Divieto emergenziale dei licenziamenti applicabile anche ai dirigenti? UNA PRONUNCIA POCO PERSUASIVA *

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro Studi e Ricerche

Rossana Detomi analizza l’ordinanza n. 96447 del Tribunale di Roma

In relazione a un tema tuttora ostico e nebuloso quale l’operabilità o meno del blocco dei licenziamenti anche ai lavoratori apicali, la giurisprudenza è di nuovo intervenuta con l’ordinanza del Tribunale di Roma del 16 ottobre 2021, n. 96447.
Quest’ultima si inserisce in un quadro alquanto complesso e contraddittorio: la questione in esame era già stata portata all’attenzione del giudice capitolino il quale, a distanza di un paio di mesi, era addivenuto a due conclusioni
di segno opposto.

IL CASO
L’ordinanza in esame riguarda il licenziamento intimato a un dirigente per motivi oggettivi consistenti nella soppressione della sua posizione lavorativa a seguito di un processo di riorganizzazione che avrebbe determinato
non solo la chiusura della sede presso la quale svolgeva le sue funzioni, ma anche la distribuzione di queste ultime tra gli altri dipendenti.
Impugnando il licenziamento, il dirigente ne contesta l’illegittimità sotto diversi profili, tra i quali emerge la violazione del divieto dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ex art. 3, L. n. 604/1966, introdotto con l’art. 46, D.l. n. 18/2020 e vigente, alla data del licenziamento, ai sensi dell’art. 14, D.l. n. 104/2020.
Nonostante siano intervenute successive pronunce di segno opposto, il giudice si ricollega all’orientamento introdotto dal Tribunale di Roma1 e ritiene il licenziamento nullo per contrasto con il divieto, disponendo la reintegrazione del dirigente ex art. 18, comma 1, L. n. 300/1970.
Il caso risulta interessante poiché il dubbio interpretativo sussiste tuttora: il legislatore, nei tanti decreti-legge adottati, non l’ha mai sciolto.

IL LICENZIAMENTO DEI DIRIGENTI AL TEMPO DEL COVID-19
Dall’inizio dell’emergenza sanitaria sono stati adottati molti provvedimenti straordinari, il più innovativo dei quali è stato il divieto di licenziamento introdotto dall’art. 46, D.l. n. 18/20202.
La norma, di volta in volta procrastinata in ragione del perdurare dello stato di crisi disponeva che il divieto riguardava i licenziamenti collettivi ai sensi degli artt. 4, 5 e 24, L. n. 223/1991 e quelli individuali per giustificato
motivo oggettivo ex art. 3, L. n. 604/1966. Il dubbio relativo all’applicabilità del divieto di licenziamento anche al dirigente è sorto già dalla formulazione letterale dell’art. 46 secondo cui il dirigente è escluso dall’ambito soggettivo
di applicazione della L. n. 604/1966.
Il licenziamento del dirigente è infatti incardinato su un criterio di “giustificatezza”, introdotto dalla contrattazione collettiva che, secondo la giurisprudenza consolidata e pacifica3, non collima (concettualmente, oltre che lessicalmente con il giustificato motivo oggettivo. In particolare, la giustificatezza non coincide con l’impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di  grave crisi aziendale tale da rendere impossibile
o onerosa tale prosecuzione4 ma presuppone  solo l’esigenza, economicamente apprezzabile in termini di risparmio, della soppressione della figura dirigenziale in attuazione di un riassetto aziendale, purché non emerga, in base a elementi oggettivi, la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione5.

L’ESTENSIONE DEL DIVIETO DI LICENZIAMENTO AL PERSONALE DIRIGENTE: LO SPUNTO INTERPRETATIVO DEL TRIBUNALE DI ROMA
Come anticipato, nell’ordinanza in esame il giudice si ricollega all’impostazione introdotta dal Tribunale di Roma con la pronuncia del 26 febbraio 2021, riesponendo le medesime argomentazioni.
Il Giudice del Lavoro fornisce una soluzione positiva in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata e a una lettura di tipo teleologico del dato normativo a sua disposizione, individuando la ratio del divieto “nell’evitare che le conseguenze economiche della  pandemia si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro” 6 e ritenendo tale esigenza comune anche ai dirigenti che addirittura “sono più esposti a tale rischio data la
maggiore elasticità del loro regime contrattualcollettivo di preservazione dai licenziamenti arbitrari rispetto a quello posto dall’art. 3” 7. Pertanto, la loro esclusione dall’ambito applicativo del divieto rappresenta una soluzione in
aperto contrasto con l’art. 3 Cost.8, distonica e poco razionale rispetto all’intento solidaristico di difesa sociale del legislatore emergenziale. La seconda direttrice argomentativa è incentrata su un criterio logico di ragionevolezza,
imposto dalla considerazione per cui i dirigenti risultano pacificamente inclusi nel divieto dei licenziamenti collettivi ex art. 24, Legge n. 223/19919.
Infine, viene valutata la distanza concettuale tra giustificato motivo oggettivo e giustificatezza oggettiva in maniera non dogmatica: il  concetto di giustificato motivo oggettivo, enunciato in quest’ultima norma, condivide la medesima essenza con la giustificatezza oggettiva del licenziamento del dirigente, posto che anch’essa “attiene comunque a ragioni inerenti  all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di esso”.
Questa pronuncia sembra trasformare il licenziamento ad nutum del dirigente in un licenziamento “titolato”, riconducendolo nell’alveo dell’art. 3, L. n. 604/1966 10.
Tuttavia, non sono presi in considerazione due ostacoli che inevitabilmente si frappongono a tale estensione.
Il primo, letterale, dell’applicazione di una norma (l’art. 3, L. n. 604/1966) fondata su un concetto non applicabile al dirigente 11; il secondo, oggettivo, rappresentato dal risultato  pratico di scardinare il binomio “divieto di licenziamento-trattamento di integrazione salariale”, posto che il costo del lavoro del dirigente in esubero non trova adeguato bilanciamento in alcuna misura di sostegno ed è, pertanto, imposto a carico del datore, costringendolo
ad adoperarsi con soluzioni innovative per il recupero dell’equilibrio gestionale 12.

REVIREMENT DEL TRIBUNALE DI ROMA: IL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI NON SI APPLICA AI DIRIGENTI
In totale contrapposizione si è espresso il Tribunale di Roma a due mesi di distanza con la sentenza n. 3605 del 19 aprile 202113. Le motivazioni di tale decisione, all’interno di un ben strutturato iter argomentativo, si basano fondamentalmente su due pilastri.
In primo luogo, viene in rilievo il dato letterale dell’art. 46 del Decreto legge n. 18/2020 a norma del quale il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti,  non può recedere dal contratto per giustificato
motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della Legge n. 604/1966. Sul punto, il Tribunale ricorda come quest’ultima
disposizione “non si applica ai dirigenti sia per espressa previsione normativa sia per consolidato principio giurisprudenziale”.
In secondo luogo, il Giudice pone in evidenza un ulteriore elemento fondamentale, che tuttavia non era stato considerato nell’ordinanza del 26 febbraio.
Infatti, per il Tribunale di Roma “il dato letterale, e cioè l’esclusione della figura del dirigente  convenzionale dal blocco dei licenziamenti, risulta coerente con lo spirito che sorregge l’eccezionale ed emergenziale previsione del blocco dei licenziamenti” e che ha portato a un pressoché generalizzato ricorso agli ammortizzatori sociali.
Il sistema di tutele adottato in fase emergenziale si fonda infatti sulla simmetria tra il blocco dei licenziamenti e l’utilizzo di ammortizzatori sociali attraverso i quali il costo del lavoro è posto a carico della collettività.
Ebbene, il Giudice chiarisce che “con riguardo ai dirigenti detto binomio non può stare in piedi, poiché a questi ultimi non è consentito, almeno in pendenza del rapporto di lavoro, di accedere agli ammortizzatori sociali”. Di conseguenza, laddove il blocco dei licenziamenti fosse esteso anche ai dirigenti, il datore di lavoro non sarebbe in grado di adottare una soluzione alternativa idonea a garantire, come agli altri dipendenti, il reddito e la tutela occupazionale senza costi aggiuntivi.
Si determinerebbe così una “incoerenza costituzionale” tra l’estensione del blocco dei licenziamenti ai dirigenti e il principio di libertà dell’iniziativa economica sancito dall’art. 41 della Costituzione.
La sentenza smentisce infine le argomentazioni di chi, ritenendo il blocco dei licenziamenti applicabile anche ai dirigenti, considera irragionevole la scelta di proteggerli nell’ambito dei licenziamenti collettivi e non nell’ambito
dei licenziamenti individuali. Il Tribunale di Roma giustifica tale diversità di trattamento in ragione della diversità delle due fattispecie ovverosia, da un lato, il dirigente coinvolto in una procedura collettiva unitamente ad altri dipendenti protetti e dall’altro il dirigente destinatario del licenziamento economico individuale.

ULTERIORI ELEMENTI A SOSTEGNO DELL’ESCLUSIONE DEI DIRIGENTI DAL CAMPO DI APPLICAZIONE DEL DIVIETO

L’ordinanza in commento se dapprima conferma che “la disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi n. 604 del 1966 e St. lav. non è applicabile” ai dirigenti, subito dopo, nel constatare che il primo divieto posto
dall’art. 14, comma 1, D.l. n. 104/2021 concerne le procedure di mobilità e che “pertanto, il blocco dei licenziamenti collettivi riguarda senza alcun dubbio anche il personale con qualifica dirigenziale”, evidenzia come “il riferimento al
giustificato motivo oggettivo, sebbene completato dal riferimento ad una legge non applicabile ai dirigenti, non deve necessariamente essere inteso come richiamo complessivo alla legge 604/66”. Quest’ultima affermazione merita un’analisi  alla luce della norma guida dell’interpretazione giuridica: vale a dire l’art. 12, comma 1, prel. c.c.
Tale disposizione prevede, infatti, che “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato  proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.

L’interprete – come fatto, in parte, dal giudicante – dovrebbe considerare due importanti articoli della L. n. 604/1966 per risolvere l’arcano  circa l’applicazione del blocco di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo anche al dirigente: gli artt. 10 ed 11. Il primo esclude esplicitamente l’applicazione della L. n. 604/1966 alla categoria dei dirigenti. Il secondo – questo è il punto dirimente – dispone che “la materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale è esclusa dalle disposizioni della presente legge”.
Quod lex excludit, addere non potest 14.

L’INCIDENZA DEL DIVIETO CONDIZIONATO DELL’ART. 14, D.L. N. 104/2020 E DEL SUO CONTROVERSO AMBITO DI APPLICAZIONE

Nell’ordinanza in esame si legge che, alla data del licenziamento del dirigente, era ancora in vigore il divieto di licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 14, comma 1, D.l. n. 104/2020, “sia pure condizionato alla fruizione integrale dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili  all’emergenza epidemiologica da Covid- 19 ovvero in alternativa all’esonero dal versamento dei contributi previdenziali”.
Secondo l’orientamento che il giudice sembra accogliere, il termine “fruizione” utilizzato dal Legislatore, accompagnato per di più dall’avverbio “integralmente”, richiama la condizione del datore di lavoro non già che è teoricamente  legittimato, bensì che si avvale delle integrazioni o dell’esonero e, conseguentemente, viene assoggettato al divieto di licenziamento 15.
Pertanto, il fatto costitutivo del divieto va intercettato nella fruizione delle integrazioni o dell’esonero in forza delle condizioni previste dal legislatore, la cui mancanza sarà sufficiente affinché il datore di lavoro non vi sia assoggettato 16.
Il risultato è un divieto di licenziamento più malleabile rispetto a quello dell’art. 46, perché non opera in modo generalizzato e indistinto, oltreché mobile in quanto la sua durata è variabile e coincide con l’arco temporale
all’interno del quale si esaurisce l’integrale utilizzo delle integrazioni o dell’esonero 17. In conclusione, anche se la rilevanza della discussione è stata ridimensionata dai successivi provvedimenti di proroga (i quali, forse
proprio per evitare incertezze interpretative, non hanno replicato la formula dell’art. 14), qualora nel caso in esame abbracciassimo la tesi del divieto flessibile, a maggior ragione  apparirebbe difficile sostenere l’estensione
del divieto al dirigente.
Infatti, dovrebbe considerarsi che l’art. 14 individuava come destinatari del divieto solo i datori di lavoro che decidessero di avvalersi, ricorrendone i presupposti, del trattamento di integrazione salariale o in alternativa dell’esonero contributivo, mentre erano immuni dal divieto i soggetti non aventi diritto a fruire di tali istituti 18 e anche coloro che, pur potendone fruire, scegliessero di non farlo, assumendo da subito “la decisione di modificare la
struttura organizzativa della propria azienda, procedendo alla soppressione in via definitiva di posti di lavoro (e quindi licenziando)” 19.

 

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato ne LG, 4/2022, pag. 403 dal titolo Il problema dell’applicabilità del divieto di licenziamento individuale per g.m.o. al personale dirigente.
1. Trib. di Roma, ord., 26 febbraio 2021, in Cassazione.net, 1° marzo 2021, con nota di D. Ferrara.
2. Sul tema v. G. Proia, Divieto di licenziamento e principi costituzionali, in G. Proia (a cura di), Divieto di licenziamento e libertà d’impresa nell’emergenza Covid. Principi costituzionali, Torino, 2020, 3 ss.; M. Miscione, Il diritto del lavoro ai tempi orribili del coronavirus, cit., 221 ss.; A. Ripa – S. Garzena, Coronavirus e divieti
di licenziamento: più dubbi che indicazioni, in Dir. prat. lav., 2020, 14, 871 ss.

3. Sul tema v.: Cass. Civ. 22 giugno 2006, n. 14461, secondo cui “Il rapporto di lavoro dei dirigenti, anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 108/1990 , non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli art. 1 e 3 , legge n. 604/1966 , non avendo la suddetta legge n. 108 inciso sull’art. 10 della legge n. 604,
con la conseguenza che nel suddetto rapporto di lavoro la stabilità può essere assicurata soltanto mediante l’introduzione ad opera dell’autonomia collettiva o individuale di limitazioni alla facoltà di recesso del datore di lavoro.”. In senso analogo anche Cass. Civ. 11 giugno 2008, n. 15496 e Cass. Civ. 15 dicembre 2009, n. 26232.

4. Cass. Civ. 13 gennaio 2020, n. 396; Cass. Civ. 3 dicembre 2019, n. 31526; Cass. Civ. 2 ottobre 2018, n. 23894.
5. Cass. Civ. 5 aprile 2019, n. 9665; Cass. Civ. 3 dicembre 2019, n. 31526; Cass. Civ. 17 gennaio 2005, n. 775; Cass. Civ. 8 marzo 2012, n. 3628; in tutte si precisa che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare  la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost. Sulla nozione di giustificatezza v. R. Riccardi, Licenziamento del dirigente – La nozione di  giustificatezza” in caso di licenziamento del dirigente, in Giur. it., 2015, 1456 ss.; E. Menegatti, La “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, in Arg. dir. lav., 2010, 1, 212 ss.; Il licenziamento dirigenziale tra giustificatezza e
recesso ad nutum, in questa Rivista, 2010, 8, 229 ss.

6. Trib. di Roma, ord., 26 febbraio 2021, cit.
7. Trib. di Roma, Ibidem.
8. Evidenza M. De Luca, Blocco dei licenziamenti al tempo del Covid-19: alla ricerca delle tipologie, cit., che la differenziazione di trattamento dei dirigenti in punto di soggezione al blocco dei licenziamenti, risulta incoerente con una lettura “costituzionalmente orientata” della disciplina in relazione al principio di uguaglianza, anche sotto
il profilo della ragionevolezza; in particolare, l’autore ricorda che nel difetto di “situazioni idonee a giustificare un regime eccezionale (…)” (v. Corte cost. 22 maggio 1987, n. 180, in Foro it., 1987, 1, 939), la particolare condizione del dirigente non è, da sola, sufficiente a giustificarne differenziazioni di trattamento.
9. Con sentenza Corte di Giustizia UE 13 febbraio 2014, la ha accertato la violazione da parte dell’Italia della Dir. del Consiglio europeo 98/59/CE per la mancata previsione dell’obbligo di applicare anche ai dirigenti le tutele per i licenziamenti collettivi; pertanto, l’art. 24, L. n. 223/1991, così come novellato dall’art. 16 , L. n. 161/2014, prevede
oggi al comma 1-quinquies, l’applicazione delle maggior parte delle disposizioni di cui all’art. 4, L. n. 223/1991 anche al caso in cui “l’impresa o il datore di lavoro non imprenditore […] intenda procedere al licenziamento di uno o
più dirigenti”; a riguardo v. M. Miscione, I dirigenti per la Corte europea equiparati ad operai ed impiegati solo per i licenziamenti collettivi – Il commento, in questa Rivista, 2014, 3, 233 ss.
10. M. Agostini – M. Ercoli, Il licenziamento del dirigente ai tempi del Covid – nota a Tribunale di Roma, sez. Lav. 26.2.2021, cit., 12.
11. Cass. Civ. 2 ottobre 2018, n. 23894.
12. Sul punto vedi G. Piglialarmi, Percorsi di giurisprudenza – Il divieto di licenziamento sotto la lente dei giudici: le prime pronunce, in Giur. it., 2021, 2249 ss. e M. Agostini – M. Ercoli, Il licenziamento del dirigente ai tempi del Covid – nota a Tribunale di Roma, sez. Lav. 26.2.2021, cit., 2 ss.

13. Per una ricostruzione delle motivazioni della sentenza v. P.E. Pedà, Sull’applicabilità del blocco dei licenziamenti
ai dirigenti: prime decisioni di merito, in Mass. Giur. lav., 2021, 3, 769 ss.

14. M. Verzaro, Il blocco dei licenziamenti si applica  anche ai dirigenti? Forse, no. In Labor, 17 dicembre 2017.
15. A. Maresca, Il divieto di licenziamento per Covid è diventato flessibile (prime osservazioni sull’art. 14, DL n. 104/2020), in Labor, 29 settembre 2020), 6.
16. A. Maresca, Ibidem. In tal senso anche M. Verzaro, La condizionalità del divieto di licenziamento, 5 ss., che aggiunge: “Il Governo limita, così, l’efficacia dell’art. 14 ai datori di lavoro privati che sono in crisi a causa di eventi riconducibili all’emergenza Covid-19 e che possono, pertanto, beneficiare di una delle due misure previste per gli stessi al fine del mantenimento dell’occupazione. Sono, pertanto, esclusi dalla sospensione e dal divieto di  licenziamento tutti quei datori di lavoro che avviano procedure di licenziamento collettivo ovvero licenziamento
per g.m.o. per eventi – si badi – non riconducibili all’emergenza Covid-19. Ciò apre, naturalmente, ampi problemi di prova a carico del datore per sostenere la legittimità del licenziamento poiché dovrà, quindi, dimostrare l’estraneità dell’eziologia della riduzione o trasformazione di attività o di lavoro ovvero del giustificato motivo oggettivo
all’attuale situazione di crisi intra-pandemica.
E, a tal proposito, non e sarà, a mio avviso, facile nemmeno per il giudice valutare tale estraneità vista l’immane permeabilità del fenomeno Covid- 19 nelle logiche aziendali e di mercato.”
17. A. Maresca, Il divieto di licenziamento per Covid è diventato flessibile, cit., 2.
18. Ipotesi, quest’ultima, che “si fonda su una lettura pregnante del requisito causale della CIG-Covid ex art. 1, ovvero della necessità di una sospensione o riduzione dell’attività lavorativa ’per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica’” (F. Scarpelli, I licenziamenti economici come (temporanea) extrema ratio: le proroghe del blocco dal d.l. 104/2020 alla Legge di Bilancio 2021, cit., 5 ss.).
19. A. Maresca, Il divieto di licenziamento per Covid è diventato flessibile, cit., 9. Secondo l’autore non configura sospensione o riduzione del lavoro, quindi “causale Covid-19”, la decisione del datore di lavoro di dare un diverso assetto alla struttura della propria impresa, con una modifica dell’articolazione organizzativa che comporti la definitiva chiusura di un’unità  produttiva a cui sono addetti dei dipendenti oppure la soppressione di alcune posizioni di lavoro (come avviene nell’ordinanza in esame); non trattandosi né di una temporanea sospensione
di attività né di una riduzione di orario di lavoro, ma bensì della definitiva soppressione del posto di lavoro conseguente ad una decisione organizzativa del datore, questi non avrà diritto  di fruire delle integrazioni e, pertanto,
non sarà soggetto al divieto di licenziamento.

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Dirigenti: Previdenza ed assistenza sanitaria integrative

di Proia Alessandro – Consulente del lavoro in Milano

 

Il terzo contributo del 2018 di Sintesi dedicato alla figura del dirigente offre una panoramica delle caratteristiche delle forme di assistenza sanitarie integrative e previdenziali previste dai maggiori Ccnl.

L’assistenza sanitaria integrativa rappresenta una forma di tutela che permette l’integrazione o sostituzione della sanità pubblica per quel che riguarda le prestazioni sanitarie e i servizi medico-sanitari, attraverso l’intervento dei fondi sanitari integrativi. Può aderirvi il singolo in autonomia, oppure in forma collettiva se rientrante all’interno dei diritti previsti dai Ccnl, o dai contratti integrativi della singola azienda.

Gli enti che erogano i servizi di sanità integrativa possono presentarsi nella forma di fondi sanitari integrativi, come quelli che andremo a trattare, assicurazioni sanitarie, o casse e società di mutuo soccorso. A secondo dell’ente erogante, la sanità integrativa offre la possibilità ai propri iscritti di ricevere un rimborso totale o parziale delle prestazioni medico-sanitarie erogate presso la propria struttura ospedaliera o ambulatoriale di fiducia.

La previdenza complementare è una forma di previdenza fiscalmente agevolata che si aggiunge a quella obbligatoria ma non la sostituisce, va a integrare la normale pensione erogata dallo Stato. La si può ottenere perché si è scelto di versare del denaro in un fondo, come quelli creati per i dirigenti, e l’obiettivo è quello di mantenere inalterato il tenore di vita anche quando, ormai anziani, si ritireranno dal lavoro.

È fondata su un sistema di finanziamento a capitalizzazione, per ogni iscritto viene creato un conto individuale nel quale affluiscono i versamenti che vengono poi investiti nel mercato finanziario da gestori specializzati (in azioni, titoli di Stato, titoli obbligazionari, ecc.) e che producono, nel tempo, rendimenti variabili in funzione dell’andamento dei mercati e delle scelte di gestione.

I fondi di previdenza complementare dei dirigenti sono di tipo “chiuso”, ossia basati su accordi fra organizzazioni imprenditoriali e sindacali, a cui possono accedere solo i lavoratori a cui viene applicato un Ccnl di cui le summenzionate organizzazioni sono firmatarie. Durante la vita lavorativa è prevista una contribuzione obbligatoria, anche a carico dei datori di lavoro, che, al raggiungimento, da parte dei dirigenti, di determinati requisiti anagrafici e contributivi, diventerà una vera e propria pensione aggiuntiva. Spesso questi fondi pensione permettono, in determinate situazioni, di ottenere anticipi e riscatti, e indennità in caso di invalidità permanente.

Previndai

Previndai è un fondo pensione preesistente, cioè istituito antecedentemente all’emanazione della normativa che per la prima volta ha disciplinato in modo organico il sistema della previdenza complementare, precisamente nel 1989.

Si tratta di una forma di previdenza che provvede all’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, a cui possono aderire, in maniera volontaria, tutti i dirigenti delle imprese che applicano il Ccnl per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi sottoscritto da Confindustria e Federmanager, o da un diverso Ccnl, sottoscritto da almeno una di tali parti. In tal caso, l’adesione è vincolata al preventivo assenso dell’altra parte, risultante dalla sottoscrizione di specifico accordo.

Come premesso, il Fondo, che non ha fini di lucro, ha lo scopo di consentire agli iscritti di disporre, all’atto del pensionamento, di prestazioni pensionistiche complementari del sistema obbligatorio. A tale fine, esso provvede alla raccolta dei contributi, alla gestione delle risorse nell’esclusivo interesse degli iscritti, e all’erogazione delle prestazioni secondo quanto disposto dalla normativa in materia di previdenza complementare.

Il Fondo si articola in tre comparti di investimento: Assicurativo, caratterizzato da garanzie di rendimento minimo, consolidamento dei risultati a fine anno e coefficienti di conversione in rendita predeterminati; Bilanciato e Sviluppo, questi ultimi caratterizzati da diverse percentuali massime di esposizione in titoli azionari e da un modello di gestione attivo, che ha permesso anche nei negli anni peggiori della crisi di chiudere in positivo. Gli iscritti possono suddividere liberamente la propria posizione, per ottenere la migliore risposta alle loro esigenze previdenziali.

Altre interessanti peculiarità del Fondo sono costituite dalla possibilità di poter gestire le risorse tramite lo strumento assicurativo tradizionale (riservata ai fondi preesistenti), dall’opzione concessa a dirigenti e aziende di versare quote aggiuntive rispetto a quanto stabilito dal contratto, senza limite di massimale, e da quella che permette agli associati non in attività di mantenere l’iscrizione e integrare la propria posizione con versamenti volontari a loro carico, cosa di non poco conto considerando la forte mobilità che caratterizza la categoria dirigenziale.

Il Fondo è finanziato tramite contributi versati dai datori di lavoro e dai lavoratori, e dal conferimento, integrale o parziale, del Tfr.

I dirigenti iscritti al Previndai sono ripartiti in differenti classi, in base alla data di prima iscrizione alla previdenza obbligatoria e alla titolarità, o meno, di una posizione pensionistica complementare. A seconda della categoria di appartenenza, e in caso di conferimento del Tfr, cambia il calcolo della relativa quota.

La base per il calcolo dei contributi e le aliquote a carico dell’impresa e del dirigente sono, invece, uguali per tutti gli iscritti: 4% della retribuzione utile al calcolo del Tfr, fino a 150.000 euro annui ed escludendo eventuali compensi e indennizzi percepiti per effetto di dislocazione all’estero, e con un contributo annuo minimo a carico azienda di 4.800 euro, per i dirigenti in servizio alla data del 1° gennaio 2010, o con anzianità dirigenziale superiore a 6 anni.

I beneficiari delle prestazioni in caso di decesso dell’iscritto sono il coniuge, ovvero i figli, ovvero i genitori, se già viventi a suo carico. In mancanza di tali soggetti, o di diverse disposizioni dell’iscritto, la posizione resta acquisita al Fondo.

L’azienda deve dichiarare trimestralmente al Previndai gli importi dei contributi dovuti per ciascun dirigente, ed eventuali importi contributivi relativi ai premi di produttività, che, se destinati alla previdenza complementare, non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente (anche se eccedenti i limiti di deducibilità ex D.lgs. n. 252 del 2005) e dell’imponibile delle prestazioni al momento della loro erogazione. I versamenti dei contributi vanno effettuati dal datore di lavoro con cadenza trimestrale, anche per la quota a carico del dirigente, con bonifico bancario.

Normalmente, le prestazioni vengono erogate al momento della cessazione del rapporto di lavoro per pensionamento, e, sussistendo i requisiti, la prestazione può essere erogata interamente in rendita vitalizia, oppure in parte in rendita e in parte in capitale, i “vecchi iscritti”, invece, hanno la facoltà di percepire l’intera prestazione in capitale. L’entità della prestazione pensionistica è determinata in funzione della contribuzione versata e dei rendimenti della gestione selezionata.

È possibile richiedere un’anticipazione fino al 75% della posizione individuale maturata, costituita da tutti i versamenti effettuati e dal risultato di gestione; in qualsiasi momento per spese sanitarie conseguenti a gravissime condizioni relative a sé, al coniuge e ai figli, e dopo 8 anni di iscrizione per l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa propria o dei figli. Dopo 8 anni di iscrizione e per altre esigenze, è possibile chiedere un’anticipazione fino al 30%.

Sono previsti, inoltre, il riscatto parziale della posizione per inoccupazione non inferiore a 12 mesi e non superiore a 48 mesi, quelli totali per inoccupazione superiore a 48 mesi, invalidità permanente con riduzione di capacità lavorativa a meno di 1/3, o iscritti pensionati non in servizio, e il riscatto parziale o totale per cause diverse e cessazione dell’attività lavorativa. Con il rispetto di determinati requisiti, l’iscritto può anche richiedere la rendita integrativa temporanea anticipata (RITA), a valere sull’intera posizione individuale maturata, o su parte di essa.

I dirigenti iscritti a Previndai possono richiedere l’adesione dei propri familiari fiscalmente a carico, determinando liberamente l’ammontare e la periodicità della contribuzione.

Per quanto attiene alla fiscalità, i contributi versati al Fondi sono deducibili dal reddito complessivo fino a 5.164,57 euro per ogni anno, mentre non è deducibile dal reddito complessivo il Tfr annualmente destinato alla forma pensionistica complementare, in quanto, all’atto del versamento al Fondo, non è soggetto a tassazione.

Le prestazioni erogate da un fondo pensione, siano esse in capitale in unica soluzione, in rendita vitalizia ovvero anticipate vengono tassate in modo differenziato a seconda del periodo di accumulo degli importi versati. Per il dettaglio della relativa fiscalità è possibile consultare le tabelle pubblicate nel portale istituzionale del Fondo (www.previndai.it).

Fasi

Fasi è un fondo di assistenza sanitaria integrativa, costituito nel 1981 e dedicato ai dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi, e si rivolge, altresì, ai dirigenti di aziende che applicano Ccnl diversi, ma, comunque, sottoscritti da Confindustria o Federmanager. La sua finalità è quella di erogare ai dirigenti volontariamente iscritti, in servizio o in pensione, e ai loro nuclei familiari, prestazioni integrative dell’assistenza fornita dal Servizio Sanitario Nazionale, nell’ambito di un sistema di mutualità e solidarietà intergenerazionale.

Il Fasi oggi assiste più di 120 mila dirigenti, è convenzionato con circa 3.000 strutture sanitarie pubbliche e private accreditate presso il Servizio Sanitario Nazionale, e rappresenta uno dei maggiori fondi del settore in Europa; è particolarmente attento all’area odontoiatrica, e ulteriori misure adottate nel Fasi riguardano il potenziamento delle prestazioni nell’area chirurgica e in quelle dei servizi socio-sanitari.

Il Fondo, che non ha fini di lucro, fornisce servizi di assistenza sanitaria integrativa in forma diretta e in forma indiretta. Nel primo caso, provvedendo al pagamento della parte di propria competenza, sulla base di convenzioni amministrative con strutture sanitarie che concordano con il Fasi condizioni economiche di favore rispetto a quelle normalmente applicate; nel secondo caso, rimborsando le spese effettivamente sostenute dall’iscritto in Italia e all’estero, nei limiti previsti dalle tariffe indicate in un apposito nomenclatore-tariffario. Sono anche previste forme di assistenza in convenzione, che garantiscono all’assistito grandi vantaggi in quanto, tramite accordi amministrativi, vengono fissate condizioni economiche di maggior favore rispetto a quelle normalmente applicate.

Altra peculiarità del Fondo è quella di offrire, agli assistiti appartenenti a specifiche fasce di età, la possibilità di effettuare gratuitamente, una volta all’anno, test di screening per la diagnosi precoce, nelle strutture sanitarie convenzionate in forma diretta.

I contributi dovuti al Fasi, determinati in un importo fisso da corrispondersi per ogni dipendente in servizio iscritto al Fondo e alle dipendenze dell’azienda nel primo giorno di ciascun trimestre, devono essere versati in quote trimestrali entro la fine del secondo mese di ciascun trimestre.

Il contributo dovuto dai dirigenti in servizio viene versato dal datore di lavoro, unitamente al contributo aziendale, dopo aver effettuato la relativa trattenuta sulla retribuzione; a questi fini il dirigente è tenuto a comunicare all’azienda la propria iscrizione. È previsto anche un contributo per l’assistenza sanitaria dei dirigenti pensionati, commisurato a un importo fisso moltiplicato per il numero complessivo dei dirigenti in forza, anche se non iscritti al Fondo.

Per i dirigenti, anche pensionati, che si iscrivono o re-iscrivono al Fondo è dovuta una quota di ingresso di 500 euro, maggiorata a 1.500 in alcuni casi particolari, mentre l’iscrizione è gratuita per i dirigenti neo promossi, ovvero assunti per la prima volta con la qualifica di dirigente, se la domanda di iscrizione è inoltrata al Fondo entro sei mesi dalla nomina o dall’assunzione e per i titolari di pensione di reversibilità di pensionato iscritto al Fondo e dai titolari di pensione ai superstiti di dirigente iscritto al Fondo.

Il contributo annuo a carico delle imprese, dovuto per ciascun dirigente in servizio iscritto, è pari a 1.872 euro, a cui si aggiungono 960 euro a carico del dirigente; il contributo annuo a carico delle imprese per i dirigenti pensionati, dovuto per ciascun dirigente alle dipendenze, anche se non iscritto al Fasi, è pari 1.272 euro (1.590 euro per le aziende per le aziende che iscritte a forme di assistenza sanitaria integrativa sostitutiva del Fasi a favore dei soli dirigenti in servizio).

Per i dirigenti che si iscrivono al Fondo nel corso del trimestre di calendario, l’azienda è tenuta a corrispondere al Fasi i ratei mensili della quota trimestrale a partire dalla data di decorrenza dell’iscrizione (primo giorno del mese successivo a quello dell’invio al Fondo della richiesta da parte del dirigente).

Il Fasi fa parte di un più complesso sistema, costituito anche dalla gestione separata di sostegno al reddito per i dirigenti disoccupati (GSR), e dal FasiOpen, il fondo di assistenza sanitaria integrativa aperto ai lavoratori d’azienda non dirigenti. Sono obbligatoriamente iscritti alla GSR le imprese che applicano il Ccnl per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi stipulato da Confindustria e Federmanager, che devono versare al Fondo un contributo di 200 euro annui per ciascun dirigente iscritto all’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria dell’Inps in forza nel mese di gennaio.

Relativamente alla fiscalità, l’importo dei contributi versati dall’azienda e dal dirigente in servizio è interamente deducibile dal reddito dell’interessato fino al limite annuo di 3.615,20 euro, mentre non rileva fiscalmente la quota che l’azienda versa a titolo di solidarietà per i dirigenti in pensione. Conseguentemente, le spese mediche sono detraibili solo per la quota eccedente l’importo rimborsato dal Fondo. I dirigenti pensionati, che successivamente alla cessazione del rapporto lavorativo hanno deciso di iscriversi o di mantenere l’iscrizione al Fondo, non possono usufruire della deduzione dei contributi versati Fasi.

Maggiori informazioni sono reperibili sul portale istituzionale del fondo (www.fasi.it).

Mario Negri

Il Fondo Mario Negri, costituito nel 1956, gestisce i trattamenti previdenziali complementari previsti dai Ccnl dei dirigenti delle aziende commerciali, dei trasporti, dei servizi, ausiliarie e del terziario avanzato, nonché dei dirigenti degli alberghi, delle agenzie marittime e dei magazzini generali, stipulati da Manageritalia con Confcommercio, Confetra e le organizzazioni aderenti alle due confederazioni espressamente autorizzate. I dirigenti di aziende appartenenti ad altre categorie possono essere iscritti al Fondo solo con il consenso delle suddette organizzazioni e su delibera del consiglio di amministrazione.

Una delle principali prestazioni erogate dal Fondo è la pensione di vecchiaia, reversibile solo in favore dei superstiti indicati quali aventi diritto alla pensione indiretta, che spetta al dirigente che, alla data della domanda, possa far valere nel Fondo almeno 15 anni di anzianità contributiva e percepisca la pensione di vecchiaia o di anzianità da parte della previdenza obbligatoria. Dal 2009 l’anzianità contributiva minima è ridotta a 14 anni e, successivamente, di un ulteriore anno ogni biennio fino al limite di 5 anni. La liquidazione della pensione di vecchiaia sotto forma di rendita è consentita se l’importo mensile da erogare è pari, almeno, al 50% dell’assegno sociale. Nel caso in cui venga meno l’obbligo di contribuzione al Fondo prima della maturazione di tutti i requisiti per il pensionamento, l’iscritto con anzianità contributiva minima conserva il diritto alla pensione di vecchiaia per 10 anni dalla maturazione dell’età pensionabile.

La pensione di invalidità, anch’essa reversibile esclusivamente in favore dei superstiti indicati quali aventi diritto alla pensione indiretta, è prevista in favore degli iscritti con almeno 5 anni di anzianità contributiva, che contraggano un’invalidità permanente tale da comportare il definitivo abbandono del lavoro e una riduzione permanente della capacità lavorativa pari, almeno, al 60%.

In caso di decesso del dirigente in attività di servizio, con almeno 5 anni di anzianità contributiva, il Fondo eroga la pensione indiretta al coniuge, ai figli legittimi, naturali riconosciuti, legittimati o adottivi di età inferiore ai 18 anni. In mancanza di coniuge e figli con diritto a pensione, questa spetta ai genitori, se a carico. In alternativa, gli aventi diritto alla pensione indiretta possono chiedere il riscatto della posizione individuale. La prestazione suddetta spetta in caso di decesso, in favore degli eredi o dei diversi beneficiari designati dall’iscritto stesso, sempreché il dirigente non abbia esercitato, al momento dell’iscrizione o successivamente (anche a modifica della scelta iniziale), l’opzione per il riscatto della posizione maturata.

L’iscritto che, prima di aver maturato il requisito dell’anzianità contributiva per il diritto ai trattamenti pensionistici, cessi di lavorare nei settori contrattuali che prevedono l’iscrizione al Fondo, può richiedere, trascorsi 12 mesi, il riscatto della propria posizione, sempreché non sia stato nuovamente assunto con qualifica di dirigente presso azienda tenuta al versamento dei contributi al Fondo.

Altre peculiarità del fondo sono costituite dalla possibilità di richiedere, a particolari condizioni, una rendita integrativa temporanea anticipata (RITA), l’anticipazione della posizione individuale, sussidi per i figli minori con grave disabilità, mutui finalizzati all’acquisto dell’abitazione e borse di studio per i figli degli iscritti.

La misura dei contributi dovuti per gli iscritti è fissata dai contratti collettivi di lavoro.

I contributi dovuti al Fondo, ridotti in caso di assunzione di dirigenti di prima nomina, si compongono di una parte ordinaria, che affluisce nel conto individuale dell’iscritto, e di una parte integrativa aziendale, che affluisce in un conto generale separato, e vengono calcolati su una retribuzione convenzionale annua, attualmente pari a 59.224,54 euro.

Per quanto riguarda la fiscalità dei contributi, a quelli versati al Fondo Mario Negri non si applica il limite annuo di deducibilità previsto per la generalità dei fondi pensione. Conseguentemente, il datore di lavoro, in qualità di sostituto d’imposta, diminuisce l’imponibile fiscale del dirigente di un importo pari alla trattenuta operata e non lo incrementa, neppure in parte, con riferimento ai contributi a carico dell’azienda.

Da luglio del 2007 è possibile destinare al Fondo Mario Negri anche il Tfr. Per le quote di Tfr sono state create due linee di investimento, una che garantisce all’iscritto di ottenere una prestazione che non potrà essere inferiore alla somma delle quote di Tfr versate, la seconda, di tipo bilanciato, che prevede la possibilità di ottenere rendimenti maggiori, ma anche oscillazioni negative.

Ulteriori informazioni sono reperibili nel portale web del Fondo (www.fondonegri.it).

Mario Besusso (Fasdac)

Fasdac, o Fondo Mario Besusso, è il fondo di assistenza sanitaria per i dirigenti di aziende commerciali. È un soggetto collettivo senza scopi di lucro fondato nel 1948 a cui i dirigenti dei settori interessati sono obbligatoriamente iscritti, che garantisce, ai dirigenti stessi, a quelli pensionati, ai prosecutori volontari e ai familiari che al momento della fruizione delle prestazioni stesse siano in regola con le vigenti condizioni di assistibilità, prestazioni integrative di quelle fornite dal Servizio Sanitario Nazionale.

L’assistenza sanitaria integrativa ha inizio dalla data di nomina o dall’assunzione del dirigente, sempre che l’azienda ne dia comunicazione al Fondo entro 30 giorni, altrimenti essa decorrerà dalla data della comunicazione stessa.

Il Fondo eroga prestazioni in forma diretta attraverso un proprio network di strutture convenzionate distribuite su tutto il territorio nazionale. L’utilizzo di tale forma è particolarmente vantaggiosa per gli assistiti in quanto non devono anticipare l’intero onere della prestazione, ma sono tenuti a corrispondere alla Struttura la sola quota di compartecipazione a loro carico, ove prevista. Le principali prestazioni sanitarie erogate in forma diretta sono: visite specialistiche, ricoveri medici e chirurgici, analisi cliniche e accertamenti diagnostici, terapie fisiche e riabilitative, cure odontoiatriche, e prestazioni di prevenzione.

Fasdac garantisce agli assistiti, altresì, la libertà di rivolgersi a strutture sanitarie e/o professionisti di propria fiducia, anche non convenzionati col Fondo, in Italia o all’estero, tranne che per i programmi di prevenzione (non usufruibili in forma indiretta); in questo caso l’assistito corrisponderà l’intero onere della prestazione, inoltrando successivamente la richiesta di rimborso tramite l’associazione territoriale Manageritalia. Il Fondo provvederà al rimborso, nella misura stabilita dal nomenclatore tariffario.

Una peculiarità del Fondo è sicuramente quella di mettere a disposizione dei propri iscritti, che desiderano conoscere anticipatamente l’entità del rimborso per determinate prestazioni sanitarie da fruire in forma indiretta, la possibilità di avvalersi, tramite le associazioni territoriali Manageritalia, del servizio di “preventivazione dei rimborsi”, sia a carattere medico-chirurgico che odontoiatrico, al fine di evitare spiacevoli sorprese nella fase di liquidazione degli stessi. Nella forma indiretta, infatti, si rileva da sempre un’ampia variabilità di costi anche con riferimento a una medesima prestazione erogata nello stesso territorio.

Il contributo annuo a carico delle imprese, da versare trimestralmente, dovuto per ciascun dirigente in servizio iscritto, è pari a 4.561,84 euro, di cui 859,08 euro a carico del dirigente. Le aziende non iscritte alle organizzazioni datoriali firmatarie del Ccnl applicato pagano un contributo aggiuntivo di 137,82 euro ogni anno.

In merito al trattamento fiscale di contributi versati a Fasdac, essi non concorrono alla formazione del reddito dei dirigenti, mentre quelli versati direttamente dagli altri iscritti non in servizio (prosecutori volontari, pensionati, superstiti, inabili ed invalidi), essendo di natura volontaria non sono deducibili o detraibili ai fini IRPEF.

Per conoscere tutte le prestazioni sanitarie garantite dal Fondo, e ottenere qualsiasi altra informazione su di esso, è possibile consultare il portale istituzionale (www.fasdac.it).

Antonio Pastore (Previr)

L´Associazione senza fini di lucro Antonio Pastore, fondata nel 1997, è oggi un ente bilaterale costituito da Manageritalia e Confcommercio, e il suo ruolo è quello di organizzare forme di previdenza integrativa individuale e di garanzie di rischio a favore dei dirigenti a cui si applica il Ccnl del settore Terziario, Trasporti, Alberghi, Agenzie Marittime, o Magazzini Generali.

L’Associazione, a partire dal 1998, ha sottoscritto con primarie compagnie assicuratrici una serie di convenzioni, susseguitesi nel tempo, per l’erogazione di diverse prestazioni assicurative, ossia: il pagamento, al termine del periodo di contribuzione, di un capitale comprensivo dei premi versati e della rivalutazione realizzata anno per anno dalle apposite gestioni finanziarie; l’erogazione, nel caso di premorienza del dirigente, di una somma ai beneficiari per sopperire a eventuali problemi economici derivanti dall’improvvisa mancanza del reddito del dirigente; il riconoscimento di una rendita qualora l’assicurato perda definitivamente l’autosufficienza, di un indennizzo per invalidità permanente conseguente a malattia, e dell’esonero dal versamento dei premi assicurativi in caso di invalidità permanente totale, di grado pari o superiore al 66%, conseguente a malattia o infortunio.

Garanzia molto interessante è la cd. “polizza ponte”, che prevede che la società assicuratrice corrisponda, al dirigente licenziato o dimessosi per giusta causa, direttamente ai fondi Mario Negri e Mario Besusso, all’Associazione Antonio Pastore, e al Centro di formazione management del Terziario, i contributi a essi dovuti, per un periodo massimo di 12 mesi dalla data di perdita dell’impiego.

Completa l’elenco delle prestazioni assicurative la “tutela legale”, cioè una garanzia di rimborso delle spese sostenute dall’iscritto in caso di un contenzioso con terze persone, fisiche e giuridiche. La copertura vale per vertenze che possono sorgere nella vita di tutti i giorni, con esclusione di quelle legate all’attività professionale, al diritto di famiglia e alla responsabilità civile obbligatoria della circolazione.

L’importo dei contributi da versare trimestralmente all’Associazione viene calcolato prendendo a riferimento una retribuzione convenzionale annua, di ammontare diverso a seconda del settore economico di appartenenza del dirigente.

In caso di assunzione, o nomina, di un dirigente, è prevista, previo accordo col dirigente stesso, l’applicazione della contribuzione ridotta di durata massima prestabilita dal Ccnl sulla base dell’età anagrafica del dirigente e fino al compimento dei 48 anni di età. Tale agevolazione è prevista anche per l’assunzione di dirigenti privi di occupazione che abbiano compiuto 55 anni di età, ma per una durata limitata a 12 mesi.

L’intero importo del contributo pagato all’Associazione da datore di lavoro e lavoratore risulta fiscalmente imponibile. Il dirigente può usufruire della detrazione per oneri (19% su un importo massimo di euro 530,00) per la parte di premio avente per oggetto le garanzie caso morte, invalidità da malattia ed esonero pagamento premi. Limitatamente ai premi per assicurazioni aventi per oggetto il rischio di non autosufficienza nel compimento degli atti della vita quotidiana, si applicherà il massimale di euro 1.291,14, al netto dei premi aventi per oggetto il rischio di morte o di invalidità permanente.

Per ulteriori approfondimenti, è possibile consultare il portale web dell’Associazione (www.associazionepastore.it).

 

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Il dirigente: tra normativa e giurisprudenza – L’evoluzione della figura dirigenziale nel settore privato

Emilia Scalise – Consulente del lavoro in Milano

In questo numero il primo di quattro contributi, che saranno pubblicati nel corso del 2018, che trattano della figura del dirigente. Seguirà a questa prima analisi della figura dirigenziale che volge lo sguardo non solo alla nozione di dirigente ma anche all’applicazione della normativa sull’orario di lavoro e delle ferie, un percorso a tappe che toccherà i temi della retribuzione, dell’assistenza e previdenza integrative e della cessazione del rapporto di lavoro.

 

 

Lo sviluppo dell’attività d’impresa, nonché la modernizzazione dei processi aziendali, hanno nel tempo favorito l’evoluzione di un modello organizzativo basato non più su una struttura “verticalizzata”, fondata sull’accentramento decisionale in capo all’imprenditore, bensì sulla valorizzazione e sulla responsabilizzazione del manager, attraverso sempre più penetranti attribuzioni di poteri. È in questo contesto innovativo che la figura del dirigente aziendale acquisisce un ruolo centrale.

Nozione di dirigente: dalla normativa codicistica all’intervento giurisprudenziale

Ai sensi dell’art. 2095 c.c. il dirigente è una delle categorie legali, insieme all’operaio, all’impiegato e al quadro, in cui il prestatore di lavoro viene inquadrato in relazione alle mansioni a lui affidate.

In assenza di una nozione legislativa di dirigente, attualmente è la stessa contrattazione collettiva ad individuare i requisiti e le caratteristiche tipiche di questa figura. Pertanto, sulla base di una definizione uniforme e concorde presente nei principali contratti collettivi nazionali di lavoro, quali ad esempio il Ccnl del settore Terziario, Industria e Credito, il dirigente è colui che, a norma dell’art. 2094 codice civile (prestatore di lavoro subordinato), ricopre in azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale e svolge funzioni aziendali finalizzate a promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obbiettivi dell’impresa. Il dirigente, quindi, si caratterizza per il fatto di essere una figura professionale con un elevato grado di responsabilità, dotata di potere funzionale e decisionale che si manifesta attraverso la possibilità di impartire direttive a tutta l’impresa o ad una parte autonoma di essa, seppur in diretta correlazione con l’imprenditore, con il quale ovviamente rimane vincolato.

I tratti identificativi delineati dalla contrattazione collettiva, tuttavia, appaiono generici e suscettibili di differenti interpretazioni; per questo motivo la giurisprudenza è intervenuta nel merito, andando meglio a definire l’identità di questa figura.

Attraverso una classificazione di dirigente basata su un’attenta analisi dal ruolo rivestito all’interno della struttura aziendale e dalle funzioni a questi attribuite, una parte sostanziale della giurisprudenza aveva identificato la figura dirigenziale come alter ego dell’imprenditore. Questo orientamento giurisprudenziale, infatti, delimitava l’attribuzione della qualifica di dirigente, conferendola esclusivamente a coloro i quali possedevano un ruolo cosiddetto “apicale” nell’organigramma aziendale. Il dirigente “apicale” quindi, sulla base del dettato giurisprudenziale, era colui che possedeva ampissimi poteri decisionali, tali da essere considerato come vero e proprio sostituto dell’imprenditore. Al dirigente “apicale” si contrapponeva la figura del cosiddetto “pseudo dirigente” o anche detto “dirigente per convenzione”. Si trattava di un semplice impiegato, dotato di funzioni direttive e di poteri di iniziativa notevolmente ridotti, preposto a svolgere la sua attività presso un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto, sotto il controllo dell’imprenditore, al pari di un ordinario dipendente.

La giurisprudenza più recente ha tuttavia sensibilmente cambiato il proprio orientamento, alla luce delle nuove esigenze di un mondo del lavoro in rapido cambiamento, superando la precedente visione del dirigente come alter ego dell’imprenditore. La nuova impostazione, infatti, mira a considerare le mansioni effettivamente svolte da parte del prestatore di lavoro, a prescindere dal fatto che questi ricopra o meno un ruolo di vertice all’interno della realtà aziendale: “La qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, ricopra un ruolo di vertice nell’organizzazione o, comunque, occupi una posizione tale da poter influenzare l’andamento aziendale, essendo invece sufficiente che il dipendente, per l’indubbia qualificazione professionale, nonché per l’ampia responsabilità in tale ambito demandata, operi con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità, dovendosi, a tal fine, far riferimento, in considerazione della complessità della struttura dell’azienda, alla molteplicità delle dinamiche interne nonché alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale (non sempre riassumibili a priori in termini compiuti) ed alla contrattazione collettiva di settore, idonea ad esprimere la volontà delle associazioni stipulanti in relazione alla specifica esperienza nell’ambito del singolo settore produttivo” (Cfr. Cass. Civ., 24 giugno 2009, n. 14835). La figura dirigenziale, quindi, viene delineata tenendo conto dell’articolazione interna dell’azienda e della diversificazione dei ruoli; l’esigenza di un organigramma più agile, ma comunque connotato da diversi livelli di responsabilità ed autonomia, comporta l’abbandono della precedente visione monolitica del dirigente alter ego o sostituto dell’imprenditore: al top manager, quindi, si affiancano una serie di figure intermedie, dotate comunque di alta professionalità e di un discreto livello di autonomia gestionale e di responsabilità.

Responsabilità, funzioni e poteri: lo strumento del mandato

Sulla base della definizione di qualifica dirigenziale delineata sia dalla contrattazione collettiva che dai giudici di legittimità, appare evidente e condivisibile che il dirigente non è un semplice lavoratore subordinato, ma si tratta di una figura professionale che svolge determinate attività gestorie in posizione di collaborazione del tutto particolare, la cui ampia autonomia qualificata può costituire oggetto sia di rapporto di lavoro economicamente subordinato, sia di altri rapporti tipici come ad esempio quello del mandato ai sensi dell’art. 2086 c.c.. Il conferimento del mandato e dell’eventuale procura rappresentativa da parte degli amministratori costituisce un particolare arricchimento di compiti, poteri e responsabilità.

Nell’attuale sistema legislativo, infatti, appare frequente che alcune disposizioni normative attribuiscano deleghe e mandati ad esponenti aziendali qualificati non solo come datore di lavoro, preposto o “titolare responsabile di impresa”, ma anche come dirigente, in relazione alla rilevanza sociale e collettiva degli interessi tutelati dalla normativa stessa. Un caso tipico di delega di funzioni nei confronti della figura dirigenziale è ravvisabile negli obblighi nascenti dalla normativa in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro. Anzitutto il D.lgs. n. 81/2008 all’art. 2 definisce il dirigente come “la persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa”. L’art. 6 del Testo Unico, successivamente, definisce i limiti e le condizioni a cui deve sottostare la delega di funzioni da parte del datore di lavoro: in primis la delega deve risultare da atto scritto recante data certa e l’accettazione del delegato; il delegato deve possedere tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; la delega deve attribuire tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate nonché l’autonomia di spesa per lo svolgimento di tali funzioni. Non sono, invece, delegabili ai sensi dell’art. 17, una serie di attività, quali ad esempio la valutazione di tutti i rischi nonché la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, mentre è stato confermato il cosiddetto principio di “scalettamento” degli obblighi di sicurezza e di salute, in base al quale l’estensione dell’area di esposizione alla responsabilità va correlata, per i dirigenti prevenzionistici, al complesso delle attribuzioni e competenze ad essi conferite. L’art. 18, infine, elenca tutti gli obblighi gravanti sul datore di lavoro e sul dirigente che organizzano e dirigono le attività secondo le attribuzioni e le competenze ad essi conferite.

Un altro esempio di delega di funzioni si riscontra nel codice in materia di trattamento dei dati personali (D.lgs. n. 196/2003). In relazione all’attuazione degli scopi di tutela del trattamento dei dati personali, la legge infatti individua due importanti figure: il titolare, cioè la persona fisica o la persona giuridica cui competono le decisioni e gli obblighi in ordine alle finalità ed alle modalità del trattamento dei dati personali, e il responsabile cioè la persona fisica o giuridica preposti dal titolare al trattamento dei dati personali. In particolare, si prevede che il responsabile debba essere nominato tra i soggetti che per esperienza, capacità ed affidabilità forniscano idonea garanzia del pieno rispetto delle vigenti disposizioni in materia di trattamento, ivi compreso il profilo della sicurezza (art. 29). Il responsabile procede al trattamento attenendosi alle istruzioni impartite dal titolare il quale, anche tramite verifiche periodiche, vigila sulla puntuale osservanza delle disposizioni e delle proprie istruzioni. I compiti affidati al responsabile devono essere analiticamente specificati per iscritto.

L’amministratore dirigente”: possibile subordinazione?

Il dirigente oggi riveste un ruolo di spicco nella realtà aziendale, avendo acquisito sempre più poteri e posizioni rilevanti, per usare un paradigma, non solo nella classe proletaria della struttura societaria, nella quale sono collocati i lavoratori dipendenti, ma anche nella classe borghese e altolocata, rappresentata in senso lato dal consiglio di amministrazione. Sono, infatti, sempre più numerose le società che annoverano propri dipendenti tra i membri degli organi amministrativi. Si pensi ad esempio ad una SpA di medie dimensioni che ha, quale direttore amministrativo, un dirigente da diversi anni in azienda che gode della fiducia degli azionisti. Oppure altro caso assai frequente, soprattutto nelle multinazionali, è quello della società figlia italiana facente parte di un gruppo internazionale ove il country manager viene nominato amministratore unico della stessa, con tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione nei verbali di nomina, ma vincoli all’esercizio di tali poteri derivanti dalle policy di gruppo. Questo coinvolgimento diretto del personale dirigenziale pone dubbi e criticità sulla sussistenza effettiva del vincolo di subordinazione. Sul tema numerose sono state le pronunce giurisprudenziali, legate tutte ad un filo conduttore: non vi è l’esistenza del vincolo di subordinazione nel caso in cui un dirigente non risponda al consiglio di amministrazione nell’esecuzione della sua attività. Gli Ermellini, con la sentenza n. 22611/2013 hanno infatti precisato che l’esistenza del vincolo di subordinazione presuppone l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro con conseguente limitazione dell’autonomia del soggetto, che non sono provate dal lavoratore. Altri elementi, come la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario di lavoro e la retribuzione, nel caso in esame sono considerati elementi sussidiari e non decisivi per la valutazione.

La gestione del rapporto di lavoro dirigenziale: il legame con gli istituti normativi e contrattuali

Il dirigente, quindi, oggi appare come una figura professionale titolare di una serie di peculiari situazioni attive e passive, che rendono la sua posizione sempre più vicina all’impresa, alla quale è legato da un forte vincolo fiduciario. Nel rapporto di lavoro dirigenziale, diversamente dall’ordinario rapporto di lavoro subordinato, la rilevanza della fiducia si amplia a tal punto da consentire la valutazione dell’adempimento dell’obbligazione di lavorare anche in termini di raggiungimento del risultato gestionale. Proprio per il fatto che il legame tra dirigente e imprenditore sia caratterizzato da un elevato grado di fiduciarietà, che il rapporto di lavoro dirigenziale è regolato da una disciplina definibile “particolare”, per alcuni aspetti differente rispetto a quella applicata alle altre categorie di lavoratori subordinati. Infatti, molte disposizioni che prevedono tutele e garanzia in favore del lavoratore non si applicano ai dirigenti, tra cui ad esempio la disciplina del licenziamento (art. 10, L. n. 604/1966 e art. 1, D.lgs. n. 23/2015) e la normativa sull’orario di lavoro (D.lgs. n. 66/2003).

L’orario di lavoro

Quando il soggetto interessato è proprio il dirigente, la normativa sull’orario di lavoro incontra rilevanti difficoltà, non soltanto dal punto di vista interpretativo, ma anche sul piano pratico – applicativo.

Anzitutto occorre sottolineare che le disposizioni di legge in materia di orario di lavoro si applicano ai dirigenti solo con riferimento alle previsioni in materia di riposo settimanale, ferie e limitazioni dell’orario notturno; il D.lgs. n. 66/2003, all’art. 17 co. 5, prevede infatti che, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, le disposizioni in materia di orario normale di lavoro, durata massima della prestazione lavorativa, lavoro straordinario e del riposo giornaliero non si applicano ai dirigenti, al personale direttivo delle aziende o ad altre persone aventi potere di decisione autonomo. La delimitazione applicativa trova fondamento nelle caratteristiche peculiari dell’attività esercitata da tali figure: la loro prestazione lavorativa infatti non può essere misurata o predeterminata. Sulla base del tenore normativo, il dirigente quindi, può avvicendare in maniera autonoma lavoro e riposo, a condizione che venga rispettato l’obbligo di lavoro quotidiano. Di conseguenza, se il dirigente presta la propria attività lavorativa oltre l’orario normale di lavoro, non ha diritto ad alcun compenso per il lavoro straordinario, essendo la stessa retribuzione determinata in relazione alla qualità del lavoro effettuato e non alla quantità della prestazione resa.

Sul fronte della legittimità, questa differenza di trattamento del personale direttivo rispetto alle qualifiche di impiegato e operaio, a primo acchito, potrebbe apparire giustificata, a fronte del particolare ruolo rivestito dal dirigente nella realtà aziendale, ma è proprio il concetto di “rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori”, contenuto nello stesso art. 17, e di recupero dell’integrità psico-fisica dei dipendenti garantita dalla Costituzione che determinano la necessità di introdurre qualche limite all’ampia discrezionalità attribuita dal Legislatore. È in questo contesto che l’intervento giurisprudenziale ha avuto un ruolo decisivo; i giudici di legittimità, a partire proprio da quelli costituzionali (Corte Cost. n. 101/1975), hanno ritenuto opportuno individuare un “limite quantitativo globale” a tutela della salute e dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori, in relazione alle obiettive esigenze e caratteristiche dell’attività lavorativa richiesta, come strumento di valutazione della ragionevolezza della prestazione effettivamente pretesa. Il limite della ragionevolezza è affidato all’apprezzamento del giudice di merito; tuttavia, si deve rilevare che la giurisprudenza ha provato ad offrire una declinazione secondo tratti e caratteristiche distintivi, anche oggettivamente predeterminabili: è così che finisce innanzitutto per risultare in contrasto con il limite di ragionevolezza un orario del personale direttivo che risulti sensibilmente superiore a quello osservato dagli altri dipendenti (Cass., n. 11616/1999).

Superata la soglia oltre il quale l’ulteriore estensione della prestazione lavorativa non è più ragionevole, il giudice di legittimità potrebbe predicare l’insufficienza della relativa controprestazione retributiva, facendo sorgere quindi il diritto ad una adeguata remunerazione per il lavoro straordinario prestato. Secondo i giudici di legittimità, il compenso per lavoro straordinario dovrà essere riconosciuto quando le prestazioni aggiuntive richieste non rientrino nell’ambito dell’attività specifica del settore aziendale cui il dipendente è preposto (Cassa., n. 16041/2008). Il compenso per lavoro straordinario spetta inoltre quando vengono richieste prestazioni prolungate con carattere di continuità, oltre un certo limite, da fissarsi in rapporto alla necessaria tutela della salute e dell’integrità psico-fisica garantita costituzionalmente a tutti i lavoratori. Infine, il compenso per lavoro straordinario è altresì riconosciuto nel caso in cui la disciplina collettiva delimiti anche per esso l’orario normale di lavoro e tale orario venga in concreto superato (Cass., n. 12687/2016).

Sul fronte della contrattazione collettiva, il Ccnl Dirigenti Terziario ad esempio ha cercato di delimitare l’orario di lavoro dei dirigenti correlandolo, in linea di massima, all’orario dell’unità operativa in cui il dirigente è addetto, specie per quanto riguarda il riposo settimanale nel quadro delle leggi vigenti. Il suddetto Ccnl prevede inoltre una clausola generale, secondo cui “Per tutto ciò che non è diversamente regolato dal presente contratto valgono le norme contrattuali collettive in vigore per i quadri dipendenti dall’azienda per la quale il dirigente presta la propria attività”.

La fruizione delle ferie annuali

Altresì problematica è la questione relativa alla fruizione delle ferie, in virtù di un principio costituzionale e comunitario che sancisce l’irrinunciabilità del riposo annuale. Nello specifico, l’art. 36 della Costituzione e l’art. 7 della Direttiva 2003/388/CE stabiliscono che le ferie, oltre ad essere irrinunciabili, non possono essere monetizzate, se non alla fine del rapporto di lavoro. Vige quindi il cosiddetto divieto di monetizzazione delle ferie, volto a garantire l’effettivo godimento del riposo annuale ed il recupero dell’integrità psico-fisica dei lavoratori.

Il divieto di monetizzazione tuttavia ha un’eccezione: non trova applicazione per le ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della risoluzione del rapporto di lavoro. Alla cessazione del rapporto di lavoro, quindi, sono monetizzabili le ferie non godute nell’arco dell’anno corrente, mentre le ferie maturate negli anni precedenti e non godute non sono in alcun modo indennizzabili: è infatti dovere del datore di lavoro assicurare l’effettiva fruizione del riposo annuale, anche nel rispetto dell’obbligo di tutelare la salute del lavoratore, previsto dall’art. 2087 c.c..

Il divieto di monetizzazione delle ferie non si traduce in assenza di tutela per il lavoratore al quale il godimento delle ferie non sia stato garantito; egli, infatti, può invocare la tutela civilistica e far valere l’inadempimento del datore di lavoro che, impedendogli il riposo, abbia violato le norme inderogabili. Il mancato godimento delle ferie per essere indennizzabile e risarcibile deve derivare da una causa direttamente imputabile al datore di lavoro.

Nei rapporti di lavoro col dirigente, tuttavia, la responsabilità del datore di lavoro risulta attenuata: poiché il dirigente ricopre una posizione apicale in azienda, egli ha il potere di attribuirsi le ferie in piena autonomia, senza alcun condizionamento da parte del datore di lavoro. Ciò crea non poche difficoltà applicative in merito all’eccezione al divieto di monetizzazione. Su questo punto la giurisprudenza si è espressa in maniera del tutto concorde: “Al dirigente l’indennità sostitutiva può essere liquidata solo in presenza di oggettive ed eccezionali esigenze aziendali ostative alla fruizione” e poi ancora “Il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 7, comma 2, della Dir. 93/104/CE – poi confluita nella Dir. 2003/88/CE – e ripreso dall’art. 10, comma 2, del D.lgs. n. 66 del 2003, è finalizzato a garantirne il godimento effettivo che sarebbe vanificato qualora se ne consentisse la sostituzione con un’indennità, la cui erogazione non può essere ritenuta equivalente rispetto alla necessaria tutela della sicurezza e della salute. Da ciò discende che l’eccezione al principio – prevista nella seconda parte delle predette disposizioni, concernente la inapplicabilità del predetto divieto in caso di risoluzione del rapporto di lavoro – opera nei soli limiti delle ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della risoluzione in questione, e non consente la monetizzazione di quelle riferibili agli anni antecedenti. Ciò, peraltro, non esclude che il lavoratore, sia in corso di rapporto che al momento della sua risoluzione, possa invocare la tutela civilistica e far valere l’inadempimento del datore di lavoro che abbia violato le norme inderogabili sopra richiamate, a condizione però che il mancato godimento delle ferie sia derivato da causa imputabile al datore di lavoro. (Nella specie, il dirigente, per la posizione apicale ricoperta nell’azienda, pur avendo il potere di attribuirsi le ferie in piena autonomia, senza condizionamento alcuno da parte del titolare dell’impresa, non lo ha esercitato, così escludendo la configurabilità di un inadempimento colpevole del datore, né ha dimostrato la ricorrenza di condizioni imprevedibili ed eccezionali che ne hanno impedito il godimento)” (Cass., 10 ottobre 2017, n. 23697).

Qualora, quindi, il dirigente non abbia esercitato il potere e il diritto di determinare l’incidenza delle proprie ferie e di goderne, non può rivolgere rivendicazioni al datore di lavoro; la mancata fruizione delle ferie è riconducibile ad un’autonoma scelta del dirigente, che esclude la configurabilità di un inadempimento colpevole del datore di lavoro. In caso di contestazione circa la mancata fruizione delle ferie da parte del dirigente, il datore di lavoro dovrà provare come il dirigente abbia potuto autonomamente scegliere tempi e modi di godimento delle ferie, mentre il dirigente avrà l’onere di provare che il mancato riposo sia riconducibile a necessità aziendali eccezionali ed obiettive: “Il potere – in capo al dirigente – di scegliere da se stesso tempi e modi di godimento delle ferie costituisce eccezione da sollevarsi e provarsi a cura del datore di lavoro, mentre l’esistenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive, ostative alla fruizione di tali ferie, integra controeccezione da proporsi e dimostrarsi a cura del dirigente.” (Cass., 14 marzo 2016 n. 4920; Cass., 10 ottobre 2017 n. 23697).

Il divieto di monetizzazione delle ferie annuali viene ripreso anche dalla contrattazione collettiva, anche se in maniera attenuata rispetto quanto sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità. Nello specifico i principali Ccnl, quali ad esempio quello del settore Terziario e Industria, precisano che, salvo il principio di irrinunciabilità delle ferie, è possibile corrispondere la rispettiva indennità per ferie non godute solo per la frazione eccedente il periodo delle quattro settimane previste dall’art. 10 del D.lgs. n. 66/20003.

Il dirigente e il contratto a tempo parziale

La figura dirigenziale trova difficoltà applicative non solo con rifermento ad alcuni istituti disciplinanti il rapporto di lavoro, bensì anche con riferimento ad alcune tipologie contrattuali, quali ad esempio il contratto a tempo parziale. La normativa al riguardo non pone alcun limite applicativo circa l’utilizzo di questa tipologia contrattuale, tuttavia in relazione al ruolo e ai compiti affidati al dirigente, nonché alle disposizioni derogatorie in materia di orario di lavoro, vi sono non poche criticità circa l’applicazione della disposizione legislativa prevista all’art. 5 co. 2 del D.lgs. n. 81/2015, secondo cui “Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno”. Posto che la legge non prevede limitazioni dell’orario di lavoro per la figura dirigenziale e che il contratto di lavoro part time si caratterizza per la necessità di prevedere un limite quantitativo di orario per evitare un esercizio abusivo e contorto di tale istituto da parte del datore di lavoro, la giurisprudenza ha affermato che il contratto di lavoro subordinato a tempo parziale, per lo svolgimento di mansioni di livello dirigenziale, è rispettoso del disposto della normativa vigente laddove si limita ad indicare solamente il limite quantitativo della prestazione lavorativa, rimettendone all’autonomia del dipendente la distribuzione dell’orario.

Considerazioni conclusive

Attraverso questo breve excursus sull’evoluzione della figura dirigenziale nel settore privato, dalle origini ad oggi, emerge quindi ancora la necessità di individuare disposizioni applicative pratiche e concrete su cui andare a valorizzare e tutelare maggiormente il personale direttivo; non solo, sarebbe opportuno introdurre strumenti che facilitino anche l’imprenditore nella gestione dello stesso rapporto di lavoro, caratterizzato da un forte legame di collaborazione ed intesa tra le parti.

 

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