PASSAGGIO GENERAZIONALE: un percorso dalle molteplici sfaccettature

Fernanda Siboni, Psicologa del lavoro – Consulenza Organizzativa, dello Sviluppo Risorse Umane e della Formazione – Coach, Counselor e Soft Skills Trainer

 

Le Piccole Medie Imprese sono da sempre l’ossatura portante del nostro paese, costituiscono infatti il 95% della nostra economia. Oltre l’85% delle PMI italiane sono a gestione familiare ed impiegano circa il 90% della forza lavoro. Di queste solo il 25% sopravvive alla seconda generazione, una percentuale che cala ulteriormente se si parla della terza generazione. Un dato che sicuramente fa riflettere soprattutto se si pensa che nei prossimi anni potremo assistere ad un numero massiccio di successioni aziendali: il 43% dei leader d’impresa è ultrasessantenne e la generazione di “baby boomers”, che hanno fondato o ereditato il loro business nella seconda parte del ventesimo secolo, si troverà a tramandare l’impresa alla generazione successiva di “millennials”. In questo contesto il passaggio generazionale gioca un ruolo fondamentale non solo per la sopravvivenza di molte di queste aziende, ma soprattutto per quanto riguarda la realizzazione di un business che sia sostenibile nel tempo. Il passaggio generazionale è quel momento in cui una generazione di gestori e amministratori succede alla precedente, nella gestione organizzativa e strutturale dell’impresa. In genere, questa si realizza con la successione tra padre e figlio: è un momento cruciale per la continuità e la crescita dell’azienda stessa, è un processo che coinvolge la successione dei dirigenti e dei lavoratori anziani da parte dei giovani, che porteranno avanti il lavoro dell’azienda nel futuro.

Le implicazioni sono molteplici, soprattutto in termini di know how aziendale e, per evitare problemi e fallimenti, è indispensabile che il processo venga gestito con cura e attenzione da parte di chi è coinvolto. In questa sede, mi limiter  a fare cenno solo ad alcuni aspetti, soprattutto sul piano psicologico e comportamentale, che entrano in gioco nel passaggio.

LA PIANIFICAZIONE

La preparazione del passaggio generazionale è un processo lungo e complesso: i dirigenti anziani decidono di iniziare a considerare la successione e a prepararsi per il loro ritiro dalla consueta attività professionale, almeno così come l’hanno sempre svolta. Tale preparazione può includere, fra le altre, diverse attività quali la selezione e la formazione dei successori, la definizione dei ruoli e delle responsabilità che verranno affidate ai posteri, la pianificazione finanziaria volta ad assicurare continuità e stabilità all’azienda nel futuro.

La pianificazione complessiva del passaggio è un elemento fondamentale di tale processo: senza una chiara e definita pianificazione, si rischia di incorrere in situazioni che possono generare un clima di instabilità ed insicurezza, percepito sia dai clienti che dai componenti interni all’azienda. Uno dei rischi possibili è quello di perdere competenze e conoscenze importanti, che potrebbero essere determinanti per il successo futuro e di subire interruzioni del business dannose sia sul piano dei costi che sul piano dell’immagine aziendale. Inoltre, la mancanza di una pianificazione adeguata e di una strategia chiara pu  ostacolare la fluidità del processo generando incomprensioni e conflitti tra i membri della famiglia.

Cosa significa esattamente pianificare il passaggio? Significa anzitutto fare una mappatura molto precisa della situazione aziendale presente (processi, ruoli, responsabilità, risorse, know-how…), vuol dire dipingere un quadro chiaro delle aspirazioni e delle aspettative di chi gestisce oggi e di chi dovrà gestire in futuro l’azienda, significa precisare l’obiettivo finale che si vuole unanimemente perseguire e individuare tutte le fasi intermedie che occorre attraversare per raggiungerlo in un lasso temporale definito e ragionevole. Nella mia esperienza di psicologa e facilitatrice di questo processo, una delle difficoltà più frequenti che ho incontrato è stata proprio quella di trasmettere ai miei interlocutori questo “senso del percorso”, inteso come qualcosa che è possibile realizzare in fasi successive ed in un tempo che richiede investimento di attenzione, risorse e ritmi non sempre velocissimi. Sorprendentemente, mi sono spesso imbattuta in approcci più “ideologici” che “pragmatici” da parte dei miei clienti. Per esempio, mi è accaduto più volte di avere a che fare da una parte con il genitore che afferma di voler realizzare il passaggio, ha la sincera intenzione di farlo, ma poi fa fatica ad accettare di dover cedere alcune aree di presidio al figlio che, dall’altra, vuole prendere in mano la situazione senza pero’ di fatto accettare di fare i passi necessari per acquisire le competenze utili e funzionali all’assunzione del nuovo ruolo.

In sostanza, l’intenzione positiva che spinge il genitore a voler realizzare il passaggio si scontra talvolta con la difficoltà da parte del genitore stesso a “lasciare andare” una parte di sé (che spesso ha a che fare con la propria identità di leader, di imprenditore, di “capo”) e cozza anche con un’errata convinzione del figlio che ritiene che per assumere il nuovo ruolo in azienda non sia necessario acquisire le competenze utili seguendo un iter prestabilito, fatto di “immersione sul campo” mediante osservazione, affiancamento ed esecuzione di compiti operativi con relativa supervisione.

PAURA DELL’IGNOTO E IDENTITÀ

Un ulteriore elemento che talvolta non facilita il passaggio è la “paura dell’ignoto” ovvero quell’ansia che deriva dalla percezione di incertezza rispetto al futuro, alimentata dal dubbio sulla capacità di adattarsi agli inevitabili cambiamenti che verranno. In particolare, da parte del genitore, oltre al timore di perdere il controllo sulle proprie aree di presidio in azienda, c’è quello di non poter essere, via via, più utile come professionista e la paura di dover assistere alla realizzazione del business futuro nella “propria” azienda in maniera distonica rispetto alle proprie aspettative. Da parte dei figli c’è spesso il disagio riguardo al peso delle responsabilità che immaginano di dover assumere nel tempo, alimentato dall’idea di dover gestire un’azienda di cui non hanno ancora la piena padronanza.

Per facilitare il superamento della paura dell’ignoto, è importante che gli imprenditori anziani addestrino e guidino i giovani successori, aiutandoli a comprendere la storia dell’azienda, le sue risorse, le sue competenze e la sua cultura, condividendo informazioni ed esperienze creando un ambiente di fiducia e di rispetto reciproco. È inoltre utile che i giovani successori vengano coinvolti fin dall’inizio nel progetto di passaggio, così da sentirsi partecipi del progetto e co-responsabili del futuro dell’azienda. Lavorare insieme per raggiungere obiettivi comuni aiuta a superare la paura dell’ignoto e a creare senso di appartenenza e di continuità.

Durante la fase di transizione è auspicabile che i figli assumano gradualmente le responsabilità loro affidate, per esempio mediante la partecipazione a riunioni e progetti chiave, essendo facilitati nella presa di decisioni strategiche sotto la supervisione dei dirigenti anziani. Questo sia per evitare sovraccarico e stress sia per scongiurare errori che potrebbero inficiare lo sviluppo del business.

Possiamo dire che gli aspetti psicologici implicati nel processo di passaggio generazionale coinvolgono, fra gli altri, il tema dell’identità intesa come la percezione che l’individuo ha di sè stesso in relazione con altri individui. È una costruzione complessa e mutevole che si sviluppa nel corso del tempo e può variare in base al contesto e alle circostanze. Specificamente, l’identità professionale ha a che fare col ruolo lavorativo di un soggetto, in base al “come” egli si “riconosce” attraverso la propria carriera lavorativa. Frequentemente i membri della famiglia si identificano con uno dei ruoli professionali assunti in azienda che li fa sentire appartenenti ad un sistema preciso con una precisa funzione; in coincidenza col passaggio generazionale puo’ accadere, per esempio, che il padre si preoccupi di dover perdere la propria importanza risultando irrilevante agli occhi dei figli e degli altri membri dell’azienda, sentendo quindi minacciata la propria identità di leader; puo’ inoltre accadere che egli si trovi a dover affrontare una sorta di lutto legato al ruolo che stava svolgendo e alle responsabilità che sta via via cedendo. Non è sempre facile per un padre imprenditore cedere attività che ha portato avanti per una vita con lungimiranza e profitto: la perdita di potere e controllo rappresenta per lui un cambiamento forte sia sul piano operativo che su quello emotivo. Inoltre, l’inevitabile revisione dei ruoli all’interno dell’azienda, può richiedere un sensibile adattamento a nuove dinamiche familiari e lavorative. In tal senso, un tema che merita particolare attenzione è quello della leadership: se l’imprenditore anziano è sempre stato considerato un punto di riferimento chiave a cui i dipendenti e i vari interlocutori aziendali si sono nel tempo rivolti con fiducia per affrontare problemi e dirimere criticità (e quindi è sempre stato percepito come un referente solido ed affidabile), sarà necessario procedere con molta attenzione nel formare opportunamente l’“erede” affinché possa guadagnarsi in breve tempo altrettanta fiducia e seguito. La cura della formazione dei figli, per prepararli adeguatamente ad affrontare il passaggio, è un aspetto fondamentale. La formazione deve riguardare non solo il piano operativo (per mettere i figli nella condizione di saper svolgere efficacemente determinati compiti imprenditoriali), ma deve coinvolgere soprattutto il piano del “saper essere”, del “modo di porsi”, deve sollecitare nei figli la capacità di continuare ad affermare i valori aziendali di successo, mettendoli in grado di saper tramandare i punti forti che hanno rappresentato il valore aggiunto dell’azienda nel tempo. In questo senso, la sfida dei figli “eredi” sta nell’abilità di saper coniugare tradizione e novità mediante la gestione del cambiamento in maniera efficace e consapevole. Ho avuto modo di incontrare figli animati dal forte desiderio, una volta avvenuto il passaggio, di cambiare tutto il prima possibile, fortificati dall’ingenua convinzione che la mera applicazione di   modelli teorici, strategie e visioni acquisiti durante percorsi di studio blasonati (master in business school particolarmente famosi in Italia o all’estero) sia sufficiente a garantire la sopravvivenza dell’azienda familiare ereditata. Un approccio pericoloso, che può rischiare di portare al fallimento l’impresa perché, come sappiamo, i modelli teorici vanno sempre relativizzati ed adattati alla situazione di riferimento per evitare che risultino traumatici o addirittura dannosi.

MANTENIMENTO DEI VALORI DI RIFERIMENTO E GESTIONE DEL CAMBIAMENTO

La consapevolezza dei figli è qualcosa che va costruita nel tempo, con la gradualità necessaria, mediante il coinvolgimento e l’inserimento progressivo dell’erede designato nel contesto organizzativo, ed attraverso una supervisione attenta da parte del manager anziano. Va sottolineato che la preparazione dei figli a ricevere il nuovo mandato deve riguardare in particolar modo i costrutti valoriali, aspetto ancora troppo spesso trascurato nella cura del passaggio. Un contributo illuminante, in questo senso, ci arriva da Bert Hellinger (scrittore e psicologo -1925-2019) che ha enfatizzato l’importanza di “onorare” e rispettare il passato, compresi gli antenati e le generazioni precedenti, anche nel contesto del passaggio generazionale. Secondo Hellinger, ogni generazione è connessa con quelle che l’hanno preceduta e il rispetto per le generazioni passate implica riconoscere i doni, le sfide, le sofferenze e i successi di coloro che sono venuti prima di noi. Questo rispetto può contribuire a costruire un senso di continuità e di radici familiari, aiutando le persone a comprendere meglio la propria storia e a integrarla nella loro identità. Hellinger ha evidenziato la necessità di trovare un equilibrio tra la ricerca dell’indipendenza personale e la connessione con le radici familiari. Secondo il suo pensiero, è importante per le persone sviluppare la propria identità e perseguire i propri obiettivi, ma l’indipendenza dovrebbe essere bilanciata con un senso di continuità con la famiglia d’origine: troppo distacco potrebbe portare a una mancanza di legame con le radici e un senso di isolamento, mentre un attaccamento eccessivo potrebbe ostacolare la crescita personale; i discendenti dovrebbero trovare un equilibrio tra la loro indipendenza e la continuità con la famiglia d’origine e questo bilanciamento può variare da individuo a individuo e dipende dalle dinamiche familiari specifiche. Hellinger incoraggia le persone a esplorare le loro relazioni familiari e a considerare come possono mantenere un collegamento sano con la loro famiglia di origine senza essere oppressi o limitati dalle aspettative o dagli schemi disfunzionali pregressi. Questo significa saper prendere decisioni autonome e costruire la propria vita, pur mantenendo un legame salutare con le radici familiari. In generale, le teorie di Hellinger suggeriscono che la comprensione delle dinamiche familiari, l’accettazione dell’eredità e il rispetto per le generazioni precedenti possono contribuire a creare relazioni più sane e più appaganti. Gestire il cambiamento mantenendo un sano legame con le proprie radici nella logica della continuità: si tratta sicuramente di un approccio sfidante richiesto agli attori coinvolti!

Da parte degli anziani, così come da parte dei giovani, è importante che vengano acquisite abilità di gestione del cambiamento. I genitori possono percepire il cambiamento in atto come una sorta di “perdita” di abitudini consolidate, di potere, di sicurezza, di una leadership forte. Per i giovani la gestione del cambiamento puo’ implicare la sfida di nuovi apprendimenti, l’acquisizione di nuove competenze, l’adattamento ad un nuovo contesto dove le aspettative sono alte. Cambiare richiede sforzo, adattamento e apprendimento di un nuovo modi di “stare al mondo”, il che richiede, per tutte le persone coinvolte, una uscita dalla propria zona di comfort. Tuttavia, il cambiamento è facilitato se funziona il processo di comunicazione tra genitori e figli e viceversa. Va specificato che parlarsi non significa necessariamente comunicare efficacemente. In alcune sessioni di counseling di facilitazione al passaggio generazionale ho avuto modo di assistere a dinamiche comunicazionali assolutamente disfunzionali: padre e figlio sostenevano le loro rispettive opinioni senza reciprocamente ascoltarsi, talvolta senza neppure guardarsi in faccia. In questi casi l’intervento di un terzo, di un consulente appunto, è indispensabile perché il rischio è che gli interlocutori coinvolti vadano avanti a parlare per ore senza mai riuscire a raggiungere un punto di accordo, sconfinando spesso nella critica e nell’accusa reciproca. Una comunicazione aperta e trasparente tra i membri della famiglia, volta a chiarire punti di vista, idee, perplessità (e soprattutto aspettative) per evitare incomprensioni, fraintendimenti e frustrazioni, è un aspetto importantissimo. La comunicazione fra i membri delle diverse generazioni funziona se è fondata sull’ascolto e sul rispetto reciproco (pur nella differenza d’opinione), se è tesa a raggiungere una visione condivisa del futuro dell’azienda e a definire gli obiettivi e il percorso per realizzarla, individuando le priorità su cui agire. Quando la comunicazione è autentica, inevitabilmente emergono i nodi conflittuali da dirimere (e ben vengano!).

SUPERAMENTO DEL CONFLITTO

Si sa che il confitto interpersonale è una dinamica relazionale che si crea in situazioni di interessi, obiettivi, bisogni e punti di vista diversi tra due o più persone; genera uno stato di tensione in chi lo vive e determina dispendio di tempo, energie, risorse, ma va affrontato. Tipicamente i conflitti possono riguardare le divergenze sulla nuova definizione dei ruoli, le diverse visioni strategiche e dei modi di fare impresa, gli stili di gestione; oppure possono essere più critici e coinvolgere la mancanza di fiducia reciproca, la divergenza di valori, la presenza di situazioni emotive pregresse aventi a che fare con temi quali gelosia, aspettative disattese, rancore, rabbia.

Quest’ultima categoria di conflitti (quelli emotivi) possono riguardare esperienze pregresse relative alla vita famigliare e inevitabilmente si ripercuotono sulla vita relazionale e professionale. Per dirimere i conflitti si puo’ ricorrere ad alcune strategie quali, per esempio, chiarire le aspettative di tutti i soggetti coinvolti (per creare un clima di trasparenza e di fiducia), definire correttamente i ruoli relativi alla gestione dell’azienda, condividere le conoscenze ed esperienze (per generare un’atmosfera d’orientamento all’apprendimento e alla collaborazione reciproca). Spesso i figli hanno conoscenze innovative acquisite attraverso master o percorsi di studio universitario e i genitori un bagaglio di conoscenze ed esperienze derivate prevalentemente dall’attività “sul campo”. La messa in comune di tali reciproche competenze può essere utile per definire il futuro dell’azienda. Il riconoscimento dell’esperienza dei genitori e della storia dell’azienda (da parte dei figli) e l’apertura verso le idee innovative dei figli (da parte dei genitori) può aiutare a creare un clima di rispetto reciproco e di scambio fruttuoso. Il ! processo di passaggio puo’ realizzarsi in maniera fluida se i genitori, durante il graduale inserimento in azienda dei figli, sostengono lo sviluppo delle competenze dei loro successori mediante la formazione e il supporto nella gestione dell’impresa, monitorando il loro operato (anche dando feedback circostanziati e costruttivi) e dando loro fiducia e se i figli, a loro volta, dimostrano la capacità di apprendere dalle esperienze dei genitori e di assimilare con passione e coinvolgimento le competenze utili a gestire l’azienda. Diverso è per i conflitti di carattere emotivo derivante da esperienze pregresse che producono rancori ed impliciti desideri di riscatto: si tratta di conflitti che richiedono l’intervento di un consulente esterno. Molti conflitti emergono nella fase di realizzazione del progetto, quando cioè dalla fase studiata a tavolino si passa alla pratica. Uno dei nodi più critici è rappresentato dalla delega. La delega progressiva di compiti ed attività è importante che avvenga gradualmente in maniera tale che i figli possano acquisire l’esperienza necessaria ed avere il tempo utile per ricoprire i nuovi ruoli ed assumere le relative responsabilità che, come si è detto, devono essere definite con precisione a priori in maniera che ciascun membro del sistema azienda/famiglia sappia cosa ci si aspetta da loro. Inoltre, la delega va gestita da parte degli anziani verso i figli in maniera tale che ci possa essere la disponibilità dei primi ad effettuare delle supervisioni quando necessario, senza peraltro interferire nella realizzazione del processo mediante ingerenze inutili del genitore sull’operato del figlio: quello che conta sono i risultati (che è bene vengano monitorati costantemente) e non l’identica riproduzione, adottata nel passato, delle modalità di realizzazione di un compito.

Se la delega è stata ben riposta, cioè prima di realizzarla è stata fatta una corretta valutazione delle competenze, del potenziale e delle aspirazioni del figlio che l’ha accolta, le condizioni di successo sono già presenti ed il risultato non tarderà ad arrivare.

CONCLUSIONI

In sintesi, i suggerimenti comportamentali per creare le condizioni favorevoli al passaggio generazionale possono essere così di seguito riassunti.

Per i genitori:

  1. Pianificare la transizione investendo energie e risorse per definire chiaramente i ruoli e le responsabilità di ciascun membro della famiglia, unitamente alle reciproche aspettative.
  2. Aprirsi alla collaborazione con i figli mediante il loro progressivo coinvolgimento nelle decisioni aziendali e l’accoglienza costruttiva delle loro idee e proposte, mantenendo un dialogo aperto in modo da evitare eventuali malintesi ed incomprensioni.
  3. Trasmettere le proprie competenze ai figli attraverso la condivisione della propria esperienza, al fine di aiutarli ad acquisire le conoscenze necessarie per gestire l’azienda.
  4. Individuare il team di professionisti a cui affidarsi per attuare con successo il processo di passaggio.

Per i figli:

  1. Cercare di acquisire tutte le conoscenze e le competenze necessarie per gestire l’azienda, mediante l’affiancamento degli anziani, i corsi di formazione, ma anche facendo esperienze lavorative al di fuori dell’azienda di famiglia per acquisire nuove prospettive e competenze.
  2. Mantenersi aperti al cambiamento mediante lo sviluppo di nuove idee e l’accoglienza di nuove sfide e opportunità.
  3. Attivare una comunicazione trasparente ed autentica interagendo costruttivamente con gli altri membri della famiglia, esprimendo questioni, perplessità, contributi nel rispetto delle altrui opinioni e nella ricerca di soluzioni di reciproca soddisfazione, lavorando insieme per una transizione fluida.
  4. Mantenere vivi i valori dell’impresa di famiglia facendoli propri, dando continuità all’identità e alla tradizione dell’azienda.

Il consulente del lavoro e gli altri professionisti esperti (avvocati, psicologi, commercialisti), ciascuno in base alle proprie competenze, possono avere un ruolo importante nell’aiutare imprenditori ed aziende a gestire con efficacia tale passaggio. Il lavoro in team fra famiglia e professionisti rappresenta la chiave del successo di tale operazione. Gli imprenditori che si trovano a dover affrontare tale passaggio non sempre sono consapevoli della complessità del processo e spesso si avvalgono in maniera discontinua e parcellizzata di professionisti per risolvere unicamente mere questioni legali. Ma, in questo modo, rischiano di rimanere molti fronti aperti, tematiche implicite mai venute alla luce, problemi incancreniti e rimossi che nel tempo possono compromettere il buon esito dell’operazione. Per questo è auspicabile che il consulente del lavoro sappia indirizzare in maniera pertinente il cliente che si trova nella condizione di affrontare il passaggio, informandolo opportunamente delle varie sfaccettature che tale tematica comporta e che richiedono di essere affrontate con la necessaria attenzione e dedizione.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

https://www.michaelpage.it/news-research/studi/family-business-italia-successo-imprese-familiari     

https://www.assolombarda.it/media/comunicati-stampa/guida-per-i-passaggi-generazionali

Carlo Federico Montecamozzo, Guida al passaggio generazionale nelle Pmi, Ipsoa, 2012.

Bert Hellinger, Gli ordini del Successo, Tecniche nuove, 2011.

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HR&Organizzazione – VALUTARE PER VALORIZZARE E POTENZIARE l’efficacia della prestazione

Fernanda Siboni, Psicologa del lavoro – Consulenza Organizzativa, dello Sviluppo Risorse Umane e della Formazione – Coach, Counselor e Soft Skills Trainer

 

Alcuni recenti sondaggi rilevano che il 91% dei responsabili delle risorse umane è preoccupato per il turnover dei dipendenti nell’immediato futuro. “Mentre l’economia continua a riprendersi dalle interruzioni causate dalla scorsa pandemia, le organizzazioni si trovano ad affrontare un mercato del lavoro molto diverso ed estremamente competitivo rispetto agli anni passati”, ha dichiarato Jamie Kohn, direttore dello studio sul tema promosso da Gartner (società americana di ricerca strategica). “Mentre molti stanno vivendo un numero record di ruoli aperti, le aziende stanno anche cercando di mitigare il turnover represso dei dipendenti”. Si potrebbe parlare di una vera e propria guerra dei talenti che spinge molte aziende a interrogarsi sull’effettiva efficacia delle strategie di employee retention riferita alle risorse considerate “pregiate”.

Come è noto, nel linguaggio degli specialisti di HR, l’employee retention è quell’insieme di strategie pensate per far restare in azienda le persone che vi lavorano, dandogli delle motivazioni solide per scegliere di non spostarsi in altre organizzazioni, anche qualora se ne presenti la possibilità.

Tuttavia, è difficile comprendere quali possono essere le migliori strategie di employee retention da adottare senza prima aver attivato adeguati processi di valutazione che consentono di capire meglio l’effettivo valore e peso della risorsa disponibile, le sue potenzialità di sviluppo, le sue motivazioni, le sue insoddisfazioni.

Per questa ragione mi addentrerò nel mondo della valutazione in ambito organizzativo esplorando da vicino significati, metodi e contenuti.

IL PROCESSO DI VALUTAZIONE

Gestire le persone significa applicare strumenti/metodi e ricorrere a modelli interpretativi per ottimizzare il rapporto tra il sistema delle risorse professionali disponibili e il sistema degli obiettivi da raggiungere. Consideriamo l’azienda, o lo studio professionale, come un sistema aperto (ovvero, come un insieme di elementi interconnessi e interdipendenti che lavorano insieme per raggiungere un obiettivo comune) che è influenzato dalle forze esterne come il mercato, la concorrenza, la tecnologia, i cambiamenti nella normativa (e così via), e che, a sua volta, influisce sull’ambiente esterno attraverso le attività che sviluppa. Potremmo dire che gestire le risorse umane significa saper integrare opportunamente il sistema organizzativo con il comportamento individuale dei dipendenti, dove il “come farlo” dipende dalle caratteristiche del sistema organizzativo stesso e dalla qualità del comportamento atteso. Per attuare questo tipo di integrazione, è indispensabile ricorrere a percorsi valutativi che consentano di comprendere anzitutto qual è lo “stato dell’arte” dell’azienda e delle risorse che vi operano. La valutazione è, quindi, uno strumento fondamentale della gestione delle risorse umane che consente di analizzare e verificare la performance, avere elementi oggettivi su cui basarsi per orientare  opportunamente i collaboratori a raggiungere gli obiettivi aziendali mediante la coerente valorizzazione delle qualità professionali di ciascun dipendente.

Di fatto, anche se decidiamo di non esercitarla in maniera esplicita e formalizzata, la valutazione è una modalità inevitabile: pensiamo a tutte le volte che abbiamo osservato un collega o un collaboratore nel proprio lavoro e ci siamo fatti un’idea della qualità della sua prestazione attribuendogli un giudizio del tipo: “ok” non “ok”, “giusto” o “sbagliato”. Ne consegue che la valutazione è un meccanismo a cui tutti siamo soggetti e, affinché possa risultare fruttuoso, è necessario che venga esercitato consapevolmente ed in maniera strutturata e precisa. Perché una valutazione risulti efficace è necessario che sia ancorata a definiti parametri / categorie, che verta su un oggetto specifico e limitato e che sia manifesta.

È noto che il processo di valutazione è, il più delle volte, condizionato da aspetti soggettivi e che la differenza tra oggettività e soggettività in una valutazione riguarda il grado di imparzialità che viene messo in atto attraverso il presidio del nesso tra giudizio espresso ed eventi oggettivi. Una valutazione è tanto più obiettiva quanto più si basa su prove e fatti verificabili, indipendentemente dalle opinioni e dalle esperienze personali del valutatore.

Certamente, chiunque valuta può incorrere in errori, dato che i “filtri percettivi” che possono influenzare la valutazione sono sempre in agguato. Eccone alcuni: i così detti “bias cognitivi”, che sono distorsioni relative alla nostra capacità di elaborare le informazioni. Per esempio,  la tendenza a confermare le nostre credenze preesistenti rispetto a qualcosa o a qualcuno, ignorando le informazioni contrarie; i preconcetti

basati sull’etnia, sull’età, sul genere, sull’orientamento sessuale o su altre caratteristiche di chi abbiamo davanti; le emozioni del momento che ci possono condurre ad essere indulgenti piuttosto che severi nel giudizio su qualcuno; il contesto in cui avviene la valutazione; le esperienze personali pregresse (se abbiamo avuto esperienze negative in passato con una determinata persona potremmo valutarla in modo negativo anche in futuro, nonostante le diverse circostanze). Essere consapevoli dei filtri percettivi che influenzano la valutazione porta a ricercare il modo di minimizzare il loro impatto, mirando ad ottenere un livello di obiettività accettabile. Da qui il ricorso a metodi e strumenti opportuni che possono aiutarci in questa direzione. Ma cosa occorre valutare in azienda?

LA VALUTAZIONE DEL POTENZIALE

La valutazione del potenziale è l’analisi delle capacità «potenziali» che non vengono abitualmente espresse nell’attività lavorativa quotidiana di routine, ma che potrebbero essere indagate, valorizzate ed incoraggiate per la crescita professionale del lavoratore al fine di migliorare la sua performance e favorire lo sviluppo di carriera. È particolarmente utile nei casi in cui è necessario attivare processi di diversificazione tra carriera manageriale e tecnico-professionale, nelle situazioni di proiezione del lavoratore verso nuove aree di attività o nei casi di attribuzione di nuovi incarichi strategici per l’organizzazione.

Le principali finalità della valutazione del potenziale sono: garantire flessibilità all’organizzazione, promuovere un sistema di coerenza tra ruolo e scelta di chi lo ricopre, orientare lo sviluppo ed i piani di carriera, finalizzare le azioni formative e i relativi piani. La valutazione del potenziale è utile e funzionale quando è rapportata ad una determinata posizione organizzativa e ad un ruolo «atteso» che deve essere preventivamente precisato e scrupolosamente descritto.

Riguardo ai metodi, lo strumento d’elezione è l’assessment center che è un intervento diagnostico volto a valutare l’insieme delle caratteristiche che si ipotizza siano presenti in un individuo, ma che non sono ancora state espresse o  comunque non sono risultate visibili nella consuetudine lavorativa. Come ho già avuto modo di precisare nel mio articolo precedente (vedi Sintesi – mese di febbraio 2023), è opportuno che l’assessment venga gestito da psicologi del lavoro (o comunque mediante una partnership fra consulente del lavoro e psicologo) che hanno competenze adeguate per effettuare correttamente sia la progettazione che la rilevazione di “come” e “cosa” si vuole indagare.

LA VALUTAZIONE DELLA PRESTAZIONE

Per valutazione della prestazione si intende il processo attraverso il quale il capo diretto rileva, analizza e gestisce la performance del collaboratore. La prestazione è il raffronto fra i risultati

conseguiti dal lavoratore in relazione agli obiettivi assegnati in un arco di tempo convenzionato. La valutazione della performance è importante per diverse ragioni: in primo luogo, aiuta le organizzazioni a identificare i dipendenti che stanno fornendo un valore aggiunto e quelli che potrebbero aver bisogno di migliorare; in secondo luogo è un’occasione per stimolare il collaboratore ad agire sulle proprie aree critiche; in terzo luogo è un mezzo per sviluppare piani di carriera e percorsi di crescita coerenti e pertinenti. Senza valutazione non è possibile fornire al collaboratore feedback precisi e circostanziati sul proprio operato e quindi renderlo consapevole delle proprie aree di miglioramento. In sintesi, possiamo dire che i principali obiettivi della valutazione della prestazione sono: 1) sviluppare la competenza, la motivazione e la qualità della performance; 2) favorire lo sviluppo personale e professionale; 3) fornire al dipendente un feed back franco ed oggettivo sul proprio andamento; 4) facilitare e migliorare la comunicazione fra capo e collaboratore; 5) orientare e sviluppare le prestazioni verso gli obiettivi attesi; 6) decidere in merito ad eventuali incrementi retributivi; 7) sviluppare percorsi di formazione coerenti. Gli oggetti di questo tipo di valutazione sono essenzialmente i risultati ottenuti dal lavoratore in relazione agli obiettivi assegnati (“cosa” è stato fatto) e i comportamenti organizzativi agiti dallo stesso (“come” è stato fatto). Per procedere adeguatamente, si rende anzitutto necessario definire con precisione la  prestazione attesa, per poi confrontarla con la prestazione effettiva prodotta dal collaboratore. Va ricordato che il processo di valutazione della prestazione è strettamente collegato a quello di sviluppo del dipendente.

Possiamo individuare 5 fasi chiave del processo di valutazione: 1) definizione ed attribuzione degli obiettivi; 2) individuazione dei KPI (Key Performance Indicators); 3) rilevazione dei risultati e dei comportamenti; 4) colloquio di sviluppo; 5) azioni di sviluppo. Relativamente alla prima fase, è particolarmente importante individuare gli obiettivi da attribuire in una logica “SMART”, ovvero sottoporre gli obiettivi a dei criteri di formulazione precisi, ricordando che un obiettivo per essere correttamente formulato è utile che sia: specifico (ben individuato e concreto), misurabile (espresso in numeri o in indicatori), ambizioso (adeguatamente sfidante), realistico (raggiungibile date le risorse e i tempi a disposizione), tempificato (connotato da una scadenza entro cui è necessario venga raggiunto).

Venendo alla seconda fase del citato processo, va detto che i KPI (Key Performance Indicators) sono un insieme di elementi quantificabili che vengono utilizzati in azienda per valutare le prestazioni dei collaboratori e per monitorare il conseguimento degli obiettivi strategici ed operativi. Di fatto sono una metrica per misurare l’andamento dei processi aziendali rispetto agli obiettivi prefissati. I KPI, per risultare funzionali, devono essere in grado di mettere in evidenza se l’azienda sta compiendo progressi verso il raggiungimento dei propri obiettivi ed espressi numericamente, in maniera tale da consentire un’adeguata comparazione dei valori durante le fasi di monitoraggio.

La scelta dei KPI aziendali più adatti dipende dalla tipologia dell’organizzazione e dalle mete che si intendono raggiungere. Per definirli correttamente, può essere utile ricorrere ad alcune domande, per esempio: quali KPI esprimono ciò che si vuole raggiungere ed entro quando? Servono a verificare se si è sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi? Sono utili per strutturare il sistema premiante in una logica meritocratica? Sono facilmente condivisibili? Sono semplici da comprendere? Sono rilevanti in questo momento per il raggiungimento degli obiettivi? Sono in grado di mostrare lo stato di avanzamento verso l’obiettivo? Sono facilmente misurabili? Sono comparabili anche a distanza di tempo? Alcuni esempi di KPI possono essere: % completamento di un progetto nel tempo definito; % traguardi raggiunti secondo la tabella di marcia prospettata; numero ore pianificate vs ore effettive; % capacità delle risorse; scostamento del budget (pianificato vs effettivo); numero di errori; numero reclami dei clienti; ritorno sull’investimento (ROI).

La fase tre del processo di valutazione contempla la rilevazione dei risultati e dei comportamenti che può essere realizzata mediante l’osservazione diretta di come opera il collaboratore, l’analisi degli output da lui prodotti, la raccolta di informazioni a 360° mediante questionari di autovalutazione ed etero-valutazione (somministrati a capi, colleghi, clienti). Sicuramente, il «segreto» di una efficace valutazione consiste nello stimolare nel collaboratore un processo di leale autovalutazione che accresca la sua consapevolezza rispetto ai propri punti di forza e alle proprie aree di miglioramento e di sviluppo professionale. Tuttavia, qualsiasi sia il metodo di valutazione utilizzato, è di fondamentale importanza che i risultati della valutazione vengano elaborati, comunicati e commentati in maniera opportuna in un colloquio ad hoc fra capo e collaboratore (fase 4, colloquio di sviluppo). Il setting del colloquio di sviluppo è caratterizzato da un incontro, formale istituzionalizzato e tempificato, fra responsabile e collaboratore durante il quale è possibile analizzare e commentare i dati raccolti per trarre informazioni e spunti non solo sugli aspetti migliorativi della prestazione, ma anche sulle prospettive di sviluppo carriera e sugli aspetti motivazionali relativi al percorso professionale previsto nel futuro. Affinché tale incontro risulti efficace e produttivo, è necessario che vengano presidiate alcuni stadi del colloquio. Lo stadio iniziale: è il momento in cui è importante che il responsabile trasmetta disponibilità all’incontro e serenità di approccio, dichiari l’obiettivo e la durata dell’incontro, spieghi le modalità di procedere che verranno utilizzate, verifichi la reale disponibilità all’ascolto e all’interazione da parte del collaboratore. Lo stadio centrale è il momento della condivisione delle valutazioni e quindi è utile invitare il collaboratore ad esprimere la propria autovalutazione e ad esternare il proprio punto di vista integrato da esempi

concreti e dati. È opportuno argomentare comunanze e differenze fra le due valutazioni, sviluppare i punti chiave, essere consequenziali, dedicare il tempo necessario a sciogliere eventuali nodi critici rispondendo con chiarezza alle domande poste dal collaboratore e alle eventuali obiezioni, gestendo con calma e serenità i punti di disaccordo. Lo stadio finale è quello in cui è opportuno richiamare e sintetizzare i principali punti toccati, tirare le conclusioni ri-puntualizzando le aspettative e gli obiettivi di sviluppo identificati, comunicare disponibilità e supporto e concludere in maniera positiva, richiamando gli aspetti di utilità del colloquio ed esprimendo frasi di incoraggiamento.

Infine, la fase cinque prevede l’individuazione e la realizzazione delle azioni di sviluppo che consiste nello stilare e nell’attuare un piano di intervento per colmare il “gap” fra prestazione effettuata e prestazione attesa. Tale piano può contemplare sia compiti specifici attribuiti al dipendente, utili ad allenare alcune capacità volte a migliorare la prestazione, sia supporti quali affiancamenti, formazione mirata, step intermedi di monitoraggio dell’andamento della prestazione (insieme al proprio Responsabile)

LA VALUTAZIONE DELLE COMPETENZE

La rilevazione delle competenze, intese come l’insieme di conoscenze, capacità e comportamenti attivati in un contesto dato, è una pratica che permette di ottimizzare le risorse umane disponibili, migliorare la produttività, pianificare lo sviluppo professionale e gestire l’eventuale turnover. Le competenze, sia tecniche che trasversali, sono ciò che una persona dimostra di saper fare, intellettualmente ed operativamente, in relazione ad un obiettivo, compito o attività in un determinato contesto professionale. Le prime (quelle tecniche) consentono al soggetto di svolgere attività specifiche nell’ambito di una determinata professione, sono settoriali, specialistiche, necessarie per poter svolgere adeguatamente alcuni compiti. Le seconde (le trasversali o “soft skills”) sono invece il complesso delle abilità e qualità che caratterizzano il comportamento professionale di un soggetto e si stanno rivelando sempre più determinanti per favorire il successo professionale di persone e aziende.

Per poter rilevare in maniera strutturata e pertinente le competenze possedute dalle risorse interne all’organizzazione, è necessario redigere il repertorio delle competenze attese che consiste nella specifica e dettagliata descrizione delle competenze funzionali all’esercizio di un determinato ruolo. Il repertorio rappresenta l’insieme delle competenze comportamentali organizzative riconosciute come rilevanti dall’azienda per ottenere le prestazioni auspicate. All’interno del “repertorio” le e competenze trasversali possono essere suddivise in 4 macroaree, che diventano oggetto di valutazione: 1) Cognitiva. È l’area degli elementi intellettivi, considera la predisposizione al ragionamento logico, la capacità di scomporre un problema nei suoi fattori costitutivi, l’abilità dell’individuare criticità ed elaborare ipotesi di soluzione. 2) Realizzativa. Area degli elementi legati all’azione e alla capacità di incidere sul contesto; riguarda la determinazione verso il raggiungimento degli obiettivi, il problem solving operativo e la capacità di anticipare gli eventi mettendo in atto iniziative pertinenti. 3) Relazionale. Riguarda l’area degli elementi attinenti alla sfera dell’interazione con gli altri. Ha a che fare con l’abilità nel comunicare, nel comprendere le esigenze altrui e con la capacità di lavorare in squadra. 4) Gestionale. È l’area degli elementi attinenti il coordinamento delle attività di riferimento e la gestione delle risorse disponibili. Riguarda la propensione ad identificare obiettivi e priorità, a programmare attività, ad utilizzare metodi di gestione e controllo, a presidiare gli interlocutori con autonomia e responsabilità decisionale.

Ogni competenza, rientrante in una delle categorie sopra descritte, può essere identificata da uno specifico “titolo”, da una “definizione” che ne spiega il significato ed essere precisata da una “declaratoria”, cioè chiarita da dei “descrittori comportamentali” che la connotano per consentire a chi valuta di essere in grado di rilevare i «segnali visibili» che denotano la sua presenza. Ciascuna competenza, così descritta, può essere valutata mediante appositi questionari e griglie di osservazione.

La conoscenza del livello di competenze possedute da singoli professionisti permette di comprendere quali possono essere le ragioni di una prestazione poco soddisfacente e di individuare l’eventuale delta da colmare mediante opportuni interventi formativi.

CONCLUSIONI

L’attuazione di un coerente processo valutativo è la base per individuare le strategie più pertinenti di employee retention, strategie che possono riguardare il creare un ambiente di lavoro positivo e stimolante in cui i dipendenti si sentano valorizzati e apprezzati, il fornire opportunità di formazione e sviluppo professionale volti a migliorare le competenze e a favorire la flessibilità d’orario, la possibilità di lavorare crescita professionale, il riconoscere e premiare da remoto o altri benefit volti a migliorare la le prestazioni di qualità, l’offrire vantaggi come qualità lavorativa e di vita del collaboratore.

Per le tabelle clicca qui.

Andrea Castiello D’Antonio – (2020) Il capitale umano nelle organizzazioni. Metodologie di valutazione e sviluppo della prestazione e del potenziale -Hogrefe

William Levati, Maria V. Saraò – (2016) Il modello delle competenze – Franco Angeli

Maurizio Agnesa (2020) -Psicologia manageriale. La gestione psicologica delle risorse umane -Libreriauniversitaria.

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HR&Organizzazione – SELEZIONE DEL PERSONALE: un’opportunità per il Consulente del Lavoro se praticata consapevolmente

Fernanda Siboni, Psicologa del lavoro – Consulenza Organizzativa, dello Sviluppo Risorse Umane e della Formazione – Coach, Counselor e Soft Skills Trainer

 

LE TENDENZE CONTEMPORANEE

La selezione del personale è, per i consulenti del lavoro, una attività che, nel  prossimo futuro, potrebbe assumere una rilevanza sempre maggiore, anche in una logica di sviluppo del business dello Studio. Obiettivo del presente articolo è quello di stimolare l’interesse di quei Professionisti che ancora conoscono poco questo settore e, nel contempo, mettere in guardia da forme di improvvisazione che possono essere controproducenti, sia sul piano dell’efficacia di questa pratica professionale che sul versante dell’immagine del Professionista stesso presso il proprio mercato di riferimento.

Siamo di fronte a due fattori importanti di cambiamento che coinvolgeranno, in maniera significativa, il mondo del lavoro: molto probabilmente nel prossimo futuro circa il 50% delle attuali posizioni lavorative verrà sostituito da processi di automazione che determineranno una sensibile trasformazione dell’operatività delle aziende.1 Stiamo assistendo ed assisteremo, sempre di più, ad un aumento dell’occupazione nelle professioni ad elevata specializzazione e, all’opposto, in quelle a bassa qualifica, mentre, contemporaneamente, l’impiego nelle professioni intermedie tenderà a diminuire. È il cosiddetto fenomeno della polarizzazione delle funzioni lavorative.2 Il mercato del lavoro mostra un costante

spostamento dell’occupazione dalle mansioni di media qualifica alle mansioni cognitive non routinarie. Pertanto, chi svolge attività con un più elevato contenuto di mansioni di routine è esposto a un maggiore rischio di disoccupazione, sia a breve che a medio termine. Più in generale, il lavoro di routine è associato a una minore stabilità dell’occupazione e a una maggiore probabilità di incorrere in periodi di disoccupazione.3 Queste tendenze avranno probabilmente impatto anche sui professionisti degli Studi Professionali. Attività routinarie (come il calcolo dei contributi o la realizzazione dei cedolini) saranno soggette ad una sempre maggiore automatizzazione e la standardizzazione di tali processi lavorativi permetterà ai consulenti del lavoro di investire meno tempo in funzioni operative e ripetitive e di avere più tempo da dedicare a compiti strategici e meno operativi. È quindi auspicabile che, a fronte di tali cambiamenti, i professionisti degli Studi si attrezzino per intraprendere percorsi formativi che consentano loro di sviluppare una serie di competenze che si allineino all’evoluzione del mercato al fine di fornire ai clienti un valore aggiunto coerente con le nuove esigenze emergenti. In questa logica, un’area di competenze particolarmente interessante è rappresentata dalla consulenza finalizzata alla ricerca e selezione del personale, attività di cui le imprese necessitano e che, nella maggior parte dei casi, non hanno le competenze e le risorse per poter svolgere internamente. Tale consulenza può riguardare tutte le fasi “tipiche” del processo di selezione e inserimento, e può essere molto efficace se rafforzata da una partnership fruttuosa con chi ha competenze di carattere psicologico4,

IL PROCESSO DI SELEZIONE

Le fasi tipiche del processo di selezione e inserimento del personale sono individuabili nei seguenti momenti: analisi del contesto organizzativo dell’azienda committente, individuazione e definizione delle esigenze della stessa, definizione del profilo di competenze e di capacità della candidatura “ideale”, analisi e costruzione del documento “ job description”, pianificazione e realizzazione del programma di ricerca delle candidature attraverso gli opportuni canali di reclutamento, valutazione delle candidature individuate attraverso appropriati strumenti di screening e di selezione, colloquio di selezione per rilevare le competenze e le attitudini, individuazione della rosa dei candidati maggiormente idonei, progettazione e svolgimento delle attività finalizzate all’inserimento lavorativo, assistenza al neoassunto nella fase di inserimento, monitoraggio dell’andamento dell’inserimento.

Il processo, così sintetizzato, si compone di fasi che richiedono competenze specifiche ed attività dedicate.

La fase di “Job analysis” consiste nell’analisi delle mansioni proprie della posizione lavorativa da ricoprire che ha lo scopo di individuare i requisiti e i fattori che la compongono. Per espletare questa fase, occorre procedere con la raccolta delle informazioni utili mediante

interviste, focus group (una tecnica di indagine qualitativa incentrata sul confronto fra membri selezionati operanti all’interno dell’azienda committente), osservazione diretta del contesto di riferimento, analisi dei documenti aziendali, quali, per esempio, organigramma, mansionari, procedure, contratti di lavoro. La fase di “Job description” riguarda la descrizione analitica e formalizzata per iscritto delle principali caratteristiche della posizione lavorativa per la quale si vuole attivare la selezione. Si tratta di descrivere la posizione in termini di: denominazione, scopo, interfacce e riporti, aree di responsabilità, attività, competenze, attitudini richieste.

Nella mia esperienza personale di formatrice, ho notato che molti professionisti degli Studi Professionali che seguono i miei corsi tendono a confondere “job description” ed annuncio. Si tratta di due documenti che hanno scopi diversi: il primo è un documento interno, articolato e dettagliato, che ha l’obiettivo di descrivere in maniera approfondita i fattori che compongono il profilo di chi si sta ricercando al fine di avere un parametro di riferimento, chiaro e definito, per procedere con le fasi successive del processo di selezione; il secondo è uno scritto sintetico, che contiene i tratti essenziali del profilo ricercato e che si rivolge al pubblico esterno, eventualmente interessato a candidarsi. Di fatto, la stesura del documento “ job description” non è affatto sovrapponibile a quella dell’annuncio, ma semmai è la base da cui partire per poter stilare un annuncio ben articolato. Di solito quest’ultimo si compone di  elementi che riguardano i requisiti richiesti al candidato, quali: titolo di studio, esperienze lavorative, competenze specifiche, disponibilità particolari (per es. la disponibilità ad effettuare trasferte, a lavorare oltre l’orario canonico, a lavorare nei weekend), requisiti preferenziali (per es. la conoscenza di più lingue), e l’offerta, ovvero le caratteristiche della posizione che possono rappresentare un elemento di attrattività (per es. formazione, incentivi). La fase di recruiting include l’individuazione dei canali attraverso i quali veicolare l’annuncio, la raccolta e lo screening dei curricula attività che, apparentemente, sembrerebbe piuttosto semplice, ma che in realtà richiede particolari attenzioni ed accortezze. È, infatti, necessario creare un indirizzo mail apposito e dedicato alla ricezione dei curricula relativi a quella posizione e strutturare la raccolta in comparti (per esempio cartelle con nome della posizione e sottocartelle per tipo di valutazione). L’avere sempre come riferimento il documento “ job decription” agevola queste operazioni in quanto permette di confrontare i curricula ricevuti con i requisiti richiesti (riducendo gli elementi di soggettività che possono influenzare lo screening) e di evidenziare, per comparazione, la corrispondenza fra fattori ricercati e contenuti descritti in ogni singolo curriculum. La convocazione dei candidati richiede un’organizzazione ferrea, soprattutto se si decide di utilizzare, oltre allo “strumento” colloquio, anche altri strumenti, come per esempio sessioni di prove individuali e collettive.

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GLI STRUMENTI DI RILEVAZIONE

Il colloquio è lo strumento d’elezione per espletare la fase di selezione ed ha un obiettivo preciso: quello di verificare che il candidato abbia i requisiti necessari per ricoprire la posizione ricercata, e quindi evincere le competenze, attitudini e motivazioni compatibili. Il colloquio serve inoltre ad informare il candidato, in maniera più specifica rispetto a quanto trasmesso mediante l’annuncio, riguardo alle caratteristiche dell’azienda e della posizione cercata; serve a creare una buona immagine dell’azienda rappresentata e a raccogliere informazioni utili per approfondire quanto scritto nel curriculum. Durante il colloquio, al fine di ottimizzarne i tempi e l’efficacia, è importante seguire una struttura flessibile: ad ogni domanda deve corrispondere un preciso obiettivo di rilevazione, avendo chiaro a quale informazione si intende accedere mediante quel determinato quesito. Nella mia esperienza professionale di affiancamento a giovani selezionatori alle prime armi, ho notato più volte che molte delle domande poste al candidato in sede di selezione rischiano di essere poco finalizzate e tendono a raccogliere informazioni a 360° che risultano poi difficili da decodificare e da utilizzare per effettuare una opportuna “diagnosi” del candidato. Per evitare questo, è opportuno dotarsi di una serie di protocolli di domande funzionali ad accedere alle informazioni che effettivamente servono. La rilevazione delle competenze, intese come l’insieme di conoscenze, capacità e comportamenti attivati in un contesto dato, è un passaggio chiave del processo di selezione. Le competenze, sia tecniche che trasversali, sono ciò che una persona dimostra di saper fare, intellettualmente ed operativamente, in relazione ad un obiettivo, compito o attività in un determinato contesto professionale. Le prime (quelle tecniche) consentono al soggetto di svolgere attività specifiche nell’ambito di una determinata professione, sono settoriali, specialistiche, necessarie per poter svolgere adeguatamente alcuni compiti. Le seconde (le trasversali o “soft skills”) sono invece il complesso delle abilità e qualità che caratterizzano il comportamento professionale di un soggetto e si stanno rivelando sempre più determinanti per favorire il successo professionale di persone e aziende.

Ma quali sono le “soft skills”, o “soft talents”,5 più importanti nel prossimo futuro e per il lavoro di domani? Ne sono state individuate alcune come prioritarie:6 pensiero analitico, pensiero critico, apprendimento attivo e strategie di apprendimento, capacità di risolvere problemi complessi, creatività, spirito d’iniziativa, capacità di ideazione e d’innovazione, leadership e influenza sociale, monitoraggio e controllo, progettazione e programmazione, resilienza, gestione dello stress e flessibilità. Per rilevare le competenze, in particolare quelle “trasversali”, sono necessari strumenti appositi in quanto l’improvvisazione rischia di vanificare l’efficacia del lavoro di selezione. Lo strumento del colloquio è, fra gli altri, sicuramente un ausilio prezioso in questo tipo di rilevazione, a patto che venga gestito professionalmente e consapevolmente, ovvero con le “giuste” competenze e sapendo fin dove ci si può spingere e dove ci si deve fermare nell’attività esplorativa. Un consulente del lavoro che ha seguito un percorso di formazione dedicato alla selezione del personale avrà meno rischi di incorrere in errori o problemi rispetto a chi sceglie di sperimentarsi in questa professione da autodidatta.

Oltre alle competenze è possibile valutare le attitudini, le predisposizioni a svolgere determinate attività e, quindi, le capacità “potenziali”, e le inclinazioni che, secondo diversi studi, sembrerebbero consolidarsi nel soggetto umano intorno ai vent’anni di vita. Le attitudini, per loro natura, si distinguono dalle conoscenze e dalle competenze che, invece, si possono apprendere lungo tutto l’arco della vita attraverso percorsi di studio e di formazione. La rilevazione attitudinale è preziosa in quanto è auspicabile assumere un soggetto con un buon allineamento attitudinale al profilo richiesto, sia per facilitare il suo percorso di sviluppo all’interno del contesto lavorativo a cui è destinato, sia per evitare forme di frustrazione (nel soggetto stesso, una volta inserito nella realtà lavorativa) correlate ad un eventuale disallineamento attitudinale che, difficilmente, potrà essere totalmente compensato dalla sola “buona volontà” e dai percorsi formativi di sviluppo competenze seguiti. Per rilevare le attitudini durante il colloquio, è possibile avvalersi di uno o più protocolli di rilevazione, ispirati a modelli di riferimento ormai consolidati.7

Un altro “oggetto” di rilevazione nel corso del colloquio è la cosiddetta “motivazione”,intesa come il processo dinamico espressione dei motivi che stimolano individui e gruppi ad avere determinati comportamenti. Riguarda le «buone ragioni» che spingono i soggetti ad intraprendere determinate azioni per raggiungere specifici scopi. Anche in questo caso i protocolli di domande sono utili, ma ancor più utile è la capacità di osservare, da parte del selezionatore, i meccanismi di congruenza fra linguaggio verbale e non verbale del candidato. In tal senso l’allenamento all’“ascolto attivo”, da parte di chi seleziona, è una buona pratica ai fini della comprensione dei segnali che, in sede di selezione, il candidato trasmette. Ma il colloquio individuale non è l’unico strumento efficace per fare selezione.

Altri metodi, come per esempio l’assessment center, hanno il vantaggio di poter effettuare rilevazioni che contemplano il vedere i vari candidati “in azione” ed in relazione tra di loro. L’assessment center è un intervento diagnostico di valutazione del potenziale, inteso come l’insieme delle caratteristiche che si ipotizza siano presenti in un individuo, ma che non sono ancora state espresse o comunque visibili in qualche occasione. L’assessment center serve, per esempio, per valutare le modalità di interazione, lo stile di relazione, la capacità di argomentare e di influenzare, la leadership. È opportuno che venga gestito da psicologi del lavoro (o comunque mediante una partnership fra consulente del lavoro e psicologo) che hanno competenze adeguate per effettuare correttamente sia la progettazione che la rilevazione di “come” e “cosa” si vuole rilevare. I metodi di indagine utilizzati nell’assessment sono solitamente: la dinamica di gruppo (tipicamente la discussione di un caso aziendale, o di una situazione metaforica in cui si richiede, per esempio, di prendere una decisione di gruppo condivisa); il role playing, in cui si richiede l’interpretazione di un ruolo all’interno di un determinato contesto proposto (esempio interagire con un cliente); è possibile anche utilizzare dei test psicologici che sono strumenti scientifici che permettono di misurare diversi fattori: attitudini, abilità cognitive, personalità. I test psicologici sono utili strumenti da affiancare ad altri metodi di selezione e possono essere somministrati sia in presenza che on line, sempre con l’ausilio di uno psicologo del lavoro. Certamente l’uso competente di strumenti adeguati di selezione non mette totalmente al riparo da possibili errori di valutazione. Tuttavia, la gestione professionale di tali strumenti riduce di molto le probabilità di incorrere in criticità che possono vanificare l’efficacia della selezione.

LA SCELTA DEL CANDIDATO E IL SUO INSERIMENTO

Una volta fatta la selezione vera e propria, è possibile individuare la rosa di candidati da presentare al committente attraverso alcune semplici azioni quali: comparare le caratteristiche rilevate nella fase di selezione con quelle presenti nel documento “ job description”, individuare le candidature che hanno maggiori caratteristiche simili a quelle del profilo atteso, scegliere tre candidati idonei da presentare al cliente. In questa fase, è importante organizzare una sessione di colloqui fra cliente e candidati della «rosa», facendo precedere tale colloquio da una presentazione al cliente, da parte del selezionatore, della «rosa» evidenziando le caratteristiche di ciascun candidato in maniera il più possibile oggettiva. È inoltre opportuno che il selezionatore sia presente ai colloqui fra candidato e cliente al fine di evitare ridondanze ed anche per intervenire qualora si rendessero necessarie alcune precisazioni sul percorso pregresso. Dopo i colloqui, è importante analizzare col cliente le ragioni delle sue preferenze ed insieme a lui redigere l’offerta di assunzione rivolta al candidato prescelto. Ma il processo non termina con la scelta del soggetto che verrà assunto.

Un aspetto fondamentale del successo di tutto il processo di selezione è la redazione di un piano d’inserimento. Occorre organizzare, insieme al cliente, il calendario degli affiancamenti, le attività di apprendimento specifico, la formazione di cui il neoassunto potrà fruire. Nel calendario saranno inclusi anche i colloqui di feedback volti a monitorare l’efficacia dell’inserimento stesso. Per ottimizzare tale percorso, è consigliabile proporre al cliente di individuare un tutor a cui il neoassunto potrà fare riferimento nel corso del proprio inserimento in azienda. Il tutor è la persona deputata a seguire il neoassunto al fine di garantirne la migliore integrazione nel contesto aziendale, e, in particolare, è il referente principale per il soddisfacimento dei bisogni di orientamento del neoassunto, fa in modo che il calendario di affiancamenti e formazione venga rispettato, si accerta che il neoassunto possa in breve tempo essere pronto ad assumere in autonomia il ruolo che gli è stato affidato.

CONCLUSIONI

Da quanto esposto, si evince che il processo di selezione del personale è un’attività dinamica che richiede sicuramente competenze specifiche, ma che racchiude anche aspetti valoriali di non poco conto: collocare con successo un soggetto in un contesto dove può sentirsi a proprio agio, apprendere, crescere professionalmente e fornire una buona prestazione a vantaggio proprio e dell’azienda, rappresenta un’azione di grande utilità sociale in un contesto, come il nostro, che necessità più che mai di aziende orientate al cliente, efficaci ed efficienti nel dare prodotti e servizi “ad hoc”, dove l’apporto responsabile e competente della risorsa umana fa sempre più la differenza.

 

1. Carl Benedikt Frey – Michael A. Osborne (2013)- The future of employment: how
susceptible are jobs to computerisation?
https://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/downloads/academic/The_Future_of_Employment.pdf
2. Maarten Goos, Alan Manning, and Anna Salomons (2014)- Explaining Job Polarization:
Routine-Biased Technological Change and Offshoring https://eprints.lse.ac.uk/59698/1/
Manning_Explaining%20job_2016.pdf
3. Ronald Bachmann, Merve Cim, Colin Green (2018) Long-run Patterns of Labour Market Polarisation: Evidence from German Micro Data https://www.econstor.eu/bitstream/10419/179037/1/102345565X.pdf

4. Protocollo D’Intesa 2009 Consulenti del Lavoro e Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi https://www.psy.it/wp-content/uploads/2015/04/conv_consulenti.pdf

5. Eric Frazer-(2019) The Psychology Of Top Talent- Paperback.

6. Autori Vari The Future of Jobs Report 2020 https://
www.aranagenzia.it/attachments/article/11211/WEF_Future_of_Jobs_2020.pdf.
7. Roberto Vaccani (2022) Professionalità, attitudini e carriera. Scegliere e sapersi scegliere- Lumi Edizioni Universitarie.
8. Falko Rheinberg (2006) Valutare la motivazione. Stru

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HR&Organizzazione – LAUTOEFFICACIA E LEADERSHIP definiscono il benessere lavorativo*

Fernanda Siboni, Psicologa del lavoro – Consulenza Organizzativa, dello Sviluppo, Risorse Umane e della Formazione – Coach, Counselor e Trainer

 

La capacità generativa di orientare le singole abilità cognitive, sociali ed emozionali in maniera efficiente influenza la qualità della prestazione professionale. I risultati positivi determinano una solida fiducia nella propria efficacia personale.

Ultimamente si sente molto parlare di Great resignation, ovvero di quel fenomeno che fa riferimento al fatto che un numero crescente di persone decide di lasciare volontariamente il posto di lavoro1. Uno studio, commissionato da IBM Institute for business value2, che ha coinvolto 14mila lavoratori di tutto il mondo, ha evidenziato che le principali ragioni che portano le persone a dare le dimissioni sono, in sintesi: la ricerca di contesti in grado di garantire il rispetto dei valori individuali; la qualità delle relazioni; la ricerca di uno stato di benessere lavorativo (fattore motivazionale imprescindibile, in grado di condizionare marcatamente la qualità della performance).

Ma quali sono i fattori che realmente influenzano quest’ultimo aspetto? Quali sono le convinzioni e le credenze che condizionano la percezione di tale benessere da parte di professionisti e manager che operano nelle moderne organizzazioni? In che modo tali convinzioni influiscono sulla performance?

IL BENESSERE LAVORATIVO È INFLUENZATO DALLA PERCEZIONE DI AUTOEFFICACIA

Dal modellamento di professionisti eccellenti nel loro settore, effettuato da chi scrive, è emerso che uno degli elementi significativi che influenzano lo stato di benessere lavorativo è la percezione di autoefficacia3. Si tratta di una capacità generativa che ha lo scopo di orientare le singole sotto-abilità cognitive, sociali, emozionali e comportamentali in maniera efficiente per assolvere a scopi specifici. Il livello di autostima e la percezione di autoefficacia sono due elementi fondamentali nell’influenzare la qualità della prestazione professionale, ma si tratta di due concetti che, seppur correlati, vanno distinti. Il senso di autoefficacia riguarda l’auto-percezione relativa alle capacità personali di un soggetto, mentre l’autostima si riferisce, piuttosto, all’auto-percezione del valore personale. Una persona può giudicarsi irrimediabilmente inefficace in una data attività senza per questo perdere l’autostima, se non investe tale attività del senso del proprio valore personale. Viceversa, ci si può sentire molto efficaci in una data attività senza per questo gloriarsi delle proprie prestazioni4. Per mobilitare e mantenere l’impegno necessario a riuscire occorre un saldo senso di autoefficacia, inteso come fiducia nelle proprie capacità di organizzare e mettere in atto azioni finalizzate a raggiungere un obiettivo prefissato. L’autoefficacia ha a che fare con le convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati. Non si tratta di una generica fiducia in se stessi, ma della convinzione di poter affrontare efficacemente determinate prove, di essere all’altezza degli eventi, in grado di cimentarsi in alcune attività o di affrontare specifici compiti. L’autoefficacia non è, dunque, una misura delle competenze possedute, ma è la credenza che la persona ha in ciò che è in grado di fare in diverse situazioni con le capacità che possiede. I professionisti che hanno un elevato senso di autoefficacia affrontano i compiti difficili come sfide da vincere, si pongono obiettivi ambiziosi e si impegnano nel loro raggiungimento; di fronte alle difficoltà intensificano il loro apporto e lo mantengono costante nel tempo; superano con determinazione gli eventuali insuccessi e affrontano le situazioni critiche con la convinzione di poter esercitare un controllo su di esse. I professionisti eccellenti scelgono obiettivi sfidanti, in quanto nutrono un’elevata stima relativamente alle loro capacità: quanto è maggiore l’autoefficacia percepita tanto più elevati sono gli obiettivi che essi si pongono e tanto maggiore è l’impegno che dedicano al loro ottenimento. L’insuccesso rappresenta l’occasione per raccogliere maggiori informazioni da utilizzare come riferimento per evitare errori futuri e le capacità sono fattori migliorabili attraverso l’esperienza e l’apprendimento; una prestazione carente fornisce l’opportunità per analizzare cosa è andato storto, per porvi rimedio in future occasioni in una logica di miglioramento continuo (kaizen)5. Le prestazioni carenti sono elaborate cognitivamente non come difetti personali, ma come eventi circostanziati, fonti di informazioni preziose e istruttive per rafforzare le competenze professionali spendibili nel prossimo futuro.

L’UMORE E L’AUTOEFFICACIA SI INFLUENZANO RECIPROCAMENTE

Tale modalità di elaborazione delle informazioni, volta a valorizzare le valenze delle esperienze di insuccesso, ha una funzione anche rispetto alla convinzione di influenzare e controllare l’ambiente circostante. Il professionista di successo crede di poter modificare le situazioni, ritiene di poter dare il proprio fattivo contributo per cambiare il punto di vista altrui e per influenzarlo, si ritiene in grado di saper guidare l’altro verso una prospettiva diversa da cui guardare una stessa cosa. Tale convinzione è di sostegno nell’attivazione delle proprie azioni volte a produrre risultati. Le convinzioni sull’autoefficacia determinano l’entità degli obiettivi definiti, la quantità di impegno da investire, il livello di perseveranza da attivare di fronte alle difficoltà e l’entità delle capacità di recupero in seguito agli eventuali insuccessi. I professionisti abili, di fronte alle situazioni difficili, intensificano i loro sforzi e persistono fino a quando non riescono a ottenere quanto si erano prefissati. Solitamente, la tenacia e la perseveranza ripagano gli sforzi fatti con il miglioramento della prestazione e un conseguente innalzamento della percezione della propria autoefficacia.

Le convinzioni di efficacia influenzano anche la vigilanza verso i potenziali ostacoli che si possono incontrare nel percorso verso l’obiettivo e la percezione del loro possibile controllo o superamento: i possibili pericoli sono considerati come affrontabili, contattando le risorse personali, ridimensionando l’entità stessa delle criticità e attivando un pensiero orientato alla soluzione in maniera tale che ciò che d’acchito sembra impossibile diventa, di fatto, possibile. Pertanto, quanto più forte è il senso di efficacia, tanto più il soggetto è vigoroso nell’affrontare situazioni problematiche stressanti e tanto maggiore è il suo successo nel modificarle.

Un altro aspetto interessante è che l’umore e l’autoefficacia si influenzano reciprocamente: un elevato senso della seconda, circa la capacità di procurarsi ciò che nel lavoro conduce alla soddisfazione di sé, e alla sensazione di valore personale, dà luogo a un positivo senso di attivazione, a un umore gradevole che, a sua volta, incrementa la fiducia nella propria efficacia personale, in un circolo virtuoso che porta a un vigore sempre maggiore. Generalizzando, le convinzioni di efficacia personale sembrano plasmare il corso che la vita professionale assume anche determinando il tipo di attività che si intraprende e i contesti ambientali a cui si sceglie di accedere. In questo processo ognuno modella il proprio destino, scegliendo il tipo di ambiente che ritiene adatto a coltivare certe potenzialità e determinati stili di vita. Le persone di successo sembrerebbero evitare le attività e gli ambienti che considerano al di là delle proprie capacità di gestione e, invece, preferiscono lavori stimolanti e contesti ritenuti alla propria portata. Attraverso le scelte che compiono, le persone coltivano diversi tipi di competenze, interessi e relazioni sociali che determinano il loro corso professionale.

L’EFFICACIA DI UN’AZIONE DIPENDE DALLA FIDUCIA NELLE PROPRIE CAPACITÀ

Per incrementare l’autoefficacia è di fondamentale importanza considerare l’origine delle convinzioni che le persone hanno relativamente alla propria efficacia. Una prima fonte di tale origine è rappresentata dalle esperienze affrontate con successo, impiegando le risorse proprie, in quanto i risultati positivi determinano una solida fiducia nella propria efficacia personale e, anche in presenza di sporadici insuccessi, la persona attribuirà la prestazione scadente all’uso di una strategia sbagliata in una situazione specifica, il che concorrerà a incrementare la fiducia nel fatto che strategie migliori potranno aumentare la probabilità di ottenere successi futuri. Una seconda fonte è rappresentata dallo stile esplicativo, ovvero dal modo in cui abitualmente ogni individuo spiega a se stesso perché accadono gli eventi. Secondo lo psicologo Martin Seligman6, una persona con stile esplicativo ottimistico spiega gli eventi negativi con cause esterne, variabili e accidentali, mentre individua negli eventi positivi cause interne, generalizzate e stabili. In risposta a un’esperienza negativa, un pessimista, invece, è incline a costruire attribuzioni interne, generalizzate e stabili, mentre crea attribuzioni esterne, variabili e accidentali per eventi positivi. Una terza fonte è rappresentata dalla capacità di osservare altre persone che riescono a compiere un’azione o a svolgere un compito con successo e al ritenere utile per sé tale tipo di osservazione. Questo porta a incrementare la propria autoefficacia, poiché permette di ritenere di possedere le abilità necessarie per poter riprodurre e fare quanto osservato. Vedere persone simili a sé che raggiungono i loro obiettivi, grazie all’impegno e all’azione personale, incrementa in chi osserva la convinzione di possedere le capacità necessarie a riuscire in situazioni analoghe.

Una quarta fonte riguarda l’incoraggiamento ricevuto da altri per tentare un compito ed essere convinti di possedere le abilità necessarie per eseguirlo. Per esempio, l’incoraggiamento di un responsabile di cui si ha stima serve per avere lo slancio necessario nei momenti di titubanza o indecisione. Naturalmente, il compito deve avere un margine di rischio di insuccesso circoscritto e chi incoraggia deve essere percepito come persona meritevole di fiducia. Anche l’auto-persuasione può rappresentare un’ottima fonte: ci si può autosostenere ricordando a se stessi episodi precedenti di riuscita e successo. L’osservazione del proprio stato fisiologico (tensione, dolore, tremore) può essere utile per rafforzare l’autoefficacia in quanto tali segnali, se considerati come manifestazione di uno stato di attivazione, possono essere accolti e gestiti. Di solito chi ha un buon senso di efficacia considera questi indizi come fattori che mostrano la presenza di energia che può essere opportunamente canalizzata per facilitare l’azione. La stessa cosa vale per quanto riguarda la percezione dello stato emotivo: uno stato d’animo positivo aumenta il senso di autoefficacia.

Un’altra fonte importante è rappresentata dall’opportuno uso dell’immaginazione quale campo di sperimentazione di situazioni possibili o reali: l’usare fantasie positive predispone e supporta lo stato emotivo con il quale affrontare un percorso per raggiungere l’obiettivo. In sintesi, per compiere un’azione che risulti efficace è necessario volerlo, ma soprattutto credere nelle proprie capacità e crearsi una sorta di “rappresentazione mentale” dello scenario possibile. Agire su tali aspetti, mediante il richiamo di episodi di riuscita durante le sessioni di apprendimento, il rinforzo delle stesse nelle situazioni gestionali, la gratificazione delle prestazioni efficaci con premiazioni e incentivi durante i meeting, può contribuire a instillare e riprodurre tali “condizioni per l’eccellenza” in coloro che aspirano al successo e alla realizzazione professionale nel loro settore di attività.

VALORIZZARE E GESTIRE LE PERSONE PER ESSERE LEADER

Oltre a quello dei professionisti eccellenti, un altro caso è rappresentato dal modellamento, da parte di chi scrive, di un campione di manager (gestori di risorse umane in ambito commerciale) che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nel gestire le proprie risorse. La ricerca è stata fatta utilizzando come riferimento il modello dei livelli logici di Dilts (piramide di Dilts)7. Tale modello è un adattamento del lavoro svolto dall’antropologo Gregory Bateson e descrive una gerarchia di livelli di processo all’interno di un individuo, gruppo o organizzazione. L’applicazione del modello dei livelli logici agli intervistati ha, in sintesi, messo in luce i seguenti aspetti:

  • convinzioni: faccio il manager perché, dopo essermi affermato come specialista nel mio settore, ho creduto che valesse la pena mettermi alla prova come sviluppatore di risorse umane;
  • valori: credo nelle potenzialità delle persone e per me è importante vedere che i collaboratori mi seguono e crescano professionalmente;
  • identità: sono un punto di riferimento per gli altri;
  • mission: voglio lasciare una traccia, essere ricordato come un leader Nel caso dei manager emergono con evidenza aspetti legati alla voglia di assumere una nuova sfida che ha a che fare con l’intento di “contagiare” positivamente altri, di rappresentare qualche cosa di importante per i professionisti, di essere riconosciuto come leader. In questo caso i comportamenti e le capacità sono facilmente modellabili in quanto basta che si riproducano i fattori descritti nel corso della predetta osservazione. I quattro livelli apicali della piramide hanno una marcata relazione con il tema della leadership e sono fortemente correlati con il ’saper essere’ oltre che con il “saper fare” .

Non vorrei qui addentrarmi nell’annoso tema secondo il quale leader si nasce o si diventa8, piuttosto è utile considerare che essere capi significa “creare un mondo al quale le persone desiderino appartenere”9. Ciò è facilmente desumibile da quanto finora descritto, ovvero l’aspirazione e il desiderio di poter far parte di una realtà che non solo soddisfa il bisogno di guadagnare, ma che potenzialmente è in grado di appagare anche la necessità di riconoscimento professionale e sociale, che va ben oltre il tema economico.

Il responsabile capace di sviluppare business diventa leader riconosciuto solo quando sa anche valorizzare le persone che guida, le addestra, le fa crescere, le supporta e ne sviluppa le potenzialità, essendo in prima persona esempio di quanto richiede ai collaboratori. È chi sa creare un contesto in cui le persone del proprio team vivono una dimensione di benessere a 360 gradi.

Per potere fare questo può essere necessario agire sulle proprie e altrui convinzioni10: il comportamento di ognuno di noi è enormemente influenzato e mobilitato da quelle che sono le nostre più ferree certezze. Per ottenere un cambiamento efficace e duraturo delle convinzioni che ostacolano il raggiungimento di uno stato di benessere organizzativo, la Programmazione neurolinguistica (Pnl) suggerisce diverse tecniche che si sono dimostrate efficaci (cui si rimanda)11. Cambiare questo stato circa le proprie capacità e il proprio potenziale ha permesso a molti professionisti di raggiungere traguardi talvolta inimmaginabili, sul piano sia dell’efficacia sia della realizzazione personale; tale mutamento è stato possibile anche grazie alle dimostrazioni di fiducia espresse dai responsabili e allo stile di gestione adottato dai manager più lungimiranti, che hanno saputo trasmettere valori forti nei quali credere e potersi riconoscere.

 

* Pubblicato su Mit Sloan Management Review Italia, Autunno 2022, Anno1, numero 3, pag. 50 ss.

1. De Smet A., Dowling B., Mugayar Baldocchi M., Schaninger B. (2021), “Great attrition” or “great attraction”? The choice is yours, https://www.mckinsey.com/business-functions/people-andorganizational-perfor- mance/our-insights/great-attrition-or-great-attraction-the-choice-is-yours.
2. IBM (2021), Nel 2021 cambiere-mo lavoro e ci dedicheremo ad accrescere le nostre competenze, https://it.newsroom.ibm.com/Study2021SkillsGrowth.
3. Bandura A. (2000), Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Erickson.
4. Sasso S. (2010), Mal di scuola, Anicia.

5. Vanbremeersch C. (2020), Kaizen. La filosofia giapponese del grande cambiamento a piccoli passi, Giunti.

6. Seligman M. E. P. (2015), Imparare l’ottimismo. Come cambiare la vita cambiando il pensiero, Giunti.

7. Dilts R. (2018), Changing be- lief systems with Nlp, Dilts Sra- tegy Group.
8. Cognonato E. (2016), Leader si nasce e si diventa, Il Campo.
9. Dilts R. (1998), Leadership e visione creativa, Guerini &Associati.
10. Dilts R., Halbomm T., Smith S. (1988), Convinzioni, Astrolabio.
11. James R. (2015), Pnl. 10 tecniche essenziali, Area 51 Publishing.

 

 

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