Il repêchage “alla riscossa” nella più recente giurisprudenza

di Gionata Cavallini, Dottorando di ricerca in diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, Avvocato in Milano

 

 

  1. Premessa

Come è noto a tutti coloro che si sono occupati almeno una volta di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.), con il termine repêchage si fa riferimento alla regola che obbliga il datore di lavoro a provare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore licenziato per g.m.o. in mansioni diverse da quelle soppresse (e quindi “ripescarlo”, volendo tradurre il fortunato francesismo, tutto nostrano, con cui si indica l’istituto).

Il ripescaggio configura innanzitutto un onere probatorio di tipo processuale, riconducibile all’onere del datore di lavoro di provare le ragioni tecniche, organizzative e produttive poste a base del licenziamento (artt. 3 e 5, L. n. 604/1966), ma ad esso corrisponde anche l’obbligo, di tipo sostanziale, di tentare una ricollocazione del lavoratore prima di recedere dal rapporto.

L’istituto è di origine essenzialmente giurisprudenziale, posto che è stato elaborato nel sostanziale silenzio della legge (che vi fa riferimento solo per il caso dei lavoratori divenuti parzialmente inabili in conseguenza di malattia o infortunio: art. 4, co. 4, L. n. 68/1999), e viene spesso ricondotto alla lettura tradizionale del licenziamento quale ultima ratio.

Anche per tale origine giursiprudenziale, la natura giuridica e i fondamenti del repêchage formano tuttora oggetto di un acceso dibattito, del quale non è possibile dare conto in questa sede[1]. Nell’ultimo triennio, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità, rispondendo alle problematiche sollevate dalla prassi applicativa, ha avuto modo di stabilire alcuni “punti fermi”, sui quali vale la pena di soffermarsi.

  1. Gli oneri di allegazione e prova del repêchage

Un primo profilo rispetto al quale la Cassazione ha fornito importanti chiarimenti riguarda la distribuzione degli oneri di allegazione e prova dell’assolvimento o meno dell’obbligo di repêchage.

A partire dai primi anni 2000, a fronte del progressivo ampliamento dei contenuti dell’obbligo di ricollocazione (esteso dapprima alle mansioni inferiori[2], quindi a mansioni di contenuto professionale diverso[3] e infine anche a reimpieghi realizzati mediante differenti tipologie contrattuali[4]), si era consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo cui graverebbe sul lavoratore che impugna il licenziamento un onere di indicare le posizioni vacanti cui avrebbe potuto essere utilmente adibito[5]. Solo l’assolvimento di tale onere di allegazione, da parte del lavoratore, avrebbe fatto insorgere l’onere della prova (ovviamente contraria) in capo al datore di lavoro.

Tale orientamento realizzava un’inedita scissione tra gli oneri di allegazione e quelli di prova, lontana dai principi processuali classici, ricondotta da una parte della dottrina al tentativo di correggere le rigidità provocate dalla creazione e dalla dilatazione dell’obbligo di repêchage, che finiva per uscire sostanzialmente attenuato grazie alla distribuzione degli oneri probatori[6].

La Cassazione, tuttavia, a partire dal 2016, è tornata sui propri passi, affermando che «spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente»[7].

Tale nuovo orientamento è stato poi ribadito da numerose decisioni successive[8], sicché oggi deve ritenersi che sul lavoratore non grava alcun onere di indicare nel ricorso le posizioni alternative cui avrebbe potuto venire adibito (il che non significa, evidentemente, che non valga la pena di farlo). Ne deriva che l’onere datoriale di provare l’impossibilità del repêchage, in quanto concernente un fatto negativo, potrà essere assolto non già sfruttando la mancata indicazione da parte del lavoratore, ma solo mediante la prova (presuntiva) che tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento e che, dopo di esso e per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate assunzioni[9].

  1. Il repêchage a mansioni inferiori

Contemporaneamente, a incidere in senso estensivo sulla latitudine dell’obbligo di repêchage ci ha pensato la riscrittura dell’art. 2103 c.c. ad opera del legislatore del Jobs Act.

La riforma della disciplina delle mansioni, infatti, nell’estendere l’ambito di legittimo esercizio dello ius variandi alle mansioni corrispondenti al livello di inquadramento inferiore, nonché, con il consenso dell’interessato, a qualunque livello di inquadramento inferiore, ha definitivamente consacrato l’orientamento per cui l’adempimento dell’obbligo di repêchage si estende fino alla verifica della possibilità di adibire il lavoratore a mansioni dal contenuto professionale inferiore.

Secondo la Cassazione, infatti, «l’art. 2103 c.c. si interpreta alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, sicché, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, non è necessario un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale»[10].

L’orientamento è stato subito raccolto dalla giurisprudenza di merito che non ha mancato di affermare che il datore di lavoro ha l’obbligo di provare «non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di aver proposto allo stesso la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, e che il lavoratore le abbia rifiutate»[11].

  1. Le conseguenze dell’inadempimento del repêchage

Un ultimo profilo su cui la giurisprudenza più recente ha avuto modo di soffermarsi è quello delle conseguenze sanzionatorie della violazione dell’obbligo di repêchage nel regime di cui all’art. 18 St. lav., come modificato nel 2012 dalla riforma Fornero.

Il nuovo art. 18, infatti, prevede che ove venga accertata l’illegittimità del licenziamento intimato per g.m.o., il giudice possa applicare la tutela reintegratoria solo in caso di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento», mentre nelle «altre ipotesi» troverà applicazione la tutela economica, con attribuzione al lavoratore di un’indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità.

All’indomani della riforma del 2012, la dottrina si è lungamente interrogata sul senso da attribuire alla nozione di «fatto posto a base del licenziamento» e, in particolare, sulla possibilità o meno di ricondurvi anche il mancato adempimento dell’obbligo di repêchage[12].

Sul punto la giurisprudenza di merito si è spaccata, pronunciandosi inizialmente nel senso che la violazione del repêchage comporta conseguenze meramente economiche, con esclusione della reintegrazione[13], e poi nel senso che la stessa può invece comportare l’applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18, co. 4 e 7, St. lav.[14]

A porre fine alla querelle ci ha pensato la Cassazione che, con una recente pronuncia articolata e dalle ricche motivazioni, ha stabilito che «la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore»[15].

Secondo l’opzione interpretativa della Cassazione, ribadita all’inizio di quest’anno[16], anche la violazione dell’obbligo di ricollocazione, laddove sia “manifesta”, può condurre alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Per i lavoratori assunti in regime di Jobs Act è invece difficile intravedere spiragli di operatività della tutela reale in caso di violazione del repêchage, posto che l’art. 3, co. 1, D.lgs. n. 23/2015 prevede espressamente che in ogni caso in cui non ricorrano gli estremi del g.m.o. le conseguenze sono di tipo meramente indennitario.

Ciò non significa però che il repêchage perda di rilevanza in riferimento ai c.d. “neoassunti”. Innanzitutto, dopo il Decreto Dignità e la pronuncia di Corte costituzionale n. 194/2018, la sanzione economica può essere liberamente determinata dal giudice entro la forbice 6-36 mensilità. In secondo luogo, nel caso in cui l’inadempimento del ripescaggio sia evidente e plateale – si pensi a un datore di lavoro che subito dopo il recesso assuma lavoratori per le stesse mansioni – tale circostanza potrà, sia pure in concorso con altri elementi, essere valorizzata per sostenere che dietro il motivo economico formalmente addotto si celano altre e inconfessabili ragioni ed eventualmente vedere accertata la natura ritorsiva del licenziamento, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria[17].

  1. Conclusioni

Dopo la nota sentenza del dicembre del 2016 con cui la Cassazione aveva affermato la legittimità del licenziamento motivato dall’intento di conseguire un mero incremento di profitti, anche in assenza di situazioni di crisi aziendale[18], sembrava che i margini di sindacabilità dei licenziamenti economici si fossero alquanto ridotti.

Se ciò è certamente vero per quanto concerne il primo elemento del g.m.o., e cioè la sussistenza di una riorganizzazione aziendale incidente sulla posizione del lavoratore, per quanto concerne l’ulteriore elemento rappresentato dal repêchage, sembrerebbe invece che, grazie all’evoluzione giurisprudenziale di cui si è cercato di dare conto nel presente contributo, il margine di sindacabilità della legittimità del recesso esca alquanto ampliato.

Nell’ambito della materia dei licenziamenti economici l’obbligo di repêchage ha così acquisito una rinnovata centralità e l’accertamento del suo (in)adempimento costituisce oggi un passaggio fondamentale nei relativi giudizi di impugnazione.

[1] Per approfondimenti M.T. Carinci, L’obbligo di ripescaggio nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, RIDL, 2017, pag. 203 ss.; E. Gramano, Natura e limiti dell’obbligo di repêchage, ADL, n. 6/2016, pag. 1310 ss.

[2] A partire da Cass., S.U. 7 agosto 1998, n. 7755, RIDL, 1999, II, pag. 170, con nota di G. Pera, in materia però di licenziamento per sopravvenuta infermità. Successivamente, in riferimento al recesso per soppressione del posto, Cass. 13 agosto 2008, n. 21579, RIDL, 2009, pag. 664, con nota di S. Varva; Cass. 15 maggio 2012, n. 7515, RIDL, 2013, pag. 67, con nota di M. Falsone; da ultimo Cass. 8 marzo 2016, n. 4509, DeJure.

[3] Cass. 14 novembre 2011, n. 23807, ADL, 2012, pag. 1018. Contra tuttavia Cass. 11 marzo 2013, n. 5963, Foro it., 2013, pag. 1502.

[4] In riferimento al part-time, Cass. 16 marzo 2007, n. 6229, Lav. giur., n. 8/2007, pag. 790; Cass. 6 luglio 2012, n. 11402, MGL, 2012, pag. 876, che precisa che la soluzione è ammessa nella misura in cui non comporti una «indebita alterazione dell’organizzazione produttiva».

[5] Tra le tante, Cass. 6 ottobre 2015, n. 19923, DeJure; Cass. 8 febbraio 2011, n. 3040, GCM, 2011, pag. 198; Cass. 26 aprile 2012, n. 6501, D&L, 2012, pag. 552.

[6] C. Pisani, Il repêchage nel licenziamento per motivi oggettivi, MGL, 2013, pag. 191; L. Calcaterra, La giustificazione causale del licenziamento per motivi oggettivi, DRI, 2005, pag. 658.

[7] Cass. 22 marzo 2016, n. 5592, in DRI, 2016, pag. 842, con nota di M. Ferraresi.

[8] Cass. 13 giugno 2016, n. 12101; Cass. 22 novembre 2017, n. 27792; nonché la recentissima Cass. 7 gennaio 2019, n. 192.

[9] Oltre alle le sentenze citate alle due note precedenti, tra le tante, Cass. 2 gennaio 2013, n. 6; Cass. 18 marzo 2010, n. 6559.

[10] Cass. 9 novembre 2016, n. 22798, che richiama Cass. 19 novembre 2015, n. 23698.

[11] App. Roma 12 marzo 2018, n. 842; Trib. Trento 18 dicembre 2017, reperibile in www.wikilabour.it.

[12] Per i riferimenti M.T. Carinci, L’obbligo di ripescaggio, cit.

[13] Trib. Milano 28 novembre 2012, Trib. Roma 8 agosto 2013, Trib. Varese 4 settembre 2013, tutte in MGL, 2013, pag. 747; Trib. Torino 5 aprile 2016, DeJure.

[14] Trib. Reggio Calabria 3 giugno 2013, MGL, 2014, pag. 229; Trib. Trento 18 dicembre 2017, reperibile in www.wikilabour.it, App. Roma 1 febbraio 2018.

[15] Cass. 2 maggio 2018, n. 10435, in DRI, 2018, pag. 888, con nota di L. Angeletti.

[16] Cass. 12 dicembre 2018, n. 32513, reperibile in www.wikilabour.it, che ha applicato la tutela reintegratoria in un caso di mancato ripescaggio del dipendente licenziato per sopravvenuta inidoneità fisica.

[17] Per approfondimenti, G. Cavallini, L’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo come «indice presuntivo» della ritorsività del licenziamento, RGL, n. 3/2018, pag. 385 ss.

[18] Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201, in Foro it., 2017, pag. 123, con nota di G. Santoro Passarelli.

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L’impatto della declaratoria di incostituzionalità del “cuore” del Jobs Act sul contenzioso lavoristico e sulle altre disposizioni del D.lgs. n. 23/2015

di Gionata Cavallini, Dottorando di ricerca in diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, Avvocato in Milano

 

  1. Premessa

Come è ormai noto nella comunità degli interpreti, con sentenza n. 194/2018 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, D.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui prevede che l’importo dell’indennità dovuta in caso di licenziamento ingiustificato dei lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 sia determinata nella misura fissa di due mensilità per ogni anno di servizio, anziché prevedere che il giudice possa graduare detta indennità tenendo conto di fattori diversi, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, nonché le dimensioni dell’attività economica (parametri già previsti dall’art. 8, L. n. 604/1966, e dall’art. 18, co. 5, St. lav.).

Il Giudice delle leggi ha dunque parzialmente accolto le questioni di legittimità costituzionale sollevate la scorsa estate dalla nota ordinanza del Tribunale di Roma 1, la quale aveva dato luogo a un vivace dibattito in dottrina, chiamata a interrogarsi sulla fondatezza delle censure mosse al “cuore” del Jobs Act, mostrando spesso un certo scetticismo rispetto alla possibilità di una sentenza di accoglimento 2.. La decisione ha così ridisegnato il sistema delle tutele spettanti al lavoratore illegittimamente licenziato, pur senza mettere in discussione il marcato superamento della tutela reintegratoria, perseguito dal Legislatore del Jobs Act e confermato anche dai successivi interventi del nuovo esecutivo.

La pronuncia della Corte costituzionale si sofferma su una pluralità di questioni – e, in particolare, sul fondamento costituzionale della tutela avverso il licenziamento ingiustificato – ed è senz’altro destinata ad alimentare un dibattito che segnerà i prossimi anni, già aperto dai primi commentatori3.. D’altronde, si tratta della prima sentenza emessa dal Giudice delle leggi dopo la stagione delle riforme della disciplina dei licenziamenti, ad opera dapprima della c.d. Legge Fornero (L. n. 92/2012, che ha novellato l’art. 18, St. lav.) e quindi del Jobs Act (D.lgs. n. 23/2015).

Senza qui soffermarsi sulle motivazioni della decisione, di cui si è già parlato anche sull’ultimo numero di questa Rivista4, il presente contributo si propone solo di sviluppare alcune considerazioni di carattere pratico-operativo, per verificare l’impatto che la (parziale) declaratoria di illegittimità costituzionale del Jobs Act potrà avere sulle controversie in materia di licenziamenti (sia quelle pendenti che quelle future) nonché sulle disposizioni del D.lgs. n. 23/2015 che non hanno formato oggetto di censura da parte della Corte costituzionale, ma che risultano strettamente connesse alla norma dichiarata costituzionalmente illegittima (in particolare, gli artt. 4, 6, 9 e 10 del D.lgs. n. 23/2015).

  1. L’impatto della pronuncia sul contenzioso futuro

Un primo, prevedibile, effetto della pronuncia sarà plausibilmente un incremento del contenzioso in materia di licenziamenti, oltre che del suo valore economico. Tale risultato, peraltro, si deve alla combinazione della sentenza in esame con le altre due novità rappresentate, rispettivamente, dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 77/2018 e dal c.d. Decreto Dignità (D.l. n. 87/2018, conv. in L. n. 96/2018).

Con la sentenza n. 77/20185, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, co. 2, c.p.c. (come modificato dall’art. 13, co. 1, D.l. n. 132/2014), nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese di lite tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano “gravi ed eccezionali ragioni”. È noto che l’istituto della compensazione delle spese di lite ha da sempre trovato particolare applicazione nell’ambito delle controversie di lavoro e che, negli ultimi anni, il divieto di compensazione sancito dal nuovo art. 92 c.p.c. aveva funto da deterrente alla proposizione di azioni giudiziarie da parte dei lavoratori, comprensibilmente preoccupati dalla prospettiva di una pesante condanna alle spese. Con la reintroduzione, ad opera del Giudice delle leggi, della possibilità per il giudice di compensare le spese di lite per «gravi ragioni» (quali, ad esempio, le condizioni economiche del lavoratore soccombente), la strada del contenzioso torna ad essere più appetibile.

Nel contempo, il provvedimento varato quest’estate dal nuovo esecutivo (c.d. Decreto Dignità) 6ha innalzato da 4-24 mensilità a 6-36 mensilità la cornice edittale di riferimento entro la quale il giudice potrà oggi determinare la misura dell’indennità da licenziamento illegittimo (cfr. l’art. 3, D.l. n. 87/2018), incrementando così notevolmente le utilità potenzialmente conseguibili all’esito dell’azione giudiziaria e, ancor prima, rafforzando la posizione del lavoratore nell’ambito della trattativa pregiudiziale.

  1. L’impatto della pronuncia sulle controversie pendenti

È indubbio che il dictum di C. Cost. n. 194/2018 sia pienamente applicabile anche ai licenziamenti intimati prima della pubblicazione della decisione, in ragione della pacifica retroattività delle declaratorie di illegittimità costituzionale, che incontrano un limite solo nei rapporti esauriti7.

Quanto ai limiti minimi e massimi entro cui può oggi essere determinata l’indennità, invece, deve essere rilevato che la prima giurisprudenza formatasi all’indomani della sentenza della Corte costituzionale ha ritenuto, con motivazioni non del tutto persuasive, che la nuova cornice edittale di 6-36 mensilità non si applica ai procedimenti relativi ai licenziamenti intimati prima dell’entrata in vigore del Decreto Dignità, per i quali il giudice dovrà muoversi all’interno della precedente forbice compresa tra le 4 e le 24 mensilità8.

Sotto diverso profilo, rispetto ai procedimenti pendenti si pone il problema pratico di capire se e come il giudice possa estendere la propria cognizione a quelle circostanze di fatto, relative ai parametri che devono essere utilizzati per determinare la misura dell’indennità secondo le indicazioni della Corte costituzionale (numero di dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa e dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti…), laddove il ricorrente non ne avesse già fatto allegazione nel ricorso introduttivo, in quanto sostanzialmente irrilevanti secondo la legge applicabile al momento della litispendenza.

Ad avviso di chi scrive, il giudice dovrebbe tentare di desumere tali elementi dagli atti di causa (d’altronde quale ricorso non contiene in narrativa un riferimento alle dimensioni dell’impresa, al numero dei dipendenti, al fatturato?) e, solo ove ciò non sia possibile, dovrebbe esercitare i propri poteri istruttori ex art. 421 c.p.c. per assumere tutte le informazioni necessarie per determinare l’indennità dovuta al lavoratore, eventualmente assegnando alle parti un termine per il deposito di memorie integrative.

  1. L’impatto della pronuncia sulle disposizioni del D.lgs. n. 23/2015 non direttamente censurate

Occorre poi chiedersi come la pronuncia della Corte costituzionale impatti sulle altre previsioni del D.lgs. n. 23/2015 che non hanno formato oggetto diretto dello scrutinio del Giudice delle leggi, per verificare se esse vengono travolte o meno dalla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 3, co. 1, D.lgs. n. 23/2015.

Nel sistema del D.lgs. n. 23/2015, infatti, la previsione dichiarata costituzionalmente illegittima non rappresentava una norma isolata e autonoma rispetto alle altre disposizioni del decreto. All’art. 3, infatti, fanno rinvio diretto altre disposizioni (artt. 9 e 10), mentre altre ancora ne mutuano la ratio di fondo di ancorare alla sola anzianità di servizio il quantum debeatur (artt. 4 e 6).

La declaratoria di incostituzionalità dell’art. 3, co. 1,  ha senz’altro un impatto su tutte queste previsioni, seppure in termini diversi.

Quanto all’art. 4, D.lgs. n. 23/2015 (che prevede che in caso di vizi formali e procedurali al lavoratore spetti un’indennità di importo pari a una mensilità per anno di servizio) la Corte ne ha dichiarato esplicitamente l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (punto 5.1.2 e 5.3 della decisione).

La suddetta disposizione, infatti, era pacificamente inapplicabile nell’ambito del giudizio a quo (ove era stato ritenuto sostanzialmente ingiustificato un licenziamento intimato per asseriti motivi economici) e non poteva quindi formare oggetto del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

Ciò non toglie, tuttavia, che il meccanismo di calcolo di cui all’art. 4 è modellato esattamente sulla falsariga di quello censurato dalla Corte, sicché pare che la previsione non potrà che essere dichiarata incostituzionale alla prima occasione utile, non appena cioè la Corte sarà investita della questione da parte di un giudice che si trovi di fronte a un licenziamento affetto esclusivamente da vizi formali o procedurali9. Restiamo dunque in attesa degli sviluppi.

Per quanto concerne invece gli artt. 9 e 10, D.lgs. n. 23/2015, non pare esservi alcuna necessità di un ulteriore intervento da parte del Giudice delle leggi. Le suddette disposizioni fanno infatti entrambe rinvio diretto alla norma dichiarata incostituzionale, per determinare le indennità dovute in caso di licenziamenti intimati da piccole imprese (art. 9, che prevede l’applicazione dell’art. 3, co. 1, con dimezzamento degli importi e fissazione del tetto massimo di 6 mensilità) e in caso di licenziamenti collettivi (art. 10, che si limita a rinviare in toto all’art. 3, co. 1).

L’incostituzionalità dell’art. 3, co. 1, pertanto, si ripercuote direttamente “a cascata” sugli artt. 9 e 10,

determinando la necessità che il giudice, nel farne applicazione, determini la misura dell’indennità facendo ricorso ai parametri, ulteriori e diversi rispetto alla sola anzianità di servizio, indicati dalla Corte.

Un discorso ancora diverso merita invece la previsione di cui all’art. 6, D.lgs. n. 23/2015, che ha introdotto una nuova modalità di conciliazione stragiudiziale prevedendo che il datore di lavoro possa offrire al lavoratore, entro sessanta giorni dal licenziamento, un importo esente da Irpef e da contribuzione previdenziale di ammontare pari a una mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità (dopo le modifiche del Decreto Dignità). Certo anche tale previsione replica il meccanismo di calcolo censurato dalla Corte, ma essa non riguarda le modalità di determinazione di un’indennità, ma solo della somma che può essere offerta al lavoratore a titolo conciliativo, sicché non sembrano esservi margini per lamentarne l’incostituzionalità.

Tuttavia, sebbene la norma non venga toccata dal punto di vista strettamente giuridico dalla pronuncia della Corte, dal punto di vista pratico-operativo essa ne esce notevolmente depotenziata. È infatti evidente che a fronte del deciso innalzamento delle utilità ricavabili con il giudizio, l’ipotesi che il lavoratore voglia accettare quei “pochi, maledetti e subito” diventa decisamente meno plausibile, come già rilevato dai primi osservatori10. Si tratta, tuttavia, di un’incongruenza che solo il Legislatore, se lo riterrà, potrà appianare

1.Tribunale di Roma 26 luglio 2017, tra l’altro in Lav.giur., n.10/2017, pag. 897 ss.

2.Commenti all’ordinanza romana possono leggersi in F. Carinci, Una rondine non fa primavera: la rimessione del contratto a tutele crescenti alla Corte costituzionale, Lav.giur., n. 10/2017, pag. 902 ss.; P. Ichino, La questione di costituzionalità della nuova disciplina dei licenziamenti, www.pietroichino.it, 3 agosto 2017; S. D’Ascola, Appunti sulla questione di costituzionalità del licenziamento a tutele crescenti, Labor, n. 2/2018, pag. 228 ss., ove esaustivi riferimenti alle posizioni della dottrina.

3.Tra i primi commenti, M.T. Carinci, La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act”, e oltre, WP CSDLE.it, n. 378/2018, reperibile in http://csdle.lex.unict.it; O. Mazzotta, Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in www.rivistalabor.it, 1 dicembre 2018.

4.C.J. Favaloro, R. Vannocci, Sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale: facciamo un po’ di chiarezza, Sintesi, n. 11/2018, pag. 16 ss.

5.C. Cost., 19 aprile 2018, n. 77, tra l’altro in Riv. giur. lav., n. 3/2018, pag. 403, con nota di G. Costantino, Sulla compensazione delle spese giudiziali e sulla discrezionalità del legislatore in materia processuale.

6.Su cui v. le osservazioni di F. Scarpelli, Convertito in legge il “ decreto dignità”: al via il dibattito sui problemi interpretativi e applicativi, in Giustiziacivile.com,3 settembre 2018.

7.Per tutti, P. Caretti, U. De Siervo, Istituzioni di diritto pubblico, Giappichelli, 10° ed., Torino, 2010, pag. 407.

8.Così Trib. Bari 11 ottobre 2018, reperibile in www.wikilabour.it,che aveva applicato i principi desumibili dal comunicato stampa della Corte costituzionale ancor prima della pubblicazione della sentenza, e Trib. Como 29 novembre 2018, inedita.

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