessuno può garantire che l’alternativa sarebbe stata un contratto a tempo indeterminato e non la disoccupazione), per un periodo che può arrivare sino a 24 mesi. Si pensi infatti al datore di lavoro che, durante il periodo transitorio, abbia proposto la proroga di un contratto a termine prossimo ai 12 mesi, fissandone la nuova scadenza al raggiungimento dei 36 mesi complessivi.

Si consideri peraltro che un contratto a tempo determinato rappresenta un sicuro introito economico per il lavoratore, dato che un eventuale recesso datoriale prima della scadenza comporta, salva la sussistenza della cosiddetta giusta causa, il risarcimento del danno pari all’ammontare delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito ove il contratto si fosse concluso alla scadenza prefissata.

Non pare quindi ravvisabile alcun sfruttamento del lavoratore, casomai l’accettazione da parte di costui di una proposta datoriale considerando la saggezza popolare del meglio

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Il Ministero stecca ancora su proroghe e rinnovi dei rapporti a tempo determinato

a cura di Alberto Borella, Consulente del lavoro in Chiavenna

 

Lo avevamo intuito da subito. L’applicazione sul campo del Decreto Dignità ci avrebbe riservato delle spiacevoli sorprese.

La tecnica legislativa approssimativa non lasciava del resto presagire nulla di buono. Lo stesso Ministero, resosi probabilmente conto delle moltissime carenze ed incertezze create dal provvedimento, aveva cercato di rasserenare tutti promettendo, immediatamente dopo l’entrata in vigore del decreto, alcuni solleciti chiarimenti.

Adesso che i chiarimenti sono arrivati – con quella serafica calma (ovvia l’ironia) che l’urgenza di restituire la dignità al lavoro richiede – non possiamo dire di essere più tranquilli di prima.

La Circolare n. 17 del 31 ottobre 2018 del Ministero del lavoro

Uno dei dubbi emersi da subito ha riguardato l’esatta definizione di proroghe e rinnovi, dato che il decreto non ne fornisce una esplicita definizione.

Volendo semplificare si era sostenuto che la proroga consistesse nella prosecuzione senza soluzione di continuità del contratto. Il rinnovo invece sarebbe consistito nella sottoscrizione di un nuovo contratto dopo l’avvenuta cessazione del precedente.

Ma è tutto così semplice? Assolutamente no. Non lo sembrava prima, non lo è ora dopo l’interpretazione datane dalla circolare ministeriale.

Le proroghe al contratto a termine secondo il Ministero

Il Dicastero di Via Vittorio Veneto, dopo averci ricordato che la proroga sottoscritta entro il primo anno di rapporto non necessita di motivazione, si spinge in una interpretazione rigida, potremmo dire fantasiosa, asserendo che dopo il superamento del predetto termine (complessivo) di 12 mesi

la proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, fatta eccezione per la necessità di prorogarne la durata entro il termine di scadenza.

La questione andrebbe, a detta di chi scrive, probabilmente posta in termini diversi, rammentando in primis che la disposizione di legge parla di un “contratto (che) può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1” e chiedendoci se per proroga si voglia intendere il mero spostamento del termine finale, prescindendo quindi dalle motivazioni sottostanti le singole proroghe, oppure se la modifica del termine in corso di contratto debba, trascorsi i primi 12 mesi, essere supportata da una motivazione, la quale ove diversa modificherebbe la volontà delle parti, da prorogare il contratto a quella di rinnovarlo.

Possiamo subito notare che l’articolo 21, con il neo introdotto comma 01, non stabilisce che vi debba essere l’esatta coincidenza tra le eventuali causali indicate, ma al contrario che vengano rispettate le “condizioni di cui all’art. 19, comma 1” senza però richiamare espressamente la disciplina dello stop&go, peraltro prevista al successivo articolo 21, comma 2, ma soprattutto per la sola ipotesi di “riassunzione” o per meglio dire di rinnovo.

Ciò che viene richiesto, almeno così pare a chi scrive, è che sia esplicitata una delle motivazioni richiamate ma non necessariamente che questa rimanga immutata per tutto il rapporto lavorativo.

Ma il Ministero va dritto per la sua strada. Ritenuto che una proroga sia di fatto un rinnovo ove le parti richiamino in contratto una causale diversa, sembra altresì implicitamente sostenere che i motivi della prosecuzione del rapporto – che abbiamo visto essere irrilevanti nel primo anno – assurgano ad elemento di validità del contratto a termine una volta entrati nel secondo anno di rapporto.

Ecco allora l’inevitabile conclusione, ovvero che

non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avviene senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.

Si noti anche che è lo stesso Ministero a riconoscere implicitamente che la soluzione di continuità è, di norma, il requisito identificativo della fattispecie “rinnovo”, facendo eccezionalmente rientrare in questa figura quelle proroghe per le quali venga successivamente a modificarsi la causale indicata in fase di assunzione o successivamente.

Resta il fatto che chiunque si fosse organizzato pensando di poter legittimamente prorogare, dopo il 1° novembre, un contratto che aveva già superato complessivamente i 12 mesi, citando una motivazione diversa dalla precedente, avrebbe dovuto, circolare n. 17/2018 alla mano, rivedere i propri programmi, probabilmente imponendo al lavoratore uno stop&go.

E se l’avesse fatto senza leggere le, ahimè, tardive precisazioni ministeriali si troverebbe oggi con la classica spada di Damocle sulla testa.

Il rinnovo del contratto a termine secondo il Ministero

Sul rinnovo, l’esordio del Ministero parrebbe a prima vista allineato alle conclusioni della stampa specializzata, affermando che

Si ricade altresì nell’ipotesi del rinnovo qualora un nuovo contratto a termine decorra dopo la scadenza del precedente contratto.

La definizione, in evidente contrapposizione al concetto di proroga, individua in un precedente rapporto di lavoro già cessato il presupposto perché vi sia un rinnovo del contratto.

La soluzione di continuità pare assurgere – ma vedremo oltre, parlando della somministrazione, che così non è – a requisito che distingue il rinnovo dalla proroga.

Purtroppo il chiarimento ministeriale si ferma qui. Coloro che avevano ritenuto che il rinnovo si realizzi – citando una delle tante definizioni tratte dalle enciclopedie online – al “verificarsi di nuovo, ripetersi” di una determinata situazione, rimangono ancora senza risposta.

Chi, come chi scrive, aveva ipotizzato di considerare rinnovi i soli contratti che riproponessero gli elementi essenziali del precedente contratto quali individuati dall’art. 1325 c.c. – ovvero l’accordo delle parti, l’oggetto, la forma ove prescritta dalla legge a pena di nullità e la causa intesa come lo scopo economico sociale del negozio giuridico – dovrà attendere le prime sentenze della magistratura.

Nelle more sarà opportuno fare attenzione a non modificare nessuno degli elementi del contratto che si intende prorogare poiché anche una piccola modifica delle condizioni contrattuali – pensiamo al mero cambio di livello mantenendo sostanzialmente le medesime mansioni – potrebbe essere considerata da qualche giudice non una proroga bensì un rinnovo, con ciò che ne consegue in termini di mancato rispetto dello stop&go e del mancato pagamento del contributo addizionale dello 0,50%.

Tutto ciò evidentemente non aiuta né le imprese, che per evitare problemi opteranno per il turnover, né di conseguenza i lavoratori che della dignità senza il lavoro se ne fanno ben poco.

E per fortuna che il Ministero aveva esordito nella sua circolare parlando di indicazioni operative che hanno considerato le “richieste di chiarimento finora pervenute”. Come dire che nessuno ha mai chiesto cosa debba intendersi per rinnovo.

Resta evidente un fatto: l’averlo ripetutamente scritto sulle riviste e sui quotidiani specializzati non vale. Del resto, date le note ristrettezze economiche in cui opera la P.A., mica si può pretendere che il Ministero faccia l’abbonamento a Il Sole 24 Ore o a Italia Oggi, e tanto meno alle riviste di Euroconference o di Ipsoa!

Anche se, a pensarci bene, Sintesi è gratuita.

Proroghe e rinnovi nei contratti di somministrazione

Il Ministero prende atto che, stando al decreto-legge n. 87/2018, anche i contratti di somministrazione a termine necessitano, sia se di durata superiore a 12 mesi che in ogni caso di loro rinnovo, l’esplicitazione dei motivi, che comunque, viene sottolineato, riguardano il solo utilizzatore.

Il Ministero, bontà sua, rammenta altresì che per la verifica di tale limite temporale sono cumulabili i soli periodi svolti presso il medesimo utilizzatore, restando irrilevanti quelli prestati presso altre e diverse imprese.

E qui il Ministero parte con l’ennesima interpretazione che non convince affatto chi, oggi, qui la commenta. Vediamo esattamente cosa si dice.

In proposito, si evidenzia che l’obbligo di specificare le motivazioni del ricorso alla somministrazione di lavoratori a termine sorge non solo quando i periodi siano riferiti al medesimo utilizzatore nello svolgimento di una missione di durata superiore a 12 mesi, ma anche qualora lo stesso utilizzatore aveva instaurato un precedente contratto di lavoro a termine con il medesimo lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria.

Semplicemente imbarazzante. Il Ministero fa di tutta l’erba un fascio arrivando a ritenere che si rinnovi un accordo anche quando il precedente rapporto lavorativo si sia basato su un diverso contratto civilistico. Si scordano, evidentemente, i tecnici ministeriali, che nella somministrazione l’utilizzatore non stipula alcun contratto con il lavoratore. Il contratto di lavoro il lavoratore lo sigla con l’Agenzia, la quale a sua volta formalizza un contratto commerciale con l’utilizzatore.

Forse il Ministero si confonde pensando alla disposizione di cui al comma 2 dell’articolo 19 che assimila esplicitamente – ma, attenzione, ai soli fini del computo del periodo massimo di 24 mesi – tutti i periodi svolti con contratto a termine, comprendendovi quindi anche quelli con contratto di somministrazione a termine, per lo svolgimento di mansioni dello stesso livello e categoria legale.

Che volete che sia tutto ciò. Facezie. L’importante, sembra, è porre più paletti possibili all’utilizzo di contratti a tempo determinato.

Il Ministero quindi procede spedito e ne trae le inevitabili conseguenze citando alcuni esempi che vorrebbero chiarire le condizioni per la legittima successione di una missione in somministrazione dopo un contratto subordinato a termine, fornendo questa precisazione

– in caso di precedente rapporto di lavoro a termine di durata inferiore a 12 mesi, un eventuale periodo successivo di missione presso lo stesso soggetto richiede sempre l’indicazione delle motivazioni in quanto tale fattispecie è assimilabile ad un rinnovo;

Ma ovviamente non ci si ferma qui. Giammai. Il ragionamento vale anche per il caso opposto, ovvero di un contratto a tempo determinato che venga stipulato dopo uno in somministrazione.

– in caso di un periodo di missione in somministrazione a termine fino a 12 mesi, è possibile per l’utilizzatore assumere il medesimo lavoratore direttamente con un contratto a tempo determinato per una durata massima di 12 mesi indicando la relativa motivazione.

Il ragionamento del Ministero appare decisamente contorto e purtroppo deve darsi atto che anche la Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro risulta avvallare l’interpretazione ministeriale riproponendone in toto i contenuti nel proprio approfondimento dello scorso 5 novembre 2018.

Vediamo in cosa risulta fallace – secondo il modesto parere di chi scrive – questo ragionamento. Va detto che secondo il disposto dell’articolo 34 del D.lgs. n. 81/2015 “in caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 21, comma 2, 23 e 24”.

Nella sostanza potremmo semplificare dicendo che nel Capo IV dedicato alla Somministrazione di lavoro sono stati inseriti, paro paro, gli articoli 19, 20, 22, 25 e seguenti, mentre l’articolo 21 solo limitatamente ai commi 01, 1 e 3.

Sottolineiamo subito che l’articolo 21 – il cui comma 01 dispone che “il contratto può essere rinnovato” e che “il contratto può essere prorogato” – risulta inserito nel Capo III che disciplina il “Lavoro a tempo determinato”. Di conseguenza il termine generico di “contratto” deve, contestualizzandolo, intendersi riferito a questa e solo a questa tipologia di rapporto.

Se quindi rileggiamo il citato comma 34 ove si dispone che anche al “rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore” si applica la disciplina dei rinnovi e delle proroghe ex comma 01 e 1 dell’articolo 21, dovremmo dedurre che il “contratto” qui citato sia in questo caso da riferire a quello di somministrazione e solo a questo.

Insomma, qualche dubbio sulla correttezza della lettura ministeriale appare più che fondato.

Spiace ad ogni buon conto dover sottolineare che il chiarimento venga dato nella sezione della circolare dedicata alle “Condizioni” della somministrazione di lavoro e non in quella dedicata al tempo determinato.

Chissà a quanti datori di lavoro, soprattutto quelli che non ricorrendo alle agenzie interinali non si sono soffermati a leggere la parte finale della circolare dedicata alla somministrazione, sarà sfuggito questo piccolo dettaglio.

Resta il fatto che il Ministero non vacilla: l’aver utilizzato un lavoratore con assunzione diretta a termine o in somministrazione è la stessa cosa, il che fa sì che in caso di nuovo utilizzo del medesimo soggetto, sia a termine che in somministrazione, si configuri sempre un rinnovo e quindi l’obbligo del richiamo alle causali.

Conclusioni

Emerge con chiarezza come l’interpretazione ministeriale risulti assolutamente allineata alla ratio del provvedimento ovvero operare una massiccia limitazione all’utilizzo del contratto a termine, il male assoluto alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro che, debellato, restituirà la dignità a lavoratori e pure, ma non si capisce come, alle imprese.

Si giunge così ad assecondare la convinzione del Legislatore che negare il più possibile il ricorso ai rapporti a scadenza possa avere l’effetto di costringere i datori di lavoro ad assumere a tempo indeterminato il lavoratore (l’individuazione fumosa delle causali rientra in questa strategia). E questo anche rischiando sulla pelle di coloro che siano già stati alle dipendenze di un datore di lavoro o che abbiano svolto presso costui un qualsiasi, anche brevissimo, periodo in somministrazione.

La cecità di tale visione è presto dimostrata ipotizzando un lavoratore che sia stato inviato in missione presso un datore di lavoro per un paio di giorni. Se, come sostiene il Ministero, la successiva assunzione, anche a distanza di anni, di un lavoratore già utilizzato in somministrazione dovesse considerarsi giuridicamente un rinnovo, veramente esiste qualcuno convinto che costui, dato l’obbligo di ricorso alle causali, abbia una qualche possibilità di essere assunto a termine o addirittura a tempo indeterminato? Sarà. Chi scrive qualche dubbio lo nutre.

Già ingenti si ritengono i danni che farà la disciplina legale del rinnovo, ovvero la riassunzione del lavoratore dopo un precedente, anche ridotto, rapporto di lavoro subordinato, imponendo il ricorso alle causali. C’era davvero il bisogno di ampliare, peraltro mediante una opinabilissima indicazione di prassi, questo vincolo anche a coloro che nell’impresa ci sono entrati come somministrati convinti che il poterci lavorare un paio di giorni rappresentasse una opportunità per farsi conoscere da un possibile futuro datore di lavoro?

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Lavoro a termine, il Ministero spiega il Decreto Dignità

a cura di Potito di Nunzio, Presidente dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano e provincia

Il Ministero del Lavoro fornisce le prime note interpretative in materia di contratto di lavoro a tempo determinato e somministrazione di lavoro dopo le modifiche introdotte dal Decreto Dignità[1]

Allo scadere del periodo transitorio, il Ministero del Lavoro con la circolare n. 17 del 31 ottobre 2018 fa conoscere il proprio pensiero sul c.d. Decreto Dignità e in particolare sulle modifiche apportate in materia di contratto a termine e di somministrazione di manodopera. Il 31 ottobre 2018 è infatti scaduto il periodo entro il quale si potevano applicare le vecchie normative senza incorrere nelle restrizioni introdotte dallo stesso decreto.

Al periodo transitorio il Ministero, però, dedica poche righe ricordando che in tale periodo le proroghe e i rinnovi restano disciplinati dalle disposizioni del D.lgs. n. 81/2015 nella formulazione antecedente al n. 87/2018, mentre dalla data del 1° novembre 2018 trovano piena applicazione tutte le disposizioni introdotte con la riforma, compreso l’obbligo di indicare le condizioni in caso di rinnovi (sempre) e di proroghe (dopo i 12 mesi).

Il Ministero, inoltre, in base ad una lettura sistematica, ritiene che tale periodo transitorio trovi applicazione anche con riferimento alla somministrazione di lavoro a tempo determinato, risolvendo così il dubbio che alcuni interpreti (pochi, a dire il vero) si erano posti. È infatti ragionevole concludere, continua il Ministero, che i più stringenti limiti introdotti rispetto alla disciplina previgente operino gradualmente, sia nei confronti dei rapporti di lavoro a termine che nei confronti dei rapporti di somministrazione a termine.

Il Ministero nella circolare in commento ripropone le varie novelle introdotte dal Legislatore dando la propria interpretazione su alcuni dubbi sollevati dagli in-terpreti e portati all’attenzione dello stesso Ministero.

Contratto a tempo determinato

Circa il contratto a tempo determinato, ricorda il Ministero, le novità riguardano in primo luogo la riduzione da 36 a 24 mesi della durata massima del contratto a tempo determinato, con riferimento ai rapporti stipulati tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, anche per effetto di una successione di contratti, o di periodi di missione in somministrazione a tempo determinato, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, indipendentemente dai periodi di interruzione.

Più precisamente, le parti possono stipulare liberamente un contratto di lavoro a termine di durata non superiore a 12 mesi, mentre in caso di durata superiore tale possibilità è riconosciuta esclusivamente in presenza di specifiche ragioni che giustifichino un’assunzione a termine. Tali condizioni sono rappresentate esclusivamente da:

  • esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività;
  • esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • esigenze connesse a incrementi temporanei, significativie non programmabili, dell’attività ordin
  • Per stabilire se ci si trovi in presenza di tale obbligo si deve tener conto della durata complessiva dei rapporti di lavoro a termine intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, considerando sia la durata di quelli già conclusi, sia la durata di quello che si intende eventualmente p Il Ministero fa l’esempio di un primo rapporto a termine della durata di 10 mesi che si intenda prorogare di ulteriori 6 mesi. In tale caso, anche se la proroga interviene quando il rapporto non ha ancora superato i 12 mesi, sarà comunque necessario indicare le esigenze innanzi richiamate in quanto complessivamente il rapporto di lavoro avrà una durata superiore a tale limite.

Il Ministero sottolinea la necessità di indicare le causali anche nelle ipotesi in cui non è richiesto (contratti fino a 12 mesi) e ciò al fine di poter fruire dei benefici previsti da altre disposizioni di legge (ad esempio per gli sgravi contributivi di cui all’art. 4, co. 3 e 4, del D.Lgs. n. 151/2001, riconosciuti ai datori di lavoro che assumono a tempo determinato in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo).

Proroghe e rinnovi

Anche il regime delle proroghe e dei rinnovi del contratto a termine, ricorda il Ministero, è stato modificato sia in ordine alla durata massima sia alle condizioni coerentemente con le finalità perseguite dalla riforma. È pertanto possibile prorogare liberamente un contratto a tempo determinato entro i 12 mesi, mentre per il rinnovo è sempre richiesta l’indicazione della causale. La proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, fatta eccezione per la necessità di prorogarne la durata entro il termine di scadenza. Pertanto, non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avvenisse senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.

Questa interpretazione, a parere di chi scrive, sembra corretta e coerente con le finalità del Decreto. In altri termini il Ministero ci sta dicendo che se il rapporto sorge senza causali, può essere prorogato fino a 12 mesi sempre senza causali. Ma se il contratto a termine è già stato stipulato con l’obbligo delle motivazioni, queste ultime devono permanere in caso di proroga del contratto.

Il Ministero ricorda che il numero massimo di proroghe non può essere superiore a 4, entro i limiti di durata massima del contratto e a prescindere dal numero dei contratti e con esclusione dei contratti instaurati per lo svolgimento di attività stagionali.

 

Il ruolo della contrattazione collettiva

Per quanto riguarda il rinvio alla contrattazione collettiva, il Ministero ritiene valide le pregresse pattuizioni collettive risolvendo chiaramente i dubbi sorti sulla validità delle deroghe alla durata del contratto a termine previste dalla contrattazione collettiva anche se riferite a precedenti normative legislative. Ricorda innanzitutto la facoltà dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, di prevedere una durata diversa, anche superiore, rispetto al nuovo limite massimo dei 24 mesi. In merito alle previsioni contenute nei contratti collettivi stipulati prima del 14 luglio 2018, che

– facendo riferimento al previgente quadro normativo – abbiano previsto una durata massima dei contratti a termine pari o superiore ai 36 mesi, le stesse, afferma il Ministero, mantengono la loro validità fino alla naturale scadenza dell’accordo collettivo.

Nessuna deroga, invece, è stata attribuita alla contrattazione collettiva in merito al nuovo regime delle condizioni.

Forma scritta del termine

Sulla forma scritta del termine, secondo il Ministero, con l’eliminazione del riferimento alla possibilità che il termine debba risultare direttamente o indirettamente da atto scritto, si è inteso offrire maggiore certezza in merito alla sussistenza di tale requisito.

Viene quindi esclusa la possibilità di desumere da elementi esterni al contratto la data di scadenza, ferma restando la possibilità che, in alcune situazioni, il termine del rapporto di lavoro continui a desumersi indirettamente in funzione della specifica motivazione che ha dato luogo all’assunzione, come in caso di sostituzione della lavoratrice in maternità di cui non è possibile conoscere ex ante l’esatta data di rientro al lavoro, sempre nel rispetto del termine massimo di 24 mesi.

In definitiva, per fare qualche esempio, non sarà più possibile legare il contratto a termine alla conclusione di una determinata commessa o fase di lavoro essendo sempre necessario inserire una data di scadenza del contratto di lavoro.

Contributo addizionale

Sul contributo addizionale a carico del datore di lavoro, anche secondo il Ministero la maggiorazione diventa incrementale, quindi il contributo addizionale a carico del datore di lavoro pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali è incrementato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione.

Ne consegue che al primo rinnovo la misura ordinaria dell’1,4% andrà incrementata dello 0,5%. In tal modo verrà determinata la nuova misura del contributo addizionale cui aggiungere nuovamente l’incremento dello 0,5% in caso di ulteriore rinnovo. Analogo criterio di calcolo dovrà essere utilizzato per eventuali rinnovi successivi, avuto riguardo all’ultimo valore base che si sarà venuto a determinare per effetto delle maggiorazioni applicate in occasione di precedenti rinnovi.

La maggiorazione dello 0,5% non si applica in caso di proroga del contratto, in quanto la disposizione prevede che il contributo addizionale sia aumentato solo in occasione del rinnovo.

Non si osa immaginare la difficoltà applicativa di tale norma, a parte i costi che appaiono davvero penalizzanti per le aziende. Si pensi a un contratto che viene rinnovato, rispettando i limiti di 24 mesi, per 10 volte: il contributo addizionale diventa progressivamente dell’1,9% dal secondo contratto per poi diventare del 2,4% dal terzo contratto e infine, tralasciando gli step intermedi, del 6,4% all’ultimo rinnovo (in totale sono 11 contratti a termine). Se si considera poi che i contratti possono essere stipulati in un arco di tempo pressoché illimitato (unico limite è la morte del lavoratore) e che probabilmente si farà fatica a mantenere in archivio, sia pure elettronico, dati così vecchi, si comprenderà bene le difficoltà alle quali andranno incontro le aziende e chi per loro deve garantire la correttezza contributiva. E magari un errore nel calcolo del contributo addizionale potrà provocare anche il mancato rilascio del Durc con relativa perdita dei benefici contributivi. Tutto questo pare una vera assurdità non tanto per il costo, anche se oneroso, quanto per le complicazioni che tale maggiorazione può comportare sia in termini amministrativi che di potenziali rischi sanzionatori.

Somministrazione di lavoro

In materia di somministrazione di lavoro, il decreto ha esteso la disciplina del lavoro a termine alla somministrazione di lavoro a termine con la sola eccezione delle previsioni contenute agli artt. 21, co. 2 (pause tra un contratto e il successivo, c.d. stop and go), 23 (limiti quantitativi al numero dei contratti a tempo determinato che può stipulare ogni datore di lavoro) e 24 (diritto di precedenza). Il Ministero tuttavia precisa, e questa è una interpretazione abbastanza audace – ma che fa estremamente piacere – sperando che non venga smentita giudizialmente, che nessuna limitazione è stata introdotta per l’invio in missione di lavoratori assunti a tempo indeterminato dal somministratore. Pertanto in questo caso tali lavoratori possono essere inviati in missione sia a tempo indeterminato che a termine presso gli utilizzatori senza obbligo di causale o limiti di durata, rispettando i limiti percentuali stabiliti dalla medesima disposizione. Quindi, secondo questa interpretazione, un’azienda può assumere con contratto di somministrazione a termine per una durata di 40 mesi e senza dover prevedere alcuna causale superando abbondantemente i limiti di durata previsti dalla legge. L’unica condizione è che si tratti di un lavoratore assunto a tempo indeterminato dal somministratore. Qualche dubbio però rimane. Che il datore di lavoro potesse ricorrere allo staff leasing non avevamo dubbi, però si trattava (e si tratta) di un contratto a tempo indeterminato tra utilizzatore e somministratore (anche se le parti potevano risolvere il contratto mediante preavviso). Ora addirittura, secondo il Ministero, si può far ricorso alla somministrazione a termine a prescindere da qualsiasi condizione sia di motivazione che di tempo; basta che il lavoratore sia assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. Se così fosse sarebbe un vero regalo alle società di somministrazione che, in realtà, sono state le più penalizzate dal Decreto Dignità (vedi, ad esempio, l’applicabilità del limite massimo di durata di 24 mesi per le assunzioni a termine presso la stessa agenzia di cui si dirà in prosieguo).

A questo punto, se non ci fossero problemi di costi, relativi alla fee da riconoscere alle società di somministrazione, verrebbe da dire che per i contratti a termine non esiste più alcun problema. Perché l’azienda dovrebbe stipulare contratti direttamente con i lavoratori infilandosi nel ginepraio dei rinnovi, proroghe, prolungamenti e causali? Basterebbe sempre rivolgersi alle società di somministrazione che somministrano loro personale assunto a tempo indeterminato.

Periodo di massima occupazione

Per il periodo massimo di occupazione occorre considerare che per effetto della riforma è adesso applicabile anche alla somministrazione di lavoro a tempo determinato.

Ne consegue che il rispetto del limite massimo di 24 mesi ovvero quello diverso fissato dalla contrattazione collettiva entro cui è possibile fare ricorso ad uno o più contratti a termine o di somministrazione a termine, deve essere valutato con riferimento non solo al rapporto di lavoro che il lavoratore ha avuto con il somministratore, ma anche ai rapporti con il singolo utilizzatore, dovendosi a tal fine considerare sia i periodi svolti con contratto a termine, sia quelli in cui sia stato impiegato in missione con contratto di somministrazione a termine, per lo svolgimento di mansioni dello stesso livello e categoria legale.

Pertanto, il suddetto limite temporale di 24 mesi opera tanto in caso di ricorso a contratti a tempo determinato quanto nell’ipotesi di utilizzo mediante contratti di somministrazione a termine. Ne consegue che, raggiunto tale limite, il datore di lavoro (utilizzatore) non potrà più ricorrere alla somministrazione di lavoro a tempo determinato con lo stesso lavoratore per svolgere mansioni di pari livello e della medesima categoria legale.

Inoltre, si chiarisce che il computo dei 24 mesi di lavoro deve tenere conto di tutti i rapporti di lavoro a termine a scopo di somministrazione intercorsi tra le parti, ivi compresi quelli antecedenti alla data di entrata in vigore della riforma.

Le condizioni della somministrazione a termine

Le novità introdotte dal decreto riguardano anche le condizioni che giustificano il ricorso alla somministrazione a termine in caso dei contratti di durata superiore a 12 mesi e dei relativi rinnovi. In proposito, occorre considerare che le condizioni introdotte (motivazioni) si applicano esclusivamente con riferimento all’utilizzatore. Pertanto, in caso di durata della somministrazione a termine per un periodo superiore a 12 mesi presso lo stesso utilizzatore, o di rinnovo della missione (anche in tal caso presso lo stesso utilizzatore), il contratto di lavoro stipulato dal somministratore con il lavoratore dovrà indicare una motivazione riferita alle esigenze dell’utilizzatore medesimo. A questo proposito il Ministero precisa che, invece, non sono cumulabili a tale fine i periodi svolti presso diversi utilizzatori, fermo restando il limite massimo di durata di 24 mesi del rapporto (o la diversa soglia individuata dalla contrattazione collettiva) con la stessa agenzia di somministrazione.

In proposito, si evidenzia che l’obbligo di specificare le motivazioni del ricorso alla somministrazione di lavoratori a termine sorge non solo quando i periodi siano riferiti al medesimo utilizzatore nello svolgimento di una missione di durata superiore a 12 mesi, ma anche qualora lo stesso utilizzatore aveva instaurato un precedente contratto di lavoro a termine con il medesimo lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria.

Pertanto, specifica il Ministero:

  • in caso di precedente rapporto di lavoro a termine di durata inferiore a 12 mesi, un eventuale periodo successivo di missione presso lo stesso soggetto richiede sempre l’indicazione delle motivazioni in quanto tale fattispecie è assimilabile ad un rinnovo;  ➛
  • in caso di precedente rapporto di lavoro a termine di durata pari a 12 mesi, è possibile svolgere per il restante periodo e tra i medesimi soggetti una missione in somministrazione a termine, specificando una delle condizioni previste dalla legge;
  • in caso di un periodo di missione in somministrazione a termine fino a 12 mesi, è possibile per l’utilizzatore assumere il medesimo lavoratore direttamente con un contratto a tempo determinato per una durata massima di 12 mesi indicando la relativa motivazione.

Limite all’utilizzo dei lavoratori somministrati a termine

Infine, la legge di conversione del decreto ha, per la prima volta, introdotto un limite all’utilizzo dei lavoratori somministrati a termine. Infatti, si prevede la necessità di rispettare una proporzione tra lavoratori stabili e a termine presenti in azienda, ancorché derogabile dalla contrattazione collettiva applicata dall’utilizzatore. Ferma restando la percentuale massima del 20% di contratti a termine, possono essere presenti nell’impresa utilizzatrice lavoratori assunti a tempo determinato e lavoratori inviati in missione per somministrazione a termine, entro la percentuale massima complessiva del 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore.

Anche in questo caso resta ferma la facoltà per la contrattazione collettiva di individuare percentuali diverse, per tenere conto delle esigenze dei diversi settori produttivi. In tal senso si può ritenere che i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale mantengono la loro validità fino alla naturale scadenza del contratto collettivo, sia con riferimento ai limiti quantitativi eventualmente fissati per il ricorso al contratto a tempo determinato sia a quelli fissati per il ricorso alla somministrazione a termine.

Il limite percentuale del 30% trova applicazione per ogni nuova assunzione a termine o in somministrazione avvenuta a partire dal 12 agosto 2018. Pertanto, qualora presso l’utilizzatore sia presente una percentuale di lavoratori, a termine e somministrati a termine con contratti stipulati in data antecedente alla data del 12 agosto 2018, superiore a quello fissato dalla legge, i rapporti in corso potranno continuare fino alla loro iniziale scadenza. In tal caso, pertanto, non sarà possibile effettuare nuove assunzioni né proroghe per i rapporti in corso fino a quando il datore di lavoro o l’utilizzatore non rientri entro i nuovi limiti.

Continuano a rimanere esclusi dall’applicazione dei predetti limiti quantitativi i lavoratori somministrati a tempo determinato che rientrino nelle categorie richiamate all’art. 31, co. 2 del D.lgs. n. 81/2015 (quali, a puro titolo di esempio, disoccupati che fruiscono da almeno 6 mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, soggetti svantaggiati o molto svantaggiati).

[1] Articolo pubblicato sulla Rivista Guida al Lavoro, Il Sole 24 ore, n. 44, pagg. 12-19.

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Alcuni rimedi ai difetti del decreto dignita’

di Armando Tursi, Ordinario di diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, Avvocato

  1. Il c.d. “Decreto Dignità” (D.L. n. 87/2018, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 96/2018) non rivoluziona l’assetto normativo dei rapporti di lavoro, che anzi, al di là della polemica politica, resta confermato nelle sue linee strategiche: a) conferma della nuova centralità della “flessibilità funzionale” (controlli, mansioni) rispetto a quella “tipologica” o “in entrata” (tipologie contrattuali); b) marginalizzazione della “tutela reale” nei licenziamenti illegittimi.

La novità sta nella direzione di marcia che il decreto sembra avere imboccato rispetto all’idea che alla precarietà patologica del lavoro possa contrapporsi una flessibilità fisiologica o virtuosa; nonché nell’avere individuato la zona critica di tale coincidenza tra flessibilità e precarietà, nel lavoro a termine, diretto o somministrato che sia.

*

  1. In tema di lavoro (diretto) a tempo determinato, il decreto innesta una brusca retromarcia: back to 1962 e oltre, potrebbe dirsi.

Si torna, infatti, alla necessità della giustificazione dell’apposizione del termine, con elencazione tassativa di casi: con la differenza, però, che i casi non sono più 5 e ben definiti (come nel 1962), ma 3, e non altrettanto ben definiti.

Al ritorno della causale si aggiunge la durata massima di 24 mesi, che, mentre segna un inasprimento rispetto ai 36 mesi del Jobs Act, registra anche il ricorso cumulativo a tecniche di tutela che rispondono a logiche diverse: la tecnica della limitazione “causale”, coerente con la logica secondo cui la durata determinata sarebbe di per sé indesiderabile; e la tecnica della limitazione “temporale”, coerente con la logica secondo cui vanno evitati i rapporti a termine reiteratamente prorogati e rinnovati.

Ne scaturisce una sovra-attuazione della direttiva 1999/1970: mentre quest’ultima non contempla alcuna limitazione per il primo contratto a termine, e si propone solo di evitare gli “abusi” derivanti dalla reiterazione illimitata di contratti a termine, il “decreto dignità” pone un limite causale e un tetto massimo di durata che, salvi i primi 12 mesi di “a-causalità”, vale sia per il primo contratto che per le successive proroghe e rinnovi; questi limiti, a loro volta, si cumulano con la (inasprita) fissazione di un numero massimo di proroghe, con il c.d. “stop & go” tra contratti successivi, e con il c.d. “contingentamento” numerico dei rapporti a termine.

Questa disciplina neo-vincolistica solleva problemi interpretativi sotto diversi profili: se ne analizzano di seguito i più importanti, dedicandosi particolare attenzione a quelli derivanti dall’impatto della legge n. 96/2018 sulla contrattazione collettiva.

3.1. Il primo tema che si pone è quello della derogabilità delle causali legali da parte della contrattazione collettiva: ci si chiede se la contrattazione  possa quanto meno specificare meglio le causali per superarne le ambiguità.

3.1.1. Orbene, quanto alle “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività”, si tratta di una causale specifica, suscettibile di esemplificazioni, ma non di deroga, specie sul punto della “straordinarietà” dell’esigenza aziendale: una specificazione contrattuale che contrastasse con tale requisito, sarebbe nulla.

Però sarebbe ammissibile, e anzi auspicabile, un intervento chiarificatore ed esemplificatore della contrattazione collettiva (specie aziendale), mirante a calare il concetto di “straordinarietà” nel contesto aziendale: per es., in caso di avvio di una nuova attività (peraltro già contemplato dall’art. 23, co. 2, lett. a) del D.lgs. n. 81/2015, ma al diverso fine di escludere i relativi contratti a termine dal contingentamento legale), il contratto aziendale potrebbe precisare che, trattandosi di attività mai svolta in precedenza, o svolta in maniera del tutto contingente, o molto tempo prima e poi cessata, la nuova attività debba considerarsi estranea all’attività ordinaria.

Non sarebbe invece ammissibile escludere contrattualmente la necessità della causale per le imprese start-up (si tratta di nuova impresa, non di nuova attività di impresa preesistente), per gli specifici spettacoli, e per tutte le causali “soggettive”, quali quelle basate su status soggettivo-occupazionali dei lavoratori.

3.1.2. Quanto alla “sostituzione di altri lavoratori”: si tratta di causale equivalente alle vecchie “esigenze sostitutive”, formulata in maniera tale da includere le assenze senza diritto alla conservazione del posto (es.: ferie), e quindi più ampia della stessa previsione del 1962. Qui il contratto potrebbe svolgere un ruolo rafforzativo di quanto già implicito nella norma (per es., precisando che le esigenze sostitutive possono riguardare anche la sostituzione di lavoratori in ferie, in permesso retribuito e non, in riposo compensativo, ecc..).

3.1.3. Quanto, infine, agli “incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”: qui alla “ordinarietà” si aggiungono – oltre alla “temporaneità” – la significatività e la non programmabilità.

La “non programmabilità” lascia pochi spazi, e soprattutto, spazi contestabili dalla giurisprudenza; anche se non sono da escludersi previsioni specificative per casi particolari (es.: nuova commessa all’estero per un’impresa che in precedenza non aveva mai operato all’estero. Ma qui siamo al confine con la “nuova attività”, di cui si è già detto).

Più spazi per la contrattazione collettiva lascia il requisito della significatività: previsioni di tipo quantitativo (es.: % sul fatturato) sono, per un verso, assai auspicabili in chiave di certezza del diritto, e per l’altro, difficilmente contestabili dal giudice, ove non siano palesemente irragionevoli.

3.1.4. Particolarmente ingarbugliato è il tema dei c.dd. “contratti stagionali”.

Di per sé, le punte stagionali non programmabili – che, è bene ricordare, furono introdotte sul finire degli anni ’70 al fine di rendere possibili le assunzioni a termine necessitate da esigenze non riconducibili alla casistica dell’art. 1, co. 2, della legge n. 230/1962 – , non sono ammesse come cause giustificative dal decreto dignità.

Vero è che l’art. 21, co. 01, 4° periodo, del D.lgs. n. 81/2015, come novellato dal decreto dignità, prevede che i contratti a termine per attività stagionali siano rinnovabili e prorogabili anche in assenza di causale. Tuttavia tale possibilità – che si aggiunge a quella della rinnovabilità senza limite temporale e senza il rispetto del c.d. “stop & go” (art. 19, co. 2, e art. 21, co. 2, del novellato D.lgs. n. 81/2015) – , è  circoscritta alle proroghe e ai rinnovi, con esclusione – almeno letterale – del primo contratto.

Più che tramite contratto, il punto andrebbe chiarito in sede legislativa, o mediante circolare ministeriale, la cui tenuta giudiziaria sarebbe comunque non sicura.

La contrattazione potrebbe, tuttavia, prendere atto del problema, e prevedere una soluzione alternativa, quale quella di ammettere esplicitamente la possibilità di stipulare un primo contratto (di fatto “stagionale”, ma giuridicamente) “a-causale”, di durata non superiore all’anno, e poi rinnovarlo stagionalmente, secondo quanto previsto dai menzionati articoli 21, co. 01., 4° per., 19, co. 2., e 21, co. 2., del novellato D.lgs. n. 81/2015.

Deve poi ammettersi che la contrattazione collettiva possa ampliare il novero delle attività stagionali, senza essere vincolata alla “non programmabilità”: l’art. 21, co. 2, del D.lgs. n. 81/2015, infatti, devolve pienamente alla contrattazione collettiva la definizione della nozione di “attività stagionale”.

Ma si ripete: la stagionalità, come definita dal contratto collettivo,rileva solo al fine di escludere la necessità della causale per i rinnovi dei contratti a termine  e per le proroghe eccedenti il 12° mese (come pure il limite di durata massima di 24 mesi, e il c.d. “stop & go”); ma non vale al fine di escludere da detti vincoli il primo contratto “stagionale”.

Insomma, la “stagionalità” sembra essere un elemento che rende possibili le proroghe e i rinnovi a-causali di contratti causali, ma non la stipula di contratti a termine che siano ab initio a-causali (ossia, “stagionali” per la contrattazione collettiva, ma senza che ricorrano i rigidi requisiti di cui all’art. 19, co. 1, del D.lgs. n. 81/2015).

3.2. Ci si chiede, poi, se gli accordi collettivi esistenti, che prevedano durate maggiori di 24 mesi, siano compatibili con le nuove regole, e conservino comunque piena efficacia, pur a fronte della nuova disciplina legislativa che impone la causalità oltre il 12° mese di durata.

A tale proposito, si registra un dibattito dottrinale.

Ci si potrebbe appellare alla clausola di inscindibilità per teorizzare la prevalenza dei contratti collettivi in corso sulla legge difforme. Ma a nostro avviso si tratterebbe di un equivoco: l’efficacia della norma inderogabile gioca allo stesso modo per i contratti individuali e per quelli collettivi, ed è retta dal principio del confronto clausola per clausola, imposto dagli artt. 1418 e 1419 c.c.. L’inscindibilità delle clausole del contratto collettivo vale nel rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale (art. 2077 c.c.), non nel rapporto tra legge e contratto collettivo.

Del resto, spinta alle estreme conseguenze, la teoria dell’inscindibilità delle clausole collettive porterebbe a porre nel nulla l’intero contratto collettivo, non certo a sancirne la prevalenza sulle difformi norme legali inderogabili.

Dunque, in assenza di una norma transitoria (analoga, per es., a quella recata dall’art. 11 del D.lgs. n. 368/2001), gli accordi collettivi esistenti che prevedono durate maggiori di 24 mesi cessano di produrre effetti, in parte qua, dalla data di entrata in vigore del decreto dignità.

E’ necessario, però, un importante chiarimento: la sopravvenuta inapplicabilità dei contratti collettivi che prevedano durate dei contratti a termine superiori ai 24 mesi comporta solo che siano nulli, in parte qua, i nuovi contratti individuali a tempo determinato che, in coerenza coi predetti contratti collettivi, prevedano una durata eccedente i 24 mesi; non comporta, però, la nullità dei contratti individuali a suo tempo (ossia, prima del decreto dignità) stipulati in attuazione di quei medesimi contratti collettivi.

Sono, invece, ancora oggi ammissibili gli accordi collettivi che derogano al nuovo limite di 24 mesi in sede di rinnovo: infatti, l’art. 19, co. 2, D.lgs. n. 81/2015, continua a prevedere che, in caso di rinnovo, siano salve le “diverse previsioni dei contratti collettivi”; e non può dubitarsi che detta salvezza valga anche per i contratti collettivi previgenti.

*

4.1. In tema di lavoro somministrato, il decreto dignità manifesta un difetto di mancata comprensione tecnica dell’istituto, il cui baricentro non sta tanto nella temporaneità, ma nella scissione tra datore di lavoro e utilizzatore.

Ciò si comprende bene ove si consideri l’approccio della direttiva 2009/104, incentrata sulla parità di trattamento e sulla non discriminazione, e non sulla “precarietà” temporale, reale o presunta, del rapporto.

La predetta direttiva si autodefinisce come volta a garantire la tutela dei lavoratori tramite agenzia interinale e migliorare la qualità del lavoro tramite agenzia interinale garantendo il rispetto del principio della parità di trattamento di cui all’articolo 5 nei confronti dei lavoratori tramite agenzia interinale e riconoscendo tali agenzie quali datori di lavoro, tenendo conto nel contempo della necessità di inquadrare adeguatamente il ricorso al lavoro tramite agenzia interinale al fine di contribuire efficacemente alla creazione di posti di lavoro e allo sviluppo di forme di lavoro flessibili”.

Da questo equivoco deriva la scorretta assimilazione del lavoro somministrato a tempo determinato, al lavoro a tempo determinato tout court (“diretto”).

E di qui, “a cascata”, la confusione tra giustificazione della somministrazione e giustificazione della temporaneità: che cos’è che, nel lavoro in somministrazione, dev’essere giustificato, il contratto di lavoro a termine o il contratto commerciale di somministrazione a termine ?

A queste domande, i legislatori passati hanno dato diverse risposte, che è utile ricordare:

– per la “legge Biagi” (D.lgs. n. 276/2003), “causale” era il contratto commerciale, la cui temporaneità si rifletteva nel contratto di lavoro (reso legittimo dal contratto commerciale “a monte”);

– per il “Jobs Act”, nessuno dei due, perché si è scelto di non richiedere alcuna giustificazione né per la somministrazione in sé (la scissione tra datore di lavoro e soggetto utilizzatore), né per il lavoro a termine in sé;

– adesso, per il “decreto dignità”, causale dev’essere solo il contratto di lavoro somministrato a tempo determinato, in quanto a tempo determinato, e non in quanto somministrato; donde la necessità che esso sia giustificato esattamente come se fosse un contratto a tempo determinato “diretto”.

4.2. Di qui, ancora, una serie di questioni aperte che non tarderanno a riversarsi nelle aule giudiziarie. La prima di tali questioni è quale sia il contratto da giustificare – se quello di lavoro somministrato a tempo determinato o quello commerciale di somministrazione di lavoro a tempo determinato – , e quale nesso vi sia tra i due contratti.

4.2.1. Come chiarito dall’art. 2, co. 1 ter, della legge n. 87/2018, la giustificazione attiene alle esigenze dell’utilizzatore; è certo, tuttavia, che essa costituisce requisito di validità del contratto di lavoro somministrato e non del contratto commerciale di somministrazione di lavoro. Se ne desume che la causale non vada indicata nel contratto commerciale di somministrazione a tempo determinato, ma nel contratto di lavoro somministrato a tempo determinato stipulato tra agenzia e lavoratore somministrato.

Ci si chiede, allora, se e in quale contratto detta causale vada indicata, nel caso in cui il contratto di somministrazione di lavoro sia a tempo determinato, ma i lavoratori da somministrare vengano assunti dall’agenzia a tempo indeterminato: se, insomma, per dare esecuzione a un contratto commerciale di somministrazione a tempo determinato, l’agenzia di somministrazione possa utilizzare contratti di lavoro somministrato a tempo indeterminato, sfuggendo così ai vincoli del “decreto dignità”.

E la risposta ci pare debba essere positiva, per due ordini di ragioni:

1) il contratto commerciale di somministrazione (continua a) non richiede(re) alcuna causa giustificativa, mentre tra utilizzatore e lavoratore somministrato non esiste alcun contratto da giustificare;

2) l’art. 31, co. 1, ult. per., del novellato D.lgs. n. 81/2015 stabilisce che ”Possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato”, ma non esclude che ad un contratto di somministrazione a termine possa darsi esecuzione somministrando lavoratori assunti a tempo indeterminato.

Semmai, si potrebbe osservare che una via più piana e sicura per sottrarsi ai “vincoli” del “decreto dignità” sia quella della pura e semplice stipulazione di un contratto di somministrazione a tempo indeterminato, dal quale l’impresa utilizzatrice possa recedere in qualunque momento con preavviso (o senza preavviso, se così concordato tra le parti), e senza pagamento di alcuna penale.

4.2.2. Ma v’è di più: c’è addirittura da chiedersi a chi si applichi la sanzione per somministrazione irregolare (ossia, la costituzione giudiziale di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore) in caso di difetto della giustificazione, posto che la giustificazione riguarda il contratto di lavoro somministrato, e dunque la sua carenza non dovrebbe potersi ripercuotere sull’utilizzatore, che a detto contratto è estraneo.

Più in generale, deve osservarsi che l’art. 38, co. 2, del D.lgs. n. 81/2015, prevede la costituzione del rapporto con l’utilizzatore per una serie di casi di c.d. somministrazione irregolare (violazione della soglia di “contingentamento”, dei divieti di somministrazione, della forma scritta del contratto commerciale di somministrazione) che non riguardano né la causalità, né la durata massima, né i limiti a rinnovi e proroghe; e dunque non si vede perché la violazione della causale, della durata massima e delle regole in materia di rinnovi e proroghe debba comportare l’applicazione della sanzione propria della somministrazione irregolare, e non, invece, la trasformazione in contratto a tempo indeterminato alle dipendenze dell’agenzia di somministrazione.

4.2.3. Resta, poi, sostanzialmente nebulosa la figura della “somministrazione fraudolenta”, la quale, abrogata dal Jobs Act per la sua inafferrabilità concettuale, viene adesso riproposta, con conseguente riattualizzazione delle suddette difficoltà definitorie; anche se, a ben vedere, in linea con la politica di valorizzazione della discrezionalità del giudice, perseguita dal legislatore e, recentissimamente, dalla stessa Corte Costituzionale (in tema di indennità per licenziamento illegittimo del c.d. ”contratto a tutele crescenti”).

Ci si potrebbe chiedere se sia “fraudolenta” la somministrazione di uno o più lavoratori presso un utilizzatore, seguita dalla loro sostituzione allo scadere dei 12 mesi.

Orbene, a noi sembra che impedire (considerandola “fraudolenta”) la “rotazione” dei lavoratori somministrati a tempo indeterminato su più posizioni lavorative, facenti capo a diverse imprese utilizzatrici, sarebbe in contraddizione con la stessa ratio dell’istituto, che è quella di massimizzare le occasioni d’impiego dei lavoratori somministrati a tempo indeterminato; mentre, come s’è chiarito, la “temporaneità” del contratto commerciale di somministrazione di lavoro non richiede e non postula alcuna giustificazione causale, ma si riduce al mero fatto della predeterminazione del termine di scadenza del contratto medesimo.

Semmai, potrebbe dubitarsi della legittimità (o “fraudolenza”) della reiterata assegnazione ad un medesimo utilizzatore, del medesimo lavoratore somministrato assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. In effetti, nell’esperienza comparata, la prospettiva di maggiore interesse non è affatto (come da noi) quella della “temporaneità” del lavoro, ma proprio quella della possibile discriminazione ai danni dei lavoratori somministrati permanentemente ad una medesima azienda: come insegna il caso Microsoft/Vizcaino (United States Court of Appeals, Ninth Circuit, 24.7.1997), in cui i lavoratori “affittati” da una staffing firm alla Microsoft venivano esclusi dai benefits (soprattutto previdenziali) concessi dalla stessa Microsoft ai propri employees.

In Italia, peraltro, l’operare della regola della parità di trattamento tra somministrati e dipendenti dell’impresa utilizzatrice, e l’efficace azione della contrattazione collettiva di settore, attenua, anche se non elimina del tutto, il problema, che persiste soprattutto con riferimento alla contrattazione integrativa e agli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro.

4.2.4. Vero è che il “decreto dignità” – forse inconsapevolmente, se si tiene mente all’iniziale intenzione del Governo di abolire lo staff leasingfinisce per riorientare decisamente l’asse regolativo e il calcolo delle convenienze economiche a favore dello staff leasing.

La somministrazione a tempo indeterminato, infatti, oltre a non richiedere alcuna causale, ad essere priva di limiti temporali, nonché soggetta a soglie di contingentamento più basse:

– si presta ad essere utilizzata anche per soddisfare esigenze temporanee dell’utilizzatore (laddove la somministrazione a termine non può essere utilizzata per soddisfare esigenze stabili);

– si rivela sostanzialmente immune da rischi di riqualificazione del rapporto (anche in comparazione con l’appalto di servizi labour intensive);

– offre al lavoratore la garanzia di un rapporto a tempo indeterminato con sostanziale parità di trattamento;

– offre un quadro normativo, interpretativo e applicativo assai più semplice e stabile.

4.2.5. Tuttavia, l’equivoco di fondo in cui è caduto il legislatore in tema di lavoro somministrato ha provocato, accanto ad apparenti “buchi neri”, anche alcuni “buchi nell’acqua”: come nel caso della disciplina delle proroghe, la quale, nonostante l’integrale riconduzione della somministrazione a termine alla disciplina del lavoro (diretto) a tempo determinato, sancita dal novellato 1° periodo del 2° comma dell’art. 34 del D.lgs. n. 81/2015 (“In caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 21, comma 2, 23 e 24”), resta invece affidata altrettanto integralmente alle determinazioni della contrattazione collettiva (in atto e futura). Infatti, il “decreto dignità” non ha abrogato il 2° periodo del predetto 2° comma dell’art. 34 del D.lgs. n. 81/2015, il quale continua a prevedere che “il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato … nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore”: sicché, su causali e durata delle proroghe dei contratti di lavoro somministrato a tempo determinato la contrattazione collettiva resta sovrana.

4.2.6. Altro esempio di “buco nell’acqua” è la persistente possibilità di cumulare 12 mesi di contratto a termine a-causale, con 12 mesi di contratto di lavoro somministrato a termine a-causale: ciò dovrebbe essere possibile perché, per un verso, non si supera il limite di 24 mesi, e per l’altro, non è superato nemmeno il limite dei  12 mesi, posto che esso opera, in una prima fase, con riferimento all’agenzia, e in una seconda fase, con riferimento all’utilizzatore.

 

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