L’INDENNITÀ SOSTITUTIVA DEL PREAVVISO non incide sul Tfr *

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano, Potito di Nunzio, Consulente del lavoro in Milano

 

Qualora il preavviso non sia lavorato avendo esso natura obbligatoria e non reale, il lavoratore ha diritto esclusivamente alla indennità sostitutiva del preavviso ma non anche al suo calcolo nel Tfr

 

L’indennità sostitutiva del preavviso non incide sul calcolo del trattamento di fine rapporto: è la Corte di Cassazione 19 gennaio 2023, n. 1581 ad affermarlo in una sentenza che sta facendo discutere, ma i cui contenuti sono, in realtà, tutt’altro che inediti nel panorama giurisprudenziale.

IL CALCOLO DEL TFR

Per comprendere l’approdo a cui sono arrivati i giudici di legittimità nella sentenza n. 1581/2023 in commento, occorre innanzitutto ricordare come si calcola il Tfr, somma alla quale viene riconosciuta natura di retribuzione differita, a maturazione progressiva, il cui diritto alla percezione sorge unicamente al momento della cessazione del rapporto di lavoro, salvo i casi di anticipo stabiliti per legge. L’art. 2120, comma 2, c.c. dispone che, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, la retribuzione annua da prendere a base di calcolo del Tfr comprende tutte le somme corrisposte “in dipendenza” del rapporto di lavoro, “a titolo non occasionale” e con esclusione dei rimborsi spesa. Secondo i giudici di legittimità l’indennità di mancato preavviso non rientra nella base di computo del Tfr “poiché essa non è dipendente dal rapporto di lavoro, essendo invece riferibile ad un periodo non lavorato, una volta avvenuta la cessazione del detto rapporto”. Superato infatti l’orientamento secondo cui al preavviso debba essere riconosciuta efficacia reale e dando ormai per assodata, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, la sua natura meramente obbligatoria, se parte recedente sceglie di non far lavorare il preavviso, il rapporto di lavoro cessa immediatamente, col solo obbligo di corrispondere alla parte non recedente un’indennità parametrata alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo non lavorato. “Ne consegue che il periodo di mancato preavviso deve essere escluso dal computo delle mensilità aggiuntive, delle ferie e del Tfr in quanto essendo mancato l’effettivo servizio, il lavoratore ha diritto esclusivamente alla indennità sostitutiva del preavviso ma non anche al suo calcolo per quel che qui interessa nel Tfr posto che il preavviso di licenziamento non ha effetto reale”.

NATURA DEL PREAVVISO: REALE O OBBLIGATORIA?

Pertanto, la prima questione alla quale la Corte ha dovuto rispondere è se l’indennità sostitutiva del preavviso sia o meno da ritenere una somma che “dipende” dal rapporto di lavoro, ossia un importo dovuto quale corrispettivo della controprestazione cui il lavoratore è tenuto nei confronti di parte datoriale. La risposta a tale quesito necessitava però di un precedente chiarimento circa la natura da riconoscere al preavviso, se reale od obbligatoria. Fino a pochi anni fa l’opinione dominante in dottrina e in giurisprudenza riteneva che il preavviso avesse efficacia reale, ossia che il rapporto di lavoro e le connesse obbligazioni proseguissero a tutti gli effetti per l’intera durata del preavviso, salva l’ipotesi di accettazione da parte del lavoratore dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Secondo l’ormai superata teoria dell’efficacia reale del preavviso, parte datoriale non poteva scegliere a sua insindacabile discrezione se far lavorare il preavviso o risolvere immediatamente il rapporto alla consegna del recesso con pagamento dell’indennità sostitutiva: se il lavoratore non accettava l’indennità, il rapporto di lavoro proseguiva fino alla scadenza del periodo di preavviso contrattualmente previsto, con conseguente prosecuzione di tutte le obbligazioni connesse al rapporto, comprese la maturazione della retribuzione, delle ferie, del Tfr, ecc. Il lavoratore, dal canto suo, rimaneva imbrigliato al rapporto ormai concluso, non potendo impegnarsi in un altro rapporto di lavoro fino al termine del periodo di preavviso, in quanto doveva considerarsi a disposizione del datore di lavoro recedente fino alla scadenza del preavviso.

I MOTIVI DELLA DECISIONE DELLA CASSAZIONE

L’orientamento ormai prevalente, basandosi su un’interpretazione più fedele alla lettera della norma contenuta nell’art. 2118 c.c., ricollega all’istituto del preavviso natura meramente obbligatoria, attribuendo alla parte recedente il diritto potestativo di determinare se il preavviso debba essere lavorato, con conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro fino a scadenza del termine, oppure debba essere indennizzato, con cessazione immediata del rapporto di lavoro. Dunque, in questa diversa prospettiva se effettivamente viene prestata durante il preavviso attività lavorativa, il dipendente maturerà tutti gli emolumenti legati al rapporto di lavoro, compresa l’incidenza sul Tfr delle somme retributive percepite in questo periodo; se invece il lavoratore viene esonerato dal prestare in servizio il periodo di preavviso, la relativa indennità non potrà essere annoverata tra i compensi che, ai sensi del secondo comma dell’art. 2120 sopra citato, formano la base di calcolo del Tfr, in quanto non “dipende” dal rapporto di lavoro, quanto piuttosto dalla sua risoluzione.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Sicuramente si tratta di una sentenza che creerà un nutrito dibattito, nonostante – lo si ripete – enunci un principio di diritto già sostenuto in precedenza in qualche sentenza della Suprema Corte (tra le più recenti, Cass. Civ. Sez. Lav., 05/10/2009, n. 21216 e Cass. Civ. Sez. Lav., 27/08/2015, n. 17248), anche se non rappresentava un approdo consolidato. Dibattito che può avere un senso solo se il contratto collettivo applicato non prevede la modalità di calcolo del Tfr. Diversamente il dibattito è inesistente. Infatti, si ricorda che il legislatore disciplina le modalità di calcolo del Tfr solo nel caso in cui il contratto nulla prevede in tal senso. E proprio in quest’ultima ipotesi che si inserisce il dibattito in quanto aveva indotto molti operatori, seppure in via prudenziale, a riconoscere al lavoratore licenziato l’incidenza dell’indennità sostitutiva del preavviso sul Tfr, emolumento la cui erogazione potrà essere in futuro omessa proprio sulla base del pronunciamento in commento.

Alcuni commentatori hanno già sostenuto la disparità di trattamento economico che tale principio di diritto fa conseguire ad una mera scelta discrezionale di parte datoriale a discapito del lavoratore.

Il riconoscimento dell’indennità sostitutiva in luogo del preavviso lavorato porterà a parte datoriale un risparmio economico non indifferente, considerato anche l’attuale coefficiente di rivalutazione del trattamento di fine rapporto, e conseguentemente una perdita considerevole per il lavoratore.

Si ritiene tuttavia che i giudici di legittimità abbiano coerentemente tratto da premesse generalmente condivise, quali l’obiettivo contenuto della norma contenuta nell’art. 2120, comma 2 c.c. e la natura obbligatoria del preavviso, le corrette conclusioni.

L’indennità sostitutiva del preavviso non può essere intesa come somma che dipenda (leggasi “legata e conseguente”) al naturale e fisiologico svolgimento del rapporto di lavoro; si tratta piuttosto di un indennizzo che – seppur parametrato alla retribuzione persa per il periodo di preavviso non prestato – non può produrre tutti i benefici che solo l’effettiva prestazione può generare. Tanto più che non rientra neppure nel concetto di “non occasionalità” richiesto dal menzionato art. 2120 c.c. per le somme da annoverare nella base di calcolo del Tfr. Una volta consolidato l’orientamento che sostiene la natura obbligatoria del preavviso, non potrà che consolidarsi – come logica conseguenza – anche il principio di diritto per cui nel calcolo del Tfr non incide l’indennità sostitutiva del preavviso.

 

 

* Pubblicato su Corriere delle Paghe, 9 marzo 2023.

 

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LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO, la pensione non riduce il risarcimento del danno*

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano, Potito di Nunzio, Consulente del lavoro in Milano

La Cassazione offre un quadro completo delle ragioni per le quali il trattamento pensionistico non possa essere considerato utile ai fini della riduzione del risarcimento del danno da illegittimo recesso: il beneficio economico derivante dall’accesso al trattamento pensionistico non è in alcun modo derivato dal recesso, ma consegue al verificarsi di presupposti completamente differenti

 

Il trattamento pensionistico percepito dal lavoratore illegittimamente licenziato non può essere detratto a titolo di aliunde perceptum dal risarcimento del danno al quale parte datoriale sia stata condannata per effetto dell’errato provvedimento espulsivo adottato. Con la recentissima sentenza pubblicata lo scorso 31 ottobre 2022, n. 32130 la Corte di Cassazione ha ribadito il proprio orientamento in materia, ricordando che può ritenersi “compensativo (quale aliunde perceptum) del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa”.

IL FATTO

Il caso affrontato dalla Suprema Corte atteneva un ex-dipendente del Ministero per i Beni e le Attività Culturali che, nonostante avesse ottenuto il provvedimento di trattenimento in servizio per ulteriori due anni, era stato licenziato prima che il temine biennale venisse a scadenza, in quanto aveva raggiunto il requisito contributivo massimo che gli consentiva l’accesso al trattamento pensionistico. Proprio in quel tempo, infatti, l’art. 72, c. 11, D.l. 112/2008 convertito in L. n. 133/2008 aveva introdotto la possibilità per le amministrazioni pubbliche di recedere dal rapporto di lavoro al raggiungimento, da parte del dipendente, del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento. Tuttavia, i giudici di prime cure avevano ugualmente dichiarato illegittimo il licenziamento, in quanto la nuova normativa prevedeva espressamente la non applicabilità della facoltà di recesso nel caso in cui il dipendente avesse ottenuto il provvedimento di trattenimento in servizio prima dell’entrata in vigore della norma. Per effetto della declaratoria di illegittimità del recesso, il Ministero era stato condannato al pagamento di un’indennità risarcitoria pari all’importo delle retribuzioni perse dalla data dell’illegittimo recesso al termine del biennio di trattenimento in servizio (dal 3.9.2009 al 31.10.2010). Da tale somma risarcitoria i giudici d’appello avevano decurtato la somma percepita dall’ex dipendente a titolo di pensione d’anzianità nell’arco temporale sopra indicato (dal 3.9.2009 al 31.10.2010). Secondo i giudici di seconde cure infatti, non potendo nel caso di specie sanzionare l’illegittimità del recesso con il ripristino del rapporto di lavoro – circostanza che avrebbe legittimato l’Inps a richiedere al lavoratore la restituzione delle somme pensionistiche erogate -, la mancata detrazione dall’indennità risarcitoria delle quote di pensione ricevute avrebbe comportato un indebito arricchimento del lavoratore, il quale avrebbe percepito, per lo stesso periodo di riferimento, sia il risarcimento del danno che la pensione. Il lavoratore ha dunque adito la

Suprema Corte contestando la sentenza d’appello nella parte relativa proprio alla detrazione della pensione percepita dal risarcimento del danno, fondando la propria eccezione sul costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui solo il compenso da lavoro percepito durante il c.d. periodo intermedio (intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di annullamento) può comportare la riduzione dell’indennità risarcitoria, non anche un trattamento economico che non è in alcun modo ricollegabile al recesso.

I MOTIVI DELLA DECISIONE

La sentenza n. 32130/2022 in esame – accogliendo le ragioni del lavoratore – ha ribadito ancora una volta il principio sopra invocato, sottolineando come l’importo risarcitorio derivante dalla declaratoria di illegittimità del recesso possa essere unicamente ridotto da compensi percepiti dal lavoratore attraverso l’impiego della stessa capacità lavorativa che quest’ultimo avrebbe impiegato ove non fosse stato licenziato. Il diritto alla pensione invece discende da tutt’altri presupposti: si tratta di compensi che prescindono completamente dall’impiego da parte del lavoratore delle sue energie lavorative e deriva piuttosto dal verificarsi di requisiti di anzianità anagrafica e contributiva stabiliti dalla legge. Pertanto le utilità economiche di cui il lavoratore ha beneficiato con l’accesso al pensionamento non sono causalmente ricollegabili al licenziamento subìto e sono quindi da escludere dalla regola della compensatio lucri cum damno, la quale – si ricorda – prevede che, ai fini della quantificazione del risarcimento dei danni derivanti da un fatto illecito, occorre tener conto anche dell’eventuale vantaggio che lo stesso illecito abbia comportato in favore del danneggiato. Nella pronuncia in esame la Suprema Corte prospetta alcuni esempi dai quali si evince ancor più chiaramente l’impossibilità di considerare detraibili dal risarcimento del danno somme percepite a titolo di pensione. Si pensi ad esempio ai casi in cui la legge consente al lavoratore di accedere anticipatamente al trattamento pensionistico in conseguenza proprio della perdita del posto di lavoro, ipotesi in cui il rapporto tra pensione e retribuzione si pone quindi in termini di alternatività. Ebbene, in tali ipotesi l’intervenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge il presupposto stesso della concessione dell’anticipo pensionistico, facendo sorgere in capo al lavoratore l’obbligo di restituzione all’Inps delle somme percepite a titolo di pensione. Allo stesso obbligo restitutorio soggiace il lavoratore nelle ipotesi in cui la legge prevede l’espresso divieto di cumulo tra pensione e retribuzione: anche in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ab origine il diritto al pensionamento, attribuendo all’ente erogatore del trattamento pensionistico il diritto di ottenere la ripetizione di quanto corrisposto al lavoratore. È evidente che qualora si trattenessero dall’indennità risarcitoria le somme percepite a titolo di pensione si arrecherebbe al lavoratore un danno, in quanto egli si vedrebbe corrispondere un importo risarcitorio ridotto della stessa misura che dovrà restituire all’Inps. I giudici di legittimità hanno anche ricordato quanto affermato dalle Sezioni Unite nel 2018 quando hanno escluso la possibilità di ridurre il risarcimento del danno conseguente ad un fatto illecito che aveva cagionato la morte di un uomo detraendo la pensione di reversibilità ricevuta dalla moglie. Tale trattamento pensionistico infatti, pur derivando dal fatto illecito che ha cagionato la morte del coniuge, risponde ad un diverso disegno attributivo, individuabile nel rapporto di lavoro pregresso del de cuius, nei contributi versati e nella previsione di legge, “tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte” (Cass. SS. n. 12564/2018).

Nessun rilievo potrebbe nemmeno avere il fatto che alla pronuncia di illegittimità del recesso non è conseguito l’effettivo reintegro del  lavoratore, atteso che – nelle more del giudizio – era scaduto il biennio di trattenimento in servizio. Per effetto dell’accertamento giudiziale, infatti, la prosecuzione del rapporto di lavoro vi era stata de iure, tant’è che il Ministero ha dovuto ripristinare il rapporto contributivo-previdenziale del dipendente fino al termine del biennio, erogare a titolo risarcitorio le retribuzioni non pagate fino a detto termine. Conseguentemente, anche il dipendente sarà chiamato a ripetere all’Inps la pensione percepita nel periodo 3.9.2009-31.10.2010 (quest’ultima divenuta, sia pure ex post e per effetto dell’accertamento contenuto nella sentenza, priva ormai di giustificazione causale), senza che rilevi l’effettiva reintegra dello stesso nel posto di lavoro per effetto del termine biennale di trattenimento in servizio. In ultimo i giudici di legittimità hanno altresì chiarito che nemmeno si arriverebbe ad una diversa conclusione obiettando che nel lavoro pubblico privatizzato il raggiungimento dei limiti d’età non consente in nessun caso il prosieguo del rapporto. Nella vicenda in esame infatti il risarcimento è stato in concreto parametrato al solo arco temporale in cui il lavoratore avrebbe potuto continuare a lavorare, ossia al periodo fino 31.10.2010, data di scadenza del biennio di trattenimento in servizio.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

La pronuncia in esame offre un quadro davvero completo delle ragioni per le quali il trattamento pensionistico non possa essere considerato utile ai fini della riduzione del risarcimento del danno da illegittimo recesso: il beneficio economico derivante dall’accesso al trattamento pensionistico non è in alcun modo derivato dal recesso, ma consegue al verificarsi di presupposti completamente differenti.

 

 

 

 

* Pubblicato in Corriere delle Paghe, 10 dicembre 2022, n. 12, p. 21-23.

 

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LOTTA ALLO SFRUTTAMENTO DI MANODOPERA: una nuova condanna penale*

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano, Potito di Nunzio, Consulente del lavoro in Milano

La Cassazione ha ravvisato nella condotta datoriale tutti gli indici di sfruttamento di manodopera previsti dalla norma di legge: la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi  da quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente rappresentativi del settore, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

 

Tredici operai extracomunitari (provenienti da Cina e Pakistan) impiegati presso un laboratorio tessile con retribuzioni di molto al di sotto dei minimi previsti dal Ccnl di settore, orario lavorativo di circa 8/9 ore giornaliere, condizioni di alloggio degradanti e non conformi alle regole igieniche essenziali, costretti ad accettare tali condizioni di lavoro per poter provvedere alle loro elementari esigenze di vita: per le corti di merito di Mantova (primo grado) e di Brescia (secondo grado) tali elementi configurano il reato di sfruttamento della manodopera. La condanna inflitta al datore di lavoro dalle corti penali è stata la reclusione pari a un anno e quattro mesi e la multa di Euro 4.800, oltre alla confisca del profitto del reato per una somma complessiva di Euro 98.706,20, ossia l’equivalente dei contributi assistenziali omessi.

LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE

La condanna è stata confermata anche dalla Quarta Sezione penale della Cassazione1, che – applicando i principi di diritto ribaditi nei propri precedenti – ha ritenuto che nel caso di specie fossero stati provati tanto lo “sfruttamento” quanto l’“approfittamento dello stato di bisogno”, ossia i due elementi caratterizzanti il delitto di cui all’art. 603-bis c.p. Secondo i giudici di legittimità infatti le censure formulate dalla difesa del datore di lavoro erano del tutto prive di fondamento. Parte datoriale aveva eccepito che nel caso in esame difettavano i presupposti per poter ritenere integrato il reato di sfruttamento della manodopera, non essendo stata provata la reiterazione nella corresponsione di corrispettivi palesemente inferiori a quelli indicati nei contratti di lavoro, così come le contestate inosservanze in materia di sicurezza e igiene erano in realtà riducibili ad uno stato di generale disordine dell’ambiente di lavoro, certamente non punibili con una sanzione penale. Sempre secondo la prospettazione offerta dal datore di lavoro, nel corso del processo era stata provata una mera difficoltà economica datoriale che aveva impedito di ottemperare agli obblighi retributivi, ma non era emersa alcuna volontà di ledere la dignità della persona, tant’è che non era stata esercitata sui lavoratori alcuna illecita pressione nel corso della giornata lavorativa, tutti erano muniti di permesso di soggiorno ed erano stati regolarmente assunti dalla società. Eccezioni, queste ultime, che non hanno però convinto i giudici di legittimità.

Infatti, a dispetto di quanto genericamente contestato da parte datoriale, nella sentenza d’appello i giudici hanno dato motivato conto della ricorrenza di tutti i profili oggettivi del reato contestato riportando gli elementi acquisiti nel corso dell’istruttoria con riferimento alla condizione di sfruttamento dei tredici lavoratori. In particolare nel corso del processo altre soluzioni. Anche le censure in ordine al provvedimento di confisca del profitto del reato e alla sua quantificazione sono state respinte dalla Cassazione, che ha sottolineato come il provvedimento di confisca sia obbligatorio per legge (in quanto disposto dall’art. 603-bis c.p.) e la quantificazione del profitto fosse stata analitica, avendo i giudici di appello basato il calcolo sullo stipendio medio di ciascun operaio come previsto dai contratti collettivi nazionali di settore (pari a 7,02 euro per ogni ora), moltiplicato per i giorni di sfruttamento e per il numero dei dipendenti coinvolti. Anche nel caso in esame i giudici hanno condotto l’accertamento circa la sussistenza del reato di cui all’art. 603-bis c.p. verificando che vi fosse la prova di tutti gli indici di sfruttamento previsti dalla norma di legge, dunque la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi da quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente rappresentativi del settore, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Non solo: i giudici hanno valutato anche lo stato di bisogno effettivo e concreto

era emersa la reiterazione nella violazione dei principali istituti di legge e di contrattazione collettiva, con riferimento in particolare al salario pattuito e corrisposto, alla durata dell’orario di lavoro, al regime del lavoro straordinario e festivo, alle condizioni degli alloggi e del luogo di lavoro. Era stata altresì assunta la prova circa lo stato di bisogno dei lavoratori, i quali accettavano simili condizioni per potere acquisire le risorse minime indispensabili per sopravvivere in un continente non loro. Le condizioni di sfruttamento inoltre non si erano limitate ad un periodo temporale circoscritto, ma era provato che si erano protratte per alcuni mesi, mentre prive di riscontro erano risultate le giustificazioni del ricorrente in ordine all’asserita, temporanea crisi di liquidità dell’azienda, che comunque non avrebbe dovuto gravare sulle condizioni di lavoro della manodopera, ma avrebbe dovuto portare il datore di lavoro ad altre soluzioni. Anche le censure in ordine al provvedimento di confisca del profitto del reato e alla sua quantificazione sono state respinte dalla Cassazione, che ha sottolineato come il provvedimento di confisca sia obbligatorio per legge (in quanto disposto dall’art. 603-bis c.p.) e la quantificazione del profitto fosse stata analitica, avendo i giudici di appello basato il calcolo sullo stipendio medio di ciascun operaio come previsto dai contratti collettivi nazionali di settore (pari a 7,02 euro per ogni ora), moltiplicato per i giorni di sfruttamento e per il numero dei dipendenti coinvolti. Anche nel caso in esame i giudici hanno condotto l’accertamento circa la sussistenza del reato di cui all’art. 603-bis c.p. verificando che vi fosse la prova di tutti gli indici di sfruttamento previsti dalla norma di legge, dunque la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi da quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente rappresentativi del settore, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Non solo: i giudici hanno valutato anche lo stato di bisogno effettivo e concreto in cui i dipendenti versavano, non dando alcuna rilevanza al fatto che formalmente questi risiedessero sul nostro territorio nazionale con regolare permesso di soggiorno e fossero regolarmente assunti dall’azienda. La necessità di lavorare a condizioni non conformi a quelle previste dalla legge e dai Ccnl di settore per attendere alle minime esigenze di vita, da una parte, e l’approfittamento di tale bisogno da parte datoriale, dall’altra, hanno determinato la condanna dell’utilizzatore della prestazione.

CONCLUSIONI

Insomma, un’altra condanna contro un fenomeno che sta venendo sempre più alla luce grazie al riflettore acceso dal legislatore ad una pratica che da troppo veniva lasciata impunita e alle indagini più capillari svolte delle autorità ispettive e di pubblica sicurezza.

 

 

  1. * Pubblicato anche in Corriere delle Paghe, 11/2022.
    1. Cass., sez. IV penale, 21 settembre 2022, n. 34937.

 

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CREDITI RETRIBUTIVI: la prescrizione corre sempre dalla data di cessazione

Laura Antonia di Nunzio, Avvocato  in Milano (*)

Ennesima stoccata della magistratura alla vigente disciplina sanzionatoria contro i licenziamenti illegittimi: questa volta è la Corte di Cassazione ad infliggerla con la sentenza n. 26246 del 6 luglio scorso (pubblicata il successivo 6 settembre), nella quale viene di fatto affermato che oggi nessun lavoratore – se non i dipendenti pubblici – gode di tutela stabile in caso di licenziamento illegittimo, nemmeno coloro ai quali si applica l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori o la normativa sulle tutele crescenti. Non garantendo la legge la libertà di rivendicare i propri diritti senza il timore di perdere definitivamente il proprio posto di lavoro, la prescrizione dei diritti di credito da lavoro decorre sempre dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Il caso su cui la Cassazione si è pronunciata riguarda due lavoratrici che avevano chiesto al giudice di condannare l’ex datore di lavoro al pagamento di differenze retributive per il lavoro notturno prestato e mai retribuito. Per le corti territoriali il diritto di credito rivendicato era parzialmente estinto: le pretese infatti avrebbero dovuto essere azionate già nel corso del rapporto di lavoro e precisamente entro cinque anni dall’insorgenza del credito rivendicato, attesa la stabilità di tutela apprestata dalla legge ai loro rapporti di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Ma la Suprema Corte non è stata dello stesso avviso, escludendo che le lavoratrici fossero libere di rivendicare i loro diritti in costanza di rapporto per il sol fatto che si applicasse ai loro rapporti una tutela sanzionatoria che, in alcune ipotesi di grave illegittimità del licenziamento, prevede la reintegrazione. Nonostante la pronuncia in commento abbia una portata dirompente e comporti una vera e propria rottura rispetto al passato, la Corte di Cassazione tiene a sottolineare come in realtà la conclusione alla quale è pervenuta con la sentenza in commento si collochi esattamente nel solco dell’orientamento precedente, non costituendo affatto un ripensamento del noto principio del doppio regime di (decorrenza della) prescrizione, a seconda della stabilità o meno del rapporto di lavoro. Infatti, il principio di non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro può essere previsto solo per quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità, “dovendosi invece ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”. Tale stabilità, secondo i giudici della Suprema Corte, era ravvisabile nella disciplina prevista dall’art. 18 dello Statuto prima della novella apportata dal Legislatore del 2012, oppure si realizza ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore una tutela che preveda quale sanzione automatica, in ogni caso di recesso, il ripristino del rapporto di lavoro (ossia la reintegrazione).

Non vi è dubbio invece che le modifiche apportate dalla Legge Fornero (n. 92 del 2012) e poi dal D.lgs. n. 23 del 2015 all’art. 18 della Legge n. 300 del 1970 abbiano comportato il passaggio da un’automatica applicazione, per ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento, della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile (pari al periodo di maturazione dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione dell’ultima retribuzione globale di fatto) “ad un’applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. “piena” o “ forte”, ovvero “attenuata” o “debole”)”.

Il lavoratore oggi non sa – in costanza di rapporto – a quale tutela avrà diritto nel caso in cui venga licenziato illegittimamente. Il tipo di sanzione (se solo risarcitoria o anche reintegratoria) è stabilito dal giudice ex post, ossia a licenziamento irrogato, sulla base di molteplici valutazioni imposte per legge e dettate da una stratificazione di ipotesi di illegittimità del recesso alle quali si ricollega un altrettanto ampio ventaglio di sanzioni, tra le quali la predominante è sicuramente quella risarcitoria, non già quella reintegratoria. Pertanto, secondo i giudici di legittimità, nessuna tutela oggi in vigore è in grado di eliminare nel lavoratore il timore di perdere il proprio posto di lavoro nel caso di esercizio dei suoi diritti di credito in costanza di rapporto. È sulla base delle motivazioni sopra sintetizzate che la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

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Insussistenza del fatto sotteso al licenziamento: L’UNICA SANZIONE È LA REINTEGRAZIONE

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano (*)

Sottoposto all’ennesimo vaglio di costituzionalità, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori esce dall’aula della Consulta nuovamente rimodellato e rafforzato nella tutela offerta ai lavoratori in caso di licenziamento illegittimo. Dopo la sentenza pronunciata lo scorso anno che ha censurato la facoltà che veniva lasciata ai giudici di comminare, in caso di manifesta insussistenza del motivo oggettivo sotteso al recesso, alternativamente la reintegrazione o la sola indennità risarcitoria1, la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi sul settimo comma dell’art. 18. Per comprendere la portata innovatrice della sentenza in commento, occorre ricordare che in caso di illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo il nostro ordinamento prevedeva due diverse sanzioni: prima dell’intervento dei giudici costituzionali, se l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso era “manifesta”, il lavoratore poteva contare sulla tutela reintegratoria, che – oltre alla riammissione in servizio – prevede il diritto del lavoratore a vedersi corrispondere un’indennità risarcitoria parametrata all’ultima retribuzione globale di fatto comunque non superiore a dodici mensilità, nonché la copertura contributiva per tutto il periodo di illegittima estromissione. Nelle altre ipotesi in cui era accertato dal giudice che non ricorrevano gli estremi del giustificato motivo oggettivo la sanzione prevista era unicamente risarcitoria, determinata dal giudicante tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Dunque, il diritto alla tutela reintegratoria si giocava sul campo della prova circa il carattere manifesto o meno di uno stesso, identico fatto: l’insussistenza del motivo oggettivo. Ci  significa che la differente tutela non era legata alla diversa intensità del vizio del quale risultava essere affetto il recesso, ma alla facilità e rapidità con le quali era possibile farlo accertare giudizialmente, dunque, atteneva a profili prettamente processuali e non sostanziali. La questione di legittimità costituzionale della norma è stata sollevata dal Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, che – rimettendo la questione all’alto Consesso – ha sottolineato come una simile disciplina sanzionatoria contrastasse con il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Carta costituzionale sotto molteplici aspetti. Innanzitutto, la disciplina sanzionatoria del licenziamento per motivo oggettivo divergeva senza motivo da quella del recesso per motivo soggettivo dichiarato illegittimo, sanzionato – in caso di insussistenza del fatto – sempre con la reintegrazione, senza alcun rilievo circa la natura manifesta o meno della violazione. Anche nel caso di vizio del recesso conseguente ad un’errata applicazione dei criteri di scelta nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, al lavoratore è assicurata la tutela reintegratoria, inspiegabilmente preclusa (se non in caso di prova del carattere manifesto della violazione) ai licenziamenti per motivo oggettivo individuali. Peraltro, il criterio individuato dal Legislatore sarebbe stato – per il magistrato del lavoro ravennate – “illogico”, in quanto incerto nella sua concreta applicazione e carente di “un preciso e concreto metro di giudizio” idoneo a definire il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto. Infine, l’irragionevolezza della disposizione censurata sarebbe risultata evidente anche nell’inversione dell’onere della prova disposta nella stessa norma: sebbene estraneo alle circostanze che hanno determinato il licenziamento, il lavoratore avrebbe dovuto provare la manifesta insussistenza dei fatti sottesi al recesso, con una conseguente irragionevole compressione del diritto del lavoratore di agire in giudizio in quanto troppo onerosa la prova a suo carico.  La Corte Costituzionale ha accolto le istanze del Tribunale di Ravenna, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della L. n. 300 del 1970, limitatamente alla parola “manifesta”2. Pertanto, oggi, tutte le volte che si accerti giudizialmente l’insussistenza del fatto sotteso ad un licenziamento per motivo oggettivo, il giudice è tenuto a riconoscere al lavoratore la tutela reintegratoria.

Partendo dall’assunto che il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 della Costituzione, che tutelano il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni in quanto fondamento del nostro ordinamento repubblicano, i giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che “la diversità dei rimedi previsti dalla legge deve essere sempre sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso” 3. Cio’  non significa – tiene comunque a ribadire il Supremo Consesso – che la reintegrazione costituisca l’unico possibile paradigma attuativo dei principi costituzionali a tutela del lavoro4, concetto questo che, in passato, ha “salvato” l’impianto sanzionatorio pensato in caso di recesso illegittimo dei contratti a tutele crescenti, che – salvo rari casi – non contempla il rimedio reintegratorio5. Tuttavia, ove si pensi all’impostazione dell’art. 18 – come novellato dalla Legge Fornero nel 20126 – non pu  non rilevarsi come questa sia tutta incentrata sulla nozione di “insussistenza del fatto”, a prescindere dal motivo soggettivo od oggettivo sotteso al recesso. Tale insussistenza, come disposto dall’art. 5, L. n. 604/66, è onere del datore di lavoro provarla, con un’inversione dell’onere probatorio pensata come ulteriore tutela del lavoratore contro scelte datoriali illecite. Se dunque alla base dell’illiceità del recesso vi è l’insussistenza del fatto, differenziare la sanzione a seconda dell’immediatezza della sua prova non ha alcuna ragione plausibile. Peraltro, la prova del carattere manifesto dell’insussistenza del fatto – cui sarebbe pure onerato il lavoratore, ossia il soggetto più lontano dalle ragioni che hanno portato alla decisione estromissiva – è nella prassi impresa non facile, attesa l’indeterminatezza del requisito previsto per legge. “Il criterio prescelto dal legislatore si presta, infatti, ad incertezze applicative e puo’ condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento (…) La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse è rimessa a una valutazione non ancorata a precisi punti di riferimento, tanto più necessari quando vi sono fondamentali esigenze di certezza, legate alle conseguenze che la scelta stessa determina” 7.

Inoltre, sottolineano sempre i giudici costituzionali nella sentenza in commento, il criterio della “manifesta insussistenza” risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi previsti nel nostro ordinamento giuridico, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale legata alla linearità e celerità dell’accertamento. Linearità che peraltro non contraddistingue certamente le controversie che attengono a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, che hanno un quadro probatorio spesso articolato. Peraltro, sottolinea sempre l’alto Consesso, il requisito del carattere “manifesto” dell’insussistenza del fatto rende paradossalmente ancora più lungo e complesso l’accertamento giudiziale. Infatti, un sistema congegnato su un requisito così indeterminato e ulteriore rispetto al disvalore dell’illecito, allunga inevitabilmente la fase istruttoria del processo, perché – dopo aver accertato l’insussistenza del motivo oggettivo – il giudice dovrà soffermarsi anche sulla valutazione del carattere più o meno manifesto dell’insussistenza. Alla luce, dunque, delle osservazioni sopra riportate, la Consulta ha ritenuto irragionevole, illogico e non equo differenziare le sanzioni sul carattere manifesto dell’insussistenza del motivo oggettivo, assicurando ai lavoratori la reintegrazione tutte le volte che la riorganizzazione aziendale con conseguente soppressione del posto di lavoro sia ineffettiva e dunque insussistente. Rimane invece la tutela meramente risarcitoria negli altri casi di illegittimità del recesso, che non abbiano a che vedere con l’effettività della riorganizzazione o della soppressione del ruolo, quali la violazione dell’obbligo di repêchage o dei principi di correttezza e buona fede nella scelta del lavoratore da licenziare nel caso in cui vi fossero più prestatori con mansioni tra loro fungibili. Insomma, la sentenza in commento segna un ennesimo passo verso il ritorno alla disciplina dell’art. 18 pensata negli anni Settanta, quando la sicurezza del posto di lavoro veniva prima di qualsiasi altra forma risarcitoria meramente economica. Il posto di lavoro come bene della vita non (o comunque, non sempre) monetizzabile, valore di rango costituzionale che – rappresentando un’estrinsecazione della persona e della sua dignità – viene sempre più corazzato e protetto dal potere economico datoriale.

 

1. Corte Cost., 1 aprile 2021, n. 59.
2. Corte Cost., 19 maggio 2022, n. 125.
3. Sempre Corte Cost., 19 maggio 2022, n. 125.
4. Corte Cost., 1 aprile 2021, n. 59; così anche sentenza Corte Cost., 7 febbraio 2000, punto 5 del considerato in diritto.
5. Corte Cost. 8 novembre 2018, n. 194 con la quale è stata dichiarata “non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, censurato dal Tribunale di Roma, terza sez. lavoro, in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento dei lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, cui si applica, in caso di licenziamento illegittimo, la tutela solo economica prevista dal d.lgs. n.
23 del 2015, rispetto a quelli assunti anteriormente, cui si applica la più favorevole tutela – specifica (reintegrazione nel posto di lavoro) e per equivalente (risarcimento del danno) – prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970”.
6. L. 28 giugno 2012, n. 92.
7. Sempre Corte Cost., 19 maggio 2022, n. 125.

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SFRUTTAMENTO DEL LAVORO: il sequestro preventivo dell’azienda solo se ci sono concreti elementi di prova del reato

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano (*)

Il caporalato e lo sfruttamento del lavoro sono fenomeni che purtroppo continuano ad intossicare il nostro mercato del lavoro, soprattutto il settore agricolo; una piaga che il Legislatore, soprattutto nell’ultimo decennio, ha cercato di arginare affinando e differenziando le “armi di giustizia”, per non lasciare impunita alcuna ipotesi di irregolarità che mini la dignità della persona, dalla meno grave alla più odiosa. Per questo motivo, nell’attuale panorama giuridico, abbiamo ben tre norme che sanzionano altrettante fattispecie nelle quali può manifestarsi il fenomeno in esame, tutte richiamate e ben sintetizzate in una recente sentenza della Quarta Sezione penale della Suprema Corte che chiarisce non solo le differenti condotte perseguite dall’ordinamento, ma anche gli elementi probatori necessari per il loro accertamento1. Nella sentenza appena citata, i giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi in ordine ad un provvedimento di dissequestro di un’azienda agricola disposto dal Tribunale del Riesame di Cosenza: la misura preventiva era stata precedentemente autorizzata in conseguenza dell’indagine penale in corso nei confronti dei titolari dell’azienda, indagati per sfruttamento del lavoro (condotta prevista e punita dall’art. 603-bis c.p.). Secondo la prospettazione del Procuratore generale della repubblica di Cosenza, infatti, questi avrebbero impiegato braccianti in stato di bisogno, sottoponendoli a condizioni di sfruttamento concretizzatisi nella reiterata corresponsione di retribuzioni difformi a quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali di settore e comunque sproporzionate rispetto alla quantità e qualità di lavoro prestato, nella reiterata violazione della normativa sull’orario di lavoro, sui riposi, sulle ferie, nella violazione delle norme in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro, nella sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza e a situazioni alloggiative degradanti. In conseguenza dell’azione penale avviata nei confronti dei titolari dell’azienda era scattato il sequestro preventivo della struttura, misura cautelare con il precipuo scopo di evitare che il trascorrere del tempo necessario allo svolgimento del processo penale potesse pregiudicare irrimediabilmente l’effettività della giurisdizione espressa con la sentenza di condanna. È evidente che una misura di coercizione preventiva così invasiva non possa essere disposta se non ove sussista il c.d. fumus commissi delicti, ossia nel solo caso in cui vi siano elementi concreti che facciano apparire verosimile che un reato sia stato commesso.

Prima di spiegare i motivi di infondatezza del ricorso promosso dal Procuratore generale della Repubblica avverso il provvedimento che aveva annullato il sequestro preventivo dell’azienda – proprio per mancanza del fumus commissi delicti -, i giudici della Quarta Sezione penale hanno offerto una puntuale ricostruzione della normativa vigente in materia di sfruttamento di lavoro, soffermandosi in particolare sull’ambito di applicazione del reato punito dall’art. 603-bis. Tale norma si colloca nel mezzo di due altre disposizioni che sanzionano, una più duramente, l’altra in modo decisamente più blando, altrettante ipotesi di utilizzazione irregolare di manodopera. La condotta più odiosa e per questo punita con la pena più afflittiva (reclusione da otto a vent’anni) è la riduzione o il mantenimento in stato di soggezione, condotta che si attua mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona (art. 600 c.p.). Si tratta di una vera e propria riduzione in schiavitù del lavoratore, costretto – sotto la pressione di chi ha su di lui un’autorità tale da eliminare ogni forma di libertà personale – a lavori forzati, all’accattonaggio, allo sfruttamento delle prestazioni personali. La condotta sanzionata invece in modo meno grave è la somministrazione irregolare o fraudolenta di manodopera, che si realizza quando l’utilizzatore impieghi manodopera fornita da un soggetto non autorizzato all’intermediazione (somministrazione irregolare, art. 38, D.lgs. 81/2015), magari allo scopo precipuo di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore (somministrazione fraudolenta, art. 38-bis, D.lgs.81/2015). Tali condotte integrano un mero reato contravvenzionale ed espongono l’utilizzatore e il somministratore alla sola pena dell’ammenda, salva l’ipotesi di sfruttamento di minori, nel cui caso si aggiunge anche la pena dell’arresto fino a diciotto mesi. L’art. 603-bis c.p. si colloca esattamente tra le due disposizioni citate: le condotte punite sono l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, represse con la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato. In particolare, oltre al caporale, viene perseguito penalmente anche colui che “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione (…), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”. I giudici della Quarta Sezione penale ricordano la portata dei due elementi oggettivi che caratterizzano l’ipotesi di reato in esame, ossia, da una parte, lo “sfruttamento” e, dall’altra parte, l’“approfittamento dello stato di bisogno”. In particolare, quanto al concetto di sfruttamento, i giudici di legittimità ricordano che la norma offre una serie di indici dai quali poter desumere la sussistenza o meno di una condizione di sfruttamento dei lavoratori. Questi sono:

  1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
  2. la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
  3. la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Tali indici non definiscono, né esauriscono il concetto di sfruttamento, piuttosto forniscono all’interprete (dunque al giudice) delle linee guida che possono aiutare nell’accertamento in concreto della sussistenza di condizioni di sfruttamento. Dunque, il ricorrere di uno o più di tali indici non può lasciare automaticamente presumere la configurabilità dell’ipotesi di reato: questa deve invece essere vagliata in concreto, per comprendere la gravità delle violazioni perpetrate a danno dei lavoratori, nonché l’intensità e il grado di sfruttamento e di degrado cui siano state sottoposte le vittime. Infatti, come rimarcato dai giudici della Quarta Sezione Penale della Cassazione, solo significative alterazioni del rapporto di lavoro e un eclatante pregiudizio dei lavoratori può effettivamente integrare l’ipotesi delittuosa duramente punita dall’art. 603-bis c.p.. Quanto invece al secondo elemento oggettivo che caratterizza l’ipotesi di reato in esame, ossia lo sfruttamento dello stato di bisogno, la Cassazione sottolinea come per “stato di bisogno” non debba intendersi uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualsiasi libertà di scelta, bensì una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose. Anche questa condizione deve necessariamente essere provata in modo puntuale e concreto, tanto che – ricordano gli Ermellini – nemmeno la mera irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato in parola.

Nel caso di specie, il Gip aveva disposto il sequestro dell’azienda agricola ritenendo sussistente il fumus commissi delicti in via quasi automatica, riscontrando la non corrispondenza delle condizioni riservate ai lavoratori con quelle previste dai contratti collettivi di categoria. Tuttavia, come poi rilevato dal giudice del riesame, nell’adozione del provvedimento cautelare era completamente mancato un esame concreto delle condizioni alle quali erano stati sottoposti i lavoratori. Perché vero era che le retribuzioni percepite erano inferiori a quelle tabellari applicate nel settore, ma di poco (34 euro a giornata contro i 37,514 delle tabelle paga vigenti nella provincia di Matera), dunque non tali da potersi parlare di sfruttamento. Anche la reiterazione delle condotte non sussisteva, in quanto questa doveva essere intesa come un comportamento ripetuto nei confronti dello stesso lavoratore, non come mera sommatoria di condotte realizzate episodicamente a danno di lavoratori diversi. Assente anche la prova della violazione della normativa sull’orario di lavoro e sui riposi: peraltro, trattandosi di lavoro stagionale che occupava al massimo 15/20 giorni per ogni mese, l’assenza di giornate di riposo contestata dalla Pubblica accusa era di fatto smentita. Ed ancora, nessuna violazione delle disposizioni a tutela della salute e sicurezza sul lavoro era stata concretamente riscontrata, atteso che si trattava di braccianti assoldati per la raccolta delle fragole, i quali non necessitavano di particolari dispositivi individuali di protezione e, quand’anche non li avessero avuti, ciò non avrebbe comportato un grave pericolo per la loro incolumità ma piuttosto compromesso i frutti a seguito di una loro errata manipolazione. Allo stesso modo era stato quasi automaticamente presunto lo stato di bisogno dei lavoratori, senza tuttavia elementi di fatti che lo comprovassero. Nella sentenza in commento la Suprema Corte ricorda come debba ritenersi ormai superata la tesi secondo cui in tema di sequestro preventivo, ai fini della verifica del fumus, sarebbe sufficiente accertare l’astratta configurabilità del reato ipotizzato.

Il giudice, all’opposto, deve provvedere alla misura cautelare solo ove sia in presenza di elementi di prova che lascino concretamente presupporre la sussistenza del reato. Il giudicante, quindi, deve poter esercitare un controllo effettivo che, pur coordinato e proporzionale con lo stato del procedimento penale e con lo stato delle indagini, non sia solo formale, apparente, appiattito alla mera prospettazione astratta dell’esistenza del reato da parte della Pubblica accusa, ma ancorato ad elementi di fatto accertati e che diano effettiva verosimiglianza circa la configurabilità del reato. Non già un’anticipazione di condanna degli indagati o degli accusati, ma un serio esame dei presupposti fattuali che rendano giusto e coerente il fermo dell’attività economica con l’ipotesi di reato. In assenza della prova di elementi solidi che lasciassero presumere l’effettiva commissione del delitto di sfruttamento del lavoro, la Cassazione ha dunque ritenuto esente da vizi il provvedimento di dissequestro dell’azienda.

 

  1. Corte Cassazione, Quarta Sezione Penale, sentenza del 22 dicembre 2021, n. 46842.

(*)Pubblicato anche in Corriere delle paghe, n. 3/2022.

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Recesso per mancato superamento del periodo di prova: Invalidità e conseguenze sanzionatorie

di Laura Antonia Di Nunzio – Avvocato in Milano

 

La giurisprudenza di legittimità ha sempre messo in guardia dall’indiscriminato esercizio, da parte datoriale, del potere di recedere dal rapporto di lavoro durante il periodo di prova: se infatti è vero che il recesso in tale periodo ha natura discrezionale e dispensa il datore di lavoro dall’onere di specificare e provare la giustificazione ad esso sottesa, è altrettanto vero che il provvedimento espulsivo non può non essere coerente con la causa del patto di prova, che consiste nell’interesse – comune ad entrambe le parti – di verificare la reciproca convenienza alla prosecuzione del contratto. Il periodo di prova consente infatti al datore di lavoro di testare le capacità del lavoratore di assolvere le attività affidategli e di inserirsi efficacemente nel contesto lavorativo; per il lavoratore, invece, il patto è funzionale per valutare l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto[1]. Se questa è la finalità del patto, il corretto esercizio del potere di recesso durante tale periodo presuppone necessariamente (i) la valida stipulazione del patto di prova e quindi l’assenza di vizi per così dire “genetici” dello stesso e (ii) la corretta esecuzione della prova, quindi l’assenza di vizi “funzionali”, legati cioè alle concrete modalità di svolgimento dell’esperimento. Su queste due diverse tipologie di vizio (genetico e funzionale) si è soffermata la Suprema Corte nella recente sentenza pubblicata il 3 dicembre 2018, n. 31159, evidenziando come, al ricorrere dell’uno o dell’altro vizio, il recesso datoriale – parimenti illegittimo – porti a conseguenze sanzionatorie diverse a carico del datore di lavoro.

Prima di esaminare le conclusioni alle quali sono pervenuti i giudici di legittimità con la pronuncia in esame, è opportuno ricordare quando in concreto ricorra un vizio genetico e quando invece un vizio funzionale.

Si parla di vizio genetico quando il patto di prova è carente di uno dei requisiti essenziali per la sua stessa validità, vale a dire:

  • quando non sia stato tempestivamente stipulato tra le parti. Il patto di prova deve infatti essere formalizzato in epoca precedente o almeno contestualmente all’assunzione;
  • quando non rivesta la forma scritta, richiesta a pena di nullità dall’art. 2096, co. 1, c.c.;
  • quando non contenga l’esatta e puntuale indicazione delle mansioni sulle quali il lavoratore verrà valutato, indicazione che può essere operata anche per relationem alle declaratorie del contratto collettivo che definiscano le mansioni comprese nella qualifica di assunzione, sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico[2];
  • quando non preveda la durata della prova, che non potrà eccedere la misura indicata dalla contrattazione collettiva e comunque quella prevista per legge.

Ricorrendo un vizio genetico, il patto di prova è radicalmente nullo, come se non fosse mai stato apposto al contratto di lavoro.

Il vizio funzionale invece ricorre quando il patto, pur perfettamente valido dal punto di vista formale e quindi efficace, non venga di fatto adempiuto, come nel caso in cui:

  • al lavoratore non venga consentito l’esperimento della prova, in quanto adibito a mansioni diverse da quelle indicate nel patto;
  • l’effettuazione dell’esperimento abbia avuto durata inadeguata.

Del resto, la norma di legge che disciplina il patto di prova, ossia l’art. 2096 c.c., pone in capo al datore di lavoro un preciso obbligo: consentire al lavoratore l’esperimento che forma oggetto del patto.

Dunque, solo nell’ipotesi in cui il patto sia validamente stipulato e sia stato correttamente adempiuto, il recesso – tanto datoriale quanto del prestatore di lavoro – potrà essere esercitato liberamente, senza alcun obbligo di preavviso per la parte recedente. In caso contrario, il recesso non sarà né libero, né valido.

Da quanto sin qui esposto ben si comprende che, anche nel corso di tale periodo di instabilità del rapporto, il lavoratore non è del tutto sfornito di tutela: l’esercizio abusivo del potere di recesso da parte datoriale potrà essere eccepito in giudizio e sanzionato.

Ma qual è la sanzione riservata al datore di lavoro in tali casi?

A questa domanda rispondono i giudici di legittimità con la sentenza sopra richiamata, nella quale viene ricordato come il recesso datoriale per mancato superamento della prova conduca a conseguenze sanzionatorie diverse al ricorrere di un vizio genetico o di un vizio funzionale del patto.

In caso di vizio genetico, il mancato superamento della prova posto a fondamento del recesso non integra una giusta causa o giustificato motivo di licenziamento; dunque, in quanto privo di giustificazione, il recesso non potrà che soggiacere alla disciplina ordinaria limitativa dei licenziamenti individuali, con conseguente applicazione – a seconda delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro e dalla data di assunzione del dipendente (ante o post tutele crescenti) – dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori o dell’art. 8 della Legge n. 604/66, o – per i rapporti di lavoro instaurati dal 7 marzo 2015 – degli artt. 3 o 8 del D.lgs. n. 23/2015[3].

Diversamente, ove ricorra un vizio funzionale del patto, la parte datoriale si sarà resa inadempiente ad una obbligazione contrattualmente assunta (per l’appunto, al patto di prova), con conseguente diritto del lavoratore di ottenere il risarcimento del danno secondo la disciplina comune di diritto civile. In tale ultimo caso, il lavoratore potrà quindi richiedere al giudice, ove possibile, di proseguire la prova per il periodo residuo mancante al raggiungimento del termine massimo fissato per la prova (risarcimento in forma specifica); ove ciò non sia possibile, perché concluso il periodo di prova, il prestatore di lavoro potrà ottenere il solo risarcimento del danno per equivalente in denaro, spesso parametrato al periodo medio di disoccupazione di un lavoratore operante nel medesimo settore merceologico e della stessa fascia di età, oltre all’eventuale perdita di altre occasioni di lavoro concretamente rifiutate all’epoca dell’assunzione (danno da perdita di chance).

Occorre tuttavia precisare che alle stesse conseguenze sanzionatorie previste in caso di vizio genetico del patto, soggiace il datore di lavoro nel caso in cui il dipendente dimostri il positivo superamento del patto di prova e, quindi, che il recesso si fondi su un motivo illecito, estraneo alla prova, nonché in caso di apposizione del patto di prova ad un contratto di lavoro concluso con un dipendente che abbia già lavorato presso la stessa azienda e sia già stato provato nelle stesse mansioni.

La sentenza in commento infine ribadisce un principio di diritto assolutamente consolidato in materia, ossia che incombe integralmente in capo al lavoratore l’onere di provare in giudizio il vizio che inficia il recesso per mancato superamento del periodo di prova. Sarà dunque il prestatore di lavoro a dover offrire al giudice tutti gli elementi, anche indiziari, per provare l’invalidità del recesso e la sussistenza del vizio che eventualmente inficia il patto.

Raccogliendo l’insegnamento della Suprema Corte possiamo dunque concludere che il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova è sì rimesso alla discrezionalità datoriale, ma deve sempre essere ricollegato al patto di prova e alle finalità proprie dello stesso, non potendo essere lo strumento per disfarsi di un rapporto di lavoro non gradito per ragioni diverse, estranee al patto, quali ad esempio un’intervenuta gravidanza o l’insorgenza di una malattia.

[1] Si veda a titolo esemplificativo Cass. Civ., sez. Lavoro, 5 maggio 2015, n. 8934; Cass. Civ., sez. Lavoro,, 13 agosto 2008, n. 21586.

[2] Cass. Civ., sez. Lavoro, 22 febbraio 2018, n. 4341; Cass. Civ., sez. Lavoro, 21 luglio 2015, n. 15229; Cass. Civ., sez. Lavoro, 23 maggio 2014, n. 11582

[3] Si legga, oltre alla sentenza in commento, Cass. Civ., sez. Lavoro, 3 agosto 2016, n. 16214, Cass. Civ., sez. Lavoro, 12 settembre 2016, n. 17921.

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