HR&Organizzazione – IL BURNOUT DELLA YOLO GENERATION: il mondo del lavoro che non ti aspetti

Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Pavia, Esperta in materia  di sicurezza sul lavoro, Presidente Ancl UP Pavia

 

Cresce il numero di lavoratori in tutto il mondo, dai 18 anni in su, a rischio burnout. Un under 34 su 2 si dimette per preservare la propria salute mentale: questo è lo spaccato ritratto da un sondaggio proposto dal sito di lavoro Indeed, che nello scorso anno ha voluto fotografare le condizioni lavorative dei giovani al lavoro e stabilire le condizioni che li porta ad una così breve permanenza in azienda. Secondo lo stesso sondaggio, un giovane rimane in azienda per un periodo medio di 1,2 anni, contro gli 8 anni di coloro che sono nati fino agli anni ’60 (baby boomers) e contro i 5 anni di coloro che sono nati fra gli anni ’60 e ’80 (generazione X).

La motivazione parrebbe essere collegata al fatto che sono sempre di più i dipendenti di giovane età che avvertono calo dell’efficienza lavorativa, aumento del distacco mentale, cinismo rispetto al lavoro, anche nelle prime fasi della loro carriera: il sondaggio ha mostrato che, tra le varie generazioni, i Millennials e i lavoratori della Generazione Z (le due categorie ricomprendono i nati tra la fine degli anni ’90 ed il 2010) riportano i tassi di burnout più alti, rispettivamente al 59% e al 58%, con un trend in crescita. A confermare la tendenza vi sono i dati di Asana, piattaforma americana di gestione del lavoro web, che rivela come i lavoratori della Generazione Z segnalino di essere maggiormente afflitti da burnout rispetto agli altri gruppi di età presi in esame ed i dati globali trovano conferma nel nostro Paese: un lavoratore italiano su 2 denuncia malessere psicologico sul lavoro, secondo una recente ricerca Doxa per Mindwork (società italiana di consulenza psicologica online specializzata in ambito aziendale). Sono proprio i lavoratori e le lavoratrici più giovani a mostrare una maggior propensione a lasciare il lavoro a causa di burnout e malessere emotivo: il 49% degli under 34, infatti, si è dimesso almeno una volta per preservare la propria salute mentale.

La tendenza è in aumento di 5 punti percentuali rispetto al 2020, dicono i numeri di Doxa. La generazione maggiormente colpita è quella degli under 35 anche secondo una ricerca di Bain & Company, da cui risulta che i giovani lavoratori italiani sono i più stressati in Europa e fra i più stressati a livello globale dopo giapponesi e brasiliani.

Il motivo di questo trend sta nel fatto che lo stress pandemico ha causato tassi più elevati di burnout in tutte le fasce d’età, ma che in questo momento è la Generazione Z a soffrire di più1. Le cause vanno dalla mancanza di potere sul lavoro all’instabilità finanziaria, fino alla normalizzazione dell’iperlavoro e all’incapacità di rilassarsi. Sebbene tutte le generazioni debbano affrontare grossi carichi di lavoro – evidenzia l’esperta – la Generazione Z ha meno potere di stabilire confini e dire di no ai compiti.

L’analisi sopra descritta, operata dalla società Indeed e riproposta da Huffington Post Italia, ci porta a riflettere su quanto le politiche di welfare e well being siano ad oggi non soltanto uno strumento per collocarsi in maniera strategica sul mercato del lavoro che cerca e vuole fidelizzare talenti, ma promuovere e mantenere un alto grado di benessere in azienda (dal punto di vista fisico, psicologico e sociale dei lavoratori, ad ogni reparto e ad ogni livello) deve essere alla base della crescita sostenibile e duratura dell’impresa, della sua produttività e delle persone che ne fanno parte.

LA SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE IN AZIENDA

 Il concetto di sostenibilità proviene dall’idea di “gestione sostenibile” di una risorsa, in cui si prevede di utilizzare o prelevare quella risorsa senza danneggiare la sua naturale capacità di rigenerarsi.

Il World Summit on Sustainable Development (WSSD) di Johannesburg (2002) ha esteso il concetto di Sviluppo Sostenibile che può essere considerato un equilibrio dinamico tra qualità ambientale, sviluppo economico, equità sociale.

I vantaggi per l’impresa che introduce la sostenibilità nei propri piani aziendali sono:

  1. contribuire a creare e mantenere un elevato profilo aziendale, un’immagine e una reputazione positive;
  2. creare un ambiente di lavoro migliore, più sicuro e più motivante (il c.d. benessere organizzativo di un’azienda);
  3. garantire una forte coesione con gli stakeholder;
  4. facilitare l’accesso al credito e ridurre il rischio di impresa;
  5. migliorare l’efficienza della gestione aziendale;
  6. permettere di usufruire di vantaggi fiscali e semplificazioni amministrative.

I datori di lavoro sono veramente sostenibili quando garantiscono la sicurezza, la salute e il benessere dei loro lavoratori, e quando, di conseguenza, creano un assetto di salute e benessere che inevitabilmente impatta sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, andando a prevenire fenomeni distorsivi quali quello del burnout.

Vedi qui figura 1.

Un ambiente di lavoro che premia il benessere organizzativo comporta un inevitabile miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro: pensiamo ad esempio allo stress lavoro correlato, i cui indici subiranno sicuramente una notevole riduzione.

IL WELFARE SOSTENIBILE

Nel mondo delle aziende, il lavoro diventa sostenibile quando vengono attuate politiche industriali che creano un ambiente favorevole, attraverso -ad esempio- i servizi di welfare aziendale.

Il welfare aziendale, ovvero quell’insieme di prestazioni, agevolazioni, rimborsi e fringe benefit che il datore di lavoro mette a disposizione dei dipendenti, sta assumendo un ruolo sempre più predominante: non solo comporta importanti vantaggi fiscali e risparmi contributivi per l’azienda e per gli stessi dipendenti, ma permette di creare un ambiente di lavoro più confortevole e piacevole, di diffondere il benessere e di contribuire al miglioramento della qualità della vita dei collaboratori e dei loro familiari.

Una politica di welfare è anche in grado di rendere possibili, all’interno dell’azienda, importanti cambiamenti rispetto al clima aziendale e alla produttività. Si tratta di un piano di lavoro completo che permette all’azienda di prestare attenzione alle necessità dei propri collaboratori, al fine di poter creare luoghi di lavoro incentrati sulle persone e sul loro benessere.

Una soluzione di welfare in tema di sostenibilità, ad esempio, potrebbe essere la figura del mobility manager, introdotto come misura obbligatoria dal 10 maggio 2021 per tutte quelle aziende con più di 100 addetti operanti in territorio con oltre 50mila abitanti: il suo compito sarà quello di pianificare e gestire gli spostamenti casa-lavoro dei dipendenti, pianificare lo smart working e gestire il tutto in maniera responsabile e sostenibile. Il mobility management quindi, inserito in una strategia più ampia di welfare aziendale, diventa un punto fondamentale per formulare azioni di mobilità sostenibile che possano avere un impatto sia sul benessere dei lavoratori sia sull’ambiente.

Un secondo esempio di welfare sostenibile si configura con l’introduzione dello smart working: continuare a incentivare il lavoro da casa ha effetti positivi sia sull’ambiente che per l’azienda stessa. Aiuta, infatti, a ridurre l’inquinamento causato dall’uso dell’automobile e a risparmiare in maniera incisiva sui costi, considerando l’aumento dei prezzi di gasolio e benzina dell’ultimo periodo. Amorim Cork Italia, azienda leader nel nostro Paese per la produzione e vendita di tappi in sughero, ha avviato da tempo un percorso di welfare aziendale che prevede la realizzazione di 14 progetti a favore della conciliazione tra vita personale e lavorativa, come parte integrante del suo percorso di sviluppo sostenibile. L’azienda ha adottato una serie di misure per favorire lo sviluppo sostenibile, introducendo, tra le altre cose, l’orario flessibile sia in entrata che in uscita, la banca ore, il lavoro da casa, i checkup sanitari, il family day e la creazione di spazi in azienda dedicati alle attività conviviali. L’azienda ha inoltre creato anche un regolamento aziendale e iniziato un percorso di certificazione per portare i dipendenti a formulare proposte per la conciliazione vita-lavoro. A seguito di queste iniziative, l’azienda ha conseguito la certificazione “Family Audit”, che la qualifica come organizzazione attenta alle esigenze di conciliazione famiglia-lavoro dei propri dipendenti. Ha inoltre iniziato un percorso per definire i fabbisogni formativi interni attraverso un test psicoattitudinale somministrato a tutti i collaboratori. L’obiettivo è quello di creare un percorso di formazione continua, secondo le attitudini delle persone e sfruttando il loro potenziale.

CONCLUSIONI

Pare evidente che inserire la sostenibilità nelle strategie aziendali rappresenta oggi non soltanto un ottimo biglietto da visita ma anche una necessità: un’impresa che valorizza la sostenibilità ambientale, sociale ed economica viene considerata più affidabile e al contempo può generare benessere organizzativo e credito anche in termini monetari; ma oltre a questo è necessario analizzare i bisogni e le problematiche dei lavoratori di oggi e di domani, prevenendo fenomeni distorsivi che possa incentivare il turn over aziendale.

L’evoluzione del sistema economico globale sta incentivando le imprese ad acquisire sempre maggiore consapevolezza in materia di sostenibilità e, a fronte di una sensibilizzazione in aumento sulla tematica ambientale, gli imprenditori stanno imparando a valorizzare tutti gli aspetti legati ad un mondo del lavoro sostenibile ed etico.

Sarà questa la sfida del prossimo futuro per noi professionisti: chi si occupa di lavoro, salute e sicurezza dovrà essere pronto ad avanzare al fianco del cambiamento, e quando possibile, anticiparlo.

 

1. Kim Hollingdale, docente di psicologia presso la Pepperdine University della California e psicoterapeuta.

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HR&Organizzazione – VALUTARE PER VALORIZZARE E POTENZIARE l’efficacia della prestazione

Fernanda Siboni, Psicologa del lavoro – Consulenza Organizzativa, dello Sviluppo Risorse Umane e della Formazione – Coach, Counselor e Soft Skills Trainer

 

Alcuni recenti sondaggi rilevano che il 91% dei responsabili delle risorse umane è preoccupato per il turnover dei dipendenti nell’immediato futuro. “Mentre l’economia continua a riprendersi dalle interruzioni causate dalla scorsa pandemia, le organizzazioni si trovano ad affrontare un mercato del lavoro molto diverso ed estremamente competitivo rispetto agli anni passati”, ha dichiarato Jamie Kohn, direttore dello studio sul tema promosso da Gartner (società americana di ricerca strategica). “Mentre molti stanno vivendo un numero record di ruoli aperti, le aziende stanno anche cercando di mitigare il turnover represso dei dipendenti”. Si potrebbe parlare di una vera e propria guerra dei talenti che spinge molte aziende a interrogarsi sull’effettiva efficacia delle strategie di employee retention riferita alle risorse considerate “pregiate”.

Come è noto, nel linguaggio degli specialisti di HR, l’employee retention è quell’insieme di strategie pensate per far restare in azienda le persone che vi lavorano, dandogli delle motivazioni solide per scegliere di non spostarsi in altre organizzazioni, anche qualora se ne presenti la possibilità.

Tuttavia, è difficile comprendere quali possono essere le migliori strategie di employee retention da adottare senza prima aver attivato adeguati processi di valutazione che consentono di capire meglio l’effettivo valore e peso della risorsa disponibile, le sue potenzialità di sviluppo, le sue motivazioni, le sue insoddisfazioni.

Per questa ragione mi addentrerò nel mondo della valutazione in ambito organizzativo esplorando da vicino significati, metodi e contenuti.

IL PROCESSO DI VALUTAZIONE

Gestire le persone significa applicare strumenti/metodi e ricorrere a modelli interpretativi per ottimizzare il rapporto tra il sistema delle risorse professionali disponibili e il sistema degli obiettivi da raggiungere. Consideriamo l’azienda, o lo studio professionale, come un sistema aperto (ovvero, come un insieme di elementi interconnessi e interdipendenti che lavorano insieme per raggiungere un obiettivo comune) che è influenzato dalle forze esterne come il mercato, la concorrenza, la tecnologia, i cambiamenti nella normativa (e così via), e che, a sua volta, influisce sull’ambiente esterno attraverso le attività che sviluppa. Potremmo dire che gestire le risorse umane significa saper integrare opportunamente il sistema organizzativo con il comportamento individuale dei dipendenti, dove il “come farlo” dipende dalle caratteristiche del sistema organizzativo stesso e dalla qualità del comportamento atteso. Per attuare questo tipo di integrazione, è indispensabile ricorrere a percorsi valutativi che consentano di comprendere anzitutto qual è lo “stato dell’arte” dell’azienda e delle risorse che vi operano. La valutazione è, quindi, uno strumento fondamentale della gestione delle risorse umane che consente di analizzare e verificare la performance, avere elementi oggettivi su cui basarsi per orientare  opportunamente i collaboratori a raggiungere gli obiettivi aziendali mediante la coerente valorizzazione delle qualità professionali di ciascun dipendente.

Di fatto, anche se decidiamo di non esercitarla in maniera esplicita e formalizzata, la valutazione è una modalità inevitabile: pensiamo a tutte le volte che abbiamo osservato un collega o un collaboratore nel proprio lavoro e ci siamo fatti un’idea della qualità della sua prestazione attribuendogli un giudizio del tipo: “ok” non “ok”, “giusto” o “sbagliato”. Ne consegue che la valutazione è un meccanismo a cui tutti siamo soggetti e, affinché possa risultare fruttuoso, è necessario che venga esercitato consapevolmente ed in maniera strutturata e precisa. Perché una valutazione risulti efficace è necessario che sia ancorata a definiti parametri / categorie, che verta su un oggetto specifico e limitato e che sia manifesta.

È noto che il processo di valutazione è, il più delle volte, condizionato da aspetti soggettivi e che la differenza tra oggettività e soggettività in una valutazione riguarda il grado di imparzialità che viene messo in atto attraverso il presidio del nesso tra giudizio espresso ed eventi oggettivi. Una valutazione è tanto più obiettiva quanto più si basa su prove e fatti verificabili, indipendentemente dalle opinioni e dalle esperienze personali del valutatore.

Certamente, chiunque valuta può incorrere in errori, dato che i “filtri percettivi” che possono influenzare la valutazione sono sempre in agguato. Eccone alcuni: i così detti “bias cognitivi”, che sono distorsioni relative alla nostra capacità di elaborare le informazioni. Per esempio,  la tendenza a confermare le nostre credenze preesistenti rispetto a qualcosa o a qualcuno, ignorando le informazioni contrarie; i preconcetti

basati sull’etnia, sull’età, sul genere, sull’orientamento sessuale o su altre caratteristiche di chi abbiamo davanti; le emozioni del momento che ci possono condurre ad essere indulgenti piuttosto che severi nel giudizio su qualcuno; il contesto in cui avviene la valutazione; le esperienze personali pregresse (se abbiamo avuto esperienze negative in passato con una determinata persona potremmo valutarla in modo negativo anche in futuro, nonostante le diverse circostanze). Essere consapevoli dei filtri percettivi che influenzano la valutazione porta a ricercare il modo di minimizzare il loro impatto, mirando ad ottenere un livello di obiettività accettabile. Da qui il ricorso a metodi e strumenti opportuni che possono aiutarci in questa direzione. Ma cosa occorre valutare in azienda?

LA VALUTAZIONE DEL POTENZIALE

La valutazione del potenziale è l’analisi delle capacità «potenziali» che non vengono abitualmente espresse nell’attività lavorativa quotidiana di routine, ma che potrebbero essere indagate, valorizzate ed incoraggiate per la crescita professionale del lavoratore al fine di migliorare la sua performance e favorire lo sviluppo di carriera. È particolarmente utile nei casi in cui è necessario attivare processi di diversificazione tra carriera manageriale e tecnico-professionale, nelle situazioni di proiezione del lavoratore verso nuove aree di attività o nei casi di attribuzione di nuovi incarichi strategici per l’organizzazione.

Le principali finalità della valutazione del potenziale sono: garantire flessibilità all’organizzazione, promuovere un sistema di coerenza tra ruolo e scelta di chi lo ricopre, orientare lo sviluppo ed i piani di carriera, finalizzare le azioni formative e i relativi piani. La valutazione del potenziale è utile e funzionale quando è rapportata ad una determinata posizione organizzativa e ad un ruolo «atteso» che deve essere preventivamente precisato e scrupolosamente descritto.

Riguardo ai metodi, lo strumento d’elezione è l’assessment center che è un intervento diagnostico volto a valutare l’insieme delle caratteristiche che si ipotizza siano presenti in un individuo, ma che non sono ancora state espresse o  comunque non sono risultate visibili nella consuetudine lavorativa. Come ho già avuto modo di precisare nel mio articolo precedente (vedi Sintesi – mese di febbraio 2023), è opportuno che l’assessment venga gestito da psicologi del lavoro (o comunque mediante una partnership fra consulente del lavoro e psicologo) che hanno competenze adeguate per effettuare correttamente sia la progettazione che la rilevazione di “come” e “cosa” si vuole indagare.

LA VALUTAZIONE DELLA PRESTAZIONE

Per valutazione della prestazione si intende il processo attraverso il quale il capo diretto rileva, analizza e gestisce la performance del collaboratore. La prestazione è il raffronto fra i risultati

conseguiti dal lavoratore in relazione agli obiettivi assegnati in un arco di tempo convenzionato. La valutazione della performance è importante per diverse ragioni: in primo luogo, aiuta le organizzazioni a identificare i dipendenti che stanno fornendo un valore aggiunto e quelli che potrebbero aver bisogno di migliorare; in secondo luogo è un’occasione per stimolare il collaboratore ad agire sulle proprie aree critiche; in terzo luogo è un mezzo per sviluppare piani di carriera e percorsi di crescita coerenti e pertinenti. Senza valutazione non è possibile fornire al collaboratore feedback precisi e circostanziati sul proprio operato e quindi renderlo consapevole delle proprie aree di miglioramento. In sintesi, possiamo dire che i principali obiettivi della valutazione della prestazione sono: 1) sviluppare la competenza, la motivazione e la qualità della performance; 2) favorire lo sviluppo personale e professionale; 3) fornire al dipendente un feed back franco ed oggettivo sul proprio andamento; 4) facilitare e migliorare la comunicazione fra capo e collaboratore; 5) orientare e sviluppare le prestazioni verso gli obiettivi attesi; 6) decidere in merito ad eventuali incrementi retributivi; 7) sviluppare percorsi di formazione coerenti. Gli oggetti di questo tipo di valutazione sono essenzialmente i risultati ottenuti dal lavoratore in relazione agli obiettivi assegnati (“cosa” è stato fatto) e i comportamenti organizzativi agiti dallo stesso (“come” è stato fatto). Per procedere adeguatamente, si rende anzitutto necessario definire con precisione la  prestazione attesa, per poi confrontarla con la prestazione effettiva prodotta dal collaboratore. Va ricordato che il processo di valutazione della prestazione è strettamente collegato a quello di sviluppo del dipendente.

Possiamo individuare 5 fasi chiave del processo di valutazione: 1) definizione ed attribuzione degli obiettivi; 2) individuazione dei KPI (Key Performance Indicators); 3) rilevazione dei risultati e dei comportamenti; 4) colloquio di sviluppo; 5) azioni di sviluppo. Relativamente alla prima fase, è particolarmente importante individuare gli obiettivi da attribuire in una logica “SMART”, ovvero sottoporre gli obiettivi a dei criteri di formulazione precisi, ricordando che un obiettivo per essere correttamente formulato è utile che sia: specifico (ben individuato e concreto), misurabile (espresso in numeri o in indicatori), ambizioso (adeguatamente sfidante), realistico (raggiungibile date le risorse e i tempi a disposizione), tempificato (connotato da una scadenza entro cui è necessario venga raggiunto).

Venendo alla seconda fase del citato processo, va detto che i KPI (Key Performance Indicators) sono un insieme di elementi quantificabili che vengono utilizzati in azienda per valutare le prestazioni dei collaboratori e per monitorare il conseguimento degli obiettivi strategici ed operativi. Di fatto sono una metrica per misurare l’andamento dei processi aziendali rispetto agli obiettivi prefissati. I KPI, per risultare funzionali, devono essere in grado di mettere in evidenza se l’azienda sta compiendo progressi verso il raggiungimento dei propri obiettivi ed espressi numericamente, in maniera tale da consentire un’adeguata comparazione dei valori durante le fasi di monitoraggio.

La scelta dei KPI aziendali più adatti dipende dalla tipologia dell’organizzazione e dalle mete che si intendono raggiungere. Per definirli correttamente, può essere utile ricorrere ad alcune domande, per esempio: quali KPI esprimono ciò che si vuole raggiungere ed entro quando? Servono a verificare se si è sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi? Sono utili per strutturare il sistema premiante in una logica meritocratica? Sono facilmente condivisibili? Sono semplici da comprendere? Sono rilevanti in questo momento per il raggiungimento degli obiettivi? Sono in grado di mostrare lo stato di avanzamento verso l’obiettivo? Sono facilmente misurabili? Sono comparabili anche a distanza di tempo? Alcuni esempi di KPI possono essere: % completamento di un progetto nel tempo definito; % traguardi raggiunti secondo la tabella di marcia prospettata; numero ore pianificate vs ore effettive; % capacità delle risorse; scostamento del budget (pianificato vs effettivo); numero di errori; numero reclami dei clienti; ritorno sull’investimento (ROI).

La fase tre del processo di valutazione contempla la rilevazione dei risultati e dei comportamenti che può essere realizzata mediante l’osservazione diretta di come opera il collaboratore, l’analisi degli output da lui prodotti, la raccolta di informazioni a 360° mediante questionari di autovalutazione ed etero-valutazione (somministrati a capi, colleghi, clienti). Sicuramente, il «segreto» di una efficace valutazione consiste nello stimolare nel collaboratore un processo di leale autovalutazione che accresca la sua consapevolezza rispetto ai propri punti di forza e alle proprie aree di miglioramento e di sviluppo professionale. Tuttavia, qualsiasi sia il metodo di valutazione utilizzato, è di fondamentale importanza che i risultati della valutazione vengano elaborati, comunicati e commentati in maniera opportuna in un colloquio ad hoc fra capo e collaboratore (fase 4, colloquio di sviluppo). Il setting del colloquio di sviluppo è caratterizzato da un incontro, formale istituzionalizzato e tempificato, fra responsabile e collaboratore durante il quale è possibile analizzare e commentare i dati raccolti per trarre informazioni e spunti non solo sugli aspetti migliorativi della prestazione, ma anche sulle prospettive di sviluppo carriera e sugli aspetti motivazionali relativi al percorso professionale previsto nel futuro. Affinché tale incontro risulti efficace e produttivo, è necessario che vengano presidiate alcuni stadi del colloquio. Lo stadio iniziale: è il momento in cui è importante che il responsabile trasmetta disponibilità all’incontro e serenità di approccio, dichiari l’obiettivo e la durata dell’incontro, spieghi le modalità di procedere che verranno utilizzate, verifichi la reale disponibilità all’ascolto e all’interazione da parte del collaboratore. Lo stadio centrale è il momento della condivisione delle valutazioni e quindi è utile invitare il collaboratore ad esprimere la propria autovalutazione e ad esternare il proprio punto di vista integrato da esempi

concreti e dati. È opportuno argomentare comunanze e differenze fra le due valutazioni, sviluppare i punti chiave, essere consequenziali, dedicare il tempo necessario a sciogliere eventuali nodi critici rispondendo con chiarezza alle domande poste dal collaboratore e alle eventuali obiezioni, gestendo con calma e serenità i punti di disaccordo. Lo stadio finale è quello in cui è opportuno richiamare e sintetizzare i principali punti toccati, tirare le conclusioni ri-puntualizzando le aspettative e gli obiettivi di sviluppo identificati, comunicare disponibilità e supporto e concludere in maniera positiva, richiamando gli aspetti di utilità del colloquio ed esprimendo frasi di incoraggiamento.

Infine, la fase cinque prevede l’individuazione e la realizzazione delle azioni di sviluppo che consiste nello stilare e nell’attuare un piano di intervento per colmare il “gap” fra prestazione effettuata e prestazione attesa. Tale piano può contemplare sia compiti specifici attribuiti al dipendente, utili ad allenare alcune capacità volte a migliorare la prestazione, sia supporti quali affiancamenti, formazione mirata, step intermedi di monitoraggio dell’andamento della prestazione (insieme al proprio Responsabile)

LA VALUTAZIONE DELLE COMPETENZE

La rilevazione delle competenze, intese come l’insieme di conoscenze, capacità e comportamenti attivati in un contesto dato, è una pratica che permette di ottimizzare le risorse umane disponibili, migliorare la produttività, pianificare lo sviluppo professionale e gestire l’eventuale turnover. Le competenze, sia tecniche che trasversali, sono ciò che una persona dimostra di saper fare, intellettualmente ed operativamente, in relazione ad un obiettivo, compito o attività in un determinato contesto professionale. Le prime (quelle tecniche) consentono al soggetto di svolgere attività specifiche nell’ambito di una determinata professione, sono settoriali, specialistiche, necessarie per poter svolgere adeguatamente alcuni compiti. Le seconde (le trasversali o “soft skills”) sono invece il complesso delle abilità e qualità che caratterizzano il comportamento professionale di un soggetto e si stanno rivelando sempre più determinanti per favorire il successo professionale di persone e aziende.

Per poter rilevare in maniera strutturata e pertinente le competenze possedute dalle risorse interne all’organizzazione, è necessario redigere il repertorio delle competenze attese che consiste nella specifica e dettagliata descrizione delle competenze funzionali all’esercizio di un determinato ruolo. Il repertorio rappresenta l’insieme delle competenze comportamentali organizzative riconosciute come rilevanti dall’azienda per ottenere le prestazioni auspicate. All’interno del “repertorio” le e competenze trasversali possono essere suddivise in 4 macroaree, che diventano oggetto di valutazione: 1) Cognitiva. È l’area degli elementi intellettivi, considera la predisposizione al ragionamento logico, la capacità di scomporre un problema nei suoi fattori costitutivi, l’abilità dell’individuare criticità ed elaborare ipotesi di soluzione. 2) Realizzativa. Area degli elementi legati all’azione e alla capacità di incidere sul contesto; riguarda la determinazione verso il raggiungimento degli obiettivi, il problem solving operativo e la capacità di anticipare gli eventi mettendo in atto iniziative pertinenti. 3) Relazionale. Riguarda l’area degli elementi attinenti alla sfera dell’interazione con gli altri. Ha a che fare con l’abilità nel comunicare, nel comprendere le esigenze altrui e con la capacità di lavorare in squadra. 4) Gestionale. È l’area degli elementi attinenti il coordinamento delle attività di riferimento e la gestione delle risorse disponibili. Riguarda la propensione ad identificare obiettivi e priorità, a programmare attività, ad utilizzare metodi di gestione e controllo, a presidiare gli interlocutori con autonomia e responsabilità decisionale.

Ogni competenza, rientrante in una delle categorie sopra descritte, può essere identificata da uno specifico “titolo”, da una “definizione” che ne spiega il significato ed essere precisata da una “declaratoria”, cioè chiarita da dei “descrittori comportamentali” che la connotano per consentire a chi valuta di essere in grado di rilevare i «segnali visibili» che denotano la sua presenza. Ciascuna competenza, così descritta, può essere valutata mediante appositi questionari e griglie di osservazione.

La conoscenza del livello di competenze possedute da singoli professionisti permette di comprendere quali possono essere le ragioni di una prestazione poco soddisfacente e di individuare l’eventuale delta da colmare mediante opportuni interventi formativi.

CONCLUSIONI

L’attuazione di un coerente processo valutativo è la base per individuare le strategie più pertinenti di employee retention, strategie che possono riguardare il creare un ambiente di lavoro positivo e stimolante in cui i dipendenti si sentano valorizzati e apprezzati, il fornire opportunità di formazione e sviluppo professionale volti a migliorare le competenze e a favorire la flessibilità d’orario, la possibilità di lavorare crescita professionale, il riconoscere e premiare da remoto o altri benefit volti a migliorare la le prestazioni di qualità, l’offrire vantaggi come qualità lavorativa e di vita del collaboratore.

Per le tabelle clicca qui.

Andrea Castiello D’Antonio – (2020) Il capitale umano nelle organizzazioni. Metodologie di valutazione e sviluppo della prestazione e del potenziale -Hogrefe

William Levati, Maria V. Saraò – (2016) Il modello delle competenze – Franco Angeli

Maurizio Agnesa (2020) -Psicologia manageriale. La gestione psicologica delle risorse umane -Libreriauniversitaria.

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HR&Organizzazione – FAB WORKING: il paradigma della Yolo Generation

Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Pavia, Esperta in materia  di sicurezza sul lavoro, Presidente Ancl UP Pavia

 

Qualora vi stiate chiedendo se abbiamo trovato la chiave per rendere il mondo del lavoro FABulous purtroppo la risposta è negativa, però possiamo asserire con assoluta certezza che da un approccio agile, le aziende si stanno avviando con sempre maggior frequenza verso un’organizzazione del lavoro Flessibile, Adattabile e Bilanciata, in una sorta di evoluzione darwiniana che il mercato del lavoro sembra chiedere insistentemente allo smart working. A tal proposito il Gruppo Nestlè risulta essere apripista di questa nuova modalità lavorativa così apprezzata dalla Yolo Generation o Generazione Z che dir si voglia, ovvero da tutti quei lavoratori che si collocano in una fascia d’età fra i 18 e i 25 anni.

Il Gruppo Nestlè ha introdotto questa nuova modalità organizzativa da oltre un anno, risale infatti al 18 marzo 2022 la firma dell’accordo tra le aziende del Gruppo Nestlé e le Segreterie Nazionali di Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil per regolamentare il lavoro agile 2.0 adottato dal Gruppo; tuttavia, la notizia ha iniziato ad avere eco solo da metà gennaio 2023. Perché si discute solo ora di Fab working? Perché la reintroduzione delle modalità ordinarie di accesso al lavoro agile a partire da gennaio 2023 si sono scontrate con un mondo del lavoro caratterizzato da dimissioni di massa, da recesso dei talenti1 e da una nuova generazione di lavoratori: la Yolo2 Generation.

COSA SI INTENDE PER FAB WORKING?

Il Fab working (acronimo di Flessibile, Adattabile e Bilanciato) è un modello estremamente flessibile, che viene disegnato da ogni singolo gruppo di lavoro valutando i compiti e la tipologia di attività da svolgere e che può essere eventualmente ripensato di volta in volta in base alle esigenze.

Sono tre quindi le caratteristiche principali del modello di organizzazione del lavoro agile presentato dal Gruppo:

  • flessibile (adeguato alle necessità dei lavoratori),
  • adattabile (sempre adeguabile alle esigenze del momento),
  • bilanciato (che preveda sia presenza in ufficio che da remoto).

In tale circostanza l’ufficio diventa una risorsa complementare al lavoro da remoto, rappresentando la sede ideale per attività di co-progettazione, condivisione, collaborazione, socializzazione e team building. Questo nuovo modello di lavoro tende a valorizzare la cultura della performance, dando sempre maggiore importanza alla prestazione lavorativa di ognuno.

Il Fab working consente all’azienda di coniugare lavoro di squadra e individuale, concentrazione e interazione, autonomia e responsabilizzazione sui risultati.

Non bisogna pensare allo smart working come quello sperimentato dalle aziende nell’ultimo anno: quello non è il vero lavoro agile, è stato più che altro un lavoro da remoto forzato o indotto. Il Gruppo Nestlè ha deciso di sfruttare questa

“esasperazione dello smart working” per reinterpretare il modo di lavorare, guardando cioè più a lungo termine, in modo da renderlo ancora più efficace e adatto alle necessità sia delle persone che lavorano in azienda che dell’azienda stessa. All’interno del Gruppo risulta essere molto apprezzata questa nuova tipologia di lavoro; una prima indagine ha fatto emergere che per l’80% dei rispondenti il Fab contribuisce a creare un ambiente caratterizzato da maggiore fiducia e autonomia. La popolazione più giovane (20-29 anni) e le donne hanno manifestato una maggiore soddisfazione, ritendendo che il Fab possa impattare positivamente sul loro benessere grazie a un migliore work-life balance.

Oggi con l’adozione del Fab working circa il 50% del lavoro è svolto da remoto e l’altra metà in presenza con una soddisfazione crescente dei lavoratori: una delle ultime indagini ha infatti mostrato come circa il 90% delle persone sostiene a pieni voti le quattro dimensioni cardine, produttività, ingaggio, empowerment e benessere dei singoli, con maggiore soddisfazione da parte delle donne e dei più giovani.

Il nuovo modello si affianca a un ampio piano di welfare aziendale che mette al centro le persone Nestlé e le loro esigenze, nella convinzione che un ambiente di lavoro sereno e un corretto bilanciamento tra vita privata e lavorativa possano facilitare il coinvolgimento dei dipendenti negli obiettivi aziendali.

IN CHE COSA CONSISTE?

L’accordo sottoscritto è riservato ai lavoratori la cui attività possa essere svolta da remoto con esclusione delle reti di vendita e delle attività svolte ordinariamente in regime di telelavoro. In riferimento all’orario di lavoro, il Fab working non prevede sostanziali modifiche, in quanto la prestazione da remoto è caratterizzata dalla gestione autonoma dell’orario, dietro garanzia del lavoratore che l’efficienza lavorativa della prestazione deve essere pari a quella normalmente garantita in sede; lo stesso deve inoltre assicurare la possibilità di essere contattato in via telematica o telefonica. L’accordo sindacale, tra le altre cose, garantisce il diritto alla disconnessione e stabilisce norme di comportamento specifiche, a tutela della salute e della sicurezza delle persone che operano da remoto.

A questo proposito, salvo urgenze, è previsto di non poter fissare riunioni prima delle 9.00, dopo le 18.00 e di garantire almeno 45 minuti di pausa pranzo tra le 12.30 e le 14.00.

Inoltre, nel caso in cui il collegamento telematico (il cui costo rimane a carico del lavoratore) subisca guasti o malfunzionamenti che non possano essere risolti nel breve tempo, il lavoratore è tenuto al rientro nella sede di lavoro o alla fruizione di permessi individuali. L’azienda si impegna comunque a fornire al lavoratore un “Kit FAB Working” (monitor, computer, tastiera e mouse), un voucher per l’acquisto di una sedia ergonomica o di altre attrezzature da ufficio ogni 5 anni del valore di 100€ ed una convenzione a prezzi agevolati per l’acquisto di ulteriori arredi. Al lavoratore spettano altresì il compito di impegnarsi a seguire le istruzioni fornite dall’Azienda in tema di salute e sicurezza e ogni responsabilità in merito a eventuali infortuni alla propria persona o a terzi, a beni o a cose nell’utilizzo della propria postazione di lavoro a distanza.

Per quanto riguarda la formazione, ai lavoratori in Fab working viene garantito non solo l’inserimento nei normali percorsi di formazione e sviluppo professionale ma anche percorsi formativi specifici dedicati al lavoro agile, ad esempio, in tema di salute e sicurezza, competenze digitali, gestione di riunioni ibride.

Ma la raccolta dei dati informatici ricavati dall’azienda può costituire violazione dell’art. 4 della L. n. 300/1970 (controllo a distanza dei lavoratori)?

No, in quanto gli stessi risultano inutilizzabili a fini disciplinari; inoltre, anche l’esercizio dei diritti di libertà e attività sindacale (ad esempio di assemblea o di voto per il rinnovo ➤ RSU) vengono comunque garantiti tramite collegamenti telematici.

Bisogna sottolineare, a tal proposito, che, con l’attenzione posta ai diritti sindacali in ambito telematico, attraverso l’indicazione nel testo del “diritto individuale alla partecipazione e informazione in ambito di attività elettorali”, le parti non hanno escluso una possibile evoluzione verso l’utilizzo di certificate piattaforme digitali cd. “e-voting”, per garantire al contempo la segretezza del voto e una nuova procedura del rinnovo della RSU più idonea alle nuove modalità operative del Fab working. Infine, l’accordo prevede che con cadenza annuale la Commissione Bilaterale Centrale, costituita in occasione dell’integrativo di Gruppo, dovrà illustrare, in sede di Coordinamento, l’andamento del Fab working, anche al fine di proporre eventuali modifiche e aggiornamenti della disciplina definita nell’attuale intesa.

L’ALFABETO DI NESTLÈ

Il Gruppo Nestlè ha deciso di scrivere un vocabolario proprio, con il quale dare un senso e un significato nuovo alle parole perché siano in grado di spiegare il cambiamento culturale che l’azienda ha deciso di intraprendere.

Da qui l’idea di un nuovo alfabeto.

 

ALFABETO PAROLE IL VOCABOLARIO NESTLÈ
A AGILITÀ “Vuol dire adattare le nostre abitudini alle necessità individuali e a quelle del nostro Gruppo. Vuol dire imparare a lavorare con agilità indipendentemente dal luogo, che potremo scegliere”.
B BILANCIAMENTO “Sarà la tipologia di lavoro da svolgere, insieme alle esigenze specifiche del team e dell’organizzazione, a farci scegliere dove lavorare. Da casa per svolgere mansioni individuali e di concentrazione, in ufficio per seguire progetti di gruppo e condivisione. In questa scelta dovremo trovare l’equilibrio”.
C CULTURA “La ragione che ci spinge ad avere radici legate ai nostri valori, ma anche braccia tese verso ciò che è nuovo e in evoluzione”.
D DISCONNESSIONE “Disconnessione è saper trovare il proprio ritmo, i propri spazi ma anche, e soprattutto, le proprie pause!”
E EMPATIA “Ciò che ci fa apprezzare maggiormente le relazioni più importanti: quelle con le altre persone. Anche quando c’è un monitor a separarci.”
F FIDUCIA “Esiste qualcosa di più gratificante e in grado di unire due persone di un “mi fido di te”? Diciamocelo più spesso”.
G GRUPPO “Ciò che ci rende un Gruppo sono le persone. Le nostre colleghe e i nostri colleghi, con cui condividiamo obiettivi e valori, la diversità e l’inclusione nelle quali crediamo, la passione e l’impegno che mettiamo tutti insieme: questo ci rende una vera squadra.”
H HEALTH “È quando stiamo bene che riusciamo a dare veramente il meglio, essere felici e appagati, anche nel nostro lavoro.”
I INTUIZIONE “Una lampadina che si accende dandoci l’idea brillante che tanto aspettavamo, ma anche un faro che possiamo far risplendere quando si collabora insieme su un progetto comune, che ci permette di costruire nel tempo e raggiungere un risultato vincente.”
L LEADERSHIP “È la stima che riesci a ottenere e quella a cui puoi ambire, a prescindere dal ruolo che ricopri. È responsabilità e guida, ma anche fare un passo indietro per darsi e dare alla propria squadra la rincorsa.”
M MENTALITÀ “La nostra mentalità può essere statica o in continuo movimento, di certo si può allenare. E se non è oggi il momento giusto per cambiare, quando potrebbe esserlo?
N NUOVO “Nuova è la situazione che stiamo vivendo e nuovo è l’approccio che dobbiamo adottare. Certo, le novità spesso ci sconvolgono, ma non ci offrono forse l’opportunità di migliorarci?”
O OBIETTIVI “Muta l’ambiente di lavoro, cambia lo stile di vita e variano gli obiettivi, ma qualcosa rimane inalterato: la nostra volontà di perseguirli.”
P PERFORMANCE “Non è importante solo quello che trovi alla fine di una corsa. L’importante è quello che provi mentre stai correndo. È il modo in cui decidiamo di conseguire il risultato a fare la differenza da adesso in poi.”
Q QUALITÀ “Qualità non è uguale a quantità, mettiamocelo in testa!”
R RESPONSABILITÀ “L’evoluzione del modo di lavorare ci dà il potere di scegliere i nostri spazi e organizzare il nostro tempo, ma è proprio da grandi poteri che derivano grandi responsabilità. Perché dalle scelte di ciascuno dipende il successo di tutti.”
S SPAZI “L’ambiente che ci circonda è una fonte costante di stimoli e idee. Nel momento in cui non vi è più un luogo di lavoro predefinito e fisso scompare il limite e si afferma l’opportunità.”
T TECNOLOGIA “È la nostra principale alleata in questo cambiamento: riduce le distanze, velocizza i processi, unisce le persone.”
U UFFICIO “Perché l’ufficio? Il concetto di ufficio non scompare, si evolve. Diventa il luogo in cui, confrontandosi e collaborando con gli altri, si lavora.”
V VITA “Riprendiamo il controllo. Delle nostre vite, del nostro lavoro, delle nostre passioni e del nostro tempo. Teniamo viva la scintilla che c’è in noi.
Z ZIG ZAG “Nessuno è mai veramente pronto al cambiamento. C’è chi prova a diventarne parte e chi lo subisce. Poi ci siamo noi, che vogliamo guidarlo.”

 

LE ESPERIENZE DELLE GRANDI AZIENDE

Nestlé, come abbiamo visto, ha raggiunto un interessante accordo sindacale per il Fab working e qualcosa di simile è stato realizzato anche in altre aziende.

Alcune hanno optato per l’introduzione della settimana corta. In Banca Intesa ad esempio, su base volontaria, si può lavorare per 9 ore su quattro giorni alla settimana, con una riduzione dell’orario di lavoro a 36 ore settimanali contro le attuali 37,5 a parità di retribuzione. Come Banca Intesa, anche Lavazza ha proposto un modello simile: i dipendenti, se lo desiderano, possono uscire in anticipo il venerdì, mantenendo intatto lo stipendio.

Le aziende che invece hanno deciso di ridurre il salario (ma meno che proporzionalmente) sono la casa di moda spagnola Desigual e alcune altre PMI, soprattutto di servizi.

 

LA YOLO GENERATION E IL MONDO DEL LAVORO

Discutendo dell’accordo di Fab working adottato dal Gruppo Nestlè abbiamo potuto apprezzare come la popolazione più giovane (2029 anni) e le donne abbiano manifestato una maggiore soddisfazione, ritendendo che il Fab possa impattare positivamente sul loro benessere grazie a un migliore work-life balance: le ultime indagini svolte dal Gruppo mostrano come circa il 90% dei lavoratori sostengano a pieni voti le quattro dimensioni cardine, produttività, ingaggio, empowerment e benessere dei singoli, con maggiore soddisfazione da parte delle donne e dei più giovani.

Perché l’approccio dei giovani è così favorevole? Le dimissioni volontarie fra i giovani in Italia toccano il 60% delle aziende: Millennials e Gen Z, sostenitori della filosofia YOLO (you only live once, si vive una volta sola), sono sempre più attenti al well-being, alla sostenibilità e all’equilibrio tra il tempo dedicato al lavoro e alla vita privata.

Inoltre, in Italia, un under 34 su 2 ha lasciato il lavoro durante la propria carriera per motivi legati al malessere psicologico; si tratta anche di una questione di work-life balance, messa in evidenza dai dati 2022 dell’Osservatorio Mindwork-BVA Doxa. Il 59% dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia, infatti, riferisce che le responsabilità e gli impegni di lavoro interferiscono con la sfera privata e/o familiare.

Il mondo del lavoro si sta evolvendo o è l’ago della bilancia che sta cambiando? Sicuramente il mondo del lavoro è in continua evoluzione, complice anche l’evoluzione tecnologica e la digitalizzazione sempre più presente. Il cambio generazionale, tuttavia, che diventa l’ago della bilancia del mondo del lavoro, riveste un ruolo chiave nel nuovo approccio al lavoro, complice il motto delle giovani generazioni: si vive una sola volta, spostando quindi il baricentro di ciò che è davvero importante e per cui vale la pena investire dal lavoro alla vita privata.

 

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HR&Organizzazione – SELEZIONE DEL PERSONALE: un’opportunità per il Consulente del Lavoro se praticata consapevolmente

Fernanda Siboni, Psicologa del lavoro – Consulenza Organizzativa, dello Sviluppo Risorse Umane e della Formazione – Coach, Counselor e Soft Skills Trainer

 

LE TENDENZE CONTEMPORANEE

La selezione del personale è, per i consulenti del lavoro, una attività che, nel  prossimo futuro, potrebbe assumere una rilevanza sempre maggiore, anche in una logica di sviluppo del business dello Studio. Obiettivo del presente articolo è quello di stimolare l’interesse di quei Professionisti che ancora conoscono poco questo settore e, nel contempo, mettere in guardia da forme di improvvisazione che possono essere controproducenti, sia sul piano dell’efficacia di questa pratica professionale che sul versante dell’immagine del Professionista stesso presso il proprio mercato di riferimento.

Siamo di fronte a due fattori importanti di cambiamento che coinvolgeranno, in maniera significativa, il mondo del lavoro: molto probabilmente nel prossimo futuro circa il 50% delle attuali posizioni lavorative verrà sostituito da processi di automazione che determineranno una sensibile trasformazione dell’operatività delle aziende.1 Stiamo assistendo ed assisteremo, sempre di più, ad un aumento dell’occupazione nelle professioni ad elevata specializzazione e, all’opposto, in quelle a bassa qualifica, mentre, contemporaneamente, l’impiego nelle professioni intermedie tenderà a diminuire. È il cosiddetto fenomeno della polarizzazione delle funzioni lavorative.2 Il mercato del lavoro mostra un costante

spostamento dell’occupazione dalle mansioni di media qualifica alle mansioni cognitive non routinarie. Pertanto, chi svolge attività con un più elevato contenuto di mansioni di routine è esposto a un maggiore rischio di disoccupazione, sia a breve che a medio termine. Più in generale, il lavoro di routine è associato a una minore stabilità dell’occupazione e a una maggiore probabilità di incorrere in periodi di disoccupazione.3 Queste tendenze avranno probabilmente impatto anche sui professionisti degli Studi Professionali. Attività routinarie (come il calcolo dei contributi o la realizzazione dei cedolini) saranno soggette ad una sempre maggiore automatizzazione e la standardizzazione di tali processi lavorativi permetterà ai consulenti del lavoro di investire meno tempo in funzioni operative e ripetitive e di avere più tempo da dedicare a compiti strategici e meno operativi. È quindi auspicabile che, a fronte di tali cambiamenti, i professionisti degli Studi si attrezzino per intraprendere percorsi formativi che consentano loro di sviluppare una serie di competenze che si allineino all’evoluzione del mercato al fine di fornire ai clienti un valore aggiunto coerente con le nuove esigenze emergenti. In questa logica, un’area di competenze particolarmente interessante è rappresentata dalla consulenza finalizzata alla ricerca e selezione del personale, attività di cui le imprese necessitano e che, nella maggior parte dei casi, non hanno le competenze e le risorse per poter svolgere internamente. Tale consulenza può riguardare tutte le fasi “tipiche” del processo di selezione e inserimento, e può essere molto efficace se rafforzata da una partnership fruttuosa con chi ha competenze di carattere psicologico4,

IL PROCESSO DI SELEZIONE

Le fasi tipiche del processo di selezione e inserimento del personale sono individuabili nei seguenti momenti: analisi del contesto organizzativo dell’azienda committente, individuazione e definizione delle esigenze della stessa, definizione del profilo di competenze e di capacità della candidatura “ideale”, analisi e costruzione del documento “ job description”, pianificazione e realizzazione del programma di ricerca delle candidature attraverso gli opportuni canali di reclutamento, valutazione delle candidature individuate attraverso appropriati strumenti di screening e di selezione, colloquio di selezione per rilevare le competenze e le attitudini, individuazione della rosa dei candidati maggiormente idonei, progettazione e svolgimento delle attività finalizzate all’inserimento lavorativo, assistenza al neoassunto nella fase di inserimento, monitoraggio dell’andamento dell’inserimento.

Il processo, così sintetizzato, si compone di fasi che richiedono competenze specifiche ed attività dedicate.

La fase di “Job analysis” consiste nell’analisi delle mansioni proprie della posizione lavorativa da ricoprire che ha lo scopo di individuare i requisiti e i fattori che la compongono. Per espletare questa fase, occorre procedere con la raccolta delle informazioni utili mediante

interviste, focus group (una tecnica di indagine qualitativa incentrata sul confronto fra membri selezionati operanti all’interno dell’azienda committente), osservazione diretta del contesto di riferimento, analisi dei documenti aziendali, quali, per esempio, organigramma, mansionari, procedure, contratti di lavoro. La fase di “Job description” riguarda la descrizione analitica e formalizzata per iscritto delle principali caratteristiche della posizione lavorativa per la quale si vuole attivare la selezione. Si tratta di descrivere la posizione in termini di: denominazione, scopo, interfacce e riporti, aree di responsabilità, attività, competenze, attitudini richieste.

Nella mia esperienza personale di formatrice, ho notato che molti professionisti degli Studi Professionali che seguono i miei corsi tendono a confondere “job description” ed annuncio. Si tratta di due documenti che hanno scopi diversi: il primo è un documento interno, articolato e dettagliato, che ha l’obiettivo di descrivere in maniera approfondita i fattori che compongono il profilo di chi si sta ricercando al fine di avere un parametro di riferimento, chiaro e definito, per procedere con le fasi successive del processo di selezione; il secondo è uno scritto sintetico, che contiene i tratti essenziali del profilo ricercato e che si rivolge al pubblico esterno, eventualmente interessato a candidarsi. Di fatto, la stesura del documento “ job description” non è affatto sovrapponibile a quella dell’annuncio, ma semmai è la base da cui partire per poter stilare un annuncio ben articolato. Di solito quest’ultimo si compone di  elementi che riguardano i requisiti richiesti al candidato, quali: titolo di studio, esperienze lavorative, competenze specifiche, disponibilità particolari (per es. la disponibilità ad effettuare trasferte, a lavorare oltre l’orario canonico, a lavorare nei weekend), requisiti preferenziali (per es. la conoscenza di più lingue), e l’offerta, ovvero le caratteristiche della posizione che possono rappresentare un elemento di attrattività (per es. formazione, incentivi). La fase di recruiting include l’individuazione dei canali attraverso i quali veicolare l’annuncio, la raccolta e lo screening dei curricula attività che, apparentemente, sembrerebbe piuttosto semplice, ma che in realtà richiede particolari attenzioni ed accortezze. È, infatti, necessario creare un indirizzo mail apposito e dedicato alla ricezione dei curricula relativi a quella posizione e strutturare la raccolta in comparti (per esempio cartelle con nome della posizione e sottocartelle per tipo di valutazione). L’avere sempre come riferimento il documento “ job decription” agevola queste operazioni in quanto permette di confrontare i curricula ricevuti con i requisiti richiesti (riducendo gli elementi di soggettività che possono influenzare lo screening) e di evidenziare, per comparazione, la corrispondenza fra fattori ricercati e contenuti descritti in ogni singolo curriculum. La convocazione dei candidati richiede un’organizzazione ferrea, soprattutto se si decide di utilizzare, oltre allo “strumento” colloquio, anche altri strumenti, come per esempio sessioni di prove individuali e collettive.

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GLI STRUMENTI DI RILEVAZIONE

Il colloquio è lo strumento d’elezione per espletare la fase di selezione ed ha un obiettivo preciso: quello di verificare che il candidato abbia i requisiti necessari per ricoprire la posizione ricercata, e quindi evincere le competenze, attitudini e motivazioni compatibili. Il colloquio serve inoltre ad informare il candidato, in maniera più specifica rispetto a quanto trasmesso mediante l’annuncio, riguardo alle caratteristiche dell’azienda e della posizione cercata; serve a creare una buona immagine dell’azienda rappresentata e a raccogliere informazioni utili per approfondire quanto scritto nel curriculum. Durante il colloquio, al fine di ottimizzarne i tempi e l’efficacia, è importante seguire una struttura flessibile: ad ogni domanda deve corrispondere un preciso obiettivo di rilevazione, avendo chiaro a quale informazione si intende accedere mediante quel determinato quesito. Nella mia esperienza professionale di affiancamento a giovani selezionatori alle prime armi, ho notato più volte che molte delle domande poste al candidato in sede di selezione rischiano di essere poco finalizzate e tendono a raccogliere informazioni a 360° che risultano poi difficili da decodificare e da utilizzare per effettuare una opportuna “diagnosi” del candidato. Per evitare questo, è opportuno dotarsi di una serie di protocolli di domande funzionali ad accedere alle informazioni che effettivamente servono. La rilevazione delle competenze, intese come l’insieme di conoscenze, capacità e comportamenti attivati in un contesto dato, è un passaggio chiave del processo di selezione. Le competenze, sia tecniche che trasversali, sono ciò che una persona dimostra di saper fare, intellettualmente ed operativamente, in relazione ad un obiettivo, compito o attività in un determinato contesto professionale. Le prime (quelle tecniche) consentono al soggetto di svolgere attività specifiche nell’ambito di una determinata professione, sono settoriali, specialistiche, necessarie per poter svolgere adeguatamente alcuni compiti. Le seconde (le trasversali o “soft skills”) sono invece il complesso delle abilità e qualità che caratterizzano il comportamento professionale di un soggetto e si stanno rivelando sempre più determinanti per favorire il successo professionale di persone e aziende.

Ma quali sono le “soft skills”, o “soft talents”,5 più importanti nel prossimo futuro e per il lavoro di domani? Ne sono state individuate alcune come prioritarie:6 pensiero analitico, pensiero critico, apprendimento attivo e strategie di apprendimento, capacità di risolvere problemi complessi, creatività, spirito d’iniziativa, capacità di ideazione e d’innovazione, leadership e influenza sociale, monitoraggio e controllo, progettazione e programmazione, resilienza, gestione dello stress e flessibilità. Per rilevare le competenze, in particolare quelle “trasversali”, sono necessari strumenti appositi in quanto l’improvvisazione rischia di vanificare l’efficacia del lavoro di selezione. Lo strumento del colloquio è, fra gli altri, sicuramente un ausilio prezioso in questo tipo di rilevazione, a patto che venga gestito professionalmente e consapevolmente, ovvero con le “giuste” competenze e sapendo fin dove ci si può spingere e dove ci si deve fermare nell’attività esplorativa. Un consulente del lavoro che ha seguito un percorso di formazione dedicato alla selezione del personale avrà meno rischi di incorrere in errori o problemi rispetto a chi sceglie di sperimentarsi in questa professione da autodidatta.

Oltre alle competenze è possibile valutare le attitudini, le predisposizioni a svolgere determinate attività e, quindi, le capacità “potenziali”, e le inclinazioni che, secondo diversi studi, sembrerebbero consolidarsi nel soggetto umano intorno ai vent’anni di vita. Le attitudini, per loro natura, si distinguono dalle conoscenze e dalle competenze che, invece, si possono apprendere lungo tutto l’arco della vita attraverso percorsi di studio e di formazione. La rilevazione attitudinale è preziosa in quanto è auspicabile assumere un soggetto con un buon allineamento attitudinale al profilo richiesto, sia per facilitare il suo percorso di sviluppo all’interno del contesto lavorativo a cui è destinato, sia per evitare forme di frustrazione (nel soggetto stesso, una volta inserito nella realtà lavorativa) correlate ad un eventuale disallineamento attitudinale che, difficilmente, potrà essere totalmente compensato dalla sola “buona volontà” e dai percorsi formativi di sviluppo competenze seguiti. Per rilevare le attitudini durante il colloquio, è possibile avvalersi di uno o più protocolli di rilevazione, ispirati a modelli di riferimento ormai consolidati.7

Un altro “oggetto” di rilevazione nel corso del colloquio è la cosiddetta “motivazione”,intesa come il processo dinamico espressione dei motivi che stimolano individui e gruppi ad avere determinati comportamenti. Riguarda le «buone ragioni» che spingono i soggetti ad intraprendere determinate azioni per raggiungere specifici scopi. Anche in questo caso i protocolli di domande sono utili, ma ancor più utile è la capacità di osservare, da parte del selezionatore, i meccanismi di congruenza fra linguaggio verbale e non verbale del candidato. In tal senso l’allenamento all’“ascolto attivo”, da parte di chi seleziona, è una buona pratica ai fini della comprensione dei segnali che, in sede di selezione, il candidato trasmette. Ma il colloquio individuale non è l’unico strumento efficace per fare selezione.

Altri metodi, come per esempio l’assessment center, hanno il vantaggio di poter effettuare rilevazioni che contemplano il vedere i vari candidati “in azione” ed in relazione tra di loro. L’assessment center è un intervento diagnostico di valutazione del potenziale, inteso come l’insieme delle caratteristiche che si ipotizza siano presenti in un individuo, ma che non sono ancora state espresse o comunque visibili in qualche occasione. L’assessment center serve, per esempio, per valutare le modalità di interazione, lo stile di relazione, la capacità di argomentare e di influenzare, la leadership. È opportuno che venga gestito da psicologi del lavoro (o comunque mediante una partnership fra consulente del lavoro e psicologo) che hanno competenze adeguate per effettuare correttamente sia la progettazione che la rilevazione di “come” e “cosa” si vuole rilevare. I metodi di indagine utilizzati nell’assessment sono solitamente: la dinamica di gruppo (tipicamente la discussione di un caso aziendale, o di una situazione metaforica in cui si richiede, per esempio, di prendere una decisione di gruppo condivisa); il role playing, in cui si richiede l’interpretazione di un ruolo all’interno di un determinato contesto proposto (esempio interagire con un cliente); è possibile anche utilizzare dei test psicologici che sono strumenti scientifici che permettono di misurare diversi fattori: attitudini, abilità cognitive, personalità. I test psicologici sono utili strumenti da affiancare ad altri metodi di selezione e possono essere somministrati sia in presenza che on line, sempre con l’ausilio di uno psicologo del lavoro. Certamente l’uso competente di strumenti adeguati di selezione non mette totalmente al riparo da possibili errori di valutazione. Tuttavia, la gestione professionale di tali strumenti riduce di molto le probabilità di incorrere in criticità che possono vanificare l’efficacia della selezione.

LA SCELTA DEL CANDIDATO E IL SUO INSERIMENTO

Una volta fatta la selezione vera e propria, è possibile individuare la rosa di candidati da presentare al committente attraverso alcune semplici azioni quali: comparare le caratteristiche rilevate nella fase di selezione con quelle presenti nel documento “ job description”, individuare le candidature che hanno maggiori caratteristiche simili a quelle del profilo atteso, scegliere tre candidati idonei da presentare al cliente. In questa fase, è importante organizzare una sessione di colloqui fra cliente e candidati della «rosa», facendo precedere tale colloquio da una presentazione al cliente, da parte del selezionatore, della «rosa» evidenziando le caratteristiche di ciascun candidato in maniera il più possibile oggettiva. È inoltre opportuno che il selezionatore sia presente ai colloqui fra candidato e cliente al fine di evitare ridondanze ed anche per intervenire qualora si rendessero necessarie alcune precisazioni sul percorso pregresso. Dopo i colloqui, è importante analizzare col cliente le ragioni delle sue preferenze ed insieme a lui redigere l’offerta di assunzione rivolta al candidato prescelto. Ma il processo non termina con la scelta del soggetto che verrà assunto.

Un aspetto fondamentale del successo di tutto il processo di selezione è la redazione di un piano d’inserimento. Occorre organizzare, insieme al cliente, il calendario degli affiancamenti, le attività di apprendimento specifico, la formazione di cui il neoassunto potrà fruire. Nel calendario saranno inclusi anche i colloqui di feedback volti a monitorare l’efficacia dell’inserimento stesso. Per ottimizzare tale percorso, è consigliabile proporre al cliente di individuare un tutor a cui il neoassunto potrà fare riferimento nel corso del proprio inserimento in azienda. Il tutor è la persona deputata a seguire il neoassunto al fine di garantirne la migliore integrazione nel contesto aziendale, e, in particolare, è il referente principale per il soddisfacimento dei bisogni di orientamento del neoassunto, fa in modo che il calendario di affiancamenti e formazione venga rispettato, si accerta che il neoassunto possa in breve tempo essere pronto ad assumere in autonomia il ruolo che gli è stato affidato.

CONCLUSIONI

Da quanto esposto, si evince che il processo di selezione del personale è un’attività dinamica che richiede sicuramente competenze specifiche, ma che racchiude anche aspetti valoriali di non poco conto: collocare con successo un soggetto in un contesto dove può sentirsi a proprio agio, apprendere, crescere professionalmente e fornire una buona prestazione a vantaggio proprio e dell’azienda, rappresenta un’azione di grande utilità sociale in un contesto, come il nostro, che necessità più che mai di aziende orientate al cliente, efficaci ed efficienti nel dare prodotti e servizi “ad hoc”, dove l’apporto responsabile e competente della risorsa umana fa sempre più la differenza.

 

1. Carl Benedikt Frey – Michael A. Osborne (2013)- The future of employment: how
susceptible are jobs to computerisation?
https://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/downloads/academic/The_Future_of_Employment.pdf
2. Maarten Goos, Alan Manning, and Anna Salomons (2014)- Explaining Job Polarization:
Routine-Biased Technological Change and Offshoring https://eprints.lse.ac.uk/59698/1/
Manning_Explaining%20job_2016.pdf
3. Ronald Bachmann, Merve Cim, Colin Green (2018) Long-run Patterns of Labour Market Polarisation: Evidence from German Micro Data https://www.econstor.eu/bitstream/10419/179037/1/102345565X.pdf

4. Protocollo D’Intesa 2009 Consulenti del Lavoro e Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi https://www.psy.it/wp-content/uploads/2015/04/conv_consulenti.pdf

5. Eric Frazer-(2019) The Psychology Of Top Talent- Paperback.

6. Autori Vari The Future of Jobs Report 2020 https://
www.aranagenzia.it/attachments/article/11211/WEF_Future_of_Jobs_2020.pdf.
7. Roberto Vaccani (2022) Professionalità, attitudini e carriera. Scegliere e sapersi scegliere- Lumi Edizioni Universitarie.
8. Falko Rheinberg (2006) Valutare la motivazione. Stru

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HR&Organizzazione – LAUTOEFFICACIA E LEADERSHIP definiscono il benessere lavorativo*

Fernanda Siboni, Psicologa del lavoro – Consulenza Organizzativa, dello Sviluppo, Risorse Umane e della Formazione – Coach, Counselor e Trainer

 

La capacità generativa di orientare le singole abilità cognitive, sociali ed emozionali in maniera efficiente influenza la qualità della prestazione professionale. I risultati positivi determinano una solida fiducia nella propria efficacia personale.

Ultimamente si sente molto parlare di Great resignation, ovvero di quel fenomeno che fa riferimento al fatto che un numero crescente di persone decide di lasciare volontariamente il posto di lavoro1. Uno studio, commissionato da IBM Institute for business value2, che ha coinvolto 14mila lavoratori di tutto il mondo, ha evidenziato che le principali ragioni che portano le persone a dare le dimissioni sono, in sintesi: la ricerca di contesti in grado di garantire il rispetto dei valori individuali; la qualità delle relazioni; la ricerca di uno stato di benessere lavorativo (fattore motivazionale imprescindibile, in grado di condizionare marcatamente la qualità della performance).

Ma quali sono i fattori che realmente influenzano quest’ultimo aspetto? Quali sono le convinzioni e le credenze che condizionano la percezione di tale benessere da parte di professionisti e manager che operano nelle moderne organizzazioni? In che modo tali convinzioni influiscono sulla performance?

IL BENESSERE LAVORATIVO È INFLUENZATO DALLA PERCEZIONE DI AUTOEFFICACIA

Dal modellamento di professionisti eccellenti nel loro settore, effettuato da chi scrive, è emerso che uno degli elementi significativi che influenzano lo stato di benessere lavorativo è la percezione di autoefficacia3. Si tratta di una capacità generativa che ha lo scopo di orientare le singole sotto-abilità cognitive, sociali, emozionali e comportamentali in maniera efficiente per assolvere a scopi specifici. Il livello di autostima e la percezione di autoefficacia sono due elementi fondamentali nell’influenzare la qualità della prestazione professionale, ma si tratta di due concetti che, seppur correlati, vanno distinti. Il senso di autoefficacia riguarda l’auto-percezione relativa alle capacità personali di un soggetto, mentre l’autostima si riferisce, piuttosto, all’auto-percezione del valore personale. Una persona può giudicarsi irrimediabilmente inefficace in una data attività senza per questo perdere l’autostima, se non investe tale attività del senso del proprio valore personale. Viceversa, ci si può sentire molto efficaci in una data attività senza per questo gloriarsi delle proprie prestazioni4. Per mobilitare e mantenere l’impegno necessario a riuscire occorre un saldo senso di autoefficacia, inteso come fiducia nelle proprie capacità di organizzare e mettere in atto azioni finalizzate a raggiungere un obiettivo prefissato. L’autoefficacia ha a che fare con le convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati. Non si tratta di una generica fiducia in se stessi, ma della convinzione di poter affrontare efficacemente determinate prove, di essere all’altezza degli eventi, in grado di cimentarsi in alcune attività o di affrontare specifici compiti. L’autoefficacia non è, dunque, una misura delle competenze possedute, ma è la credenza che la persona ha in ciò che è in grado di fare in diverse situazioni con le capacità che possiede. I professionisti che hanno un elevato senso di autoefficacia affrontano i compiti difficili come sfide da vincere, si pongono obiettivi ambiziosi e si impegnano nel loro raggiungimento; di fronte alle difficoltà intensificano il loro apporto e lo mantengono costante nel tempo; superano con determinazione gli eventuali insuccessi e affrontano le situazioni critiche con la convinzione di poter esercitare un controllo su di esse. I professionisti eccellenti scelgono obiettivi sfidanti, in quanto nutrono un’elevata stima relativamente alle loro capacità: quanto è maggiore l’autoefficacia percepita tanto più elevati sono gli obiettivi che essi si pongono e tanto maggiore è l’impegno che dedicano al loro ottenimento. L’insuccesso rappresenta l’occasione per raccogliere maggiori informazioni da utilizzare come riferimento per evitare errori futuri e le capacità sono fattori migliorabili attraverso l’esperienza e l’apprendimento; una prestazione carente fornisce l’opportunità per analizzare cosa è andato storto, per porvi rimedio in future occasioni in una logica di miglioramento continuo (kaizen)5. Le prestazioni carenti sono elaborate cognitivamente non come difetti personali, ma come eventi circostanziati, fonti di informazioni preziose e istruttive per rafforzare le competenze professionali spendibili nel prossimo futuro.

L’UMORE E L’AUTOEFFICACIA SI INFLUENZANO RECIPROCAMENTE

Tale modalità di elaborazione delle informazioni, volta a valorizzare le valenze delle esperienze di insuccesso, ha una funzione anche rispetto alla convinzione di influenzare e controllare l’ambiente circostante. Il professionista di successo crede di poter modificare le situazioni, ritiene di poter dare il proprio fattivo contributo per cambiare il punto di vista altrui e per influenzarlo, si ritiene in grado di saper guidare l’altro verso una prospettiva diversa da cui guardare una stessa cosa. Tale convinzione è di sostegno nell’attivazione delle proprie azioni volte a produrre risultati. Le convinzioni sull’autoefficacia determinano l’entità degli obiettivi definiti, la quantità di impegno da investire, il livello di perseveranza da attivare di fronte alle difficoltà e l’entità delle capacità di recupero in seguito agli eventuali insuccessi. I professionisti abili, di fronte alle situazioni difficili, intensificano i loro sforzi e persistono fino a quando non riescono a ottenere quanto si erano prefissati. Solitamente, la tenacia e la perseveranza ripagano gli sforzi fatti con il miglioramento della prestazione e un conseguente innalzamento della percezione della propria autoefficacia.

Le convinzioni di efficacia influenzano anche la vigilanza verso i potenziali ostacoli che si possono incontrare nel percorso verso l’obiettivo e la percezione del loro possibile controllo o superamento: i possibili pericoli sono considerati come affrontabili, contattando le risorse personali, ridimensionando l’entità stessa delle criticità e attivando un pensiero orientato alla soluzione in maniera tale che ciò che d’acchito sembra impossibile diventa, di fatto, possibile. Pertanto, quanto più forte è il senso di efficacia, tanto più il soggetto è vigoroso nell’affrontare situazioni problematiche stressanti e tanto maggiore è il suo successo nel modificarle.

Un altro aspetto interessante è che l’umore e l’autoefficacia si influenzano reciprocamente: un elevato senso della seconda, circa la capacità di procurarsi ciò che nel lavoro conduce alla soddisfazione di sé, e alla sensazione di valore personale, dà luogo a un positivo senso di attivazione, a un umore gradevole che, a sua volta, incrementa la fiducia nella propria efficacia personale, in un circolo virtuoso che porta a un vigore sempre maggiore. Generalizzando, le convinzioni di efficacia personale sembrano plasmare il corso che la vita professionale assume anche determinando il tipo di attività che si intraprende e i contesti ambientali a cui si sceglie di accedere. In questo processo ognuno modella il proprio destino, scegliendo il tipo di ambiente che ritiene adatto a coltivare certe potenzialità e determinati stili di vita. Le persone di successo sembrerebbero evitare le attività e gli ambienti che considerano al di là delle proprie capacità di gestione e, invece, preferiscono lavori stimolanti e contesti ritenuti alla propria portata. Attraverso le scelte che compiono, le persone coltivano diversi tipi di competenze, interessi e relazioni sociali che determinano il loro corso professionale.

L’EFFICACIA DI UN’AZIONE DIPENDE DALLA FIDUCIA NELLE PROPRIE CAPACITÀ

Per incrementare l’autoefficacia è di fondamentale importanza considerare l’origine delle convinzioni che le persone hanno relativamente alla propria efficacia. Una prima fonte di tale origine è rappresentata dalle esperienze affrontate con successo, impiegando le risorse proprie, in quanto i risultati positivi determinano una solida fiducia nella propria efficacia personale e, anche in presenza di sporadici insuccessi, la persona attribuirà la prestazione scadente all’uso di una strategia sbagliata in una situazione specifica, il che concorrerà a incrementare la fiducia nel fatto che strategie migliori potranno aumentare la probabilità di ottenere successi futuri. Una seconda fonte è rappresentata dallo stile esplicativo, ovvero dal modo in cui abitualmente ogni individuo spiega a se stesso perché accadono gli eventi. Secondo lo psicologo Martin Seligman6, una persona con stile esplicativo ottimistico spiega gli eventi negativi con cause esterne, variabili e accidentali, mentre individua negli eventi positivi cause interne, generalizzate e stabili. In risposta a un’esperienza negativa, un pessimista, invece, è incline a costruire attribuzioni interne, generalizzate e stabili, mentre crea attribuzioni esterne, variabili e accidentali per eventi positivi. Una terza fonte è rappresentata dalla capacità di osservare altre persone che riescono a compiere un’azione o a svolgere un compito con successo e al ritenere utile per sé tale tipo di osservazione. Questo porta a incrementare la propria autoefficacia, poiché permette di ritenere di possedere le abilità necessarie per poter riprodurre e fare quanto osservato. Vedere persone simili a sé che raggiungono i loro obiettivi, grazie all’impegno e all’azione personale, incrementa in chi osserva la convinzione di possedere le capacità necessarie a riuscire in situazioni analoghe.

Una quarta fonte riguarda l’incoraggiamento ricevuto da altri per tentare un compito ed essere convinti di possedere le abilità necessarie per eseguirlo. Per esempio, l’incoraggiamento di un responsabile di cui si ha stima serve per avere lo slancio necessario nei momenti di titubanza o indecisione. Naturalmente, il compito deve avere un margine di rischio di insuccesso circoscritto e chi incoraggia deve essere percepito come persona meritevole di fiducia. Anche l’auto-persuasione può rappresentare un’ottima fonte: ci si può autosostenere ricordando a se stessi episodi precedenti di riuscita e successo. L’osservazione del proprio stato fisiologico (tensione, dolore, tremore) può essere utile per rafforzare l’autoefficacia in quanto tali segnali, se considerati come manifestazione di uno stato di attivazione, possono essere accolti e gestiti. Di solito chi ha un buon senso di efficacia considera questi indizi come fattori che mostrano la presenza di energia che può essere opportunamente canalizzata per facilitare l’azione. La stessa cosa vale per quanto riguarda la percezione dello stato emotivo: uno stato d’animo positivo aumenta il senso di autoefficacia.

Un’altra fonte importante è rappresentata dall’opportuno uso dell’immaginazione quale campo di sperimentazione di situazioni possibili o reali: l’usare fantasie positive predispone e supporta lo stato emotivo con il quale affrontare un percorso per raggiungere l’obiettivo. In sintesi, per compiere un’azione che risulti efficace è necessario volerlo, ma soprattutto credere nelle proprie capacità e crearsi una sorta di “rappresentazione mentale” dello scenario possibile. Agire su tali aspetti, mediante il richiamo di episodi di riuscita durante le sessioni di apprendimento, il rinforzo delle stesse nelle situazioni gestionali, la gratificazione delle prestazioni efficaci con premiazioni e incentivi durante i meeting, può contribuire a instillare e riprodurre tali “condizioni per l’eccellenza” in coloro che aspirano al successo e alla realizzazione professionale nel loro settore di attività.

VALORIZZARE E GESTIRE LE PERSONE PER ESSERE LEADER

Oltre a quello dei professionisti eccellenti, un altro caso è rappresentato dal modellamento, da parte di chi scrive, di un campione di manager (gestori di risorse umane in ambito commerciale) che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nel gestire le proprie risorse. La ricerca è stata fatta utilizzando come riferimento il modello dei livelli logici di Dilts (piramide di Dilts)7. Tale modello è un adattamento del lavoro svolto dall’antropologo Gregory Bateson e descrive una gerarchia di livelli di processo all’interno di un individuo, gruppo o organizzazione. L’applicazione del modello dei livelli logici agli intervistati ha, in sintesi, messo in luce i seguenti aspetti:

  • convinzioni: faccio il manager perché, dopo essermi affermato come specialista nel mio settore, ho creduto che valesse la pena mettermi alla prova come sviluppatore di risorse umane;
  • valori: credo nelle potenzialità delle persone e per me è importante vedere che i collaboratori mi seguono e crescano professionalmente;
  • identità: sono un punto di riferimento per gli altri;
  • mission: voglio lasciare una traccia, essere ricordato come un leader Nel caso dei manager emergono con evidenza aspetti legati alla voglia di assumere una nuova sfida che ha a che fare con l’intento di “contagiare” positivamente altri, di rappresentare qualche cosa di importante per i professionisti, di essere riconosciuto come leader. In questo caso i comportamenti e le capacità sono facilmente modellabili in quanto basta che si riproducano i fattori descritti nel corso della predetta osservazione. I quattro livelli apicali della piramide hanno una marcata relazione con il tema della leadership e sono fortemente correlati con il ’saper essere’ oltre che con il “saper fare” .

Non vorrei qui addentrarmi nell’annoso tema secondo il quale leader si nasce o si diventa8, piuttosto è utile considerare che essere capi significa “creare un mondo al quale le persone desiderino appartenere”9. Ciò è facilmente desumibile da quanto finora descritto, ovvero l’aspirazione e il desiderio di poter far parte di una realtà che non solo soddisfa il bisogno di guadagnare, ma che potenzialmente è in grado di appagare anche la necessità di riconoscimento professionale e sociale, che va ben oltre il tema economico.

Il responsabile capace di sviluppare business diventa leader riconosciuto solo quando sa anche valorizzare le persone che guida, le addestra, le fa crescere, le supporta e ne sviluppa le potenzialità, essendo in prima persona esempio di quanto richiede ai collaboratori. È chi sa creare un contesto in cui le persone del proprio team vivono una dimensione di benessere a 360 gradi.

Per potere fare questo può essere necessario agire sulle proprie e altrui convinzioni10: il comportamento di ognuno di noi è enormemente influenzato e mobilitato da quelle che sono le nostre più ferree certezze. Per ottenere un cambiamento efficace e duraturo delle convinzioni che ostacolano il raggiungimento di uno stato di benessere organizzativo, la Programmazione neurolinguistica (Pnl) suggerisce diverse tecniche che si sono dimostrate efficaci (cui si rimanda)11. Cambiare questo stato circa le proprie capacità e il proprio potenziale ha permesso a molti professionisti di raggiungere traguardi talvolta inimmaginabili, sul piano sia dell’efficacia sia della realizzazione personale; tale mutamento è stato possibile anche grazie alle dimostrazioni di fiducia espresse dai responsabili e allo stile di gestione adottato dai manager più lungimiranti, che hanno saputo trasmettere valori forti nei quali credere e potersi riconoscere.

 

* Pubblicato su Mit Sloan Management Review Italia, Autunno 2022, Anno1, numero 3, pag. 50 ss.

1. De Smet A., Dowling B., Mugayar Baldocchi M., Schaninger B. (2021), “Great attrition” or “great attraction”? The choice is yours, https://www.mckinsey.com/business-functions/people-andorganizational-perfor- mance/our-insights/great-attrition-or-great-attraction-the-choice-is-yours.
2. IBM (2021), Nel 2021 cambiere-mo lavoro e ci dedicheremo ad accrescere le nostre competenze, https://it.newsroom.ibm.com/Study2021SkillsGrowth.
3. Bandura A. (2000), Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Erickson.
4. Sasso S. (2010), Mal di scuola, Anicia.

5. Vanbremeersch C. (2020), Kaizen. La filosofia giapponese del grande cambiamento a piccoli passi, Giunti.

6. Seligman M. E. P. (2015), Imparare l’ottimismo. Come cambiare la vita cambiando il pensiero, Giunti.

7. Dilts R. (2018), Changing be- lief systems with Nlp, Dilts Sra- tegy Group.
8. Cognonato E. (2016), Leader si nasce e si diventa, Il Campo.
9. Dilts R. (1998), Leadership e visione creativa, Guerini &Associati.
10. Dilts R., Halbomm T., Smith S. (1988), Convinzioni, Astrolabio.
11. James R. (2015), Pnl. 10 tecniche essenziali, Area 51 Publishing.

 

 

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HR&Organizzazione – LE CONSEGUENZE DELLA GREAT RESIGNATION: il recesso dei talenti e le nuove skill a sostegno della biodiversità umana

Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Pavia, Esperta in materia  di sicurezza sul lavoro, Presidente Ancl UP Pavia

 

Nello scorso appuntamento abbiamo parlato di come il mondo del lavoro stia cambiando, ragionando nello specifico dei nuovi fenomeni che si stanno manifestando sempre di più anche nel nostro paese: dalla great resignation o dimissioni di massa, al quiet quitting e al job creep.

Ma che cosa ci dobbiamo aspettare dal nuovo anno dopo il fenomeno delle “Grandi dimissioni”?

Il 2023 sembrerebbe favorire quella che si può definire una vera e propria “Recessione dei Talenti”.

Le nuove esigenze di mercato (e anche lavorative) porteranno quasi sicuramente anche altri mutamenti: sarà opportuno non farsi trovare impreparati.

LA RECESSIONE DEI TALENTI: UN RISCHIO REALE?

Nei periodi di crisi, sia nel periodo pandemico che abbiamo affrontato recentemente, sia in quelli futuri a cui ci stiamo affacciando, caratterizzati dagli aumenti dei costi sostenuti per il consumo dell’energia e per l’acquisto di prodotti a vario titolo, le aziende tendono a reagire riducendo gli investimenti: meno assunzioni o nel peggiore dei casi licenziamenti individuali o collettivi; questo nel tentativo di mantenere un equilibrio che permetta loro di affrontare situazioni di crisi. Ovviamente ipotizzare che ricorrere ai licenziamenti di massa sia una soluzione praticabile per sfidare le difficoltà non è corretto: molte imprese per contenere le perdite hanno maggior interesse a mantenere in forza i cosiddetti talenti. Parimenti un lavoratore competente che decide di abbandonare il proprio impiego reca un danno non solo in termini di costo, ma anche in termini di tempo: la ricerca per individuare un sostituito che sia altrettanto talentuoso non è infatti immediata. Dopo le grandi dimissioni, stiamo oggi assistendo ad una vera e propria “recessione dei talenti”: i lavoratori decidono di andarsene ed è difficile trovare qualcuno con le stesse competenze che li sostituisca, portando così i datori di lavoro a investire maggiore liquidità nelle attività di ricerca e selezione di nuovo personale qualificato.

È innegabile che avere, coltivare e mantenere i talenti in azienda rappresenti un elemento determinante per aumentare il livello di produttività e fondamentale per il successo aziendale.

QUALI SOLUZIONI PER PREVENIRE IL RECESSO DEI TALENTI?

Le stime della Federal Reserve prevedono che in Italia il tasso di disoccupazione salirà al 4,4% nel 2023, rispetto al 3,7% dell’ottobre 2022. Inoltre nella prima metà del 2023, secondo le proiezioni sul mercato del lavoro effettuate dal Conference Board, potrebbero essere persi circa 900.000 posti di lavoro, con la conseguente diminuzione della partecipazione generale alla forza lavoro. Le imprese che hanno l’esigenza di mantenere in forza i propri talenti contrasteranno il  fenomeno della recessione registrando un impegno nel migliorare l’esperienza lavorativa: l’introduzione di maggiori benefit ai propri dipendenti avrà un impatto positivo sul benessere e sulla qualità di vita delle persone; di conseguenza i lavoratori saranno più motivati nel prendersi cura della propria salute, delle proprie risorse e del loro percorso lavorativo.

Sarà necessario pertanto un cambio di mentalità ancora più importante rispetto a quello di questi ultimi due anni: infatti dallo studio svolto da Forrester Research, Future Of Work Survey 2022, è emerso che:

  • quattro aziende su dieci che hanno adottato il lavoro agile hanno affermato di essere interessate ad abbandonare tali modalità di lavoro, per favorire il lavoro in sede;

d’altro canto invece

  • il 68% dei dipendenti tra quelli con possibilità di lavorare in modalità agile, afferma di voler ricorrere allo smart working più spesso rispetto al periodo precedente la pandemia.

Dalla raccolta dei dati di tale ricerca, il report proposto indica che nel 2023:

  • le aziende più in difficoltà saranno quelle che non ascolteranno né collaboreranno con i propri dipendenti nel definire nuove politiche di lavoro agile;
  • la metà dei datori di lavoro che decideranno di imporre il ritorno in ufficio negando ai dipendenti la possibilità di scegliere il lavoro da remoto andrà incontro al fallimento.

In sostanza, i lavoratori non vogliono rinunciare al lavoro agile, nemmeno nei casi in cui i datori di lavoro incentivino il ritorno in azienda.

Per non farsi trovare impreparati appare quindi opportuno investire:

  • nella tecnologia;
  • nella riorganizzazione degli uffici;
  • nella sostenibilità;
  • nel lavoro ibrido e da remoto ma soprattutto in un cambio radicale di mentalità e approccio al lavoro.

DA COSA SONO ATTRATTI OGGI I LAVORATORI?

Tutte le ricerche effettuate concordano nel fatto che nel 2023 i lavoratori presteranno molta più attenzione alla flessibilità che il lavoro offre e, di fatto, la flessibilità sarà una condizione imprescindibile per lo svolgimento della propria attività.

Il rapporto 2022 Global Talent Trends di LinkedIn ha segnalato che il miglioramento delle competenze per il tramite delle occasioni di crescita in azienda è tra le maggiori priorità per i lavoratori di oggi; tale priorità è seconda solo alla retribuzione e al work life balance, ovvero l’equilibrio tra lavoro e vita privata e la flessibilità.

Inoltre 2 lavoratori su 3 hanno dichiarato che potrebbero abbandonare il loro attuale lavoro se non presenterà abbastanza opportunità per lo sviluppo delle proprie competenze o l’avanzamento di carriera.

Conoscere queste ambizioni rappresenta per le imprese l’opportunità di poter conservare e incentivare la forza lavoro attuale, oltre ad avere tutti i know how necessari per attirare nuovi talenti.

La consapevolezza di doversi allineare con un mondo del lavoro sempre più digitalizzato comporta il riconoscimento ai lavoratori di avvalersi del lavoro agile, ma non solo: sviluppa un senso critico e di analisi che permette di rendere il lavoro agile performante ed efficace. Secondo una recente ricerca svolta da Airspeed infatti almeno 1 lavoratore remoto su 3 si sente solo, disconnesso o isolato, nonostante il desiderio di svolgere parte della propria attività da remoto; la maggior parte dei soggetti intervistati ritiene che i propri colleghi non si preoccupino per loro e la problematica è talmente rilevante da portare 2 dirigenti su 3 a ritenere che i propri dipendenti potrebbero dimettersi, auspicando ad una realtà lavorativa maggiormente aggregante. Maturare la consapevolezza, insieme all’investimento in nuove tecnologie, può far sì che il proprio ambiente di lavoro diventi maggiormente attrattivo e attento alle modalità di lavoro tipiche dell’era digitale: indipendentemente dalle dimensioni aziendali, tutti i datori di lavoro dovranno adattarsi alle nuove tecnologie per soddisfare le future aspettative dei dipendenti. Il rischio collegato alla possibile recessione dei talenti rende necessario un cambiamento significativo per ricalibrare il modello operativo a cui siamo abituati, così da soddisfare le nuove aspettative dei lavoratori.

Non solo lavoro agile, ma anche lavoro sostenibile: i lavoratori stanno diventando sempre più attenti al modo in cui consumiamo, produciamo i prodotti e sviluppiamo i servizi. Su questo tema, il “Cone Communications Millennial Employee Engagement Study” già nel 2016 aveva evidenziato come il 64% dei lavoratori appartenenti alla generazione dei millennials (50% della forza lavoro negli Stati Uniti) prendesse seriamente in considerazione gli impegni sociali e ambientali di un’azienda prima di stipulare un contratto di lavoro con quest’ultima. In generale, lo studio sottolineava come le nuove generazioni siano decisamente più sensibili a pratiche di corporate social responsibility e agli impatti generati dall’attività di un’azienda e questo trend è in costante aumento, anche in Italia.

Perché la flessibilità ed il work life balance assumono un valore sempre maggiore? Per effetto di quello che è conosciuto come paradosso della felicità, attraverso cui le scelte dei lavoratori risultano essere il frutto del grado di benessere raggiunto dalla società: maggiore è la ricchezza, minore è la felicità collegata al reddito percepito; questo implica che con l’aumentare della ricchezza procapite i premi in denaro verranno sostituiti nella preferenza di flessibilità e misure di wellbeing. A dimostrarlo è Richard Easterlin nel 1974, secondo cui nel corso della vita la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e ricchezza.

Clicca qui per la rappresentazione grafica del paradosso di Easterlin.

 

COSA DESIDERA INVECE UN DATORE DI LAVORO? DALLE SOFT ALLE POWER SKILLS

Se da un lato i lavoratori richiedono più flessibilità e sostenibilità, dall’altro quali sono le competenze che ad oggi desiderano i datori di lavoro?

La pandemia ha spinto le aziende di tutto il mondo ad accelerare il ritmo di automazione e trasformazione digitale e, di conseguenza, a rivedere le competenze trasversali (soft skills). Per “soft skills”, si intendono tutte quelle competenze ed abilità di carattere generale che rientrano nella sfera personale e non tecnica, e riguardano ad esempio l’intelligenza emotiva, le aspirazioni e la gestione di situazioni complesse private e lavorative. Si tratta di abilità e conoscenze acquisite con l’esperienza ed il vissuto, che normalmente non fanno parte delle competenze sviluppate durante i classici percorsi di apprendimento. Si tratta di quelle capacità che riguardano il saper stare con gli altri, saperli motivare, sapersi spiegare, saper risolvere situazioni complesse, saper prendere decisioni anche in assenza di informazioni, essere creativi, avere autoconsapevolezza e via dicendo.

Secondo una recente ricerca svolta da IBM, le soft skill sono le competenze che tutti i CEO apprezzano e cercano disperatamente nelle personale.

Le competenze umane sono utilissime soprattutto quando si ha direttamente a che fare con la quotidianità sempre più imprevedibile e cangiante che caratterizza il mondo contemporaneo.

Le cosiddette “professioni senza routine” si sono sviluppate e hanno preso maggiormente

piede negli ultimi anni. Secondo una ricerca del National Bureau of Economic Research di Cambridge, tra il 1976 e il 2014 questa tipologia di professioni ha avuto un tasso di crescita 25 volte più alto rispetto a quello delle professioni routinarie.

La maggior parte di noi, oggi, è di fatto impiegato proprio in professioni senza routine: le job description cambiano spesso e, ancora più frequentemente, cambia il perimetro di azione delle attività: bisogna continuamente sapersi adattare e saper collaborare con gli altri anche in condizioni di estrema incertezza e complessità. E’ necessario saper selezionare ciò che è importante e saper leggere tra le righe, ma per fortuna queste capacità sono accessibili a tutti, perché sono parte delle attitudini naturali degli esseri umani. L’esperto di risorse umane John Bersin rinomina le competenze soft definendole “power skill”.

Nella sua lista di venti power skill si possono trovare termini come la gioia (capacità tutta da esplorare: magari in italiano la tradurremmo con il termine entusiasmo), la generosità, la gentilezza, la pazienza, la tenacia… più che competenze sembrano virtù. Ma trovano spazio anche l’etica, la capacità di sorprendersi e di perdonare, l’umiltà, l’integrità, l’ottimismo: attitudini e valori che evidentemente si trasformano in saper fare.

E infine, per tornare in un’area vagamente più familiare, vi sono sia il “drive” che la capacità di seguire gli altri, la gestione del tempo, la capacità di apprendere, la flessibilità e il teamwork. Il fatto è che queste capacità non si insegnano né a scuola né all’università, per questo motivo è importante investire sullo sviluppo di nuovi modi per misurare e migliorare tali competenze.

 

 

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HR&Organizzazione – L’ECONOMIA dell’attenzione

Andrea Merati, Consulente sistemi di gestione aziendale

Tutto ebbe inizio il primo settembre 1969, quando l’economista, nonché professore, Herbert Simon parlò di “Progettare organizzazioni per un mondo ricco di informazioni”; l’evento, una conferenza universitaria, rimase casualmente compreso tra il Festival di Woodstock, a metà agosto, e la morte di Jack Kerouac, a fine ottobre: si concludono gli anni Settanta, inizia a spegnersi la rivoluzione giovane e si accende il congegno dell’innovazione tecnologica digitale. Il professor Simon, per farsi comprendere, raccontò una storiella (il termine cool sarebbe storytelling, ma non riesco): «La Pasqua scorsa i miei vicini hanno comprato per la loro figlia un paio di conigli. Non so se intenzionalmente o per sbaglio, fatto sta che uno era maschio e l’altra femmina, e così ora viviamo in un mondo ricco di conigli. Che un mondo sia ricco o povero di conigli è una questione relativa. Ma poiché il cibo è essenziale per le popolazioni biologiche, potremmo giudicare se il mondo è povero o ricco di conigli, mettendo a confronto il numero di conigli con la quantità di lattuga ed erba a loro disposizione. Un mondo ricco di conigli è un mondo povero di lattuga e viceversa». Più avanti, nel discorso, aggiunge: «In una società ricca d’informazione deve dunque mancare qualcosa: questo qualcosa è l’attenzione».

Abbiamo a disposizione una gran quantità di ricerche (gli scettici possono riversarsi sull’internet a cercare i lavori di Hayles o di Seaver) sulle moderne capacità di lettura: in digitale è molto più difficile mantenere lo stesso livello di comprensione, empatia e ricordo rispetto alla lettura su carta; inoltre, dopo oltre cinquant’anni, si conferma il pensiero del professor Simon: abbiamo una enorme ricchezza di informazioni ma, contestualmente, siamo sempre più affetti da un deficit di attenzione. Tra il 2017 e il 2021 si è prodotta una quantità di dati che ha superato quella generata nell’intera precedente storia umana, tanto che si comincia a parlare di non sapere più dove metter la roba (gli armadi digitali occupano spazio ma, al contrario dei nostri guardaroba, hanno anche il problema di consumare un sacco di energia). Da quando gran parte delle nostre vite (quella privata e quella lavorativa) hanno preso casa on line, la nostra capacità di concentrazione ha iniziato a scemare: complessivamente per circa il 40%, con picchi nei giovani (64%) e nella mezza età (57%), le motivazioni di tale fenomeno pare siano ascrivibili alla dipendenza da smartphone, alla bulimia da social network e all’uso compulsivo, assurdo e violento della posta elettronica (in questo caso, agnostici e dubbiosi possono scatenare il Google su Fletcher – non è la signora in giallo -, Demeneix o CMU of Pittsburgh; gli aggettivi, invece, sono colpa mia).

Tutto questo ci racconta che abbiamo un problema di comunicazione efficace, che è molto probabile che il nostro messaggio non venga assimilato e che risulti anche poco assorbito, per non parlare di quanto possa esser capito. Perdite di tempo enormi e costose, tanto che hanno pure un nome: switch cost, il costo dello spostamento dell’attenzione, quando si guardano le notifiche o si leggono messaggi e poi si deve tornare al lavoro iniziale. Tornando al nostro professore, egli ci ricorda che per elaborare le informazioni è necessario distribuire la nostra attenzione attraverso quattro classi di attività: ascolto, conservazione, pensiero e parola; da qui si evince che una organizzazione deve tendere ad assorbire
meno quantità possibile di attenzione, assumendo più informazioni di quante ne produce; quindi, funziona se ascolta e pensa più di quanto parli.
Dobbiamo rivedere la progettazione e le modalità dei nostri sistemi informativi, legando il tutto a una cultura nuova della comunicazione, tecnologica e no, verso l’esterno ma, soprattutto, all’interno del nostro spazio professionale. Ci torneremo, nel mentre possiamo considerare che Herbert Simon ha vinto il Turing nel 1975, il Nobel per l’economia nel 1978 e, nel 1993, ha ottenuto il riconoscimento per gli straordinari contributi dati alla psicologia, dall’American Psychological Association; potremmo anche disapprovare le sue conclusioni, osservando orgogliosamente sui ripiani della nostra libreria, la medaglia d’oro della Marciallegra vinta alle medie e il diploma di merito conquistato al circolo degli scacchi, ma rischiamo di perderci in un labirinto di informazioni inutili, che distolgono l’attenzione da ciò che ci serve davvero.

 

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HR&Organizzazione – PECUNIA NON OLET, MA LA PAGA NON BASTA A CONTRASTARE LA GREAT RESIGNATION DAL MONDO DEL LAVORO Dal quiet quitting al job creep, l’analisi delle dimissioni di massa e dello stato di salute del mercato del lavoro

Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Pavia, Esperta in materia  di sicurezza sul lavoro, Presidente Ancl UP Pavia

 

In più occasioni ci siamo domandati come la pandemia avrebbe modificato il nostro modo di lavorare, i rapporti interpersonali e più in generale il vivere quotidiano. Se da un lato siamo consapevoli che ad oggi non si è ancora sedimentata una nuova quotidianità, d’altro canto abbiamo percezione e certezza che stiamo assistendo ad una vera e propria rivoluzione del mondo del lavoro. Questo non solo da un punto di vista operativo, dato che da ormai due anni a questa parte imprenditori e professionisti hanno dovuto avviare una significativa riorganizzazione del lavoro, ma in maniera importante anche sotto l’aspetto psicologico dell’approccio all’attività lavorativa.

È indubbio che i due fenomeni hanno una stretta correlazione: lo smart working, che ha caratterizzato gran parte della riorganizzazione dell’attività lavorativa, ha portato ad una lenta e costante evoluzione dell’approccio dei lavoratori alla propria attività.

Molti sono i lavoratori che hanno scoperto e apprezzato questo nuovo modo di lavorare: la possibilità di gestire il tempo, la riduzione dei costi di viaggio per raggiungere il luogo di svolgimento dell’attività lavorativa, o già soltanto non dover affrontare la difficoltà di trovare parcheggio, hanno reso fortemente appetibile questo nuovo strumento organizzativo. Tuttavia, come spesso accade, la “medaglia” dello smart working presenta una seconda faccia, oggettivamente negativa, che passa dalla sensazione di isolamento, al senso di inadeguatezza, alla progressiva perdita di senso di appartenenza all’identità aziendale.

Tutti questi aspetti negativi, trascurati -a volte per oggettiva impossibilità e impreparazione- per un lungo periodo, hanno dato origine ad alcuni fenomeni che si stanno manifestando sempre più insistentemente in tutto il mondo, anche nel nostro paese, ed in maniera diffusa anche nelle realtà di medie e piccole dimensioni.

GREAT RESIGNATION O DIMISSIONI DI MASSA

Uno dei fenomeni di cui tristemente si parla da diversi mesi a questa parte è quello delle dimissioni di massa, che negli Stati Uniti viene chiamato Great Resignation e che tra aprile e settembre 2021 ha portato ben 19 milioni di americani a lasciare il lavoro, con un picco di 4,5 milioni di dimissioni nel solo mese di novembre 2021, un vero e proprio record storico. Analisti e imprenditori studiano da oltre un anno il fenomeno tentando di individuarne le ragioni, che parrebbero non essere correlate alla precarietà del mondo del lavoro: attualmente, infatti, negli Stati Uniti il mercato del lavoro è molto dinamico, almeno dal punto di vista delle richieste da parte imprenditoriale, cui però fa da contraltare una limitata offerta di disponibilità da parte della forza lavoro. Uno degli aspetti di maggior rilievo del fenomeno sembra essere correlabile alla tipologia di lavoro svolto, collegata all’età della persona: la maggior parte delle fughe dal lavoro è avvenuta da lavoratori con mansioni impiegatizie, compresi in una fascia di età tra i 30 e i 45 anni, caratterizzata da una maggior appetibilità sul mercato del lavoro rispetto a chi ha maturato minore esperienza. La consapevolezza di un mercato del lavoro dinamico ed il fabbisogno di risorse formate e competenti, ha dunque incentivato i lavoratori a cercare nuove condizioni di lavoro, maggiormente confacenti alle proprie esigenze personali e familiari.

Un’altra ipotesi di spiegazione del fenomeno è strettamente collegata al periodo pandemico: in base alle statistiche nel periodo di lockdown i lavoratori hanno subito un notevole aumento della mole di lavoro, specie in alcuni settori, quale la sanità, dove le dimissioni sono aumentate del 3,6%. In questo caso l’aumento dello stress (e, a volte, conseguente burnout) è stata la ragione che ha spinto i dipendenti a lasciare la propria occupazione.

Il fenomeno della Great Resignation si sta manifestando sempre di più anche in Italia: secondo una statistica Inps, nel primo semestre 2022 sono state oltre 1,08 milioni le persone che hanno lasciato il lavoro. Il dato non è mai stato così alto negli ultimi 8 anni: l’aumento infatti è del 35% rispetto al 2021. Da una ricerca del Politecnico di Milano è emerso inoltre che, per una/un lavoratrice/ lavoratore su quattro, l’aspirazione a modalità di lavoro più “agili” è tra i motivi principali che portano alle dimissioni. Ma il dato più importante che emerge da questa indagine è che per circa l’83% delle persone intervistate le motivazioni vanno ricercate soprattutto nel malessere emotivo, dato dall’assenza di riconoscimenti di merito e dal non sentirsi in linea con i valori aziendali.

 

IL QUIET QUITTING

Alla Great Resignation può essere associato il Quiet Quitting, fenomeno che ha iniziato ad espandersi notevolmente negli ultimi mesi, diventando virale anche sulle piattaforme social più famose.

Tradotto letteralmente significa “abbandono silenzioso”, nonostante la definizione non rispecchi a pieno il significato del fenomeno. Il quiet quitting si manifesta infatti quando un lavoratore cerca di limitare i propri compiti a quelli strettamente previsti dalla propria mansione, per evitare di trovarsi nella necessità di prestare lavoro straordinario o fare più del minimo necessario richiesto.

Il lavoratore che manifesta il quiet quitting lavora il minimo indispensabile, senza essere propositivo e senza sviluppare alcun senso di responsabilità per la propria mansione, con l’intento di lavorare il meno possibile a discapito della qualità della propria prestazione, per concentrarsi in toto sulla propria vita privata e sulle attività extra-lavorative.

Una chiave di lettura del fenomeno potrebbe essere da ricercare nell’insoddisfazione dei dipendenti per la propria posizione, in pratica significa che il dipendente è pronto a cambiare posizione o che sta addirittura cercando un nuovo lavoro.

Un altro aspetto da considerare è che il dipendente stia vivendo (o stia per vivere) un fenomeno di burnout: a livello psicologico l’abbandono silenzioso può essere considerata infatti come una delle modalità di comportamento utilizzate, anche inconsciamente, dal dipendente per alleviare forti situazioni di stress lavoro-correlato.

Il fenomeno del quiet quitting potrebbe essere anche legato alla ricerca del benessere e dell’equilibrio, il periodo pandemico ha rafforzato nel lavoratore l’idea che si possa essere ugualmente produttivi ed efficienti anche lavorando da remoto, con addirittura la possibilità di gestire meglio l’equilibrio tra vita privata e lavoro. Dopo la pandemia le priorità delle persone appaiono fortemente cambiate, tanto che molti non sono più disposti a tornare a lavorare alle condizioni pre-covid, soprattutto i giovani che, oggi, complice anche l’attuale situazione economica del Paese, nutrono meno ambizioni di carriera.

 

IL FENOMENO DEL JOB CREEP O WORK CREEP

Il fenomeno opposto a quello dell’abbandono silenzioso è quello del job creep, o “lavoro strisciante”.

Questo fenomeno in voga negli anni 2000 e poi scomparso per qualche anno, è tornato a far parlare di sé complici anche gli effetti lasciati dalla pandemia, dal boom dello smartworking e del lavoro ibrido, all’utilizzo sempre più frequente di strumenti tecnologici. In questo caso, il dipendente tende ad assumersi più incarichi rispetto a quelli previsti per la  propria mansione, a estendere l’orario di lavoro oltre i limiti contrattuali e a rimanere sempre collegato al computer o allo smartphone, costantemente a disposizione di superiori e colleghi. Ne consegue ovviamente uno sbilanciamento del cosiddetto work life balance a favore della vita professionale, con relativo stress e peggioramento della qualità della vita. I confini tra lavoro e vita privata, specie quando si lavora da remoto, sono sempre più sottili: tale fenomeno fa leva su fattori psicologici, come la volontà di riconoscimento o il voler sempre soddisfare le aspettative dei manager. Per alcune persone il fatto di cambiare il proprio modo di lavorare e stravolgere i ritmi lavorativi (attraverso lo smart working) ha portato al rovescio della medaglia, e cioè non essere stati in grado di rallentare i propri ritmi. Il job creep è proprio questo: la volontà di non fermarsi mai, di continuare a lavorare ben oltre l’orario, di continuare a produrre e assumersi sempre più responsabilità, anche senza promozioni o aumenti di stipendio. Kim Marie Thore, esperta di marketing, comunicazione e relazioni pubbliche, focalizzata su strategie e risultati aziendali, è intervenuta in merito all’argomento sul suo profilo LinkedIn, facendo presente che il primo passo per “combattere” questo fenomeno è quello di “essere onesti quando fissiamo le nostre aspettative con noi stessi, col nostro team e con i nostri superiori, cercando di essere efficienti, ma con un occhio più critico e senza avere paura di dire di no”. Perché, “un lavoratore sano, con la mente sgombra, è di sicuro più efficiente di uno pressato dalla mole di progetti. Spezziamo la convinzione che dire sempre sì induca ad un miglioramento della propria posizione” conclude Kim.

I NUOVI RISCHI PSICOSOCIALI NELLE PICCOLE AZIENDE

Qual è quindi lo stato di salute attuale dei lavoratori? E come stanno i lavoratori di aziende medio/piccole, che hanno avuto meno strumenti per gestire in maniera ottimale la nuova organizzazione del lavoro dettata dalla pandemia? L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA), ha presentato una relazione contenente i risultati di uno studio sulla gestione dei rischi psicosociali nei posti di lavoro europei, intervistando alcuni lavoratori di micro e piccole imprese in Danimarca, Germania, Spagna, Croazia, Paesi Bassi e Polonia. Attraverso questa intervista, i lavoratori hanno segnalato:

  • cattivo equilibrio tra lavoro e vita privata, raccontando di vivere con un alto livello di stress a causa dell’eccessivo carico lavorativo; carenza di personale nel settore dell’istruzione che porta a molte ore di lavoro extra con conseguente aumento di stress;
  • alto livello di accettazione e consapevolezza di questi fattori di rischio che finiscono per essere considerati come elementi inalienabili delle attività di lavoro;
  • discrepanza tra le interpretazioni dei lavoratori e dei manager sul rischio connesso all’eccessivo carico di lavoro;
  • scarse relazioni sociali sul posto di lavoro.

Alcuni intervistati in Spagna e nei Paesi Bassi hanno indicato che l’impatto del telelavoro ha permesso ai giovani genitori di trascorrere più tempo con i figli, ma altri intervistati hanno spesso sollevato il pericolo di confusione tra lavoro e vita familiare. La ricerca ha raccolto poi opinioni differenti anche tra i lavoratori più giovani e senza impegni familiari. Alcuni, infatti, preferiscono comunicare e lavorare online a causa della comodità e del denaro risparmiato nei viaggi casa-lavoro, mentre altri parlano della lotta per bilanciare lavoro e vita privata e si sentono sopraffatti dalle forme puramente online di comunicazione con i colleghi. Molti lavoratori hanno notato, come risultato del telelavoro, un deterioramento della qualità della comunicazione: la mancanza di contatto umano e di dialogo tra i lavoratori hanno ridotto la possibilità di confronto e condivisione dei problemi legati al lavoro.

CONCLUSIONI
Il fenomeno delle dimissioni di massa e la difficoltà a reperire risorse valide e competenti nel mondo del lavoro sono in gran parte  figli” della pandemia e degli strumenti organizzativi di contrasto al contagio che sono stati adottati il più delle volte in maniera estemporanea e senza il giusto monitoraggio. In conseguenza di ciò i lavoratori hanno prima sviluppato sintomi legati al jobcreep, consistenti nella difficoltà a scindere vita lavorativa da vita privata, quindi sintomi di quiet quitting, ovvero disaffezione al lavoro. Come poter reagire a questa discrasia dell’equilibrio
vita/lavoro? In parte con ciò che l’ha causata, ovvero con il lavoro agile, che deve diventare non solo agile ma anche cosciente, performante e lungimirante. Inoltre, adottare misure di conciliazione (o meglio armonizzazione) vita/lavoro oggi è la chiave di volta per ripristinare l’equilibrio virtuoso che deve caratterizzare il mondo del lavoro.
Se infatti Vespasiano, imperatore romano, ci insegna che pecunia non olet 1 (il denaro non puzza), il fenomeno della great resignation odierno ci indica che le questioni meramente economiche sono relative: lo stipendio è infatti
soltanto uno dei tanti elementi che creano la soddisfazione del lavoratore.

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HR&Organizzazione – LA BIODIVERSITÀ UMANA come nuova frontiera della sostenibilità

di Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Pavia, Esperta in materia  di sicurezza sul lavoro, Presidente Ancl UP Pavia

 

Il momento storico che stiamo vivendo richiede una complessa, profonda e veloce riflessione sull’organizzazione del lavoro, partendo dalla ridefinizione degli spazi, delle relazioni interpersonali e dell’uso del tempo. Parlare di “sostenibilità aziendale” non riguarda solamente l’impatto ambientale dell’azienda, ma anche il suo effetto sociale ed economico. Affrontare la sostenibilità del lavoro significa scontrarsi con le sfide più delicate che aziende e persone hanno di fronte a sé per prossimo futuro: dalla formazione continua, alla flessibilità, alla digital trasformation, al lavoro agile come nuova modalità per il benessere individuale e collettivo.

Come sottolineato nel 2015 da Eurofound, l’agenzia Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, «lavorare in modo sostenibile significa, innanzitutto, creare le condizioni affinché le persone possano sviluppare la propria professionalità e rimanere attive durante tutta la loro vita in un’ottica di costante occupabilità, eliminando i fattori che scoraggiano od ostacolano l’ingresso, la permanenza e la crescita nel mondo del lavoro». Promuovere e mantenere un alto grado di benessere in azienda dal punto di vista fisico, psicologico e sociale dei lavoratori, ad ogni reparto e ad ogni livello, è alla base della crescita sostenibile e duratura non solo dell’impresa e della sua produttività, ma anche delle persone che ne fanno parte.

LA SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE IN AZIENDA

Il concetto di sostenibilità proviene dall’idea di “gestione sostenibile” di una risorsa, in cui si prevede di utilizzare o prelevare quella risorsa senza danneggiare la sua naturale capacità di rigenerarsi.

Il World Summit on Sustainable Development (WSSD) di Johannesburg (2002) ha esteso il concetto di Sviluppo Sostenibile che puo’ essere considerato un equilibrio dinamico tra qualità ambientale, sviluppo economico, equità sociale.

I vantaggi per l’impresa che introduce la sostenibilità nei propri piani aziendali sono:

  1. contribuire a creare e mantenere un elevato profilo aziendale, un’immagine e una reputazione positive;
  2. creare un ambiente di lavoro migliore, più sicuro e più motivante (il c.d. benessere organizzativo di un’azienda);
  3. garantire una forte coesione con gli stakeholder;
  4. facilitare l’accesso al credito e ridurre il rischio di impresa;
  5. migliorare l’efficienza della gestione aziendale;
  6. permettere di usufruire di vantaggi fiscali e semplificazioni amministrative.

I datori di lavoro sono veramente sostenibili quando garantiscono la sicurezza, la salute e il benessere dei loro lavoratori, e quando, di conseguenza, creano un assetto di salute e benessere che inevitabilmente impatta sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

Un ambiente di lavoro che premia il benessere organizzativo comporta un inevitabile miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro: pensiamo ad esempio allo stress lavoro correlato, i cui indici subiranno sicuramente una notevole riduzione. Ma proviamo a pensare ancora più “in grande”: un’azienda green, che  necessariamente è un’azienda etica, potrebbe rendere questo processo green una componente di un più ampio codice etico, che -con la dovuta organizzazione- potrebbe generare uno sconto sul tasso Inail attraverso la presentazione del modello OT23.

Sono diverse le attività che possono rendere sostenibile un’azienda, tre in particolare, secondo il progetto “Song” realizzato da MeglioQuesto Spa:

  • la necessità di creare delle postazioni di lavoro “ergonomiche” in senso lato, ovvero non riconducibili solo alla posizione della scrivania o al tipo di poltrona, ma a criteri di architettura e design sostenibili, in grado quasi di ricreare un ambiente lavorativo in mezzo alla natura, con una forte riduzione di emissioni, grazie ai materiali da costruzione utilizzati, e con l’assenza quasi totale di inquinamento acustico e visivo;
  • l’accordo che l’azienda ha stipulato con il Pronto Soccorso psicologico di Milano. Un benefit innovativo inserito nel piano di welfare aziendale, utile a supportare un disagio, anche temporaneo, dei dipendenti.
  • un panel di attività mirate a coltivare il talento di ciascuno, per far emergere le potenzialità e la creatività, migliorare la performance partecipativa e promuovere l’inclusione, a tutti i livelli.

 

IL WELFARE SOSTENIBILE

Nel mondo delle aziende, il lavoro diventa sostenibile quando vengono attuate politiche industriali che creano un ambiente favorevole, attraverso -ad esempio- i servizi di welfare aziendale.

Il welfare aziendale, ovvero quell’insieme di prestazioni, agevolazioni, rimborsi e fringe benefit che il datore di lavoro mette a disposizione dei dipendenti, sta assumendo un ruolo sempre più predominante: non solo comporta importanti vantaggi fiscali e risparmi contributivi per l’azienda e per gli stessi dipendenti, ma permette di creare un ambiente di lavoro più confortevole e piacevole, di diffondere il benessere e di contribuire al miglioramento della qualità della vita dei collaboratori e dei loro familiari.

Una politica di welfare è anche in grado di rendere possibili, all’interno dell’azienda, importanti cambiamenti rispetto al clima aziendale e alla produttività. Si tratta di un piano di lavoro completo che permette all’azienda di prestare attenzione alle necessità dei propri collaboratori, al fine di poter creare luoghi di lavoro incentrati sulle persone e sul loro benessere.

Una soluzione di welfare  in tema di sostenibilità, ad esempio, potrebbe essere la figura del mobility manager, introdotto come misura obbligatoria dal 10 maggio 2021 per tutte quelle aziende con più di 100 addetti operanti in territorio con oltre 50mila abitanti: il suo compito sarà quello di pianificare e gestire gli spostamenti casa-lavoro dei dipendenti, pianificare lo smart working e gestire il tutto in maniera responsabile e sostenibile. Il mobility management quindi, inserito in una strategia più ampia di welfare aziendale, diventa un punto fondamentale per formulare azioni di mobilità sostenibile che possano avere un impatto sia sul benessere dei lavoratori sia sull’ambiente. Un secondo esempio di welfare sostenibile si configura con l’introduzione dello smart working: continuare a incentivare il lavoro da casa ha effetti positivi sia sull’ambiente che per l’azienda stessa. Aiuta, infatti, a ridurre l’inquinamento causato dall’uso dell’automobile e a risparmiare in maniera incisiva sui costi, considerando l’aumento dei prezzi di gasolio e benzina dell’ultimo periodo. Amorim Cork Italia, azienda leader nel nostro

Paese per la produzione e vendita di tappi in sughero, ha avviato da tempo un percorso di welfare aziendale che prevede la realizzazione di 14 progetti a favore della conciliazione tra vita personale e lavorativa, come parte integrante del suo percorso di sviluppo sostenibile. L’azienda ha adottato una serie di misure per favorire lo sviluppo sostenibile, introducendo, tra le altre cose, l’orario flessibile sia in entrata che in uscita, la banca ore, il lavoro da casa, i checkup sanitari, il family day e la creazione di spazi in azienda dedicati alle attività conviviali.

L’azienda ha inoltre creato anche un regolamento aziendale e iniziato un percorso di certificazione per portare i dipendenti a formulare proposte per la conciliazione vita-lavoro. A seguito di queste iniziative, l’azienda ha conseguito la certificazione “Family Audit”, che la qualifica come organizzazione attenta alle esigenze di conciliazione famiglia-lavoro dei propri dipendenti. Ha inoltre iniziato un percorso per definire i fabbisogni formativi interni attraverso un test psicoattitudinale somministrato a tutti i collaboratori. L’obiettivo è quello di creare un percorso di formazione continua, secondo le attitudini delle persone e sfruttando il loro potenziale.

CONCLUSIONI

Pare evidente che inserire la sostenibilità nelle strategie aziendali rappresenta oggi un vero e proprio plus: un’impresa che valorizza la sostenibilità ambientale, sociale ed economica viene considerata più affidabile e al contempo pu  generare benessere organizzativo e credito anche in termini monetari. L’evoluzione del sistema economico globale sta  incentivando le imprese ad acquisire sempre maggiore consapevolezza in materia di sostenibilità e, a fronte di una sensibilizzazione in aumento sulla tematica ambientale, gli imprenditori stanno imparando a valorizzare tutti gli aspetti legati ad un mondo del lavoro sostenibile ed etico.

Sarà questa la sfida del prossimo futuro per noi professionisti: chi si occupa di lavoro, salute e sicurezza dovrà essere pronto ad avanzare al fianco del cambiamento, e quando possibile, anticiparlo.

 

 

 

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HR&Organizzazione – INTELLIGENZA ARTIFICIALE: gli emarginati digitali

di Andrea Merati, Esperto di sistemi di gestione

In affiancamento al delirio bellico si ritorna a parlare dell’intelligenza artificiale; questa ripresa di moda (come le microgonne per la primavera-estate 2022 – Zendaya e Nicole Kidman non ne possono più fare a meno) mi permette di portare su queste pagine le parole di Emanuela Girardi, fondatrice e presidente dell’associazione Pop AI (se vi fa ridere cercatela in rete: tornerete subito seri): “se non portiamo le competenze ai lavoratori e ai cittadini creeremo i nuovi poveri del futuro, gli emarginati digitali, che non saranno in grado né di partecipare al mondo del lavoro, né alla nuova società.” Mi permetto di trasporre il concetto ai professionisti: vedo un mesto futuro.

L’Italia ha pubblicato, ultima in Europa, un piano strategico per la diffusione dell’intelligenza artificiale; appare un po’ come il tema di terza liceo di uno studente informato e visionario, speranzoso e sognante, che si vede adulto in un mondo fantascientifico: senza finanziamenti e tempi di realizzazione, del tutto mancante di una visione industriale, nonché di modalità per spingere le nuove competenze nell’istruzione, nella pubblica amministrazione e nelle aziende. Insomma, ci dobbiamo muovere per conto nostro. Ogni volta che sfruttiamo l’informatica nei processi, le capacità e le competenze crescono in termini di quantità di operazioni eseguite, di dati elaborati e di velocità di esecuzione; ma non è più abbastanza, perché ci siamo accorti che ci manca sempre il tempo, dobbiamo rincorrere le normative, le richieste dei clienti e lo spazio del fare risulta perennemente scarso o insufficiente. L’intelligenza artificiale è in grado di aumentare le nostre facoltà di elaborazione per risolvere problemi e prendere decisioni: potrebbe essere una delle ultime opportunità per un sistema produttivo, come il nostro, già schiacciato dall’invecchiamento materiale della popolazione, che rischia l’annientamento da invecchiamento mentale (morte cerebrale mi sembrava troppo forte, allora ho deciso di non scriverlo).

Non sono qui a pubblicizzare prodotti o a vendere coltelli per le verdure, non serve fare nomi perché basta cercare sull’internet (un consiglio: fate le ricerche importanti con un browser diverso da quello che usate abitualmente e con la finestra in incognito, potreste ricavarne qualche sorpresa; anche questa è una questione di intelligenza artificiale, quella che riguarda l’apprendimento di chi siamo per darci risultati maggiormente attinenti a quello che viviamo; però, a volte, è meglio avere una visione più ampia e meno mediata della realtà).

Rispetto al mio precedente scritto su queste pagine, ci sono diverse novità, perché il progresso tecnologico non è stato rallentato dalla peste e molta evoluzione degli strumenti di Machine Learning e di Natural Language Processing hanno migliorato e creato sistemi di aiuto all’elaborazione delle informazioni e all’automazione dei processi, anche quelli decisionali e produttivi (in questo caso non mi riferisco all’inscatolamento del burro o al trasferimento dei container nel Pacifico, ma alle attività di uno studio di consulenza); la maggior concentrazione di novità tecnologiche e funzionali si trova nella redazione e gestione dei contratti: le soluzioni basate sull’intelligenza artificiale, per esempio, possono accelerare il processo di revisione del 20-90% senza sacrificare l’accuratezza, rispetto alla revisione manuale.
Espongo due esempi tra quelli che mi è capitato di analizzare negli ultimi tempi.
Lo studio Fredrikson Law, con uffici in Stati Uniti, Messico e Cina, ha deciso di adottare un software di Machine Learning per l’analisi dei contratti che ha ottenuto una diminuzione di quasi il 50% del tempo sulla revisione dei documenti; inoltre, lo studio ha stimato che il nuovo strumento ha aumentato l’efficienza complessiva dei processi di oltre il 20%.
Lo studio legale Salazar Law, specializzato in procedure fallimentari, ristrutturazioni aziendali, contenziosi e contratti di lavoro, grazie all’adozione di un software di Natural Language Processing, ha potuto mantenere la propria struttura piccola e, nel contempo, divenire un’alternativa più rapida ed efficace alle imprese più grandi del settore. Salazar Law ha utilizzato una piattaforma che consente di produrre documenti che rispettano sia le esigenze legali, sia le richieste dei clienti, tramite l’automazione nella creazione e nella revisione dei documenti, supportandola con suggerimenti e proposte che il software genera grazie al ciclo continuo di lettura e autoapprendimento che lo caratterizza.
Per questa primavera Jovanotti racconta che “La morte è quella cosa, che agli altri può succedere.
Ma resta sempre la speranza che a noi non accadrà”, per sempre i Pink Floyd chiedono: per non restare emarginati digitali.

 

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