HR&Organizzazione – SELEZIONE DEL PERSONALE: un’opportunità per il Consulente del Lavoro se praticata consapevolmente

Fernanda Siboni, Psicologa del lavoro – Consulenza Organizzativa, dello Sviluppo Risorse Umane e della Formazione – Coach, Counselor e Soft Skills Trainer

 

LE TENDENZE CONTEMPORANEE

La selezione del personale è, per i consulenti del lavoro, una attività che, nel  prossimo futuro, potrebbe assumere una rilevanza sempre maggiore, anche in una logica di sviluppo del business dello Studio. Obiettivo del presente articolo è quello di stimolare l’interesse di quei Professionisti che ancora conoscono poco questo settore e, nel contempo, mettere in guardia da forme di improvvisazione che possono essere controproducenti, sia sul piano dell’efficacia di questa pratica professionale che sul versante dell’immagine del Professionista stesso presso il proprio mercato di riferimento.

Siamo di fronte a due fattori importanti di cambiamento che coinvolgeranno, in maniera significativa, il mondo del lavoro: molto probabilmente nel prossimo futuro circa il 50% delle attuali posizioni lavorative verrà sostituito da processi di automazione che determineranno una sensibile trasformazione dell’operatività delle aziende.1 Stiamo assistendo ed assisteremo, sempre di più, ad un aumento dell’occupazione nelle professioni ad elevata specializzazione e, all’opposto, in quelle a bassa qualifica, mentre, contemporaneamente, l’impiego nelle professioni intermedie tenderà a diminuire. È il cosiddetto fenomeno della polarizzazione delle funzioni lavorative.2 Il mercato del lavoro mostra un costante

spostamento dell’occupazione dalle mansioni di media qualifica alle mansioni cognitive non routinarie. Pertanto, chi svolge attività con un più elevato contenuto di mansioni di routine è esposto a un maggiore rischio di disoccupazione, sia a breve che a medio termine. Più in generale, il lavoro di routine è associato a una minore stabilità dell’occupazione e a una maggiore probabilità di incorrere in periodi di disoccupazione.3 Queste tendenze avranno probabilmente impatto anche sui professionisti degli Studi Professionali. Attività routinarie (come il calcolo dei contributi o la realizzazione dei cedolini) saranno soggette ad una sempre maggiore automatizzazione e la standardizzazione di tali processi lavorativi permetterà ai consulenti del lavoro di investire meno tempo in funzioni operative e ripetitive e di avere più tempo da dedicare a compiti strategici e meno operativi. È quindi auspicabile che, a fronte di tali cambiamenti, i professionisti degli Studi si attrezzino per intraprendere percorsi formativi che consentano loro di sviluppare una serie di competenze che si allineino all’evoluzione del mercato al fine di fornire ai clienti un valore aggiunto coerente con le nuove esigenze emergenti. In questa logica, un’area di competenze particolarmente interessante è rappresentata dalla consulenza finalizzata alla ricerca e selezione del personale, attività di cui le imprese necessitano e che, nella maggior parte dei casi, non hanno le competenze e le risorse per poter svolgere internamente. Tale consulenza può riguardare tutte le fasi “tipiche” del processo di selezione e inserimento, e può essere molto efficace se rafforzata da una partnership fruttuosa con chi ha competenze di carattere psicologico4,

IL PROCESSO DI SELEZIONE

Le fasi tipiche del processo di selezione e inserimento del personale sono individuabili nei seguenti momenti: analisi del contesto organizzativo dell’azienda committente, individuazione e definizione delle esigenze della stessa, definizione del profilo di competenze e di capacità della candidatura “ideale”, analisi e costruzione del documento “ job description”, pianificazione e realizzazione del programma di ricerca delle candidature attraverso gli opportuni canali di reclutamento, valutazione delle candidature individuate attraverso appropriati strumenti di screening e di selezione, colloquio di selezione per rilevare le competenze e le attitudini, individuazione della rosa dei candidati maggiormente idonei, progettazione e svolgimento delle attività finalizzate all’inserimento lavorativo, assistenza al neoassunto nella fase di inserimento, monitoraggio dell’andamento dell’inserimento.

Il processo, così sintetizzato, si compone di fasi che richiedono competenze specifiche ed attività dedicate.

La fase di “Job analysis” consiste nell’analisi delle mansioni proprie della posizione lavorativa da ricoprire che ha lo scopo di individuare i requisiti e i fattori che la compongono. Per espletare questa fase, occorre procedere con la raccolta delle informazioni utili mediante

interviste, focus group (una tecnica di indagine qualitativa incentrata sul confronto fra membri selezionati operanti all’interno dell’azienda committente), osservazione diretta del contesto di riferimento, analisi dei documenti aziendali, quali, per esempio, organigramma, mansionari, procedure, contratti di lavoro. La fase di “Job description” riguarda la descrizione analitica e formalizzata per iscritto delle principali caratteristiche della posizione lavorativa per la quale si vuole attivare la selezione. Si tratta di descrivere la posizione in termini di: denominazione, scopo, interfacce e riporti, aree di responsabilità, attività, competenze, attitudini richieste.

Nella mia esperienza personale di formatrice, ho notato che molti professionisti degli Studi Professionali che seguono i miei corsi tendono a confondere “job description” ed annuncio. Si tratta di due documenti che hanno scopi diversi: il primo è un documento interno, articolato e dettagliato, che ha l’obiettivo di descrivere in maniera approfondita i fattori che compongono il profilo di chi si sta ricercando al fine di avere un parametro di riferimento, chiaro e definito, per procedere con le fasi successive del processo di selezione; il secondo è uno scritto sintetico, che contiene i tratti essenziali del profilo ricercato e che si rivolge al pubblico esterno, eventualmente interessato a candidarsi. Di fatto, la stesura del documento “ job description” non è affatto sovrapponibile a quella dell’annuncio, ma semmai è la base da cui partire per poter stilare un annuncio ben articolato. Di solito quest’ultimo si compone di  elementi che riguardano i requisiti richiesti al candidato, quali: titolo di studio, esperienze lavorative, competenze specifiche, disponibilità particolari (per es. la disponibilità ad effettuare trasferte, a lavorare oltre l’orario canonico, a lavorare nei weekend), requisiti preferenziali (per es. la conoscenza di più lingue), e l’offerta, ovvero le caratteristiche della posizione che possono rappresentare un elemento di attrattività (per es. formazione, incentivi). La fase di recruiting include l’individuazione dei canali attraverso i quali veicolare l’annuncio, la raccolta e lo screening dei curricula attività che, apparentemente, sembrerebbe piuttosto semplice, ma che in realtà richiede particolari attenzioni ed accortezze. È, infatti, necessario creare un indirizzo mail apposito e dedicato alla ricezione dei curricula relativi a quella posizione e strutturare la raccolta in comparti (per esempio cartelle con nome della posizione e sottocartelle per tipo di valutazione). L’avere sempre come riferimento il documento “ job decription” agevola queste operazioni in quanto permette di confrontare i curricula ricevuti con i requisiti richiesti (riducendo gli elementi di soggettività che possono influenzare lo screening) e di evidenziare, per comparazione, la corrispondenza fra fattori ricercati e contenuti descritti in ogni singolo curriculum. La convocazione dei candidati richiede un’organizzazione ferrea, soprattutto se si decide di utilizzare, oltre allo “strumento” colloquio, anche altri strumenti, come per esempio sessioni di prove individuali e collettive.

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GLI STRUMENTI DI RILEVAZIONE

Il colloquio è lo strumento d’elezione per espletare la fase di selezione ed ha un obiettivo preciso: quello di verificare che il candidato abbia i requisiti necessari per ricoprire la posizione ricercata, e quindi evincere le competenze, attitudini e motivazioni compatibili. Il colloquio serve inoltre ad informare il candidato, in maniera più specifica rispetto a quanto trasmesso mediante l’annuncio, riguardo alle caratteristiche dell’azienda e della posizione cercata; serve a creare una buona immagine dell’azienda rappresentata e a raccogliere informazioni utili per approfondire quanto scritto nel curriculum. Durante il colloquio, al fine di ottimizzarne i tempi e l’efficacia, è importante seguire una struttura flessibile: ad ogni domanda deve corrispondere un preciso obiettivo di rilevazione, avendo chiaro a quale informazione si intende accedere mediante quel determinato quesito. Nella mia esperienza professionale di affiancamento a giovani selezionatori alle prime armi, ho notato più volte che molte delle domande poste al candidato in sede di selezione rischiano di essere poco finalizzate e tendono a raccogliere informazioni a 360° che risultano poi difficili da decodificare e da utilizzare per effettuare una opportuna “diagnosi” del candidato. Per evitare questo, è opportuno dotarsi di una serie di protocolli di domande funzionali ad accedere alle informazioni che effettivamente servono. La rilevazione delle competenze, intese come l’insieme di conoscenze, capacità e comportamenti attivati in un contesto dato, è un passaggio chiave del processo di selezione. Le competenze, sia tecniche che trasversali, sono ciò che una persona dimostra di saper fare, intellettualmente ed operativamente, in relazione ad un obiettivo, compito o attività in un determinato contesto professionale. Le prime (quelle tecniche) consentono al soggetto di svolgere attività specifiche nell’ambito di una determinata professione, sono settoriali, specialistiche, necessarie per poter svolgere adeguatamente alcuni compiti. Le seconde (le trasversali o “soft skills”) sono invece il complesso delle abilità e qualità che caratterizzano il comportamento professionale di un soggetto e si stanno rivelando sempre più determinanti per favorire il successo professionale di persone e aziende.

Ma quali sono le “soft skills”, o “soft talents”,5 più importanti nel prossimo futuro e per il lavoro di domani? Ne sono state individuate alcune come prioritarie:6 pensiero analitico, pensiero critico, apprendimento attivo e strategie di apprendimento, capacità di risolvere problemi complessi, creatività, spirito d’iniziativa, capacità di ideazione e d’innovazione, leadership e influenza sociale, monitoraggio e controllo, progettazione e programmazione, resilienza, gestione dello stress e flessibilità. Per rilevare le competenze, in particolare quelle “trasversali”, sono necessari strumenti appositi in quanto l’improvvisazione rischia di vanificare l’efficacia del lavoro di selezione. Lo strumento del colloquio è, fra gli altri, sicuramente un ausilio prezioso in questo tipo di rilevazione, a patto che venga gestito professionalmente e consapevolmente, ovvero con le “giuste” competenze e sapendo fin dove ci si può spingere e dove ci si deve fermare nell’attività esplorativa. Un consulente del lavoro che ha seguito un percorso di formazione dedicato alla selezione del personale avrà meno rischi di incorrere in errori o problemi rispetto a chi sceglie di sperimentarsi in questa professione da autodidatta.

Oltre alle competenze è possibile valutare le attitudini, le predisposizioni a svolgere determinate attività e, quindi, le capacità “potenziali”, e le inclinazioni che, secondo diversi studi, sembrerebbero consolidarsi nel soggetto umano intorno ai vent’anni di vita. Le attitudini, per loro natura, si distinguono dalle conoscenze e dalle competenze che, invece, si possono apprendere lungo tutto l’arco della vita attraverso percorsi di studio e di formazione. La rilevazione attitudinale è preziosa in quanto è auspicabile assumere un soggetto con un buon allineamento attitudinale al profilo richiesto, sia per facilitare il suo percorso di sviluppo all’interno del contesto lavorativo a cui è destinato, sia per evitare forme di frustrazione (nel soggetto stesso, una volta inserito nella realtà lavorativa) correlate ad un eventuale disallineamento attitudinale che, difficilmente, potrà essere totalmente compensato dalla sola “buona volontà” e dai percorsi formativi di sviluppo competenze seguiti. Per rilevare le attitudini durante il colloquio, è possibile avvalersi di uno o più protocolli di rilevazione, ispirati a modelli di riferimento ormai consolidati.7

Un altro “oggetto” di rilevazione nel corso del colloquio è la cosiddetta “motivazione”,intesa come il processo dinamico espressione dei motivi che stimolano individui e gruppi ad avere determinati comportamenti. Riguarda le «buone ragioni» che spingono i soggetti ad intraprendere determinate azioni per raggiungere specifici scopi. Anche in questo caso i protocolli di domande sono utili, ma ancor più utile è la capacità di osservare, da parte del selezionatore, i meccanismi di congruenza fra linguaggio verbale e non verbale del candidato. In tal senso l’allenamento all’“ascolto attivo”, da parte di chi seleziona, è una buona pratica ai fini della comprensione dei segnali che, in sede di selezione, il candidato trasmette. Ma il colloquio individuale non è l’unico strumento efficace per fare selezione.

Altri metodi, come per esempio l’assessment center, hanno il vantaggio di poter effettuare rilevazioni che contemplano il vedere i vari candidati “in azione” ed in relazione tra di loro. L’assessment center è un intervento diagnostico di valutazione del potenziale, inteso come l’insieme delle caratteristiche che si ipotizza siano presenti in un individuo, ma che non sono ancora state espresse o comunque visibili in qualche occasione. L’assessment center serve, per esempio, per valutare le modalità di interazione, lo stile di relazione, la capacità di argomentare e di influenzare, la leadership. È opportuno che venga gestito da psicologi del lavoro (o comunque mediante una partnership fra consulente del lavoro e psicologo) che hanno competenze adeguate per effettuare correttamente sia la progettazione che la rilevazione di “come” e “cosa” si vuole rilevare. I metodi di indagine utilizzati nell’assessment sono solitamente: la dinamica di gruppo (tipicamente la discussione di un caso aziendale, o di una situazione metaforica in cui si richiede, per esempio, di prendere una decisione di gruppo condivisa); il role playing, in cui si richiede l’interpretazione di un ruolo all’interno di un determinato contesto proposto (esempio interagire con un cliente); è possibile anche utilizzare dei test psicologici che sono strumenti scientifici che permettono di misurare diversi fattori: attitudini, abilità cognitive, personalità. I test psicologici sono utili strumenti da affiancare ad altri metodi di selezione e possono essere somministrati sia in presenza che on line, sempre con l’ausilio di uno psicologo del lavoro. Certamente l’uso competente di strumenti adeguati di selezione non mette totalmente al riparo da possibili errori di valutazione. Tuttavia, la gestione professionale di tali strumenti riduce di molto le probabilità di incorrere in criticità che possono vanificare l’efficacia della selezione.

LA SCELTA DEL CANDIDATO E IL SUO INSERIMENTO

Una volta fatta la selezione vera e propria, è possibile individuare la rosa di candidati da presentare al committente attraverso alcune semplici azioni quali: comparare le caratteristiche rilevate nella fase di selezione con quelle presenti nel documento “ job description”, individuare le candidature che hanno maggiori caratteristiche simili a quelle del profilo atteso, scegliere tre candidati idonei da presentare al cliente. In questa fase, è importante organizzare una sessione di colloqui fra cliente e candidati della «rosa», facendo precedere tale colloquio da una presentazione al cliente, da parte del selezionatore, della «rosa» evidenziando le caratteristiche di ciascun candidato in maniera il più possibile oggettiva. È inoltre opportuno che il selezionatore sia presente ai colloqui fra candidato e cliente al fine di evitare ridondanze ed anche per intervenire qualora si rendessero necessarie alcune precisazioni sul percorso pregresso. Dopo i colloqui, è importante analizzare col cliente le ragioni delle sue preferenze ed insieme a lui redigere l’offerta di assunzione rivolta al candidato prescelto. Ma il processo non termina con la scelta del soggetto che verrà assunto.

Un aspetto fondamentale del successo di tutto il processo di selezione è la redazione di un piano d’inserimento. Occorre organizzare, insieme al cliente, il calendario degli affiancamenti, le attività di apprendimento specifico, la formazione di cui il neoassunto potrà fruire. Nel calendario saranno inclusi anche i colloqui di feedback volti a monitorare l’efficacia dell’inserimento stesso. Per ottimizzare tale percorso, è consigliabile proporre al cliente di individuare un tutor a cui il neoassunto potrà fare riferimento nel corso del proprio inserimento in azienda. Il tutor è la persona deputata a seguire il neoassunto al fine di garantirne la migliore integrazione nel contesto aziendale, e, in particolare, è il referente principale per il soddisfacimento dei bisogni di orientamento del neoassunto, fa in modo che il calendario di affiancamenti e formazione venga rispettato, si accerta che il neoassunto possa in breve tempo essere pronto ad assumere in autonomia il ruolo che gli è stato affidato.

CONCLUSIONI

Da quanto esposto, si evince che il processo di selezione del personale è un’attività dinamica che richiede sicuramente competenze specifiche, ma che racchiude anche aspetti valoriali di non poco conto: collocare con successo un soggetto in un contesto dove può sentirsi a proprio agio, apprendere, crescere professionalmente e fornire una buona prestazione a vantaggio proprio e dell’azienda, rappresenta un’azione di grande utilità sociale in un contesto, come il nostro, che necessità più che mai di aziende orientate al cliente, efficaci ed efficienti nel dare prodotti e servizi “ad hoc”, dove l’apporto responsabile e competente della risorsa umana fa sempre più la differenza.

 

1. Carl Benedikt Frey – Michael A. Osborne (2013)- The future of employment: how
susceptible are jobs to computerisation?
https://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/downloads/academic/The_Future_of_Employment.pdf
2. Maarten Goos, Alan Manning, and Anna Salomons (2014)- Explaining Job Polarization:
Routine-Biased Technological Change and Offshoring https://eprints.lse.ac.uk/59698/1/
Manning_Explaining%20job_2016.pdf
3. Ronald Bachmann, Merve Cim, Colin Green (2018) Long-run Patterns of Labour Market Polarisation: Evidence from German Micro Data https://www.econstor.eu/bitstream/10419/179037/1/102345565X.pdf

4. Protocollo D’Intesa 2009 Consulenti del Lavoro e Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi https://www.psy.it/wp-content/uploads/2015/04/conv_consulenti.pdf

5. Eric Frazer-(2019) The Psychology Of Top Talent- Paperback.

6. Autori Vari The Future of Jobs Report 2020 https://
www.aranagenzia.it/attachments/article/11211/WEF_Future_of_Jobs_2020.pdf.
7. Roberto Vaccani (2022) Professionalità, attitudini e carriera. Scegliere e sapersi scegliere- Lumi Edizioni Universitarie.
8. Falko Rheinberg (2006) Valutare la motivazione. Stru

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HR&Organizzazione – LAUTOEFFICACIA E LEADERSHIP definiscono il benessere lavorativo*

Fernanda Siboni, Psicologa del lavoro – Consulenza Organizzativa, dello Sviluppo, Risorse Umane e della Formazione – Coach, Counselor e Trainer

 

La capacità generativa di orientare le singole abilità cognitive, sociali ed emozionali in maniera efficiente influenza la qualità della prestazione professionale. I risultati positivi determinano una solida fiducia nella propria efficacia personale.

Ultimamente si sente molto parlare di Great resignation, ovvero di quel fenomeno che fa riferimento al fatto che un numero crescente di persone decide di lasciare volontariamente il posto di lavoro1. Uno studio, commissionato da IBM Institute for business value2, che ha coinvolto 14mila lavoratori di tutto il mondo, ha evidenziato che le principali ragioni che portano le persone a dare le dimissioni sono, in sintesi: la ricerca di contesti in grado di garantire il rispetto dei valori individuali; la qualità delle relazioni; la ricerca di uno stato di benessere lavorativo (fattore motivazionale imprescindibile, in grado di condizionare marcatamente la qualità della performance).

Ma quali sono i fattori che realmente influenzano quest’ultimo aspetto? Quali sono le convinzioni e le credenze che condizionano la percezione di tale benessere da parte di professionisti e manager che operano nelle moderne organizzazioni? In che modo tali convinzioni influiscono sulla performance?

IL BENESSERE LAVORATIVO È INFLUENZATO DALLA PERCEZIONE DI AUTOEFFICACIA

Dal modellamento di professionisti eccellenti nel loro settore, effettuato da chi scrive, è emerso che uno degli elementi significativi che influenzano lo stato di benessere lavorativo è la percezione di autoefficacia3. Si tratta di una capacità generativa che ha lo scopo di orientare le singole sotto-abilità cognitive, sociali, emozionali e comportamentali in maniera efficiente per assolvere a scopi specifici. Il livello di autostima e la percezione di autoefficacia sono due elementi fondamentali nell’influenzare la qualità della prestazione professionale, ma si tratta di due concetti che, seppur correlati, vanno distinti. Il senso di autoefficacia riguarda l’auto-percezione relativa alle capacità personali di un soggetto, mentre l’autostima si riferisce, piuttosto, all’auto-percezione del valore personale. Una persona può giudicarsi irrimediabilmente inefficace in una data attività senza per questo perdere l’autostima, se non investe tale attività del senso del proprio valore personale. Viceversa, ci si può sentire molto efficaci in una data attività senza per questo gloriarsi delle proprie prestazioni4. Per mobilitare e mantenere l’impegno necessario a riuscire occorre un saldo senso di autoefficacia, inteso come fiducia nelle proprie capacità di organizzare e mettere in atto azioni finalizzate a raggiungere un obiettivo prefissato. L’autoefficacia ha a che fare con le convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati. Non si tratta di una generica fiducia in se stessi, ma della convinzione di poter affrontare efficacemente determinate prove, di essere all’altezza degli eventi, in grado di cimentarsi in alcune attività o di affrontare specifici compiti. L’autoefficacia non è, dunque, una misura delle competenze possedute, ma è la credenza che la persona ha in ciò che è in grado di fare in diverse situazioni con le capacità che possiede. I professionisti che hanno un elevato senso di autoefficacia affrontano i compiti difficili come sfide da vincere, si pongono obiettivi ambiziosi e si impegnano nel loro raggiungimento; di fronte alle difficoltà intensificano il loro apporto e lo mantengono costante nel tempo; superano con determinazione gli eventuali insuccessi e affrontano le situazioni critiche con la convinzione di poter esercitare un controllo su di esse. I professionisti eccellenti scelgono obiettivi sfidanti, in quanto nutrono un’elevata stima relativamente alle loro capacità: quanto è maggiore l’autoefficacia percepita tanto più elevati sono gli obiettivi che essi si pongono e tanto maggiore è l’impegno che dedicano al loro ottenimento. L’insuccesso rappresenta l’occasione per raccogliere maggiori informazioni da utilizzare come riferimento per evitare errori futuri e le capacità sono fattori migliorabili attraverso l’esperienza e l’apprendimento; una prestazione carente fornisce l’opportunità per analizzare cosa è andato storto, per porvi rimedio in future occasioni in una logica di miglioramento continuo (kaizen)5. Le prestazioni carenti sono elaborate cognitivamente non come difetti personali, ma come eventi circostanziati, fonti di informazioni preziose e istruttive per rafforzare le competenze professionali spendibili nel prossimo futuro.

L’UMORE E L’AUTOEFFICACIA SI INFLUENZANO RECIPROCAMENTE

Tale modalità di elaborazione delle informazioni, volta a valorizzare le valenze delle esperienze di insuccesso, ha una funzione anche rispetto alla convinzione di influenzare e controllare l’ambiente circostante. Il professionista di successo crede di poter modificare le situazioni, ritiene di poter dare il proprio fattivo contributo per cambiare il punto di vista altrui e per influenzarlo, si ritiene in grado di saper guidare l’altro verso una prospettiva diversa da cui guardare una stessa cosa. Tale convinzione è di sostegno nell’attivazione delle proprie azioni volte a produrre risultati. Le convinzioni sull’autoefficacia determinano l’entità degli obiettivi definiti, la quantità di impegno da investire, il livello di perseveranza da attivare di fronte alle difficoltà e l’entità delle capacità di recupero in seguito agli eventuali insuccessi. I professionisti abili, di fronte alle situazioni difficili, intensificano i loro sforzi e persistono fino a quando non riescono a ottenere quanto si erano prefissati. Solitamente, la tenacia e la perseveranza ripagano gli sforzi fatti con il miglioramento della prestazione e un conseguente innalzamento della percezione della propria autoefficacia.

Le convinzioni di efficacia influenzano anche la vigilanza verso i potenziali ostacoli che si possono incontrare nel percorso verso l’obiettivo e la percezione del loro possibile controllo o superamento: i possibili pericoli sono considerati come affrontabili, contattando le risorse personali, ridimensionando l’entità stessa delle criticità e attivando un pensiero orientato alla soluzione in maniera tale che ciò che d’acchito sembra impossibile diventa, di fatto, possibile. Pertanto, quanto più forte è il senso di efficacia, tanto più il soggetto è vigoroso nell’affrontare situazioni problematiche stressanti e tanto maggiore è il suo successo nel modificarle.

Un altro aspetto interessante è che l’umore e l’autoefficacia si influenzano reciprocamente: un elevato senso della seconda, circa la capacità di procurarsi ciò che nel lavoro conduce alla soddisfazione di sé, e alla sensazione di valore personale, dà luogo a un positivo senso di attivazione, a un umore gradevole che, a sua volta, incrementa la fiducia nella propria efficacia personale, in un circolo virtuoso che porta a un vigore sempre maggiore. Generalizzando, le convinzioni di efficacia personale sembrano plasmare il corso che la vita professionale assume anche determinando il tipo di attività che si intraprende e i contesti ambientali a cui si sceglie di accedere. In questo processo ognuno modella il proprio destino, scegliendo il tipo di ambiente che ritiene adatto a coltivare certe potenzialità e determinati stili di vita. Le persone di successo sembrerebbero evitare le attività e gli ambienti che considerano al di là delle proprie capacità di gestione e, invece, preferiscono lavori stimolanti e contesti ritenuti alla propria portata. Attraverso le scelte che compiono, le persone coltivano diversi tipi di competenze, interessi e relazioni sociali che determinano il loro corso professionale.

L’EFFICACIA DI UN’AZIONE DIPENDE DALLA FIDUCIA NELLE PROPRIE CAPACITÀ

Per incrementare l’autoefficacia è di fondamentale importanza considerare l’origine delle convinzioni che le persone hanno relativamente alla propria efficacia. Una prima fonte di tale origine è rappresentata dalle esperienze affrontate con successo, impiegando le risorse proprie, in quanto i risultati positivi determinano una solida fiducia nella propria efficacia personale e, anche in presenza di sporadici insuccessi, la persona attribuirà la prestazione scadente all’uso di una strategia sbagliata in una situazione specifica, il che concorrerà a incrementare la fiducia nel fatto che strategie migliori potranno aumentare la probabilità di ottenere successi futuri. Una seconda fonte è rappresentata dallo stile esplicativo, ovvero dal modo in cui abitualmente ogni individuo spiega a se stesso perché accadono gli eventi. Secondo lo psicologo Martin Seligman6, una persona con stile esplicativo ottimistico spiega gli eventi negativi con cause esterne, variabili e accidentali, mentre individua negli eventi positivi cause interne, generalizzate e stabili. In risposta a un’esperienza negativa, un pessimista, invece, è incline a costruire attribuzioni interne, generalizzate e stabili, mentre crea attribuzioni esterne, variabili e accidentali per eventi positivi. Una terza fonte è rappresentata dalla capacità di osservare altre persone che riescono a compiere un’azione o a svolgere un compito con successo e al ritenere utile per sé tale tipo di osservazione. Questo porta a incrementare la propria autoefficacia, poiché permette di ritenere di possedere le abilità necessarie per poter riprodurre e fare quanto osservato. Vedere persone simili a sé che raggiungono i loro obiettivi, grazie all’impegno e all’azione personale, incrementa in chi osserva la convinzione di possedere le capacità necessarie a riuscire in situazioni analoghe.

Una quarta fonte riguarda l’incoraggiamento ricevuto da altri per tentare un compito ed essere convinti di possedere le abilità necessarie per eseguirlo. Per esempio, l’incoraggiamento di un responsabile di cui si ha stima serve per avere lo slancio necessario nei momenti di titubanza o indecisione. Naturalmente, il compito deve avere un margine di rischio di insuccesso circoscritto e chi incoraggia deve essere percepito come persona meritevole di fiducia. Anche l’auto-persuasione può rappresentare un’ottima fonte: ci si può autosostenere ricordando a se stessi episodi precedenti di riuscita e successo. L’osservazione del proprio stato fisiologico (tensione, dolore, tremore) può essere utile per rafforzare l’autoefficacia in quanto tali segnali, se considerati come manifestazione di uno stato di attivazione, possono essere accolti e gestiti. Di solito chi ha un buon senso di efficacia considera questi indizi come fattori che mostrano la presenza di energia che può essere opportunamente canalizzata per facilitare l’azione. La stessa cosa vale per quanto riguarda la percezione dello stato emotivo: uno stato d’animo positivo aumenta il senso di autoefficacia.

Un’altra fonte importante è rappresentata dall’opportuno uso dell’immaginazione quale campo di sperimentazione di situazioni possibili o reali: l’usare fantasie positive predispone e supporta lo stato emotivo con il quale affrontare un percorso per raggiungere l’obiettivo. In sintesi, per compiere un’azione che risulti efficace è necessario volerlo, ma soprattutto credere nelle proprie capacità e crearsi una sorta di “rappresentazione mentale” dello scenario possibile. Agire su tali aspetti, mediante il richiamo di episodi di riuscita durante le sessioni di apprendimento, il rinforzo delle stesse nelle situazioni gestionali, la gratificazione delle prestazioni efficaci con premiazioni e incentivi durante i meeting, può contribuire a instillare e riprodurre tali “condizioni per l’eccellenza” in coloro che aspirano al successo e alla realizzazione professionale nel loro settore di attività.

VALORIZZARE E GESTIRE LE PERSONE PER ESSERE LEADER

Oltre a quello dei professionisti eccellenti, un altro caso è rappresentato dal modellamento, da parte di chi scrive, di un campione di manager (gestori di risorse umane in ambito commerciale) che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nel gestire le proprie risorse. La ricerca è stata fatta utilizzando come riferimento il modello dei livelli logici di Dilts (piramide di Dilts)7. Tale modello è un adattamento del lavoro svolto dall’antropologo Gregory Bateson e descrive una gerarchia di livelli di processo all’interno di un individuo, gruppo o organizzazione. L’applicazione del modello dei livelli logici agli intervistati ha, in sintesi, messo in luce i seguenti aspetti:

  • convinzioni: faccio il manager perché, dopo essermi affermato come specialista nel mio settore, ho creduto che valesse la pena mettermi alla prova come sviluppatore di risorse umane;
  • valori: credo nelle potenzialità delle persone e per me è importante vedere che i collaboratori mi seguono e crescano professionalmente;
  • identità: sono un punto di riferimento per gli altri;
  • mission: voglio lasciare una traccia, essere ricordato come un leader Nel caso dei manager emergono con evidenza aspetti legati alla voglia di assumere una nuova sfida che ha a che fare con l’intento di “contagiare” positivamente altri, di rappresentare qualche cosa di importante per i professionisti, di essere riconosciuto come leader. In questo caso i comportamenti e le capacità sono facilmente modellabili in quanto basta che si riproducano i fattori descritti nel corso della predetta osservazione. I quattro livelli apicali della piramide hanno una marcata relazione con il tema della leadership e sono fortemente correlati con il ’saper essere’ oltre che con il “saper fare” .

Non vorrei qui addentrarmi nell’annoso tema secondo il quale leader si nasce o si diventa8, piuttosto è utile considerare che essere capi significa “creare un mondo al quale le persone desiderino appartenere”9. Ciò è facilmente desumibile da quanto finora descritto, ovvero l’aspirazione e il desiderio di poter far parte di una realtà che non solo soddisfa il bisogno di guadagnare, ma che potenzialmente è in grado di appagare anche la necessità di riconoscimento professionale e sociale, che va ben oltre il tema economico.

Il responsabile capace di sviluppare business diventa leader riconosciuto solo quando sa anche valorizzare le persone che guida, le addestra, le fa crescere, le supporta e ne sviluppa le potenzialità, essendo in prima persona esempio di quanto richiede ai collaboratori. È chi sa creare un contesto in cui le persone del proprio team vivono una dimensione di benessere a 360 gradi.

Per potere fare questo può essere necessario agire sulle proprie e altrui convinzioni10: il comportamento di ognuno di noi è enormemente influenzato e mobilitato da quelle che sono le nostre più ferree certezze. Per ottenere un cambiamento efficace e duraturo delle convinzioni che ostacolano il raggiungimento di uno stato di benessere organizzativo, la Programmazione neurolinguistica (Pnl) suggerisce diverse tecniche che si sono dimostrate efficaci (cui si rimanda)11. Cambiare questo stato circa le proprie capacità e il proprio potenziale ha permesso a molti professionisti di raggiungere traguardi talvolta inimmaginabili, sul piano sia dell’efficacia sia della realizzazione personale; tale mutamento è stato possibile anche grazie alle dimostrazioni di fiducia espresse dai responsabili e allo stile di gestione adottato dai manager più lungimiranti, che hanno saputo trasmettere valori forti nei quali credere e potersi riconoscere.

 

* Pubblicato su Mit Sloan Management Review Italia, Autunno 2022, Anno1, numero 3, pag. 50 ss.

1. De Smet A., Dowling B., Mugayar Baldocchi M., Schaninger B. (2021), “Great attrition” or “great attraction”? The choice is yours, https://www.mckinsey.com/business-functions/people-andorganizational-perfor- mance/our-insights/great-attrition-or-great-attraction-the-choice-is-yours.
2. IBM (2021), Nel 2021 cambiere-mo lavoro e ci dedicheremo ad accrescere le nostre competenze, https://it.newsroom.ibm.com/Study2021SkillsGrowth.
3. Bandura A. (2000), Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Erickson.
4. Sasso S. (2010), Mal di scuola, Anicia.

5. Vanbremeersch C. (2020), Kaizen. La filosofia giapponese del grande cambiamento a piccoli passi, Giunti.

6. Seligman M. E. P. (2015), Imparare l’ottimismo. Come cambiare la vita cambiando il pensiero, Giunti.

7. Dilts R. (2018), Changing be- lief systems with Nlp, Dilts Sra- tegy Group.
8. Cognonato E. (2016), Leader si nasce e si diventa, Il Campo.
9. Dilts R. (1998), Leadership e visione creativa, Guerini &Associati.
10. Dilts R., Halbomm T., Smith S. (1988), Convinzioni, Astrolabio.
11. James R. (2015), Pnl. 10 tecniche essenziali, Area 51 Publishing.

 

 

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HR&Organizzazione – LE CONSEGUENZE DELLA GREAT RESIGNATION: il recesso dei talenti e le nuove skill a sostegno della biodiversità umana

Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Pavia, Esperta in materia  di sicurezza sul lavoro, Presidente Ancl UP Pavia

 

Nello scorso appuntamento abbiamo parlato di come il mondo del lavoro stia cambiando, ragionando nello specifico dei nuovi fenomeni che si stanno manifestando sempre di più anche nel nostro paese: dalla great resignation o dimissioni di massa, al quiet quitting e al job creep.

Ma che cosa ci dobbiamo aspettare dal nuovo anno dopo il fenomeno delle “Grandi dimissioni”?

Il 2023 sembrerebbe favorire quella che si può definire una vera e propria “Recessione dei Talenti”.

Le nuove esigenze di mercato (e anche lavorative) porteranno quasi sicuramente anche altri mutamenti: sarà opportuno non farsi trovare impreparati.

LA RECESSIONE DEI TALENTI: UN RISCHIO REALE?

Nei periodi di crisi, sia nel periodo pandemico che abbiamo affrontato recentemente, sia in quelli futuri a cui ci stiamo affacciando, caratterizzati dagli aumenti dei costi sostenuti per il consumo dell’energia e per l’acquisto di prodotti a vario titolo, le aziende tendono a reagire riducendo gli investimenti: meno assunzioni o nel peggiore dei casi licenziamenti individuali o collettivi; questo nel tentativo di mantenere un equilibrio che permetta loro di affrontare situazioni di crisi. Ovviamente ipotizzare che ricorrere ai licenziamenti di massa sia una soluzione praticabile per sfidare le difficoltà non è corretto: molte imprese per contenere le perdite hanno maggior interesse a mantenere in forza i cosiddetti talenti. Parimenti un lavoratore competente che decide di abbandonare il proprio impiego reca un danno non solo in termini di costo, ma anche in termini di tempo: la ricerca per individuare un sostituito che sia altrettanto talentuoso non è infatti immediata. Dopo le grandi dimissioni, stiamo oggi assistendo ad una vera e propria “recessione dei talenti”: i lavoratori decidono di andarsene ed è difficile trovare qualcuno con le stesse competenze che li sostituisca, portando così i datori di lavoro a investire maggiore liquidità nelle attività di ricerca e selezione di nuovo personale qualificato.

È innegabile che avere, coltivare e mantenere i talenti in azienda rappresenti un elemento determinante per aumentare il livello di produttività e fondamentale per il successo aziendale.

QUALI SOLUZIONI PER PREVENIRE IL RECESSO DEI TALENTI?

Le stime della Federal Reserve prevedono che in Italia il tasso di disoccupazione salirà al 4,4% nel 2023, rispetto al 3,7% dell’ottobre 2022. Inoltre nella prima metà del 2023, secondo le proiezioni sul mercato del lavoro effettuate dal Conference Board, potrebbero essere persi circa 900.000 posti di lavoro, con la conseguente diminuzione della partecipazione generale alla forza lavoro. Le imprese che hanno l’esigenza di mantenere in forza i propri talenti contrasteranno il  fenomeno della recessione registrando un impegno nel migliorare l’esperienza lavorativa: l’introduzione di maggiori benefit ai propri dipendenti avrà un impatto positivo sul benessere e sulla qualità di vita delle persone; di conseguenza i lavoratori saranno più motivati nel prendersi cura della propria salute, delle proprie risorse e del loro percorso lavorativo.

Sarà necessario pertanto un cambio di mentalità ancora più importante rispetto a quello di questi ultimi due anni: infatti dallo studio svolto da Forrester Research, Future Of Work Survey 2022, è emerso che:

  • quattro aziende su dieci che hanno adottato il lavoro agile hanno affermato di essere interessate ad abbandonare tali modalità di lavoro, per favorire il lavoro in sede;

d’altro canto invece

  • il 68% dei dipendenti tra quelli con possibilità di lavorare in modalità agile, afferma di voler ricorrere allo smart working più spesso rispetto al periodo precedente la pandemia.

Dalla raccolta dei dati di tale ricerca, il report proposto indica che nel 2023:

  • le aziende più in difficoltà saranno quelle che non ascolteranno né collaboreranno con i propri dipendenti nel definire nuove politiche di lavoro agile;
  • la metà dei datori di lavoro che decideranno di imporre il ritorno in ufficio negando ai dipendenti la possibilità di scegliere il lavoro da remoto andrà incontro al fallimento.

In sostanza, i lavoratori non vogliono rinunciare al lavoro agile, nemmeno nei casi in cui i datori di lavoro incentivino il ritorno in azienda.

Per non farsi trovare impreparati appare quindi opportuno investire:

  • nella tecnologia;
  • nella riorganizzazione degli uffici;
  • nella sostenibilità;
  • nel lavoro ibrido e da remoto ma soprattutto in un cambio radicale di mentalità e approccio al lavoro.

DA COSA SONO ATTRATTI OGGI I LAVORATORI?

Tutte le ricerche effettuate concordano nel fatto che nel 2023 i lavoratori presteranno molta più attenzione alla flessibilità che il lavoro offre e, di fatto, la flessibilità sarà una condizione imprescindibile per lo svolgimento della propria attività.

Il rapporto 2022 Global Talent Trends di LinkedIn ha segnalato che il miglioramento delle competenze per il tramite delle occasioni di crescita in azienda è tra le maggiori priorità per i lavoratori di oggi; tale priorità è seconda solo alla retribuzione e al work life balance, ovvero l’equilibrio tra lavoro e vita privata e la flessibilità.

Inoltre 2 lavoratori su 3 hanno dichiarato che potrebbero abbandonare il loro attuale lavoro se non presenterà abbastanza opportunità per lo sviluppo delle proprie competenze o l’avanzamento di carriera.

Conoscere queste ambizioni rappresenta per le imprese l’opportunità di poter conservare e incentivare la forza lavoro attuale, oltre ad avere tutti i know how necessari per attirare nuovi talenti.

La consapevolezza di doversi allineare con un mondo del lavoro sempre più digitalizzato comporta il riconoscimento ai lavoratori di avvalersi del lavoro agile, ma non solo: sviluppa un senso critico e di analisi che permette di rendere il lavoro agile performante ed efficace. Secondo una recente ricerca svolta da Airspeed infatti almeno 1 lavoratore remoto su 3 si sente solo, disconnesso o isolato, nonostante il desiderio di svolgere parte della propria attività da remoto; la maggior parte dei soggetti intervistati ritiene che i propri colleghi non si preoccupino per loro e la problematica è talmente rilevante da portare 2 dirigenti su 3 a ritenere che i propri dipendenti potrebbero dimettersi, auspicando ad una realtà lavorativa maggiormente aggregante. Maturare la consapevolezza, insieme all’investimento in nuove tecnologie, può far sì che il proprio ambiente di lavoro diventi maggiormente attrattivo e attento alle modalità di lavoro tipiche dell’era digitale: indipendentemente dalle dimensioni aziendali, tutti i datori di lavoro dovranno adattarsi alle nuove tecnologie per soddisfare le future aspettative dei dipendenti. Il rischio collegato alla possibile recessione dei talenti rende necessario un cambiamento significativo per ricalibrare il modello operativo a cui siamo abituati, così da soddisfare le nuove aspettative dei lavoratori.

Non solo lavoro agile, ma anche lavoro sostenibile: i lavoratori stanno diventando sempre più attenti al modo in cui consumiamo, produciamo i prodotti e sviluppiamo i servizi. Su questo tema, il “Cone Communications Millennial Employee Engagement Study” già nel 2016 aveva evidenziato come il 64% dei lavoratori appartenenti alla generazione dei millennials (50% della forza lavoro negli Stati Uniti) prendesse seriamente in considerazione gli impegni sociali e ambientali di un’azienda prima di stipulare un contratto di lavoro con quest’ultima. In generale, lo studio sottolineava come le nuove generazioni siano decisamente più sensibili a pratiche di corporate social responsibility e agli impatti generati dall’attività di un’azienda e questo trend è in costante aumento, anche in Italia.

Perché la flessibilità ed il work life balance assumono un valore sempre maggiore? Per effetto di quello che è conosciuto come paradosso della felicità, attraverso cui le scelte dei lavoratori risultano essere il frutto del grado di benessere raggiunto dalla società: maggiore è la ricchezza, minore è la felicità collegata al reddito percepito; questo implica che con l’aumentare della ricchezza procapite i premi in denaro verranno sostituiti nella preferenza di flessibilità e misure di wellbeing. A dimostrarlo è Richard Easterlin nel 1974, secondo cui nel corso della vita la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e ricchezza.

Clicca qui per la rappresentazione grafica del paradosso di Easterlin.

 

COSA DESIDERA INVECE UN DATORE DI LAVORO? DALLE SOFT ALLE POWER SKILLS

Se da un lato i lavoratori richiedono più flessibilità e sostenibilità, dall’altro quali sono le competenze che ad oggi desiderano i datori di lavoro?

La pandemia ha spinto le aziende di tutto il mondo ad accelerare il ritmo di automazione e trasformazione digitale e, di conseguenza, a rivedere le competenze trasversali (soft skills). Per “soft skills”, si intendono tutte quelle competenze ed abilità di carattere generale che rientrano nella sfera personale e non tecnica, e riguardano ad esempio l’intelligenza emotiva, le aspirazioni e la gestione di situazioni complesse private e lavorative. Si tratta di abilità e conoscenze acquisite con l’esperienza ed il vissuto, che normalmente non fanno parte delle competenze sviluppate durante i classici percorsi di apprendimento. Si tratta di quelle capacità che riguardano il saper stare con gli altri, saperli motivare, sapersi spiegare, saper risolvere situazioni complesse, saper prendere decisioni anche in assenza di informazioni, essere creativi, avere autoconsapevolezza e via dicendo.

Secondo una recente ricerca svolta da IBM, le soft skill sono le competenze che tutti i CEO apprezzano e cercano disperatamente nelle personale.

Le competenze umane sono utilissime soprattutto quando si ha direttamente a che fare con la quotidianità sempre più imprevedibile e cangiante che caratterizza il mondo contemporaneo.

Le cosiddette “professioni senza routine” si sono sviluppate e hanno preso maggiormente

piede negli ultimi anni. Secondo una ricerca del National Bureau of Economic Research di Cambridge, tra il 1976 e il 2014 questa tipologia di professioni ha avuto un tasso di crescita 25 volte più alto rispetto a quello delle professioni routinarie.

La maggior parte di noi, oggi, è di fatto impiegato proprio in professioni senza routine: le job description cambiano spesso e, ancora più frequentemente, cambia il perimetro di azione delle attività: bisogna continuamente sapersi adattare e saper collaborare con gli altri anche in condizioni di estrema incertezza e complessità. E’ necessario saper selezionare ciò che è importante e saper leggere tra le righe, ma per fortuna queste capacità sono accessibili a tutti, perché sono parte delle attitudini naturali degli esseri umani. L’esperto di risorse umane John Bersin rinomina le competenze soft definendole “power skill”.

Nella sua lista di venti power skill si possono trovare termini come la gioia (capacità tutta da esplorare: magari in italiano la tradurremmo con il termine entusiasmo), la generosità, la gentilezza, la pazienza, la tenacia… più che competenze sembrano virtù. Ma trovano spazio anche l’etica, la capacità di sorprendersi e di perdonare, l’umiltà, l’integrità, l’ottimismo: attitudini e valori che evidentemente si trasformano in saper fare.

E infine, per tornare in un’area vagamente più familiare, vi sono sia il “drive” che la capacità di seguire gli altri, la gestione del tempo, la capacità di apprendere, la flessibilità e il teamwork. Il fatto è che queste capacità non si insegnano né a scuola né all’università, per questo motivo è importante investire sullo sviluppo di nuovi modi per misurare e migliorare tali competenze.

 

 

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HR&Organizzazione – L’ECONOMIA dell’attenzione

Andrea Merati, Consulente sistemi di gestione aziendale

Tutto ebbe inizio il primo settembre 1969, quando l’economista, nonché professore, Herbert Simon parlò di “Progettare organizzazioni per un mondo ricco di informazioni”; l’evento, una conferenza universitaria, rimase casualmente compreso tra il Festival di Woodstock, a metà agosto, e la morte di Jack Kerouac, a fine ottobre: si concludono gli anni Settanta, inizia a spegnersi la rivoluzione giovane e si accende il congegno dell’innovazione tecnologica digitale. Il professor Simon, per farsi comprendere, raccontò una storiella (il termine cool sarebbe storytelling, ma non riesco): «La Pasqua scorsa i miei vicini hanno comprato per la loro figlia un paio di conigli. Non so se intenzionalmente o per sbaglio, fatto sta che uno era maschio e l’altra femmina, e così ora viviamo in un mondo ricco di conigli. Che un mondo sia ricco o povero di conigli è una questione relativa. Ma poiché il cibo è essenziale per le popolazioni biologiche, potremmo giudicare se il mondo è povero o ricco di conigli, mettendo a confronto il numero di conigli con la quantità di lattuga ed erba a loro disposizione. Un mondo ricco di conigli è un mondo povero di lattuga e viceversa». Più avanti, nel discorso, aggiunge: «In una società ricca d’informazione deve dunque mancare qualcosa: questo qualcosa è l’attenzione».

Abbiamo a disposizione una gran quantità di ricerche (gli scettici possono riversarsi sull’internet a cercare i lavori di Hayles o di Seaver) sulle moderne capacità di lettura: in digitale è molto più difficile mantenere lo stesso livello di comprensione, empatia e ricordo rispetto alla lettura su carta; inoltre, dopo oltre cinquant’anni, si conferma il pensiero del professor Simon: abbiamo una enorme ricchezza di informazioni ma, contestualmente, siamo sempre più affetti da un deficit di attenzione. Tra il 2017 e il 2021 si è prodotta una quantità di dati che ha superato quella generata nell’intera precedente storia umana, tanto che si comincia a parlare di non sapere più dove metter la roba (gli armadi digitali occupano spazio ma, al contrario dei nostri guardaroba, hanno anche il problema di consumare un sacco di energia). Da quando gran parte delle nostre vite (quella privata e quella lavorativa) hanno preso casa on line, la nostra capacità di concentrazione ha iniziato a scemare: complessivamente per circa il 40%, con picchi nei giovani (64%) e nella mezza età (57%), le motivazioni di tale fenomeno pare siano ascrivibili alla dipendenza da smartphone, alla bulimia da social network e all’uso compulsivo, assurdo e violento della posta elettronica (in questo caso, agnostici e dubbiosi possono scatenare il Google su Fletcher – non è la signora in giallo -, Demeneix o CMU of Pittsburgh; gli aggettivi, invece, sono colpa mia).

Tutto questo ci racconta che abbiamo un problema di comunicazione efficace, che è molto probabile che il nostro messaggio non venga assimilato e che risulti anche poco assorbito, per non parlare di quanto possa esser capito. Perdite di tempo enormi e costose, tanto che hanno pure un nome: switch cost, il costo dello spostamento dell’attenzione, quando si guardano le notifiche o si leggono messaggi e poi si deve tornare al lavoro iniziale. Tornando al nostro professore, egli ci ricorda che per elaborare le informazioni è necessario distribuire la nostra attenzione attraverso quattro classi di attività: ascolto, conservazione, pensiero e parola; da qui si evince che una organizzazione deve tendere ad assorbire
meno quantità possibile di attenzione, assumendo più informazioni di quante ne produce; quindi, funziona se ascolta e pensa più di quanto parli.
Dobbiamo rivedere la progettazione e le modalità dei nostri sistemi informativi, legando il tutto a una cultura nuova della comunicazione, tecnologica e no, verso l’esterno ma, soprattutto, all’interno del nostro spazio professionale. Ci torneremo, nel mentre possiamo considerare che Herbert Simon ha vinto il Turing nel 1975, il Nobel per l’economia nel 1978 e, nel 1993, ha ottenuto il riconoscimento per gli straordinari contributi dati alla psicologia, dall’American Psychological Association; potremmo anche disapprovare le sue conclusioni, osservando orgogliosamente sui ripiani della nostra libreria, la medaglia d’oro della Marciallegra vinta alle medie e il diploma di merito conquistato al circolo degli scacchi, ma rischiamo di perderci in un labirinto di informazioni inutili, che distolgono l’attenzione da ciò che ci serve davvero.

 

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HR&Organizzazione – PECUNIA NON OLET, MA LA PAGA NON BASTA A CONTRASTARE LA GREAT RESIGNATION DAL MONDO DEL LAVORO Dal quiet quitting al job creep, l’analisi delle dimissioni di massa e dello stato di salute del mercato del lavoro

Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Pavia, Esperta in materia  di sicurezza sul lavoro, Presidente Ancl UP Pavia

 

In più occasioni ci siamo domandati come la pandemia avrebbe modificato il nostro modo di lavorare, i rapporti interpersonali e più in generale il vivere quotidiano. Se da un lato siamo consapevoli che ad oggi non si è ancora sedimentata una nuova quotidianità, d’altro canto abbiamo percezione e certezza che stiamo assistendo ad una vera e propria rivoluzione del mondo del lavoro. Questo non solo da un punto di vista operativo, dato che da ormai due anni a questa parte imprenditori e professionisti hanno dovuto avviare una significativa riorganizzazione del lavoro, ma in maniera importante anche sotto l’aspetto psicologico dell’approccio all’attività lavorativa.

È indubbio che i due fenomeni hanno una stretta correlazione: lo smart working, che ha caratterizzato gran parte della riorganizzazione dell’attività lavorativa, ha portato ad una lenta e costante evoluzione dell’approccio dei lavoratori alla propria attività.

Molti sono i lavoratori che hanno scoperto e apprezzato questo nuovo modo di lavorare: la possibilità di gestire il tempo, la riduzione dei costi di viaggio per raggiungere il luogo di svolgimento dell’attività lavorativa, o già soltanto non dover affrontare la difficoltà di trovare parcheggio, hanno reso fortemente appetibile questo nuovo strumento organizzativo. Tuttavia, come spesso accade, la “medaglia” dello smart working presenta una seconda faccia, oggettivamente negativa, che passa dalla sensazione di isolamento, al senso di inadeguatezza, alla progressiva perdita di senso di appartenenza all’identità aziendale.

Tutti questi aspetti negativi, trascurati -a volte per oggettiva impossibilità e impreparazione- per un lungo periodo, hanno dato origine ad alcuni fenomeni che si stanno manifestando sempre più insistentemente in tutto il mondo, anche nel nostro paese, ed in maniera diffusa anche nelle realtà di medie e piccole dimensioni.

GREAT RESIGNATION O DIMISSIONI DI MASSA

Uno dei fenomeni di cui tristemente si parla da diversi mesi a questa parte è quello delle dimissioni di massa, che negli Stati Uniti viene chiamato Great Resignation e che tra aprile e settembre 2021 ha portato ben 19 milioni di americani a lasciare il lavoro, con un picco di 4,5 milioni di dimissioni nel solo mese di novembre 2021, un vero e proprio record storico. Analisti e imprenditori studiano da oltre un anno il fenomeno tentando di individuarne le ragioni, che parrebbero non essere correlate alla precarietà del mondo del lavoro: attualmente, infatti, negli Stati Uniti il mercato del lavoro è molto dinamico, almeno dal punto di vista delle richieste da parte imprenditoriale, cui però fa da contraltare una limitata offerta di disponibilità da parte della forza lavoro. Uno degli aspetti di maggior rilievo del fenomeno sembra essere correlabile alla tipologia di lavoro svolto, collegata all’età della persona: la maggior parte delle fughe dal lavoro è avvenuta da lavoratori con mansioni impiegatizie, compresi in una fascia di età tra i 30 e i 45 anni, caratterizzata da una maggior appetibilità sul mercato del lavoro rispetto a chi ha maturato minore esperienza. La consapevolezza di un mercato del lavoro dinamico ed il fabbisogno di risorse formate e competenti, ha dunque incentivato i lavoratori a cercare nuove condizioni di lavoro, maggiormente confacenti alle proprie esigenze personali e familiari.

Un’altra ipotesi di spiegazione del fenomeno è strettamente collegata al periodo pandemico: in base alle statistiche nel periodo di lockdown i lavoratori hanno subito un notevole aumento della mole di lavoro, specie in alcuni settori, quale la sanità, dove le dimissioni sono aumentate del 3,6%. In questo caso l’aumento dello stress (e, a volte, conseguente burnout) è stata la ragione che ha spinto i dipendenti a lasciare la propria occupazione.

Il fenomeno della Great Resignation si sta manifestando sempre di più anche in Italia: secondo una statistica Inps, nel primo semestre 2022 sono state oltre 1,08 milioni le persone che hanno lasciato il lavoro. Il dato non è mai stato così alto negli ultimi 8 anni: l’aumento infatti è del 35% rispetto al 2021. Da una ricerca del Politecnico di Milano è emerso inoltre che, per una/un lavoratrice/ lavoratore su quattro, l’aspirazione a modalità di lavoro più “agili” è tra i motivi principali che portano alle dimissioni. Ma il dato più importante che emerge da questa indagine è che per circa l’83% delle persone intervistate le motivazioni vanno ricercate soprattutto nel malessere emotivo, dato dall’assenza di riconoscimenti di merito e dal non sentirsi in linea con i valori aziendali.

 

IL QUIET QUITTING

Alla Great Resignation può essere associato il Quiet Quitting, fenomeno che ha iniziato ad espandersi notevolmente negli ultimi mesi, diventando virale anche sulle piattaforme social più famose.

Tradotto letteralmente significa “abbandono silenzioso”, nonostante la definizione non rispecchi a pieno il significato del fenomeno. Il quiet quitting si manifesta infatti quando un lavoratore cerca di limitare i propri compiti a quelli strettamente previsti dalla propria mansione, per evitare di trovarsi nella necessità di prestare lavoro straordinario o fare più del minimo necessario richiesto.

Il lavoratore che manifesta il quiet quitting lavora il minimo indispensabile, senza essere propositivo e senza sviluppare alcun senso di responsabilità per la propria mansione, con l’intento di lavorare il meno possibile a discapito della qualità della propria prestazione, per concentrarsi in toto sulla propria vita privata e sulle attività extra-lavorative.

Una chiave di lettura del fenomeno potrebbe essere da ricercare nell’insoddisfazione dei dipendenti per la propria posizione, in pratica significa che il dipendente è pronto a cambiare posizione o che sta addirittura cercando un nuovo lavoro.

Un altro aspetto da considerare è che il dipendente stia vivendo (o stia per vivere) un fenomeno di burnout: a livello psicologico l’abbandono silenzioso può essere considerata infatti come una delle modalità di comportamento utilizzate, anche inconsciamente, dal dipendente per alleviare forti situazioni di stress lavoro-correlato.

Il fenomeno del quiet quitting potrebbe essere anche legato alla ricerca del benessere e dell’equilibrio, il periodo pandemico ha rafforzato nel lavoratore l’idea che si possa essere ugualmente produttivi ed efficienti anche lavorando da remoto, con addirittura la possibilità di gestire meglio l’equilibrio tra vita privata e lavoro. Dopo la pandemia le priorità delle persone appaiono fortemente cambiate, tanto che molti non sono più disposti a tornare a lavorare alle condizioni pre-covid, soprattutto i giovani che, oggi, complice anche l’attuale situazione economica del Paese, nutrono meno ambizioni di carriera.

 

IL FENOMENO DEL JOB CREEP O WORK CREEP

Il fenomeno opposto a quello dell’abbandono silenzioso è quello del job creep, o “lavoro strisciante”.

Questo fenomeno in voga negli anni 2000 e poi scomparso per qualche anno, è tornato a far parlare di sé complici anche gli effetti lasciati dalla pandemia, dal boom dello smartworking e del lavoro ibrido, all’utilizzo sempre più frequente di strumenti tecnologici. In questo caso, il dipendente tende ad assumersi più incarichi rispetto a quelli previsti per la  propria mansione, a estendere l’orario di lavoro oltre i limiti contrattuali e a rimanere sempre collegato al computer o allo smartphone, costantemente a disposizione di superiori e colleghi. Ne consegue ovviamente uno sbilanciamento del cosiddetto work life balance a favore della vita professionale, con relativo stress e peggioramento della qualità della vita. I confini tra lavoro e vita privata, specie quando si lavora da remoto, sono sempre più sottili: tale fenomeno fa leva su fattori psicologici, come la volontà di riconoscimento o il voler sempre soddisfare le aspettative dei manager. Per alcune persone il fatto di cambiare il proprio modo di lavorare e stravolgere i ritmi lavorativi (attraverso lo smart working) ha portato al rovescio della medaglia, e cioè non essere stati in grado di rallentare i propri ritmi. Il job creep è proprio questo: la volontà di non fermarsi mai, di continuare a lavorare ben oltre l’orario, di continuare a produrre e assumersi sempre più responsabilità, anche senza promozioni o aumenti di stipendio. Kim Marie Thore, esperta di marketing, comunicazione e relazioni pubbliche, focalizzata su strategie e risultati aziendali, è intervenuta in merito all’argomento sul suo profilo LinkedIn, facendo presente che il primo passo per “combattere” questo fenomeno è quello di “essere onesti quando fissiamo le nostre aspettative con noi stessi, col nostro team e con i nostri superiori, cercando di essere efficienti, ma con un occhio più critico e senza avere paura di dire di no”. Perché, “un lavoratore sano, con la mente sgombra, è di sicuro più efficiente di uno pressato dalla mole di progetti. Spezziamo la convinzione che dire sempre sì induca ad un miglioramento della propria posizione” conclude Kim.

I NUOVI RISCHI PSICOSOCIALI NELLE PICCOLE AZIENDE

Qual è quindi lo stato di salute attuale dei lavoratori? E come stanno i lavoratori di aziende medio/piccole, che hanno avuto meno strumenti per gestire in maniera ottimale la nuova organizzazione del lavoro dettata dalla pandemia? L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA), ha presentato una relazione contenente i risultati di uno studio sulla gestione dei rischi psicosociali nei posti di lavoro europei, intervistando alcuni lavoratori di micro e piccole imprese in Danimarca, Germania, Spagna, Croazia, Paesi Bassi e Polonia. Attraverso questa intervista, i lavoratori hanno segnalato:

  • cattivo equilibrio tra lavoro e vita privata, raccontando di vivere con un alto livello di stress a causa dell’eccessivo carico lavorativo; carenza di personale nel settore dell’istruzione che porta a molte ore di lavoro extra con conseguente aumento di stress;
  • alto livello di accettazione e consapevolezza di questi fattori di rischio che finiscono per essere considerati come elementi inalienabili delle attività di lavoro;
  • discrepanza tra le interpretazioni dei lavoratori e dei manager sul rischio connesso all’eccessivo carico di lavoro;
  • scarse relazioni sociali sul posto di lavoro.

Alcuni intervistati in Spagna e nei Paesi Bassi hanno indicato che l’impatto del telelavoro ha permesso ai giovani genitori di trascorrere più tempo con i figli, ma altri intervistati hanno spesso sollevato il pericolo di confusione tra lavoro e vita familiare. La ricerca ha raccolto poi opinioni differenti anche tra i lavoratori più giovani e senza impegni familiari. Alcuni, infatti, preferiscono comunicare e lavorare online a causa della comodità e del denaro risparmiato nei viaggi casa-lavoro, mentre altri parlano della lotta per bilanciare lavoro e vita privata e si sentono sopraffatti dalle forme puramente online di comunicazione con i colleghi. Molti lavoratori hanno notato, come risultato del telelavoro, un deterioramento della qualità della comunicazione: la mancanza di contatto umano e di dialogo tra i lavoratori hanno ridotto la possibilità di confronto e condivisione dei problemi legati al lavoro.

CONCLUSIONI
Il fenomeno delle dimissioni di massa e la difficoltà a reperire risorse valide e competenti nel mondo del lavoro sono in gran parte  figli” della pandemia e degli strumenti organizzativi di contrasto al contagio che sono stati adottati il più delle volte in maniera estemporanea e senza il giusto monitoraggio. In conseguenza di ciò i lavoratori hanno prima sviluppato sintomi legati al jobcreep, consistenti nella difficoltà a scindere vita lavorativa da vita privata, quindi sintomi di quiet quitting, ovvero disaffezione al lavoro. Come poter reagire a questa discrasia dell’equilibrio
vita/lavoro? In parte con ciò che l’ha causata, ovvero con il lavoro agile, che deve diventare non solo agile ma anche cosciente, performante e lungimirante. Inoltre, adottare misure di conciliazione (o meglio armonizzazione) vita/lavoro oggi è la chiave di volta per ripristinare l’equilibrio virtuoso che deve caratterizzare il mondo del lavoro.
Se infatti Vespasiano, imperatore romano, ci insegna che pecunia non olet 1 (il denaro non puzza), il fenomeno della great resignation odierno ci indica che le questioni meramente economiche sono relative: lo stipendio è infatti
soltanto uno dei tanti elementi che creano la soddisfazione del lavoratore.

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HR&Organizzazione – LA BIODIVERSITÀ UMANA come nuova frontiera della sostenibilità

di Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Pavia, Esperta in materia  di sicurezza sul lavoro, Presidente Ancl UP Pavia

 

Il momento storico che stiamo vivendo richiede una complessa, profonda e veloce riflessione sull’organizzazione del lavoro, partendo dalla ridefinizione degli spazi, delle relazioni interpersonali e dell’uso del tempo. Parlare di “sostenibilità aziendale” non riguarda solamente l’impatto ambientale dell’azienda, ma anche il suo effetto sociale ed economico. Affrontare la sostenibilità del lavoro significa scontrarsi con le sfide più delicate che aziende e persone hanno di fronte a sé per prossimo futuro: dalla formazione continua, alla flessibilità, alla digital trasformation, al lavoro agile come nuova modalità per il benessere individuale e collettivo.

Come sottolineato nel 2015 da Eurofound, l’agenzia Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, «lavorare in modo sostenibile significa, innanzitutto, creare le condizioni affinché le persone possano sviluppare la propria professionalità e rimanere attive durante tutta la loro vita in un’ottica di costante occupabilità, eliminando i fattori che scoraggiano od ostacolano l’ingresso, la permanenza e la crescita nel mondo del lavoro». Promuovere e mantenere un alto grado di benessere in azienda dal punto di vista fisico, psicologico e sociale dei lavoratori, ad ogni reparto e ad ogni livello, è alla base della crescita sostenibile e duratura non solo dell’impresa e della sua produttività, ma anche delle persone che ne fanno parte.

LA SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE IN AZIENDA

Il concetto di sostenibilità proviene dall’idea di “gestione sostenibile” di una risorsa, in cui si prevede di utilizzare o prelevare quella risorsa senza danneggiare la sua naturale capacità di rigenerarsi.

Il World Summit on Sustainable Development (WSSD) di Johannesburg (2002) ha esteso il concetto di Sviluppo Sostenibile che puo’ essere considerato un equilibrio dinamico tra qualità ambientale, sviluppo economico, equità sociale.

I vantaggi per l’impresa che introduce la sostenibilità nei propri piani aziendali sono:

  1. contribuire a creare e mantenere un elevato profilo aziendale, un’immagine e una reputazione positive;
  2. creare un ambiente di lavoro migliore, più sicuro e più motivante (il c.d. benessere organizzativo di un’azienda);
  3. garantire una forte coesione con gli stakeholder;
  4. facilitare l’accesso al credito e ridurre il rischio di impresa;
  5. migliorare l’efficienza della gestione aziendale;
  6. permettere di usufruire di vantaggi fiscali e semplificazioni amministrative.

I datori di lavoro sono veramente sostenibili quando garantiscono la sicurezza, la salute e il benessere dei loro lavoratori, e quando, di conseguenza, creano un assetto di salute e benessere che inevitabilmente impatta sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

Un ambiente di lavoro che premia il benessere organizzativo comporta un inevitabile miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro: pensiamo ad esempio allo stress lavoro correlato, i cui indici subiranno sicuramente una notevole riduzione. Ma proviamo a pensare ancora più “in grande”: un’azienda green, che  necessariamente è un’azienda etica, potrebbe rendere questo processo green una componente di un più ampio codice etico, che -con la dovuta organizzazione- potrebbe generare uno sconto sul tasso Inail attraverso la presentazione del modello OT23.

Sono diverse le attività che possono rendere sostenibile un’azienda, tre in particolare, secondo il progetto “Song” realizzato da MeglioQuesto Spa:

  • la necessità di creare delle postazioni di lavoro “ergonomiche” in senso lato, ovvero non riconducibili solo alla posizione della scrivania o al tipo di poltrona, ma a criteri di architettura e design sostenibili, in grado quasi di ricreare un ambiente lavorativo in mezzo alla natura, con una forte riduzione di emissioni, grazie ai materiali da costruzione utilizzati, e con l’assenza quasi totale di inquinamento acustico e visivo;
  • l’accordo che l’azienda ha stipulato con il Pronto Soccorso psicologico di Milano. Un benefit innovativo inserito nel piano di welfare aziendale, utile a supportare un disagio, anche temporaneo, dei dipendenti.
  • un panel di attività mirate a coltivare il talento di ciascuno, per far emergere le potenzialità e la creatività, migliorare la performance partecipativa e promuovere l’inclusione, a tutti i livelli.

 

IL WELFARE SOSTENIBILE

Nel mondo delle aziende, il lavoro diventa sostenibile quando vengono attuate politiche industriali che creano un ambiente favorevole, attraverso -ad esempio- i servizi di welfare aziendale.

Il welfare aziendale, ovvero quell’insieme di prestazioni, agevolazioni, rimborsi e fringe benefit che il datore di lavoro mette a disposizione dei dipendenti, sta assumendo un ruolo sempre più predominante: non solo comporta importanti vantaggi fiscali e risparmi contributivi per l’azienda e per gli stessi dipendenti, ma permette di creare un ambiente di lavoro più confortevole e piacevole, di diffondere il benessere e di contribuire al miglioramento della qualità della vita dei collaboratori e dei loro familiari.

Una politica di welfare è anche in grado di rendere possibili, all’interno dell’azienda, importanti cambiamenti rispetto al clima aziendale e alla produttività. Si tratta di un piano di lavoro completo che permette all’azienda di prestare attenzione alle necessità dei propri collaboratori, al fine di poter creare luoghi di lavoro incentrati sulle persone e sul loro benessere.

Una soluzione di welfare  in tema di sostenibilità, ad esempio, potrebbe essere la figura del mobility manager, introdotto come misura obbligatoria dal 10 maggio 2021 per tutte quelle aziende con più di 100 addetti operanti in territorio con oltre 50mila abitanti: il suo compito sarà quello di pianificare e gestire gli spostamenti casa-lavoro dei dipendenti, pianificare lo smart working e gestire il tutto in maniera responsabile e sostenibile. Il mobility management quindi, inserito in una strategia più ampia di welfare aziendale, diventa un punto fondamentale per formulare azioni di mobilità sostenibile che possano avere un impatto sia sul benessere dei lavoratori sia sull’ambiente. Un secondo esempio di welfare sostenibile si configura con l’introduzione dello smart working: continuare a incentivare il lavoro da casa ha effetti positivi sia sull’ambiente che per l’azienda stessa. Aiuta, infatti, a ridurre l’inquinamento causato dall’uso dell’automobile e a risparmiare in maniera incisiva sui costi, considerando l’aumento dei prezzi di gasolio e benzina dell’ultimo periodo. Amorim Cork Italia, azienda leader nel nostro

Paese per la produzione e vendita di tappi in sughero, ha avviato da tempo un percorso di welfare aziendale che prevede la realizzazione di 14 progetti a favore della conciliazione tra vita personale e lavorativa, come parte integrante del suo percorso di sviluppo sostenibile. L’azienda ha adottato una serie di misure per favorire lo sviluppo sostenibile, introducendo, tra le altre cose, l’orario flessibile sia in entrata che in uscita, la banca ore, il lavoro da casa, i checkup sanitari, il family day e la creazione di spazi in azienda dedicati alle attività conviviali.

L’azienda ha inoltre creato anche un regolamento aziendale e iniziato un percorso di certificazione per portare i dipendenti a formulare proposte per la conciliazione vita-lavoro. A seguito di queste iniziative, l’azienda ha conseguito la certificazione “Family Audit”, che la qualifica come organizzazione attenta alle esigenze di conciliazione famiglia-lavoro dei propri dipendenti. Ha inoltre iniziato un percorso per definire i fabbisogni formativi interni attraverso un test psicoattitudinale somministrato a tutti i collaboratori. L’obiettivo è quello di creare un percorso di formazione continua, secondo le attitudini delle persone e sfruttando il loro potenziale.

CONCLUSIONI

Pare evidente che inserire la sostenibilità nelle strategie aziendali rappresenta oggi un vero e proprio plus: un’impresa che valorizza la sostenibilità ambientale, sociale ed economica viene considerata più affidabile e al contempo pu  generare benessere organizzativo e credito anche in termini monetari. L’evoluzione del sistema economico globale sta  incentivando le imprese ad acquisire sempre maggiore consapevolezza in materia di sostenibilità e, a fronte di una sensibilizzazione in aumento sulla tematica ambientale, gli imprenditori stanno imparando a valorizzare tutti gli aspetti legati ad un mondo del lavoro sostenibile ed etico.

Sarà questa la sfida del prossimo futuro per noi professionisti: chi si occupa di lavoro, salute e sicurezza dovrà essere pronto ad avanzare al fianco del cambiamento, e quando possibile, anticiparlo.

 

 

 

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HR&Organizzazione – INTELLIGENZA ARTIFICIALE: gli emarginati digitali

di Andrea Merati, Esperto di sistemi di gestione

In affiancamento al delirio bellico si ritorna a parlare dell’intelligenza artificiale; questa ripresa di moda (come le microgonne per la primavera-estate 2022 – Zendaya e Nicole Kidman non ne possono più fare a meno) mi permette di portare su queste pagine le parole di Emanuela Girardi, fondatrice e presidente dell’associazione Pop AI (se vi fa ridere cercatela in rete: tornerete subito seri): “se non portiamo le competenze ai lavoratori e ai cittadini creeremo i nuovi poveri del futuro, gli emarginati digitali, che non saranno in grado né di partecipare al mondo del lavoro, né alla nuova società.” Mi permetto di trasporre il concetto ai professionisti: vedo un mesto futuro.

L’Italia ha pubblicato, ultima in Europa, un piano strategico per la diffusione dell’intelligenza artificiale; appare un po’ come il tema di terza liceo di uno studente informato e visionario, speranzoso e sognante, che si vede adulto in un mondo fantascientifico: senza finanziamenti e tempi di realizzazione, del tutto mancante di una visione industriale, nonché di modalità per spingere le nuove competenze nell’istruzione, nella pubblica amministrazione e nelle aziende. Insomma, ci dobbiamo muovere per conto nostro. Ogni volta che sfruttiamo l’informatica nei processi, le capacità e le competenze crescono in termini di quantità di operazioni eseguite, di dati elaborati e di velocità di esecuzione; ma non è più abbastanza, perché ci siamo accorti che ci manca sempre il tempo, dobbiamo rincorrere le normative, le richieste dei clienti e lo spazio del fare risulta perennemente scarso o insufficiente. L’intelligenza artificiale è in grado di aumentare le nostre facoltà di elaborazione per risolvere problemi e prendere decisioni: potrebbe essere una delle ultime opportunità per un sistema produttivo, come il nostro, già schiacciato dall’invecchiamento materiale della popolazione, che rischia l’annientamento da invecchiamento mentale (morte cerebrale mi sembrava troppo forte, allora ho deciso di non scriverlo).

Non sono qui a pubblicizzare prodotti o a vendere coltelli per le verdure, non serve fare nomi perché basta cercare sull’internet (un consiglio: fate le ricerche importanti con un browser diverso da quello che usate abitualmente e con la finestra in incognito, potreste ricavarne qualche sorpresa; anche questa è una questione di intelligenza artificiale, quella che riguarda l’apprendimento di chi siamo per darci risultati maggiormente attinenti a quello che viviamo; però, a volte, è meglio avere una visione più ampia e meno mediata della realtà).

Rispetto al mio precedente scritto su queste pagine, ci sono diverse novità, perché il progresso tecnologico non è stato rallentato dalla peste e molta evoluzione degli strumenti di Machine Learning e di Natural Language Processing hanno migliorato e creato sistemi di aiuto all’elaborazione delle informazioni e all’automazione dei processi, anche quelli decisionali e produttivi (in questo caso non mi riferisco all’inscatolamento del burro o al trasferimento dei container nel Pacifico, ma alle attività di uno studio di consulenza); la maggior concentrazione di novità tecnologiche e funzionali si trova nella redazione e gestione dei contratti: le soluzioni basate sull’intelligenza artificiale, per esempio, possono accelerare il processo di revisione del 20-90% senza sacrificare l’accuratezza, rispetto alla revisione manuale.
Espongo due esempi tra quelli che mi è capitato di analizzare negli ultimi tempi.
Lo studio Fredrikson Law, con uffici in Stati Uniti, Messico e Cina, ha deciso di adottare un software di Machine Learning per l’analisi dei contratti che ha ottenuto una diminuzione di quasi il 50% del tempo sulla revisione dei documenti; inoltre, lo studio ha stimato che il nuovo strumento ha aumentato l’efficienza complessiva dei processi di oltre il 20%.
Lo studio legale Salazar Law, specializzato in procedure fallimentari, ristrutturazioni aziendali, contenziosi e contratti di lavoro, grazie all’adozione di un software di Natural Language Processing, ha potuto mantenere la propria struttura piccola e, nel contempo, divenire un’alternativa più rapida ed efficace alle imprese più grandi del settore. Salazar Law ha utilizzato una piattaforma che consente di produrre documenti che rispettano sia le esigenze legali, sia le richieste dei clienti, tramite l’automazione nella creazione e nella revisione dei documenti, supportandola con suggerimenti e proposte che il software genera grazie al ciclo continuo di lettura e autoapprendimento che lo caratterizza.
Per questa primavera Jovanotti racconta che “La morte è quella cosa, che agli altri può succedere.
Ma resta sempre la speranza che a noi non accadrà”, per sempre i Pink Floyd chiedono: per non restare emarginati digitali.

 

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HR&Organizzazione – TECNOSTRESS AL LAVORO: dall’utilizzo dei social network allo smart working

di Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Pavia, Esperta in materia  di sicurezza sul lavoro, Presidente Ancl UP Pavia

 

La pandemia ha contribuito notevolmente all’incremento del digitale, che ha senz’altro creato importanti opportunità di crescita e accelerazione per molte realtà del nostro Paese. Lo sviluppo tecnologico ricopre un ruolo fondamentale anche nel processo di riqualificazione professionale, promuovendo sistemi formativi sempre più innovativi quali, per esempio, i corsi in e-learning e favorisce la nascita di nuove figure professionali e di nuovi linguaggi in ambiente di lavoro. Si pensi inoltre a come la comunicazione tecnologica influenzi anche le modalità di socializzazione e di relazione interpersonale (sms, e-mail, chat…).

L’utilizzo delle tecnologie informatiche è ormai talmente diffuso, che immaginare la nostra vita quotidiana senza computer o senza Internet sarebbe assurdo. Analogamente il mondo del lavoro è talmente sempre più connesso all’utilizzo di apparecchiature informatiche, che anche le professioni più tradizionali si avvalgono ormai dell’aiuto delle nuove tecnologie. Ci sono poi delle attività lavorative, che vengono svolte quasi esclusivamente attraverso l’utilizzo di attrezzature informatiche. È proprio in questi casi che gli operatori sono sottoposti al rischio di ingresso di uno sproporzionato numero di informazioni digitali, che il cervello umano deve accogliere ed elaborare. Ciò può causare notevoli problemi per la salute e la sicurezza sul lavoro delle persone che, in modo particolare, svolgono la loro attività principalmente con utilizzo di: computer, Internet, Email, Software di Istant Messaging (WhatsApp, Messenger, Skype, ecc…), SW Gestionali, e così via.

Un’elevata esposizione a tuti questi fattori può provocare la comparsa di alcuni fenomeni quali ad esempio il Tecnostress. In linea generale lo stress, definito come una situazione di prolungata tensione che può ridurre l’efficienza sul lavoro e determinare un cattivo stato di salute, è oggi il secondo problema di salute maggiormente legato all’attività lavorativa.

Secondo gli studi attuali, risulta essere la causa del 50-60% di tutte le giornate lavorative perse, con un enorme costo economico per il sistema produttivo: rappresenta il rischio di impresa del terzo millennio!

CHE COS’È IL TECNOSTRESS

Il Tecnostress viene definito come: «il disagio causato dall’incapacità di affrontare le nuove tecnologie in modo sano». Lo psicologo Craig Broad fu il primo, nel 1984, ad utilizzare questo concetto per indicare lo stress causato dall’uso delle nuove tecnologie, specialmente informatiche; egli definì il Tecnostress come “un disagio moderno causato dall’incapacità di coabitare con le nuove tecnologie del computer”.

Successivamente il termine fu ampliato dagli psicologi Weil e Rosen, i quali lo definirono come “ogni impatto o attitudine negativa, pensieri, comportamenti o disagi fisici o psicologici causati direttamente o indirettamente dalla tecnologia” (1998).

Lavorare in un contesto multitasking dove ci si trova, nello stesso momento, ad avere a che fare con differenti strumenti di lavoro (smartphone, tablet, computer, telefono d’ufficio) i quali contengono a loro volta molteplici “applicazioni”, da un lato ha creato molti vantaggi ma dall’altro potrebbe portare a conseguenze dannose per la salute del lavoratore che si vede oberato di comunicazioni e con la sensazione di non essere in grado di gestire i compiti che gli sono assegnati.

Questa “nuova” forma di stress sembrerebbe colpire, nella maggior parte dei casi, coloro che lavorano in ambienti altamente informatizzati e caratterizzati da una forte riduzione o addirittura privazione delle relazioni personali (lavoro a distanza) nonché da un controllo esasperato della tecnologia sulle attività svolte.

Volendo indicare le principali cause si può dire che il Tecnostress è correlato a: • gestione di un numero ingente di informazioni;

  • uso eccessivo degli apparecchi;
  • fretta nell’esecuzione delle operazioni.

Altri aspetti che influiscono sul manifestarsi della malattia possono essere la postura, o le modalità di lavoro come lo smart working, che fa della tecnologia il suo strumento principale.

L’esposizione al Tecnostress porta alla manifestazione di alcuni sintomi ed effetti, riconoscibili a più livelli, che possono causare ulteriori patologie e e disturbi differenti.

Da non sottovalutare il fatto che il Tecnostress in azienda può inoltre comportare un incremento dei costi di gestione a causa dell’aumento del rischio per la salute e la sicurezza delle imprese e della necessità di rivolgersi ai medici.

Per la tabella clicca qui.

Per l’immagine clicca qui.

Secondo il famoso psicologo Craig Brod è possibile dividere il concetto in due atteggiamenti specifici dell’individuo che, se presenti, inducono Tecnostress nel soggetto stesso:
 “OVERIDENTIFICATION WITH COMPUTER TECHNOLOGY”: ovvero un eccessivo interesse alla tecnologia anche a discapito della propria obiettività;
 “STRUGGLE TO ACCEPT COMPUTER TECHNOLOGY”: ovvero una vera e propria battaglia o presa di posizione contro l’uso delle nuove tecnologie.
All’epoca non si parlava ancora di smartphone, tablets o di internet, ma solo di hardware: oggi invece è sicuramente possibile ricondurre una parte dello stress anche all’uso dei social network; detto ciò potrebbe essere corretto affermare che qualcuno soffra di “networking stress”.
Per capire se il termine possa essere corretto, analizziamo in primis la definizione di Tecnostress che il Professor J. Kupersmith ha fornito, attraverso 4 dimensioni:
1. ANSIA DA PERFORMANCE: data da un insieme di pensieri svalutanti, auto-valutazioni negative, aspettative di fallimento (pensieri come: “non ce la farò mai”, “sbaglio sempre tutto”,
“non riesco a stare al passo con gli altri”);
2. OVERLOAD DI INFORMAZIONI: dato da una numerosità eccessiva di compiti per cui è
necessario impiegare le nuove tecnologie;
3. CONFLITTO DI RUOLI: l’introduzione delle nuove tecnologie ha apportato in modo
significativo un cambiamento nei ruoli (in ambito lavorativo si è risentito molto, per esempio, del “gap generazionale”, a causa del quale i più giovani diventano gli esperti in brevissimo tempo rispetto ai più anziani);
4. FATTORI ORGANIZZATIVI: dati da tecnologie insufficienti da un punto di vista numerico, o a causa di poca disponibilità o  perché ritenute poco utili, che però causano problemi nella gestione del loro uso.
Oggi i social network sono diventati una componente importante della vita lavorativa e forse le sue logiche non sono ancora ben chiare e comprensibili da parte di tutti.
Il Networking stress, a livello lavorativo, agisce su ciascuna di queste quattro dimensioni:
1) I soggetti che iniziano una nuova attività lavorativa, soprattutto commercianti o liberi professionisti, sono spesso ottimisti, pensando che basti pubblicare un post sui social per avere successo per poi scontrarsi invece con la dura realtà: l’impegno richiesto è grandissimo e per prima cosa bisogna abituarsi ad un nuovo modo di comunicare.
2) L’alto numero di piattaforme social esistenti potrebbe essere percepito come un ulteriore
fonte di stress: è pertanto essenziale che l’azienda rifletta in primis su cosa puntare e su cosa pubblicare.
3) Una nuova rilevanza della comunicazione online ha portato come conseguenza nuove professioni che oggi tendono ad emergere a discapito di vecchi ruoli aziendali che vengono definiti obsoleti.
4) A livello organizzativo spesso le risorse umane dedicate alla gestione dei social sono “poche” a livello numerico, in quanto considerate ancora materia per adolescenti e per il tempo libero.
Addirittura, a causa del Networking Stress aziendale, stanno iniziando a registrarsi i primi casi di “nomofobia”, ovvero la paura di rimanere disconnessi.
Il fatto di rimanere senza cellulare, anche quello aziendale, per magari un’intera giornata potrebbe generare emozioni come ad esempio la paura di perdere telefonate importanti, di non riuscire a portare a termine obbiettivi o di non essere reperibili per i superiori o per i clienti a loro affidati, che porterebbero ad un primo segnale di allarme di nomofobia.
Il termine nomofobia nasce in Gran Bretagna da “No Mobile Phobia”, ovvero, la fobia di rimanere senza cellulare. I sintomi possono essere nausea, sudorazione intensa, giramenti di testa, tremori, riconducibili ad una vera e propria fobia, addirittura molto simili ad una sorta di astinenza/dipendenza da sostanze.

TECNOSTRESS E SMART WORKING

La crisi di questi ultimi due anni causata dal Covid-19 ha costretto alla digitalizzazione di molte aziende, senza avere di fatto un’adeguata preparazione o protocollo, con l’introduzione di una nuova o poco conosciuta modalità di lavoro: lo smart working.
Dalla diffusione della malattia il tempo di lavoro da casa è passato da settimane a mesi e ora
parrebbe diventare la modalità di lavoro del futuro, che molte aziende intendono adottare.
Anche in questo caso però è fondamentale garantire il benessere lavorativo dei dipendenti per mantenere la salute e la sicurezza dei lavoratori e delle aziende.
I dipendenti che lavorano da casa a lungo termine hanno bisogno di strategie e suggerimenti sostenibili per lavorare a distanza e per assicurarsi di essere in grado di produrre un lavoro altrettanto qualitativo.
Ormai anche le riunioni vengono effettuate in videoconferenza (con Zoom, Skype, GoTomeeting e perfino WhatsApp); il lavoratore trascorre molto più tempo con il computer portatile, il tablet, lo smartphone, spesso anche fino a tarda sera e nel weekend. Si ha di fatto la sensazione di non staccare mai la spina.
Il rischio di Tecnostress potrebbe in alcuni casi essere maggiormente percepito dalle persone che svolgono lavoro da casa, ovvero da individui che prestano la loro attività lavorativa in smart working.
Diviene quindi importante:
• che i lavoratori vengano informati sui possibili rischi;
• che il lavoro venga pianificato;
• che i lavoratori abbiano (anche a casa) uno spazio ed una postazione di lavoro adeguata;
• che il lavoratore rimanga in contatto con i colleghi e con il team;
• che vengano effettuate delle pause periodiche.
In merito a questo ultimo punto non va dimenticata l’introduzione del “diritto alla disconnessione”, uno dei punti fondamentali del “Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile” stipulato in data 7 dicembre 2021 dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, quale strumento idoneo a prevenire i rischi per la salute psicofisica del lavoratore derivanti da un eccesso di lavoro e necessario a mantenere una distinzione tra sfera privata e sfera professionale ai fini di un bilanciamento tra tempi di vita e di lavoro.
Il diritto alla disconnessione è definito come «il diritto del lavoratore a non essere raggiungibile o contattabile, rispondendo al telefono o alle mail (disconnessione tecnica) ovvero il diritto a concentrare la propria attenzione su qualcosa di diverso rispetto al lavoro (disconnessione intellettuale) recuperando le proprie energie psicofisiche».
Il datore di lavoro deve pertanto evitare che il lavoratore agile, che svolge la propria attività lavorativa da remoto attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici, sia sottoposto a stress da eccesso di lavoro o esposto al rischio di c.d. burn out, non deve assegnare carichi di lavoro eccessivi, deve valutare i progetti assegnati e le rispettive scadenze che devono essere compatibili con
il diritto alla disconnessione del lavoratore.
La prestazione in smart working può essere articolata in fasce orarie, individuando, in ogni
caso, la fascia di disconnessione nella quale il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa; a
tal fine, devono essere adottate specifiche misure tecniche e/o organizzative per garantire la
fascia di disconnessione. Nei casi di assenza c.d. legittima (es. malattia, infortuni, permessi retribuiti, ferie, etc.), il lavoratore può disattivare i propri dispositivi di connessione.

LA VALUTAZIONE DEI RISCHI

Nel 2007 il Tecnostress è stato ufficialmente riconosciuto come malattia professionale,
di conseguenza analizzarne le cause e gli effetti sui lavoratori rientra nell’obbligo di valutazione dei rischi previsti dal D.lgs. n. 81/08.
La valutazione va effettuata analogamente a quella dello stress lavoro-correlato.
L’Inail, nella fattispecie il Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale, ha proposto una metodologia per la valutazione del rischio basato sul modello Management standards approntato dall’Health and safety executive (Hse).

Tramite questo modello viene effettuata un’analisi dell’uso delle ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) al lavoro prendendo come riferimento sette dimensioni organizzative chiave, ovvero:

  • Domanda

comprende aspetti quali il carico lavorativo, l’organizzazione del lavoro ed il contesto lavorativo;

  • Controllo

riguarda l’autonomia e il controllo dei lavoratori sulle modalità di svolgimento della propria attività lavorativa;

  • Supporto del management

i superiori potrebbero ridurre i livelli di Tecnostress favorendo la diffusione della cultura del corretto utilizzo delle tecnologie digitali, migliorando l’assistenza tecnica;

  • Supporto dei colleghi l’utilizzo di piattaforme sociali e di sistemi di comunicazione tra i colleghi sono un ottimo rimedio contro l’isolamento derivato dall’utilizzo di ICT;
  • Relazioni

le ICT potrebbero alterare la capacità del soggetto di relazionarsi gli altri, dando vita a forme di comunicazione poco chiare e fraintendibili;

  • Ruolo

l’aspetto multi-tasking dell’utilizzo delle ICT porta al dilatamento dei confini del “ruolo” del lavoratore, portando spesso alla sovrapposizione di compiti, responsabilità e aspettative che spesso non possono essere soddisfatte; viene verificata la consapevolezza del lavoratore relativamente al ruolo che riveste e garantisce che non si verifichino conflitti;

  • Cambiamento

è necessario tener conto dei cambiamenti derivati dall’utilizzo delle ICT, sia a livello di vantaggio nei processi lavorativi e nella qualità del lavoro, sia in termini di introduzione di nuovi rischi, bisognerà dunque far “evolvere” il lavoro e i lavoratori in modo da garantire un confronto agevole con la tecnologia. Le misure di intervento possono riguardare due livelli:

Livello individuale, consentendo al lavoratore di mettere in atto comportamenti per cambiare la situazione (strategie di problem solving);

Livello organizzativo, diminuendo il numero di richieste poste ai lavoratori e implementando supporto tecnico e formazione sul corretto utilizzo.

 

TECNOSTRESS E NETIQUETTE

Il Tecnostress è pertanto una grande fonte di insoddisfazione e frustrazione lavorativa in ambiente di lavoro. Tuttavia, ci sono diversi metodi per contrastarlo che possono sviluppare meccanismi che aiutano i lavoratori a effettuare i compiti assegnati con la tecnologia senza dipendere da essa.

Le aziende e i loro collaboratori potrebbero ad esempio intervenire con pratiche come la meditazione, l’attività fisica, le pause rigeneranti e le discipline olistiche in genere (respirazione yoga e tecniche di rilassamento) che aiutano a “rallentare” i pensieri e “rasserenano e calmano” il cervello.

Fondamentale è inoltre una formazione adeguata che porti ad una maggiore consapevolezza rispetto al corretto rapporto fra la persona e le nuove tecnologie. Tra i numerosi strumenti e metodi per prevenire e contrastare l’insorgenza del Tecnostress in azienda, c’è anche la Netiquette, ovvero l’insieme di regole di buon comportamento che ogni utente Internet dovrebbe rispettare per usare correttamente la rete.

La parola Netiquette deriva da net(work) «rete» e (e)tiquette «etichetta»; ha di fatto la stessa funzione della “buona educazione” nella vita di tutti i giorni, una sorta di “galateo del web”: il suo scopo principale è quello di disciplinare il comportamento degli utenti online nel rapportarsi tra di loro.

 

La Netiquette non è regolamentata da legge e il trasgredirla non comporta alcuna sanzione di tipo giuridico, salvo azioni che hanno rilevanza legale come ad esempio la diffamazione. Il mancato rispetto delle sue regole, oltre che a far risultare l’utente grossolano e poco educato, può in ambito lavorativo tradursi in situazioni difficilmente gestibili, se non irrimediabilmente dannose.

Può portare, ad esempio, a conseguenze disciplinari che possono arrivare anche al blocco dell’account (Social Network, Chat, ecc.).

Per le imprese è molto importante mantenere un comportamento ineccepibile su web e social, così da dare una buona immagine di sé ai potenziali clienti. Seguire la Netiquette pertanto diventa ancora più necessario.

Sono numerose le aziende che decidono di farsi creare, da specialisti del settore, un piano su misura che, partendo dalle regole fondamentali della Netiquette, sia fatto appositamente secondo le proprie necessità.

Anche se la Netiquette non è propriamente la soluzione all’intero problema del Tecnostress, si può considerare come un modo alternativo per prevenire o porre rimedio a condizioni che possono creare situazioni stressanti per chi fa uso della tecnologia sul proprio posto di lavoro ma anche nella sua quotidianità.

 

 

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HR&Organizzazione – Le cooperative sociali di tipo B e l’accoglienza

di Luca Di Sevo, Consulente del lavoro in Bollate (Mi), Fabio Ferri, Presidente di cooperativa sociale di tipo B (provincia di Milano), Sergio Bevilacqua, Consulente sull’inserimento lavorativo disabili

Le cooperative sociali di tipo B sono “Rock” (un fenomeno relativamente recente, di grande dinamicità e di forte interesse per chi opera nell’ambito del mercato)

Il giudizio lusinghiero sullo stato di salute di questa particolare forma societaria che ha come propria mission l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate secondo la Legge n. 381/91, lo diamo dopo la lettura del numero 78 della collana “Studi & Ricerche” di Fondosviluppo, che contiene una interessante analisi sulla cooperazione sociale di inserimento lavorativo in Italia -“Confcooperative: la cooperazione sociale di tipo B (2012-2017)”. Scopriamo che in Italia sono attive oltre 3600 coop B, con prevalenza economica e occupazionale nel Nord, che hanno un valore della produzione di 2,4 miliardi di euro e che occupano oltre 78.000 persone. Il dato sulla percentuale di persone svantaggiate non è rilevato, ma una stima al minimo secondo i termini di legge ci suggerisce che siano almeno 20.000 le persone con difficoltà diverse che sono occupate in questo settore. Sono presenti trasversalmente in tutti i macrosettori dell’economia, vantano una crescita del 37,7% dal 2012 al 2017; parimenti è cresciuto nello stesso periodo del 39,7% il costo del personale, è aumentato del 31,3% il capitale investito e del 39,7% il patrimonio netto mentre il capitale sociale è cresciuto “solo” del 25,5%. L’85,3% delle 3652 coop B rilevate ha un valore della produzione inferiore ad un milione di euro e conseguentemente il 73,9% delle stesse ha un capitale sociale inferiore a 10.000€.

Questi numeri testimoniano la ricchezza d’intenti e la generosità degli imprenditori sociali che hanno scelto di lavorare nelle cooperative di inserimento lavorativo, ma anche la loro capacità imprenditoriale anticiclica in un momento storico di crisi generalizzata.

In questo contesto mi preme sottolineare la capacità di inclusione che le cooperative B dimostrano e l’altissimo tasso di soddisfazione che i lavoratori svantaggiati testimoniano (secondo la legge 8 novembre 1991, n. 381, art. 4 si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gliex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste dagli articoli 47, 47- bis, 47- tere 48 della Legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati dalla Legge  10 ottobre 1986, n. 663. Si considerano inoltre persone svantaggiate i soggetti indicati con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con il Ministro della Sanità, con il Ministro dell’Interno e con il Ministro per gli Affari Sociali, sentita la commissione  centrale per le cooperative istituita dall’articolo 18 del citato Decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni.

Le persone svantaggiate devono costituire almeno il trenta per cento dei lavoratori della cooperativa e, compatibilmente con il loro stato soggettivo, essere socie della cooperativa stessa. La condizione di persona svantaggiata deve risultare da documentazione proveniente dalla pubblica amministrazione, fatto salvo il diritto alla riservatezza.) Questi risultati non sono improvvisati, vengono da lontano, cioè da una vision che mette la persona al centro (i bisogni dell’individuo sullo stesso piano delle esigenze dell’organizzazione), da una mission che guida le scelte imprenditoriali ma anche dal buon uso di una serie di strumenti di “occupazione attiva” che si sono sviluppati nel corso di 40 anni di storia della cooperazione B.

GLI STRUMENTI PER L’INCLUSIONE

Diversi sono gli strumenti che sono a disposizione delle cooperative sociali di tipo B per realizzare l’inclusione sociale partendo dal mondo del lavoro; preme fin da ora sottolineare (ma lo riprenderemo in seguito) che i medesimi strumenti sono utilizzabili anche dal mondo delle aziende: tirocini, dote, Borse Lavoro, ReI, convenzione ex art. 14 del D.lgs. n. 276/2003.

Il tirocinio è un primo strumento utile a favorire la conoscenza del mondo del lavoro: in questo contesto, diversamente da quanto succede spesso nelle aziende (spiace rilevarlo), il tirocinio assolve alla sua più nobile ed efficace funzione, cioè quella di dare modo al tirocinante di conoscere in modo graduale le dinamiche del soggetto ospitante ed individuare a piccoli passi la giusta sinergia tra le proprie capacità e la macchina organizzativa di cui è ospite.

Inoltre il tirocinio costituisce un formidabile strumento di valutazione delle attitudini delle persone con disabilità e con svantaggio dal momento che consente di verificare competenze e potenzialità nell’operatività, fornendo quindi un quadro molto più articolato della valutazione avvenuta nell’ambito di uno o più colloqui di lavoro.

Con la dote lavoro, declinata nelle sue diverse accezioni, si aprono le porte della cooperativa mettendo strettamente in comunicazione il soggetto “debole”, i soggetti autorizzati  dalle norme regionali, i soggetti ospitanti, al fine di promuovere e favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro per soggetti appartenenti a fasce deboli o difficilmente attraenti per il mondo del lavoro.

La Borsa Lavoro è uno strumento a disposizione dei cittadini, dei datori di lavoro e degli operatori pubblici e privati per usufruire in piena autonomia di servizi per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. La Borsa Lavoro è erogata dai servizi di inserimento lavorativo -SIL o NIL (Servizio Inserimenti Lavorativi/Nucleo Inserimenti Lavorativi)- che operano nell’ambito dei consorzi dei servizi sociali e utilizzano i finanziamenti dei comuni all’interno delle politiche sociali.

Il ReI (Reddito di Inclusione) è una misura nazionale di contrasto alla povertà, che anticipa il reddito di cittadinanza ed è operativa da un paio di anni. Il ReI si compone di due parti: un beneficio economico, erogato mensilmente attraverso una carta di pagamento elettronica (Carta ReI) e un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà.

Soddisfatto il requisito per il beneficio economico, il progetto viene predisposto con il supporto di Sil o Nil che operano in rete con gli altri servizi territoriali (ad esempio Centri per l’Impiego, ASL, scuole, ecc.) e dalle cooperative sociali. Il progetto prevede che vengano proposte alle aziende solo persone che sono state valutate per le competenze e le potenzialità, anche attraverso tirocini remunerati con Borse Lavoro.

La convenzione di distacco in base all’art. 14 del D.lgs. n. 276/03, è lo strumento che coniuga l’aspetto sociale svolto dalla cooperativa, con l’aspetto di ottemperanza della L. n. 68/1999 per cui le aziende con più di 15 lavoratori devono garantire una quota di posti di lavoro ai soggetti iscritti alle apposite liste presso il centro per l’impiego: in questo contesto, la cooperativa assume il lavoratore e lo pone in distacco presso l’azienda (oppure lo colloca all’interno del proprio laboratorio/ufficio) in obbligo di ottemperanza, permettendole di essere in regola con le disposizioni legislative (si richiama l’articolo sull’argomento pubblicato su Sintesi di gennaio 2018).

Come accennato, la maggior parte degli strumenti sopra elencati può essere appannaggio di tutte le aziende e i risultati sopra esposti sono testimonianza di quanto le risorse considerate improduttive per retaggi del passato possano essere un valore aggiunto nell’organizzazione complessa chiamata azienda. È sicuramente necessario un cambio di prospettiva da parte dei datori di lavoro. Gli enti invianti costituiscono il terzo elemento necessario all’attivazione di tutti gli strumenti elencati: Nil, Sil, Celav, Anmil, Afol, Enac, Mestieri, Afgp, Enaip, A&I (per citare alcune sigle attive nel contesto milanese), sono solo alcuni dei soggetti partner della cooperazione sociale di tipo B per l’attuazione dell’intera gamma di attrezzi disponibili che con la loro professionalità mettono a disposizione un “vestito su misura” della persona individuando percorsi che possono essere personalizzati in base alle specifiche esigenze delle aziende.

IL RUOLO DEL CONSULENTE DEL LAVORO

Il Consulente del lavoro che offre i propri servizi professionali ad una cooperativa sociale di tipo B, si trova nella condizione di dover garantire tutte le prestazioni che il proprio ruolo normalmente richiede. A questo si aggiunge però la necessità di modulare il proprio operato tenendo strettamente in considerazione le peculiarità di ciascun soggetto facente parte della cooperativa qualora chiamato ad esprimersi sulle diverse problematiche. Si impone quindi un ruolo sociale all’interno del ruolo professionale.

Ogni ambito di intervento mantiene vive le proprie importanti caratteristiche, ma è richiesto un esercizio mentale allo scopo di considerare variabili normalmente poco o per niente prese in esame. Un aspetto interessante è costituito dal fatto che anche le dinamiche di gestione del rapporto di lavoro con cui la nostra categoria si trova ad avere a che fare normalmente, non vengono sminuite per via della presenza di soggetti fisicamente o socialmente deboli, ma permangono con la richiesta di fare ulteriori valutazioni che tengano in considerazione le individualità, e la nobiltà di dare un ulteriore ambito di inclusione a tali soggetti. Mi riferisco al regolamento aziendale, all’orario di lavoro, alla disciplina sul luogo di lavoro, ai diritti e ai doveri degli attori presenti sul luogo di lavoro (datore e prestatore), ecc…

Può inoltre essere utile segnalare che il ruolo del Consulente del lavoro può diventare proattivo a fronte di vincoli gestionali dell’azienda cliente che richiedano soluzioni ad hoc. È il caso delle aziende che pagano l’esenzione per adempiere alla L. n. 68/99; ed è il caso delle imprese che partecipano a bandi di gara che richiedono il nulla osta da parte del Collocamento Mirato Disabili, sempre ai sensi della L. n. 68/99. In questi casi il nostro ruolo è sollecitato ad individuare soluzioni personalizzate per l’azienda cliente e il quadro degli strumenti elencato in precedenza può costituire un riferimento esaustivo.

Pertanto, ancora una volta richiamo l’articolo pubblicato su Sintesi di gennaio 2018, dedicato allo strumento del distacco secondo l’art. 14 del D.lgs. n. 276/03.

 

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HR&Organizzazione – Un ufficio magro per lo studio professionale

di Andrea Merati, Consulente sistemi di gestione aziendale

Mi risintonizzo direttamente con il finale dell’ultimo articolo con il quale ho ingombrato le pagine di ottobre. Per chi lo avesse fortuitamente o volontariamente perso (ma anche a favore di coloro che l’hanno sostituito con altri concetti e pensieri negli umani spazi della memoria) recava il titolo che segue:

La semplificazione sospirata

Si disquisiva di informatica adeguata e formazione del personale per affrontare opportunamente il GDPR ma in realtà, già a quei tempi, il mio pensiero dirottava verso altro.

Immaginavo un mondo dorato e utopico (tipo quello in cui le persone non confondono il parcheggio in seconda fila con la propria residenza) dove l’occasione di una nuova normativa è afferrata per spingersi oltre l’adeguamento, verso una profonda riorganizzazione funzionale e organizzativa che generi soddisfazione e ritorno economico.

La derivazione sostanzialmente industriale della mia occupazione accese luci, riflettori e occhi di bue su tutto ciò che compagini di alta consulenza mi hanno insegnato negli ultimi quindici anni: Toyota Way, Six Sigma, Lego Serious Play, Monozukuri, 5S, Kanban; per farla breve sono caduto nel Lean Thinking, in particolare nella sua declinazione ancora poco considerata (ultimamente è più di tendenza il casualwear d’ispirazione street) che prende il nome di Lean Office.

Quindi ecco undici temi di ponderazione, per iniziare a pensare agilmente alla riorganizzazione degli studi. Alcune cose sembreranno lapalissiane, a volte però ci vuole qualcosa, che non deve essere per forza l’invenzione del secolo ma sia capace si scalzare i pensieri routinari, puntando a una realistica revisione di ciò che non c’è (un giorno di tanti anni fa, ero un giovane di alti propositi, parlando con il capo manutenzione di una importante industria della plastica, raccolsi questa lezione: “Ingegnere, dia retta a uno che non ha studiato, qui non c’è da progettare niente di nuovo ma da semplificare il vecchio”; lo sto ancora ringraziando).

Undici ovvietà interessanti

Mi hanno insegnato che bisogna iniziare individuando dove risiede il valore del servizio per i clienti. Si deve fare uno sforzo per uscire dalla prosopopea di sapere quello che serve agli altri; non vuol dire accantonare professionalità ed esperienza ma, con umiltà e disponibilità, provare a capire cosa ci si aspetta dalla prestazione professionale in termini di tempo e risultato.

La seconda fatica è soffermarsi sulle modalità con le quali il valore viene generato; non significa calcolare i costi fissi e variabili, o il peso degli stipendi nell’erosione dei margini ma, invece, indentificare tutti i passaggi che compongono la catena di produzione del servizio che si fornisce.

A questo punto si entra in area tecnica: analizzare volumi, varietà, variabilità, eccezioni e difficoltà che caratterizzano il servizio. Qui è indispensabile prendersi tutto il tempo necessario per raccogliere i dati ma, soprattutto, per ascoltare i collaboratori, tutti, indistintamente, provocare il loro senso critico, ascoltare senza controbattere (ancora meglio se l’orecchio è quello di un esterno, equidistante e disinteressato), per raccogliere tutte quelle informazioni che, altrimenti, rimarranno a vagare per sempre tra i corridoi e la macchinetta del caffè (oppure ad alimentare la mestizia frustrata delle cene famigliari o a fomentare l’ilarità generale nelle cene conviviali, dove il capo è quello stupido che non ha capito niente e fa ridere più del Fantasma Formaggino).

Al quarto stadio c’è da effettuare una mappatura di tempi, inefficienze ed errori (non conformità, per quelli che già masticano la materia).

Di seguito si studiano i carichi di lavoro per ciascun gruppo omogeneo di lavoratori e per i casi particolari: principalmente bisogna fare attenzione ai capi ufficio di fatto e non di nomina, nonché ai lavoratori di riferimento, sforzandosi di accantonare le preferenze personali (come a scuola: i professori bravi sono quelli che pur avendo, umanamente, predilezioni per alcuni studenti, non le lasciano trasparire, mai).

Il sesto movimento è la specializzazione delle risorse umane e tecniche per creare un flusso di informazioni e formazione che metta le persone nella condizione di condurre a termine il proprio compito con sicurezza e responsabilità.

Giunti a questo punto si possono bilanciare le risorse rispetto ai fabbisogni: mansioni, incarichi, assegnazioni e tecnologia (con relativo ciclo di manutenzione e sostituzione), senza dimenticare una seria programmazione degli aumenti di organico.

L’ottavo nano è suddividere il più possibile le attività di contatto con l’esterno (front) dalle attività di produzione interne (back), il “tutti che fanno tutto” incrementa solo le vendite degli ansiolitici.

La nona attività si srotola nello scegliere dove e quando adottare un comportamento in anticipazione oppure in reazione. Questa è la migliore occasione di sfoderare le doti imprenditoriali e di leadership a favore dell’organizzazione e della credibilità verso i propri collaboratori e clienti. Anche Batman, che professionalmente si occupa di emergenze più grandi di lui, ha un programma di manutenzione della Batmobile (perché sarebbe un’orribile caduta di stile rimanere in panne mentre Gotham City è attaccata dal male) e momenti di progettualità per la creazione di strumenti sempre più sofisticati (ha iniziato nel 1939, se usasse ancora gli stessi metodi e la medesima tecnologia dei suoi primi tempi, sarebbe annientato dal primo ragazzino cattivo che incontra appena fuori dalla Batcaverna).

Il penultimo gradino della faticosa ma gratificante salita verso una organizzazione agile (e remunerativa) si estrinseca nel conferire alla struttura di servizio la giusta autonomia decisionale in un chiaro quadro gerarchico; il famoso chi fa cosa, la celebre formazione e l’acclamatissima responsabilità di chi governa.

Finalmente l’undicesima ovvietà arriva per stabilire indicatori di prestazione: per la gestione del miglioramento iniziale e continuo, nonché per l’incentivazione delle risorse umane (la cara vecchia pacca sulle spalle va bene, ma anche la distribuzione del reddito fa piacere alla gente).

Come tutte le grandi teorie universali, anche questa della Lean Office necessita di una forte razione di studio delle opportunità ma anche di una precisa e decisa dose di impegno al cambiamento, altrimenti è meglio continuare a rimanere nella scia delle belle navi all’orizzonte, remando furiosamente a due braccia, perché rallentare un istante, solo per lucidare la barca, serve solo a rimanere ancora più indietro, mentre ci sorpassano anche i pedalò.

 

 

 

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