Risarcibile il danno non patrimoniale fatto valere dopo tre anni

di Gabriele Fava, Emilio Aschedemini – Avvocati in Milano

La Corte di Cassazione torna sul rapporto tra demansionamento e risarcimento dei danni con la sentenza n. 330 pubblicata il 10 gennaio 2018, ribadendo che il lavoratore, qualora venga assegnato a mansioni inferiori, abbia diritto al risarcimento dei danni sia sul piano patrimoniale sia su quello non patrimoniale.

La sentenza in commento si inserisce principalmente nel solco della più significativa produzione nomofilattica ad opera della Sezioni Unite che, attraverso quattro significative pronunce (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26973; Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26974; Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26975) ha delineato la complessa e dibattuta materia relativa alla risarcibilità del danno non patrimoniale nel caso di intervenuto demansionamento.

In particolare, la Corte ha affrontato il caso di un dirigente che, collocato in una stanza senza alcuna possibilità di utilizzare un computer, dopo un periodo di tre anni, ha rassegnato le dimissioni per giusta causa rivendicando la dequalificazione professionale.

Il datore di lavoro, ricorrendo avverso la sentenza dei giudici di merito, si affidava a sei motivi di impugnazione, fra i quali si annoverano la denuncia della violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., in punto di asserito danno derivante da demansionamento, nonché sull’omessa motivazione in merito alla prova della sussistenza della gravità dell’inadempimento datoriale, da cui hanno tratto fondamento le dimissioni per giusta causa del dipendente.

Il motivo di impugnazione in ordine alla risarcibilità del danno non patrimoniale, così come formulato, ha obiettato la decisione dei giudici di merito nella parte in cui avrebbero ritenuto il danno alla professionalità, insito al fatto stesso della dequalificazione.

Per quanto riguarda la risarcibilità dei danni non patrimoniali, la sentenza n. 330/2018 ha ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile laddove l’inadempimento contrattuale (nel presente caso di un contratto di lavoro) abbia determinato, oltre alla lesione di beni patrimoniali, anche un pregiudizio a beni di natura immateriale.

Con un esplicito richiamo alle Sezioni Unite, la Corte ha attribuito adeguato rilievo alla dignità personale del lavoratore – quale diritto inviolabile – con particolare riferimento agli artt. 2, 4 e 32 della Costituzione. Proprio da una interpretazione dei predetti articoli, infatti, deriva la lesione di tale dignità e professionalità da parte di comportamenti datoriali dequalificanti, che si risolvono nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa.

La sentenza ha inoltre sottolineato come l’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto che si assume violato, tenda anche a realizzare interessi non patrimoniali “viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista”.

Pertanto, fermi gli oneri di allegazione e prova gravanti su chi assume aver subìto un pregiudizio, la liquidazione del danno non patrimoniale, per la sua peculiarità, è definita secondo criteri equitativi. Per cui, stante l’approssimazione del quantum”, la Corte ritiene che la quantificazione del danno, così operata, sia immune da censura, se non in presenza di “mancanza di motivazione che ne sorregga la statuizione o di macroscopico discostamento da dati comuni di esperienza o radicale contraddittorietà di motivazione”.

Ebbene, proprio la durata pluriennale della dequalificazione, consistita nella collocazione del dipendente in una stanza priva di computer ed in assenza di compiti da poter espletare, ha fondato il convincimento espresso dai giudici di merito circa l’esistenza di un danno inferto alla professionalità del lavoratore, atteso che la duratura a mansioni non equivalenti ha impedito allo stesso di esercitare il quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando, cagionando, secondo un criterio eziologico di normalità sociale, il progressivo impoverimento del suoi bagaglio di conoscenze e di esperienze”.

La motivazione ha, peraltro, giustificato anche le dimissioni per giusta causa rese dal lavoratore, in considerazione del principio già espresso dalla Corte con una richiamata sentenza (Cass. n. 18121/2014) secondo cui, la durata della dequalificazione ed il conseguente inadempimento contrattuale, siano elementi idonei a giustificare le dimissioni del dipendente. La Corte, anzi, si spinge oltre, affermando che il protrarsi nel tempo di una determinato comportamento datoriale, non può comunque essere inteso quale mera acquiescenza del lavoratore. In conclusione, la dequalificazione professionale appartiene all’alveo della responsabilità contrattuale, trattandosi di un inadempimento da parte del datore di lavoro, tale da generare danni patrimoniali e, per la Suprema corte, non patrimoniali da perdita della professionalità, la cui quantificazione, a differenza di quello che riguarda i danni patrimoniali, non può mai essere oggetto di esatta commisurazione, ma di prudente approssimazione ad opera del giudice.

 

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È oggi possibile un controllo diretto delle telecamere sui lavoratori – i chiarimenti dell’Ispettorato del Lavoro

di Gabriele Fava – Avvocato in Milano


L’art. 23 del D.lgs. n. 151/2015 e il successivo art. 5, co. 2, del D.lgs. n. 185/2016 hanno modificato l’art. 4 della L. n. 300/1970, adeguando l’impianto normativo e le procedure preesistenti alle innovazioni tecnologiche nel frattempo intervenute. Ciò allo scopo di contemperare, da un lato, l’esigenza afferente all’organizzazione del lavoro e della produzione propria del datore di lavoro e, dall’altro lato, di tutelare la dignità e la riservatezza dei lavoratori.

Sulla scia di tale intervento riformatore, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro – lo scorso 19 febbraio – ha emanato la circolare n. 5/2018, fornendo una serie di indicazioni operative sull’installazione e utilizzazione di impianti di video sorveglianza e altri strumenti di controllo nei luoghi di lavoro e innovando, al contempo, alcuni aspetti legati alla tracciabilità dell’accesso alle immagini registrate ed all’utilizzo del sistema biometrico.

Ma rimanendo in tema di sorveglianza, è ormai noto che l’uso delle telecamere in azienda è consentito al ricorrere di esigenze legate all’organizzazione aziendale ed alla produzione, alla tutela della sicurezza del lavoro, nonché alla tutela del patrimonio aziendale. Di conseguenza, l’installazione della telecamera può avvenire solo previo raggiungimento di un accordo in sede sindacale o, in mancanza, con l’autorizzazione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro secondo quanto disposto all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Diversamente, non v’è la necessità del consenso dei sindacati se dagli impianti di videosorveglianza istallati per la tutela del patrimonio aziendale non deriva la possibilità di effettuare un controllo a distanza dell’attività lavorativa, né risulta in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori. In tal senso si è espressa di recente la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 22662/2016.

Cosa succede invece se i dipendenti finiscono costantemente inquadrati dalla telecamera?

L’Ispettorato, con la circolare in parola, ha oggi chiarito la possibilità di inquadrare direttamente l’operatore, senza introdurre condizioni quali, per esempio “l’angolo di ripresa” della telecamera oppure “l’oscuramento del volto del lavoratore” e ciò qualora sussistano ragioni giustificatrici legate alla “sicurezza del lavoro” o al “patrimonio aziendale”. Diversamente, la ripresa dei lavoratori dovrà avvenire sempre in via incidentale e con carattere di occasionalità.

Ciò in quanto lo stato dei luoghi e il posizionamento delle merci o degli impianti produttivi è spesso oggetto di continue modificazioni, rendendo poco utile una istruttoria basata su planimetrie che nel corso del breve periodo non sono rappresentative del contesto lavorativo.

Del resto, sottolinea l’Ispettorato, un provvedimento autorizzativo basato sull’esibizione di una documentazione che “fotografa” lo stato dei luoghi in un determinato momento storico rischierebbe di perdere efficacia nel momento stesso in cui tale “stato” venga modificato per varie esigenze, con la conseguente necessità di un aggiornamento periodico del provvedimento autorizzativo, pur in presenza delle medesime ragioni legittimanti l’installazione degli strumenti di controllo.

Inoltre, se le riprese sono coerenti con le ragioni che giustificano il controllo, l’Ispettorato ha altresì sottolineato la non necessità di specificare il posizionamento predeterminato e l’esatto numero delle telecamere da istallare.

Dal nuovo quadro normativo e dai chiarimenti dell’Ufficio del Lavoro, può quindi ricavarsi come fra le ragioni giustificatrici del controllo a distanza dei lavoratori, la “tutela del patrimonio” rappresenti una vera e propria novità, in quanto tale elemento, in passato, rilevava solo al fine di legittimare le visite di controllo ai sensi dell’art. 6 della L. n. 300/1970.

Attesa tuttavia l’ampiezza e l’elasticità della nozione di “patrimonio aziendale” ed al fine di non vanificare la funzione di filtro dell’autorizzazione, sarà necessaria – ad avviso dell’Ispettorato – un’attenta valutazione per non rischiare controlli indiscriminati sull’attività rispetto alle finalità dichiarate da parte dei datori di lavoro.

Si ricorda da ultimo che tale problematica non si pone poi per le richieste che riguardano dispositivi collegati ad impianti di antifurto. Ciò in quanto, tali dispositivi, entrando in funzione soltanto quando non sono presenti lavoratori in azienda, non consentono alcuna forma di controllo e, pertanto, possono essere autorizzati con maggiore celerità come lo stesso Ispettorato ha chiarito in passato con nota n. 299 dello scorso 28 novembre 2017.

Diversa, invece, sarà l’ipotesi in cui la richiesta di installazione riguardi dispositivi operanti in presenza del personale aziendale; in tal caso è necessario verificare, anche in questo caso, la concreta finalità di “tutela del patrimonio” onde evitare la vanificazione della disciplina normativa stessa.

 

 

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Nei casi di mobbing è a carico del lavoratore l’onere della prova

di Gabriele Fava – Avvocato in Milano

 

La Suprema Corte, con la sentenza n. 21328/17, è tornata a pronunciarsi in tema di mobbing, confermando l’orientamento ormai costante secondo cui grava sul lavoratore vittima di mobbing l’onere di provare la sistematicità della condotta del datore di lavoro e la sussistenza di un intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla.

Nel caso oggetto d’esame da parte della Corte, un primario ha citato in giudizio l’Azienda Sanitaria Locale per la quale lavorava, lamentando di essere stato esautorato per oltre dieci anni del suo ruolo di primario e confinato in un reparto di fatto inesistente nell’organigramma aziendale. Denunciava il medico primario di essere stato completamente privato delle sue mansioni e che tale condotta, oltre a costituire un grave demansionamento, avrebbe dato luogo ad un’azione di mobbing produttiva di un danno biologico, con conseguente diritto alla tutela risarcitoria.

La Corte d’Appello di Lecce, investita del gravame della sentenza di primo grado – che aveva ritenuto inammissibile il riscorso in quanto privo degli elementi essenziali richiesti dall’articolo 414 del codice di procedura civile – ha respinto nel merito la domanda, ritenendo che il dipendente avesse mancato di provare che i comportamenti posti in essere dall’azienda fossero caratterizzati da un «programmato disegno» avente lo «scopo di mortificarne la personalità e la professionalità».

Correttamente motivata è stata ritenuta dalla Suprema Corte la decisione della Corte territoriale. La stessa aderisce, infatti, al costante indirizzo, ormai fatto proprio dalla prevalente giurisprudenza di legittimità e di merito, secondo cui non si configura la fattispecie del mobbing senza la prova dell’intenzionalità persecutoria del datore di lavoro, preordinata alla vessazione o alla emarginazione del dipendente.

Il preciso scopo di emarginare ed estromettere il lavoratore dalla vita aziendale assurge ad elemento essenziale del mobbing, distinguendolo da atti illegittimi di diversa natura (come, nel caso di specie, un mero demansionamento ex art. 2103 del Codice civile), e, per converso, permettendo di qualificare come mobbizzante una serie di condotte considerate, altrimenti, lecite.

Evidenti le ricadute di tale orientamento in termini di onere probatorio tra le parti.

Tale orientamento, condiviso ormai da numerose pronunce di merito (Tribunale di Firenze, Sez. L. Civile, 7.07.2016, n. 1133; Corte d’Appello di Potenza, Sez. Lav., 26 maggio 2016 n. 118, Tribunale di Mantova, Sez. Lav. 13 maggio 2016 n. 65; Tribunale di Ascoli Piceno, Sezione Lav., 18 marzo 2016, n. 100) riceve il plauso della magistratura, allarmata dal dilagare di richieste risarcitorie pretestuose e, senza dubbio, appare condivisibile per la sua portata.

Vengono automaticamente esclusi, infatti, tutti gli aspetti patologici del rapporto di lavoro conseguenti a mere divergenze o conflitti tra le parti.

La necessità del riscontro dell’elemento psicologico, poi, elide la responsabilità oggettiva in capo al datore di lavoro.

Se, da un punto di vista strettamente pratico, l’orientamento in questione comporta indubbi vantaggi in termini deflattivi del contenzioso, non può dirsi altrettanto se si considera che il mobbing, dovendosi tradizionalmente inquadrare nell’alveo della responsabilità contrattuale per violazione dell’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 del codice civile, comporterebbe una ripartizione degli oneri probatori tra lavoratore e datore di lavoro diversa da quella indicata dalla Suprema Corte.

In tema di responsabilità contrattuale, il lavoratore dovrebbe limitarsi a dimostrare il solo inadempimento – il comportamento mobbizzante – oltre al nesso causale tra quest’ultimo e il danno patito, mentre graverebbe sul datore di lavoro la prova dell’assenza di colpa.
L’orientamento giurisprudenziale in questione, invece, considera l’elemento soggettivo come requisito fondamentale del
mobbing e pone sul dipendente l’onere di dimostrare l’esistenza di un disegno doloso.

Squilibrio degno di nota, quindi, per il quale la Suprema Corte, con tutta probabilità, sarà chiamata a pronunciarsi nel prossimo futuro.

 

 

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Licenziamento ritorsivo: definizione giurisprudenziale e onere della prova

di Gabriele Fava – Avvocato in Milano

 

Come è stato più volte affermato dalla Corte di Cassazione, il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, può essere definito come quel provvedimento espulsivo motivato da una ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona a esso legata.

Quando tale motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante – e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova – il licenziamento deve considerarsi nullo. Ne consegue che il lavoratore che intenda censurare tale carattere del provvedimento datoriale non possa limitarsi a dedurre circostanze rilevanti in astratto ai fini della ritorsione, ma debba indicare elementi idonei a individuare la sussistenza di un rapporto di causalità tra tali circostanze e l’asserito intento di rappresaglia.

In particolare, i giudici di merito hanno desunto l’intento ritorsivo da plurime presunzioni gravi, precise e concordanti, quali l’infondatezza di una precedente contestazione disciplinare, la predisposizione di ulteriori lettere di contestazione a carico del lavoratore in vista di un eventuale suo rifiuto del cambio di mansione o di assegnazione ad altra sede di lavoro o la più mite sanzione applicata ad altro lavoratore per una mancanza analoga a quella contestata al dipendente licenziato.

D’altronde, come pure è stato precisato dalla giurisprudenza, l’allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante la cessazione del rapporto.

Occorre accennare al licenziamento per motivi discriminatori per distinguerlo da quello qui analizzato. Invero, nel sentire comune – ma, sorprendentemente, anche per alcuni orientamenti giurisprudenziali e parte degli addetti ai lavori – tali fattispecie sono spesso omologate per elementi costituivi e relativi oneri probatori a carico delle parti.

In realtà, la Suprema Corte ha da tempo affermato la rilevanza su un piano puramente oggettivo delle ragioni discriminatorie che viziano il licenziamento, a prescindere, quindi, dalla volontà illecita del datore di lavoro ovvero dalla presenza di eventuali ragioni economiche sottostanti o concomitanti, distinguendo, così, l’ipotesi del licenziamento discriminatorio da quella del licenziamento ritorsivo, per il quale è invece necessaria la prova del motivo illecito unico e determinante. E ciò anche se l’utilizzo della prova per presunzioni, ammesso dalla giurisprudenza anche per il licenziamento ritorsivo, consentirebbe, in concreto, un “avvicinamento” tra le due categorie sopra richiamate.

Restano, infatti, ferme le diversità tra le fattispecie, con conseguenti ricadute sotto il profilo dell’onere probatorio.

Qualora, difatti, il licenziamento sia irrogato per motivi discriminatori, la prova della stessa può essere raggiunta anche attraverso dati di carattere statistico (relativi, a esempio, alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti) idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori, agevolando, in tal modo, l’onere procedurale del ricorrente e, allo stesso tempo, onerando il convenuto della prova contraria (ossia dell’insussistenza della condotta discriminatoria).

Laddove, invece, sia addotta la ritorsività del provvedimento, come visto, il lavoratore non potrà far riferimento a dati statistici genericamente intesi, ma dovrà fornire la ben più specifica prova dell’intento ritorsivo del datore di lavoro quale unica e determinante ragione del licenziamento.

In tal senso, la Corte di Cassazione ha recentemente avuto modo di affermare che “La nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’art. 4 della l. n. 604 del 1966, l’art. 15 st. lav. e l’art. 3 della l. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall’ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico.” (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 6575/2016).

Nel caso citato, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito sulla natura discriminatoria di un licenziamento conseguente alla comunicazione della dipendente di volersi assentare per sottoporsi a un trattamento di fecondazione assistita. La Cassazione, in tale occasione, ha, infatti, considerato sufficiente a integrare il carattere discriminatorio del licenziamento il rapporto di causalità tra il trattamento di fecondazione e l’atto di recesso, a nulla rilevando la circostanza che l’intervento fosse stato già effettuato, in corso, ovvero, come nella fattispecie di causa, semplicemente programmato.

La Corte ha, poi, statuito che l’assimilazione del licenziamento ritorsivo o per motivo illecito a quello discriminatorio opera soltanto al fine di estendere il regime di tutela di quest’ultimo al licenziamento ritorsivo, ma non anche per omogeneizzare queste due distinte fattispecie: il licenziamento discriminatorio è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta, in virtù della sola violazione delle specifiche norme di diritto volte a reprimere le condotte discriminanti tipizzate.

Ciò evidenzia, da un lato, una netta distinzione della discriminazione dall’area del licenziamento per motivi illeciti, dall’altro, l’idoneità della condotta discriminatoria a determinare, di per sé sola, la nullità del licenziamento.

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Alle Sezioni Unite decidere se il licenziamento intimato durante la malattia sia nullo o solo inefficace

di Gabriele Fava – Avvocato in Milano

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con ordinanza n. 24766 dello scorso 19 ottobre 2017, ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione riguardante il licenziamento intimato durante la malattia del lavoratore.
In particolare, ciò che è stato chiesto alla Corte di legittimità è di stabilire se un licenziamento intimato per presunto superamento del periodo di comporto – per il quale si scopra poi che di fatto tale periodo non era ancora completamente decorso – sia riconducibile ad un’ipotesi di nullità, o, diversamente, di temporanea inefficacia dello stesso. Questione questa che ha dato luogo ad un acceso dibattito fino ad aversi un vero e proprio contrasto giurisprudenziale.
Oggetto di conflitto interpretativo è infatti il regime sanzionatorio applicabile all’atto di licenziamento intimato al lavoratore prima dell’effettivo superamento del periodo di comporto, che è quel periodo di garanzia stabilito dalla legge volto alla conservazione del posto di lavoro per il tempo nel quale vi è l’impossibilità della prestazione di lavoro a causa di impedimenti del lavoratore di cui all’art. 2110, co. 2, c.c.
Al riguardo, possono dirsi due i principali orientamenti giurisprudenziali.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (si veda Cass. n. 23063/2013; Cass. n. 9037/2001; Cass. n. 7098/1990; Cass. n. 1657/1993) il recesso datoriale intimato prima della fine del periodo di comporto non è invalido ma solo inefficace e produce i suoi effetti dal momento della cessazione della malattia. Il fondamento normativo di tale tesi è stato ravvisato nel principio di conservazione degli atti giuridici desumibile dall’art. 1367 c.c. ed applicabile al recesso datoriale in virtù del rinvio operato dall’art. 1324 c.c. agli atti unilaterali.
Altra parte della giurisprudenza (si veda Cass. n. 24525/2014; Cass. n. 12031/1999) ritiene invece che il licenziamento intimato prima della scadenza del comporto sia affetto da nullità e non da inefficacia. Tale diverso orientamento muove dalla considerazione secondo cui solo il superamento del periodo di comporto riconosce al datore di lavoro la facoltà di recedere dal contratto, tanto che in caso di licenziamento intimato per superamento di tale periodo anteriormente alla sua effettiva scadenza, l’atto di recesso datoriale deve considerarsi totalmente nullo per violazione di norma imperativa di cui proprio all’art. 2110 c.c. – il quale vieta il licenziamento stesso in costanza della malattia del lavoratore – e non già temporaneamente inefficace, con differimento dei relativi effetti al momento della scadenza. Il superamento del comporto costituisce, infatti, ai sensi del citato art. 2110 c.c., una situazione autonomamente giustificatrice del recesso che deve, perciò, esistere già anteriormente alla comunicazione dello stesso per legittimare il datore di lavoro al compimento di tale atto.
Ciò posto, un licenziamento irrogato in questo contesto sarebbe radicalmente nullo, con conseguente applicazione della tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Nel diverso caso invece di licenziamento esclusivamente inefficace, questo sarà di per sé valido, rimanendo i suoi effetti in sospeso sino al termine dello stato di incapacità lavorativa.
Considerate quindi le ben diverse conseguenze giuridiche scaturenti per il lavoratore a seconda della tesi accolta dai diversi organi giudicanti, un intervento risolutore delle Sezioni Unite sulla questione assume una importante rilevanza pratica.

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Il licenziamento ai tempi di WhatsApp

di Gabriele Fava – Avvocato in Milano

Risale al 27 giugno 2017 una significativa pronuncia del Tribunale di Catania in merito alla possibilità di ritenere legittimo, sotto il profilo formale, un licenziamento comminato ad un lavoratore tramite WhatsApp. La tematica è indubbiamente rilevante ed attuale in quanto l’utilizzo massivo dei social network, di internet e delle c.d. Mobile App, sta rivoluzionando le modalità di comunicazione tradizionali e i rapporti giuridici connessi.

Per quanto concerne i fatti di causa, la pronuncia trae origine dal ricorso giudiziale proposto da una lavoratrice al fine di ottenere dal Tribunale adito l’accertamento dell’invalidità/inefficacia del licenziamento comminato dal proprio datore di lavoro, con conseguente reintegra nel posto di lavoro. Dal punto di vista processuale, il Giudice ha accolto l’eccezione preliminare formulata dal datore di lavoro, fondata sulla tardività della proposizione del ricorso per violazione del termine di decadenza previsto dall’art. 6, comma secondo, della L. n. 604/1966 (60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo in sede di tentativo di conciliazione o arbitrato).

Ciò che, tuttavia, ha destato maggiore interesse e stupore è il passaggio dell’Ordinanza con il quale il Giudice adito ha riconosciuto un informale messaggio inviato dal datore di lavoro tramite WhatsApp, come valida comunicazione idonea a porre fine al rapporto di lavoro. Al riguardo, si ricorda che la legge impone al datore di lavoro di comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro e che lo stesso deve qualificarsi come atto unilaterale ricettizio che si perfeziona nel momento in cui giunge a conoscenza del destinatario (Cfr. ex multis Cass. Sez. Lav. n. 6845/2014).

Nel caso di specie, il Giudice del Tribunale di Catania ha affermato che la modalità utilizzata dal datore di lavoro è da considerarsi idonea ad assolvere i requisiti formali previsti ex lege “ … in quanto la volontà di licenziare è stata comunicata per iscritto alla lavoratrice in maniera inequivoca …”. Dal punto di vista tecnico, l’onere della forma scritta è stato ritenuto integrato in quanto il messaggio inviato a mezzo WhatsApp presenterebbe le caratteristiche peculiari proprie di un documento informatico dattiloscritto. A sostegno delle proprie argomentazioni, il Giudice del Tribunale di Catania ha richiamato una corrente interpretativa costante della Suprema Corte di Cassazione secondo cui in tema di forma scritta del licenziamento non sussiste a carico del datore di lavoro l’onere di adoperare forme “sacramentali”, ben potendo comunicare la volontà di licenziare anche in forma indiretta purché chiara (Cfr. Cass. Civ. Sez. Lav. n. 17652/2007).

Il ragionamento giuridico posto alla base dell’Ordinanza in commento, seppur innovativo, presenta alcuni profili che meritano di essere analizzati in quanto potrebbero comportare, nella prassi, alcune problematiche in relazione al c.d. principio della certezza del diritto. In particolare, posto che, come detto in precedenza, il licenziamento si perfeziona nel momento in cui lo stesso entra nella sfera di conoscenza del destinatario, potrebbe essere molto rischioso per un datore di lavoro affidarsi ad un mezzo di comunicazione informale che non garantisca, a livello giuridico, il momento di avvenuta consegna del messaggio al pari di una tradizionale raccomandata con ricevuta di ritorno. E ciò anche ai fini del computo dei termini di decadenza.

Nello specifico, seppur vero che WhatsApp consente al mittente del messaggio di conoscere l’avvenuta consegna del messaggio mediante la c.d. “doppia spunta grigia”, è altrettanto vero che si tratta di un’attestazione temporale propria dell’applicazione di messaggistica e, come tale, non disciplinata a livello giuridico.

La domanda sorge dunque spontanea: il datore di lavoro può ritenere di aver assolto il proprio onere sulla base di una comunicazione che non trova, ad oggi, una disciplina peculiare nell’ordinamento giuridico italiano? Stando all’interpretazione fornita dal Giudice del Tribunale di Catania ciò sarebbe astrattamente possibile.

Al contrario, ragioni di opportunità e di etica professionale suggerirebbero, almeno in questa fase, di evitare di regolare un momento così delicato del rapporto di lavoro mediante comunicazioni informali che potrebbero far scaturire dubbi applicativi. Non è difficile, infatti, immaginare in ipotesi del genere un notevole incremento delle strumentalizzazioni da parte dei lavoratori in merito all’effettiva conoscenza diretta della comunicazione di recesso con conseguente aggravio dell’onere probatorio a carico del datore di lavoro.

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