OMESSI VERSAMENTI di ritenute Inps e la campagna di sanzioni monstre*

Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano

 

A seguito della circolare Inps n. 32/2022, si fa sempre più intensa la campagna di contestazione degli illeciti amministrativi per le omissioni dei versamenti di ritenute da parte del datore di lavoro ex art. 2, D.l. n. 463/1983. Per le ipotesi meno gravi, la prevista sanzione amministrativa tra € 10.000 ed € 50.000 sta gettando nel panico aziende e professionisti. 
La circostanza che esista una conclamata omissione contributiva, però, non sempre giustifica la sanzione pecuniaria. Ecco alcuni suggerimenti utili per affrontare le difese.

 

Per l’Inps la sanzione amministrativa pecuniaria per l’omesso versamento di ritenute previdenziali da parte del datore di lavoro (anche se minimo), vale non meno di € 17.000. E cio’, a prescindere dalla misura dell’inadempimento contributivo, che potrebbe essere (si fa un esempio) anche solo di € 295. Senza dubbio una notevolissima sproporzione, giustificata dalla disposizione positiva di legge (che nell’ordinamento è quanto conta), tuttavia palesemente eccessiva anche rispetto al pure comprensibile obiettivo general-preventivo perseguito. Il quale, nel caso, corrisponde all’evidente intento del Legislatore di evitare che i datori di lavoro omettano, deliberatamente o meno, di versare quanto trattenuto a nome del proprio dipendente. Quantunque il rischio delle sovrabbondanti misure punitive dovrebbe condurre chiunque a non omettere di corrispondere, whatever it takes, neppure un centesimo di quanto dovuto (il che sarebbe, sempre dal punto di vista generalpreventivo, un successo), cionondimeno -anche alla luce di una certa desuetudine passata degli Istituti alle contestazioni-, sono innumerevoli i casi e le occasioni in cui vengono rilevate omissioni da parte delle aziende. Va innanzitutto osservato come, riguardo ai termini dell’obbligo datoriale di versamento delle ritenute sulle retribuzioni, la previsione di legge risulti chiara e priva di ombre (art. 2, co. 2, D.l. n. 463/1983).

 

Così per l’art. 2, co. 1, D.l. n. 463/1983

Le ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, ivi comprese le trattenute effettuate ai sensi degli  articoli 20, 21 e 22 della legge 30 aprile 1969, n. 153, debbono essere comunque versate e non possono essere portate a conguaglio con le somme anticipate, nelle forme e nei termini di legge, dal datore di lavoro ai lavoratori per conto delle gestioni previdenziali e assistenziali, e regolarmente  enunciate alle gestioni stesse, tranne che a seguito di conguaglio tra gli importi contributivi a carico del datore di lavoro e le somme anticipate risulti un saldo attivo a favore del datore di lavoro.

 

A fronte dell’omissione della dovuta corresponsione, per la norma si realizza un fatto di reato. Se l’evasione trasmoda gli € 10.000 di omessi versamenti nell’anno di riferimento, il trasgressore commette un delitto punito anche con la reclusione fino a 3 anni. Al di sotto degli € 10.000, l’illecito si trasforma in amministrativo, con una sanzione del genere previsto dalla Legge di depenalizzazione del 1981 (Legge n. 689/1981). Un riferimento normativo che, come tra poco si osserverà, potrà tornare utile nelle quasi mai facili difese, chiamate a contrastare il rischio di una sanzione amministrativa monstre, ! da € 10.000 a € 50.000. L’Ordine dei Consulenti del lavoro, alla luce dell’abnormità di tali misure repressive, ha di recente manifestato la condivisibile proposta che il Legislatore riveda al ribasso i limiti edittali. Che si tratti di reato o di illecito amministrativo, la legge individua una condizione di non punibilità nel ravvedimento operoso dei datori di lavoro che intendano recuperare agli omessi versamenti entro tre mesi dalla notifica della constatazione/contestazione del fatto. Una via d’uscita che trasgressori e aziende (obbligate in solido per contributi e sanzioni pecuniarie) non dovrebbero mai trascurare.

 

Così per l’art. 2, co. 1bis, D.l. n. 463/1983

L’omesso versamento delle ritenute sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, per un importo superiore a € 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a € 1.032. Se l’importo omesso non è superiore a € 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da € 10.000 a € 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione.

Per chiarire ulteriormente i termini della questione, va sottolineato come la mancata corresponsione della contribuzione di competenza del lavoratore -che ne è tecnicamente il debitore (a prescindere dall’azione necessaria del datore di lavoro quale sostituto d’imposta)- nel termine di legge, trasforma il “titolo” in un debito in via principale del datore di lavoro. Quindi, ai sensi dell’art. 23, Legge n. 218/1952, senza alcuna possibilità di rivalsa successiva dell’azienda nei confronti del lavoratore. Premessi i termini piuttosto noti del dovuto adempimento, va evidenziato come con la circolare n. 32 del 25 febbraio 2022 l’Inps abbia intrapreso di fatto una “campagna” di recupero di quanto non versato negli anni dai datori di lavoro e delle relative sanzioni. Grazie alla circolare, l’Istituto ha inteso fornire disposizioni operative preordinate alla formazione dell’ordinanza-ingiunzione per l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria, “in caso di fondatezza dell’accertamento e di assenza del pagamento delle ritenute omesse ovvero di assenza del pagamento della sanzione in misura ridotta entro i termini normativamente previsti”. A complicare la partita di quanti datori di lavoro provano a sfuggire la tremenda sanzione amministrativa stabilita, concorre la circostanza che si tratta sovente di omessi versamenti relativi a periodi non recenti. Ci  pu  annientare ogni potenzialità di difesa e ravvedimento. Ma anche, a onor del vero, al contrario, offrire consistenti e validi motivi di tutela. Li vediamo tra poco.

Una volta accertato il debito e garantite le possibili difese e osservazioni dei presunti trasgressori, per l’Inps la necessaria alternativa correrà tra l’irrogazione della sanzione amministrativa e l’archiviazione degli atti.

 

Così per la circolare Inps n. 32/2022
L’articolo 18 della legge n. 689/1981 prevede che, entro il termine di trenta giorni dalla data della contestazione o notificazione della violazione, gli interessati possono fare pervenire all’autorità competente scritti difensivi e documenti e possono chiedere di essere sentiti dalla medesima autorità. L’autorità competente, sentiti gli
interessati, ove questi ne abbiano fatto richiesta, ed esaminati i documenti inviati e gli argomenti esposti negli scritti difensivi, se ritiene fondato l’accertamento, determina, con ordinanza motivata, la somma dovuta per la violazione e ne ingiunge il pagamento, insieme con le spese, all’autore della violazione e alle persone che vi sono obbligate solidalmente.
In caso contrario, qualora a seguito della fase istruttoria si verifichi che la condotta del soggetto non costituisce illecito amministrativo oppure in presenza di vizi formali, l’autorità competente emette ordinanza motivata di archiviazione degli atti

 

Successivamente alla descritta fase di “contestazione o notificazione della violazione”, tuttavia, se gli addebiti saranno fondati (in sostanza, se il datore di lavoro non riuscirà a provare di avere già versato quando preteso dall’Istituto), i “giochi” saranno già fatti e ci sarà poco da discutere. Se non, semmai, dell’entità della sanzione pecuniaria. Che, comunque sia, sarà notevole. Dunque, vistisi contestare il debito, per i datori di lavoro la prima decisione da assumere riguarderà se versare o meno la contribuzione richiesta nei tre mesi della contestazione. Si tratta quasi sempre della migliore via d’uscita, come detto, oltre che di quella doverosa per legge.

Qualora non si intenda o possa aderire alla corresponsione volontaria, tuttavia, un utile suggerimento per datori di lavoro e professionisti è quello di verificare se la “procedura” seguita dall’Inps sia stata corretta. Infatti, spesso il punto debole dell’azione dell’Istituto e dei suoi funzionari riguarda il modo e il tempo dell’accertamento dell’omissione. Perché la procedura si possa dire legittima e ben osservata occorre che, una volta che sia emerso l’illecito, esso sia oggetto di contestazione immediata e, per le infrazioni amministrative, nei termini previsti inderogabilmente dall’art. 14, Legge n. 689/1981. Cioè, entro 90 giorni, se il datore di lavoro – o chi agisce per esso – risiede in Italia.

 

Così per l’art. 14, Legge n. 689/1981

La violazione, quando è possibile, deve essere contestata immediatamente tanto al trasgressore quanto alla persona che sia obbligata in solido al pagamento della somma dovuta per la violazione stessa. Se non è avvenuta la contestazione immediata per tutte o per alcune delle persone indicate sopra, gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati residenti nel territorio della Repubblica entro il termine di novanta giorni e a quelli residenti all’estero entro il termine di trecentosessanta giorni dall’accertamento.

Un difetto di contestazione nei termini di legge (che richiede un formale verbale di accertamento, indicante le puntuali circostanze di fatto, infrazioni di diritto commesse e responsabilità personali) determina la decadenza dalla possibilità di recuperare successivamente le sanzioni amministrative da parte dell’amministrazione.

In effetti, nella pratica è ricorrente che l’Istituto contesti, e ammetta al beneficio del volontario versamento, debiti contributivi di cui già aveva conosciuto in passato l’esistenza, spesso di anni precedenti al momento della formale contestazione. Per esempio, a riprova, per averli già richiesti in passate occasioni (con avvisi bonari, diffide a regolarizzare, note di rettifica, eccetera). Contestabili, del resto, sono pure i casi in cui l’Inps affermi di avere espressamente rilevato le evasioni dalle proprie banche date e archivi (es. con espressioni del tipo: “da una verifica nei nostri archivi, è emerso che, per i periodi di competenza indicati nell’allegato “Prospetto inadempienze inserite in notifica violazione”, che costituisce parte integrante del presente atto, non sono state versate all’Inps le ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori”). Infatti, ai sensi della Legge n. 689/1981, non basta vagamente asserire di avere rilevato il fatto, occorre affermarne le circostanze precise. Il problema che si pone, specie in quest’ultima ipotesi, è conoscere come e quando sia avvenuto questo “riscontro” di omissioni, atteso che ogni notizia in ordine a comunicazioni di denuncia e corrispondenti –o meno- versamenti, appare di norma, fin dall’origine, già nella disponibilità dell’Istituto (salvo occultamenti tout court). La circostanza possiede un’importanza dirimente perché proprio detto “riscontro” dell’omissione coincide con quell’“accertamento” a cui fa riferimento l’art. 14, Legge n. 689/1981. Ed è da tale istante che inizia a correre il termine di decadenza per la notificazione.

Alla luce dei previsti adempimenti cogenti dell’azienda, banche date, semafori, eccetera (sempre nella disponibilità e conoscenza dell’Istituto), dovrà essere l’Inps che accerta a provare la responsabilità del presunto trasgressore (cfr. art. 6, comma 11, D.lgs n. 150/2011), a dimostrare i modi puntuali in cui è avvenuto tale “accertamento” e, tutto sommato, a dovere giustificare suoi eventuali e apparenti ritardi nei rilievi posti in essere. In sostanza, la mera omissione oggettiva non è sufficiente a fare ritenere corretta la contestazione dell’illecito e la sanzione. Per cui, se in forza di precedenti richieste e comunicazioni dell’Inps si riuscirà a dimostrare violato il termine perentorio dell’art. 14, Legge n. 689/1981, oppure, se la richiesta dell’amministrazione non è avvenuta nelle esatte forme del verbale di contestazione dell’illecito amministrativo, l’irrogazione successiva della sanzione amministrativa dovrà considerarsi invalida.

Chiaramente, altro è il debito per l’illecito amministrativo ai sensi dell’art. 2, co. 1, D.l. 463/1983; altro sono i crediti dell’Istituto, sempre recuperabili, con le maggiorazioni previste dall’art. 116, comma 8, Legge n. 388/2000, fino alla loro eccepita prescrizione. Quanto alla misura della sanzione amministrativa irrogata, l’indefettibile previsione della circolare n. 32/2022 appare senza dubbio perplessa e finanche in contraria all’art. 11, Legge n. 689/1981.

Infatti, mentre la Legge stabilisce che venga considerato con attenzione il caso singolo e le eventuali “attenuanti” -tra cui puo’  senza dubbio annoverarsi la tenuità dell’omissione (“Nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell’applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per la eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche”)-, la circolare n. 32/2022 stabilisce in un “minimo” predeterminato la commisurazione della sanzione amministrativa (€ 17.000). Eppure, in astratto, essa ben potrebbe corrispondere anche al comunque cospicuo minimo edittale (e perci  inferiore alla c.d. somma in misura ridotta del verbale, pari a € 16.666).

Così per la circolare Inps n. 32/2022

L’assenza del pagamento delle ritenute omesse o della sanzione amministrativa in misura ridotta nei suddetti termini comporta, come anche evidenziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nella nota del 3 maggio 2016 prot.n 9099, l’irrogazione di una sanzione amministrativa di importo superiore a quello determinato in misura ridotta. Pertanto, essendo la sanzione amministrativa in misura ridotta pari a 16.666 euro, la sanzione amministrativa che sarà irrogata con l’ordinanza-ingiunzione avrà un importo da un minimo di 17.000 euro fino a un massimo di euro 50.000. Ai fini della determinazione della graduazione, l’Istituto terrà conto dell’importo delle ritenute omesse per le quali è previsto il raggruppamento per fasce e dell’eventuale reiterazione della violazione.

In definitiva, anche per i trasgressori conclamati potrebbe essere opportuno valutare di ricorrere in opposizione al Giudice, ove, fermo l’illecito, si intendesse anche “solo” fare rideterminare dal Tribunale, secondo giustizia e verso il minimo, la misura della sanzione amministrativa.

Malgrado le previsioni positive, nella materia sussiste un evidente problema di equità sostanziale che, anche secondo i molti auspici suscitati, dovrebbe permettere di adeguare le misure repressive previste e comminate ai principi di proporzionalità espressi sempre più di frequente anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (cfr. tra le altre, la decisione del 8.3.2022, C. 205-20 e la decisione e la decisione del 3.3.2020, C. 482-18). La quale Corte ha affermato in modo lineare e ineccepibile la necessità che sussista equilibrio tra gravità delle infrazioni e le sanzioni comminate. Come non è quasi mai nel caso delle illecite omissioni contributive considerate.

 

 

(*) L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

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Omissioni involontarie di denunce Inps, SEMPRE SANZIONI AL MINIMO*

Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano

 

A fronte di tardivi versamenti di contributi oltre i 30 giorni dall’intempestiva trasmissione di denunce, la costante prassi dell’Inps è di ritenere presunta la fraudolenza e di pretendere le più gravi sanzioni civili per c.d. evasione. La pronuncia n. 92/2022 della Corte d’Appello di Venezia, ricorda, tuttavia, come, una volta che sia provata l’involontarietà degli inadempimenti, dai tardivi versamenti devono sempre conseguire le più lievi sanzioni civili per c.d. omissione

 

 

La sentenza della Corte d’Appello di Venezia n. 93 del 16.3.2022 reca confortanti notizie a chi intende difendersi dalla pretesa dell’Inps delle più gravi sanzioni civili. Come noto, le reazioni degli Istituti, in caso di inadempimenti formali e sostanziali, ritardi e omissioni, sono sempre improntati al massimo rigore nel punire i contribuenti e chi li assiste. In effetti, ci sono poche cose altrettanto certe quanto lo è la presunzione di fraudolenza della condotta del contribuente inosservante e l’attesa, certa e costante comminazione delle sanzioni civili nella forma più grave, tra quelle previste dall’art. 116, comma 8, Legge n. 388/2000. Quella aggravata, per cosiddetta “evasione”.

Quale sia lo stato della materia è ben chiarito da una vasta e univoca giurisprudenza al riguardo, autorevole e incontroversa. Chi omette di adempiere con precisione a quanto previsto, comunque sia, è da ritenersi in malafede e colpevole al massimo grado. Salvo, beninteso, la (molto difficile) prova del contrario. Si confronti, a titolo di esempio sul punto, tra le moltissime, la sentenza della Cassazione del 25.5.2015, n. 17119.

L’omessa o infedele denuncia fa, infatti, presumere l’esistenza della volontà datoriale di occultare i dati allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti. In particolare, si ritiene che la mancata o infedele denunzia configuri occultamento dei rapporti e delle retribuzioni (o di entrambi) e faccia presumere l’esistenza della volontà di realizzare l’occultamento allo specifico fine di non versare i contributi. Nella fattispecie concreta l’Inps ha ravvisato l’evasione contributiva ed ha irrogato le sanzioni previste dall’articolo 116, comma 8, lettera b), Legge n. 388/2000. In tale situazione sarebbe stato onere del datore dare la prova della mancanza dell’intento fraudolento, in considerazione del fatto che la disposizione normativa in esame assimila la “evasione connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero”, al “caso in cui il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate”.

In definitiva, di principio, ogni omissione, ritardo, imperfezione, squadratura, eccetera, in cui possa incorrere il contribuente – anche a causa dell’attività del professionista che lo assiste – e che si accompagna a un ritardo nel versamento della dovuta contribuzione, diventa destinataria della sanzione civile maggiore (art. 116, co. 8, lett. b), cit., c.d. evasione: “in caso di evasione connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero … sanzione civile, in ragione d’anno, pari al 30%”), anziché di quella più lieve (art. 116, co. 8, lett. a), cit. c.d. omissione: “nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce … sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti”).

Ciò significa essere puniti con sanzioni civili di 5-6 volte superiori a quelle più lievi. Ma anche ammettendo che, a fronte di un ritardo nella presentazione delle denunce, poi recuperato, il contribuente riesca a dimostrare la propria buona fede, secondo la costante prassi degli Istituti, egli sarà comunque destinatario di sanzioni civili per evasione, nel caso in cui operi i dovuti versamenti dei contributi o premi oltre i trenta giorni dalla denuncia stessa.

La ragione è presto detta.

L’amministrazione, assimilando le due fattispecie (di buona fede e di fraudolenza), nel predetto caso di versamenti tardivi, ritiene che il ravvedimento operoso, previsto in effetti per le sole ipotesi di occultamento (“Qualora la denuncia della situazione debitoria sia effettuata spontaneamente prima di contestazioni o richieste da parte degli enti impositori e comunque entro dodici mesi dal termine stabilito per il pagamento dei contributi o premi e sempreché il versamento dei contributi o premi sia effettuato entro trenta giorni dalla denuncia stessa, i soggetti sono tenuti al pagamento di una sanzione civile” per c.d. omissione”), possa fare rubricare quali ipotesi sanzionate per “evasione”, anche fattispecie all’origine solamente “omissive”.

Come accennato, malgrado le pretese dell’Inps si conformino costantemente a tale soluzione in malam partem, in effetti niente del genere è stabilito per legge.

La vicenda su cui la Corte d’Appello veneziana era chiamata a pronunciarsi aveva per l’appunto a che fare con un’iniziale incolpevole omissione di invio di denuncia Uniemens da parte di un professionista, con riguardo ad alcune aziende clienti, a causa di un disguido tecnico. Accortisi dell’omissione solo nei mesi successivi al termine previsto, le denunce venivano infine trasmesse.

Nel frattempo una delle aziende clienti, che era in crisi, tardava a versare la contribuzione dovuta per alcuni ulteriori mesi, anche in seguito alla comunicazione degli Uniemens. Una volta versati i contributi, a questo punto l’Ins pretendeva con Avviso di addebito anche le sanzioni civili per c.d. evasione, in quanto, all’epoca del versamento, erano trascorsi i “trenta giorni dalla denuncia” suddetta.

L’azienda presentava opposizione in giudizio, riuscendo a dimostrare la propria buona fede -data l’irregolarità per il fatto tecnico del professionista, in effetti non contestato dall’Inps- e facendosi riconoscere come dovute solo le minori sanzioni civili per c.d. omissione. Forte delle proprie ritenute ricostruzioni in diritto, però, l’Inps presentava appello, per vedersi riconosciute le maggiorazioni più elevate. Facendo chiarezza quanto alle perplesse, quantunque abitudinarie, interpretazioni dell’amministrazione, la Corte d’Appello di Venezia ha infine confermato che, provata la buona fede e l’inottemperanza involontaria del contribuente, da essa, per eventuali ritardi nei versamenti, non possono mai discendere le sanzioni ex art. 116, c. 8, lett. b), L. n. 388/2000, essendo detti ritardi “irrilevanti” al riguardo.

Corte d’Appello di Venezia, sezione lavoro, sentenza del 16.3.2022, n. 93 Nel caso di omissione involontaria delle denunce contributive ed escluso il perfezionarsi della fattispecie di evasione contributiva, deve ritenersi irrilevante la circostanza, dedotta dall’Inps, che il pagamento dei contributi sia avvenuto oltre il termine di trenta giorni indicato dall’art. 116, comma 8, lett. b), cit., essendo tale termine previsto per la sola ipotesi di evasione di cui all’art. 116, comma 8, lett. b) cit. e non anche per la diversa fattispecie di omissione cui alla lett. a) del medesimo articolo (cfr., in tema, Cass. Sez. Un., 19655/2014, che opera una netta distinzione tra l’ipotesi di omissione contributiva di cui alla lett. a) e quella di evasione contributiva “prevista dalla successiva lett. B) del medesimo art. 116, comma 8”).

In tali casi, pertanto, il ritardo nei versamenti -per qualunque periodo di tempo- non potrà che comportare sempre l’applicazione delle più lievi sanzioni ex art. 116, c. 8, lett. a), L. n. 388/2000.

In definitiva, un altro punto a favore delle tutele di aziende e professionisti.  

 

(*) L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

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