Licenziamento individuale ad nutum e per giusta causa del dirigente: tutela legale e convenzionale

di Caterina Matacera, Consulente del lavoro in Milano

Dalla individuazione della “nozione” di dirigente fino alla cessazione del rapporto di lavoro, passando per temi anche economici (retribuzione e fondi), si chiude, con l’odierno contributo un percorso che ha toccato alcuni aspetti particolarmente rilevanti e/o critici legati alla gestione del rapporto di lavoro dirigenziale.

 

Il tema del recesso aziendale dal rapporto di lavoro ha da sempre rappresentato campo di particolare interesse da parte di tutti gli attori coinvolti, tant’è che la produzione dottrinale e giurisprudenziale sul tema è copiosa e a volte anche contraddittoria. Tanto più se ci si vuole concentrare sulla figura dei dirigenti nel settore privato che, come emerso nei precedenti contributi pubblicati su questa Rivista[1], sconta l’assenza di una nozione legislativa, limitata ai soli artt. 2094 e 2096 del codice civile e, pertanto, per individuare requisiti e caratteristiche tipiche di tale figura nonché la peculiarità della disciplina inerente il licenziamento dei dirigenti, non si può prescindere dall’analisi della contrattazione collettiva specifica per tale categoria concentrando l’attenzione sui due principali contratti collettivi, ovvero Industria e Commercio.

La cessazione del rapporto di lavoro dirigenziale può avvenire per licenziamento, dimissioni o risoluzione consensuale. Focus della presente analisi sarà il recesso per licenziamento ad nutum e il licenziamento per giusta causa.

Il codice civile (art. 2118), consente, a ciascuno dei contraenti, il recesso da un contratto a tempo indeterminato senza fornire alcuna motivazione (ad nutum) e con il solo vincolo del preavviso (fissato dai contratti collettivi). Con la L. n. 604/66 (e successive modifiche) sono state successivamente introdotte nel nostro ordinamento le c.d. “norme limitative dei licenziamenti individuali” con le quali si stabiliva che, per poter legittimamente procedere al licenziamento di un lavoratore, si dovesse ottemperare innanzitutto all’obbligo della forma scritta (art.2), si sanciva (art.4) la nullità del licenziamento qualora realizzato a scopo discriminatorio e si statuiva (art.3) la necessità della sussistenza, a sostegno del licenziamento, di un giustificato motivo (soggettivo o oggettivo). L’articolo 10 della stessa legge però limitava l’ambito di dette “tutele nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell’articolo 2095 del Codice civile” escludendo di fatto i dirigenti. Successivamente, con le modifiche legislative introdotte dalla L. n. 108/1990, l’obbligo della forma scritta (art. 2, co. 4) e della tutela contro il licenziamento discriminatorio (art. 3) furono esplicitamente estese anche ai dirigenti.

Tuttavia, ancora oggi, permane, ed è ancora molto sentita, la questione del recesso senza motivazione; sono infatti poche e specificatamente individuate le fattispecie in cui è ancora ammesso il licenziamento ad nutum e che sfuggono al regime della L. n. 604/66: il licenziamento del dirigente rappresenta una di queste. Ad onor del vero, nel corso degli anni sono stati molteplici i tentativi di una censura di illegittimità costituzionale ai quali però la norma ha resistito[2]. In tale panorama sono intervenuti i contratti collettivi che hanno precisato che nel caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima è tenuta a specificarne contestualmente la motivazione[3].

L’evoluzione del licenziamento ad nutum del dirigente

Al fine di individuare la disciplina applicabile nel caso della risoluzione del rapporto – c.d. licenziamento ad nutum (con un cenno del capo) del dirigente – dobbiamo far riferimento alla giurisprudenza che ha, nel tempo e nei casi concreti, provveduto a definire gli elementi qualificanti della figura del dirigente individuando le diversità di tutela nei casi di licenziamento tra tale categoria e i lavoratori sì subordinati, ma non dirigenti.

Un primo intervento della giurisprudenza diretto a definire la figura del dirigente lo ritroviamo nella sentenza 6 luglio 1972, n. 121 della Corte Costituzionale che, come detto sopra, si è pronunciata in merito alla questione di costituzionalità sollevata nei confronti dell’art. 10 della L. n. 604/1966 nella parte in cui esclude i dirigenti dalle tutele che sono previste per i licenziamenti individuali.[4]

In tale sentenza la Suprema Corte sostiene che il rapporto di lavoro del dirigente si distingue poiché caratterizzato da un rapporto di collaborazione e fiducia molto più “stretto” rispetto a quello degli altri lavoratori subordinati.

La categoria dirigenziale viene così definita dalla Corte Costituzionale: “A caratterizzare la categoria dei dirigenti concorrono la collaborazione immediata con l’imprenditore per il coordinamento aziendale nel suo complesso ed in un ramo importante di esso; il carattere fiduciario della prestazione; l’ampio potere di autonomia nell’attività direttiva; la supremazia gerarchica su tutto il personale dell’azienda o di un ramo importante di esso, anche senza poteri disciplinari, ma sempre con poteri organizzativi; la subordinazione esclusiva  all’imprenditore o ad un dirigente superiore; e l’esistenza di un potere di rappresentanza extra o infraziendale.”[5]

Potremmo quindi affermare che sono proprio le peculiari caratteristiche del rapporto di lavoro dirigenziale, ed in particolare l’attribuzione di una specifica fiducia al dirigente da parte del datore di lavoro, che in qualche modo giustificano la sottrazione dell’atto di recesso ai vincoli fondamentali del giustificato motivo, soggettivo e/o oggettivo, e sono alle base della maggiore libertà concessa all’iniziativa del datore di lavoro, rispetto alle altre categorie di lavoratori subordinati, in materia di cessazione del rapporto. Si determina in tal modo, in via teorica, una maggiore semplicità nello scioglimento del rapporto dirigenziale.

Il recesso così come disciplinato dall’articolo 2118 del codice civile è segno, a parere di chi scrive, di una concezione liberista del rapporto di lavoro, che avrebbe avuto sicuramente minor eco in dottrina e in giurisprudenza se solo fosse basato su un sostanziale equilibrio di forza delle posizione delle due parti, presupposto questo obiettivamente poco plausibile in un rapporto di subordinazione seppure di carattere speciale come quello del dirigente.

Dunque una asettica lettura dell’articolo 2118 c.c. consentirebbe al datore di lavoro di risolvere il contratto senza l’obbligo di fornire alcuna motivazione, prevedendo il solo onere procedurale di dare al lavoratore il preavviso[6]; ecco perché si definisce ad nutum: la risoluzione del rapporto di lavoro dipenderebbe esclusivamente dalla semplice volontà di interrompere il sinallagma ed il giudice sarebbe sollevato dall’onere di indagare sull’esistenza e validità di motivazioni poste alla base di tale volontà.

Questo non sta a significare che il rapporto di lavoro tra dirigente e datore di lavoro sia un rapporto privo di tutela contro il licenziamento, difatti, la contrattazione collettiva, ha provveduto a disciplinare la materia moderando il potere di recesso unilaterale del datore di lavoro, ad esempio sia nel Ccnl Dirigenti Industria che nel Ccnl Dirigenti Commercio si è introdotta la possibilità per il dirigente, ove non ritenga giustificata la motivazione addotta dall’azienda, ovvero nel caso in cui detta motivazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione del recesso di ricorrere ad un Collegio Arbitrale di conciliazione, abilitato a verificare la “giustificatezza del licenziamento”, ed eventualmente disporre penalità economiche (anche molto rilevanti)[7].

Operando in tal modo, la contrattazione collettiva, non ha disapplicato l’articolo 2118 del codice civile, né ha potuto estendere ai dirigenti le tutele previste per gli altri lavoratori dipendenti (L. n. 604/66 e L. n. 300/70) ma ha decisamente modificato, nella procedura e nella sostanza, il recesso da parte del datore di lavoro, che non può più procedere senza addurre una motivazione.

Infatti, disponendo la possibilità concreta di sottoporre ad un giudizio la motivazione esposta dall’azienda, ricorrendo al Collegio arbitrale, vuol dire che la semplice espressione di volontà del datore non è più sufficiente a determinarne la legittimità. Pertanto il recesso, pur vigendo ancora l’art. 2118, non può più essere considerato ad nutum, poiché esiste un soggetto dotato del potere di intervenire nel merito della decisione del datore di lavoro.

Sul punto la giurisprudenza si è nel tempo evoluta da un primo orientamento volto al riconoscimento dell’obbligo di comunicazione scritta, ma non dell’obbligo di motivazione del licenziamento, a quello più recente e di orientamento opposto che determina un alleggerimento dei vincoli formali e procedurali, concentrandosi di più sulla sostanza che qualifica le ragioni del licenziamento e sulla possibilità di integrare le stesse anche successivamente in sede giudiziaria, durante l’istruttoria.

La Cassazione osserva che «l’art. 22, comma 2° del CCNL dirigenti settore industria, pur prevedendo che, in caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima sia tenuta ad specificarne contestualmente la motivazione, non prevede, quale automatica e diretta conseguenza [della mancata specificazione contestuale], la spettanza dell’indennità supplementare; per contro il successivo terzo comma dispone che il dirigente, ove non ritenga giustificata la motivazione addotta ovvero nel caso che detta motivazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione del recesso, possa ricorrere al collegio arbitrale di cui all’art. 19, il quale, ove riconosca che il licenziamento è ingiustificato, disporrà a carico dell’azienda un’indennità supplementare. Ne discende, ai sensi degli artt. 1362 e 1363 cc, che […]la richiesta valutazione della giustificatezza o meno del licenziamento presuppone che, pur in assenza di motivazione resa contestualmente, e a fortiori, ove la stessa sia stata insufficiente o generica, il collegio [arbitrale] possa riconoscere la sussistenza o meno delle ragioni giustificative del recesso datoriale e che quindi [….] il datore di lavoro è facoltizzato ad esplicitare la motivazione del licenziamento ovvero ad integrarla, nel rispetto del principio del contraddittorio, nell’ambito del giudizio arbitrale[8]».

In dottrina[9] però si tende a sottolineare come la richiesta successiva della motivazione sarebbe in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che dispone la contestualità della stessa al momento del licenziamento (art. 22, Ccnl Dirigenti Industria). In altri termini, possiamo dire che l’orientamento dottrinale e quello giurisprudenziale hanno introdotto, per ciò che concerne il rapporto di lavoro dirigenziale, il principio della necessaria giustificazione del recesso che va ad assommarsi a quelli di tempestività, specificità e immodificabilità della stessa[10].

Nozione e ambiguità del termine “giustificatezza”

Per quanto concerne il concetto di giustificatezza[11], l’art. 22 del Ccnl Dirigenti industria ha statuito che “il dirigente, ove non ritenga giustificata la motivazione addotta dall’azienda, ovvero nel caso in cui detta motivazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione del recesso, potrà ricorrere al Collegio arbitrale di cui all’art. 19” e nel caso in cui il licenziamento si riveli ingiustificato puo’ avere diritto ad una “indennità supplementare delle spettanza contrattuali di fine rapporto” determinata con un sistema di gradualità proporzionale all’anzianità di servizio.

Tuttavia la tutela adottata dalla contrattazione collettiva a salvaguardia del licenziamento ingiustificato ha carattere troppo generico e perciò si presta ad interpretazioni diverse.

Ciò ha generato molti interventi ed elaborazioni giurisprudenziali volti a dirimere le questioni più controverse tra le quali possiamo, senza dubbio, includere quella della ricognizione della nozione di “giustificatezza” con la sua peculiarità e diversità rispetto alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo come definiti dall’articolo 2119 c.c. e dall’articolo 3 della L. n. 604/1966; senza però escludere che la giustificatezza possa comunque trovare fondamento sulle stesse circostanze su cui si basa il giustificato motivo soggettivo ed oggettivo. Deve sottolinearsi – in aderenza alla costante giurisprudenza, […]che, gli addebiti contestati al dipendente che rivesta una effettiva posizione dirigenziale, vanno valutati non tanto sotto il profilo della giusta causa, ma della sua giustificatezza, alla cui stregua può rilevare qualunque motivo purché giustificato, ossia costituente base di una decisione coerente e sorretta da ragioni apprezzabili sul piano del diritto, le quali richiedono non l’analitica verifica di specifiche condizioni (come previsto per il GMO) salvo quelle che si identifichino in quella costituita dalla proporzionalità tra sanzione e infrazione (richiesta dalla norma base contenuta nell’art. 2104 c.c.) – ma una globale valutazione che escluda l’arbitrarietà e la pretestuosità del licenziamento[12].

La nozione di giustificatezza, introdotta da norme contrattuali e che è ormai pacifico si basi sulla rilevanza attribuita al legame fiduciario del rapporto tra dirigente e datore di lavoro, si differenzia da quelle legali perché può ricomprendere e dare validità a qualsiasi motivo di recesso da parte del datore di lavoro (purché non sia di natura discriminatoria o di assoluta arbitrarietà) con i soli limiti del rispetto dei principi generali di correttezza e di buona fede. Secondo la recente giurisprudenza infatti può “rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore di lavoro[13].

Dunque la concezione di giustificatezza che emerge dagli orientamenti giurisprudenziali si discosta, o tenta di farlo, da quello di giusta causa e giustificato motivo di cui agli articoli 2118 e 2119, ma è coerente ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e segg. del codice civile.

Inoltre, “il licenziamento del dirigente può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non devono necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui si misura la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’articolo 41 Cost. […]per altro verso, la libertà di iniziativa economica non è in grado ex se di offrire copertura a licenziamenti immotivati o pretestuosi”11.

In conclusione possiamo pacificamente affermare, sulla base delle numerose sentenze in materia, che la valutazione sulla giustificatezza del licenziamento si sviluppa da una prospettiva negativa, nel senso che è maggiormente concentrata  non ad identificare validi presupposti a sostegno del licenziamento, ma piuttosto a verificare l’assenza di ragioni discriminatorie, pretestuose o meramente arbitrarie.

La giusta causa di licenziamento

Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto […] qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto; così dispone l’articolo 2119 del codice civile rubricato “Recesso per giusta causa”. La giusta causa del licenziamento determinerebbe pertanto il recesso in tronco del contratto senza neanche un preavviso minimo. Ma cos’è la giusta causa? Qual è la causa che può determinare in modo così severo l’interruzione del rapporto lavorativo? Senza dubbio la difficoltà di inquadrare con precisione il concetto di giusta causa è alla base della copiosa produzione giurisprudenziale e delle divergenti posizioni dottrinali che nel tempo si sono via via modificate e alternate. Per lungo tempo è prevalso l’orientamento che considerava la giusta causa “qualsiasi fatto idoneo a scuotere la fiducia” del datore, permettendo di considerare anche elementi ed eventi ritenuti sufficienti a violare quella particolare fiducia che il datore ripone nel proprio dipendente e che si sostanzia nella aspettativa di operosità, di moralità, di fedeltà, criteri questi che sembrano addurre oltre che a riferimenti giuridici e contrattuali, apprezzabili oggettivamente, anche a giudizi morali, utilizzati per valutare come gravi inadempimenti circostanze riconducibili anche al contegno complessivo e alla personalità del lavoratore[14]. Il considerevole grado di fiducia che caratterizza il rapporto dirigente/datore, tende quindi ad ampliare l’esegesi dei casi in cui si configura la giusta causa, riconducendola non solo a gravi mancanze lavorative, ma anche al verificarsi di circostanze, a volte persino esterne al rapporto di lavoro, individuate come idonee a ledere l’elemento fiduciario del rapporto, riconducendo quindi la giusta causa ad elementi con valenza soggettiva. Successivamente la Cassazione ha ritenuto che “a legittimare il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo non è sufficiente la perdita di fiducia del datore di lavoro che si ricolleghi ad un suo apprezzamento meramente soggettivo, bensì occorre che il venir meno della fiducia sia motivatamente determinata dal fatto addebitato ai dipendenti e dimostrato nella sua esistenza”[15]. L’orientamento dottrinale e giurisprudenziale si sta pertanto spostando verso un criterio di fiducia ricondotto maggiormente verso quello inerente il vaglio degli adempimenti (o inadempimenti) contrattuali; anche se è ancora vivo il dibattito tra la teoria c.d. “soggettiva” che considera i fatti alla base del recesso per giusta causa come riconducibili solo a gravi inadempimenti ad obblighi contrattuali e la teoria c.d. “oggettiva” che ammette alla base della rottura fiduciaria anche situazioni e comportamenti extra-lavorativi.

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza[16], ha fornito precisazioni importanti riguardo la peculiarità dell’elemento fiduciario nel rapporto dirigenziale: il caso posto all’attenzione della Suprema corte ha origine dall’impugnazione di un licenziamento per giusta causa di una dirigente apicale in relazione alla quale la Cassazione ha confermato l’orientamento secondo cui, sia per i dirigenti apicali che per quelli medi o minori, il rapporto fiduciario è suscettibile di essere leso anche dalla mera inadeguatezza rispetto ai compiti assegnati. Il rapporto di lavoro dirigenziale, infatti, si contraddistingue per l’importanza riconosciuta al vincolo fiduciario che lega le parti, così che anche la semplice negligenza può causare la rottura del rapporto di fiducia e, pertanto, il datore di lavoro è legittimato a intimare il licenziamento per giusta causa.

«Con riferimento al licenziamento dei dirigenti è altrettanto fermo l’indirizzo di questa Corte secondo cui sia per i dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia per i dirigenti apicali o per quelli medi o minori, il rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro è particolarmente stretto in ragione delle mansioni affidate e, quindi, è suscettibile di essere leso — specialmente per i dirigenti al vertice dell’organigramma aziendale — anche da mera inadeguatezza rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o da una importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro (ex multis Cass. 13 dicembre 2010,11. 25145). Pertanto, si è affermata l’insussistenza di una piena coincidenza tra le ragioni di licenziamento di un dirigente e di un licenziamento disciplinare, derivante dalla peculiare posizione del predetto e del relativo vincolo fiduciario, che può portare al recesso anche se il datore di lavoro gli addebiti un comportamento negligente, o colpevole in senso lato, ovvero se, a base del recesso, siano poste condotte comunque suscettibili di pregiudicare il rapporto di fiducia tra le parti (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2553), dovendosi comunque escludere l’arbitrarietà del licenziamento, al fine di evitare .. una generalizzata legittimazione della piena libertà di recesso dei dirigenti da parte del datore di lavoro (vedi, per tutte: Cass. 15 aprile 2005, n. 7828)».

Alla luce di quanto esposto, nel caso dei dirigenti, la tipologia di licenziamento per giusta causa non poteva non risentire della specificità del rapporto, legata al potere decisionale, al ruolo di vertice nell’organizzazione alla figura quale alter ego dell’imprenditore che il dirigente riveste; tutto ciò fa sì che il licenziamento di un dirigente per giusta causa abbia un peso diverso, e senz’altro maggiore, rispetto a quello di un dipendente di altra categoria. Difatti, circostanze o condotte, non riconducibili ad una giusta causa o ad un giustificato motivo per gli altri lavoratori, possono invece ben giustificare la risoluzione del rapporto dirigenziale; questo perché l’attribuzione di maggiori poteri presuppone un maggiore investimento in fiducia e di conseguenza una più ampia serie di ipotesi in grado di comprometterla. Possiamo quindi dire che la specificità della categoria dei dirigenti, quali lavoratori subordinati, rispetto alle altre risiede nella circostanza per cui, la contrattazione collettiva, in mancanza di una reale giustificazione del licenziamento, non ha disposto norme che possano condizionare l’efficacia del provvedimento di recesso datoriale (che risulta sempre valido), ma si è limitata a sanzionare detta mancanza con il riconoscimento di un’indennità supplementare prevista e determinata da ciascun Ccnl.

Secondo l’orientamento prevalente, per stabilire l’esistenza della giusta causa il giudice deve valutare alla stregua dei parametri dell’art. 2119 c.c. l’effettiva gravità del comportamento stesso considerando tutte le circostanze del caso concreto, ossia prendendo in considerazione gli aspetti empirici del caso, oggettivi e soggettivi, quali ad esempio la natura e qualità del singolo rapporto, la posizione delle parti, il grado di affidamento richiesto dallo svolgimento delle specifiche mansioni, l’intensità dell’elemento intenzionale[17].

A questo segue il momento valutativo vero e proprio che si sostanzia nello stimare la specifica mancanza o inadempienza, determinando se sia idonea a ledere in modo irrecuperabile il legame fiduciario tale da legittimare un sanzione quale quella espulsiva. Tale giudizio è riservato al giudice di merito e se motivato congruamente non può essere rimesso al giudizio di legittimità della Corte di Cassazione. La formulazione dell’art. 2119 c.c. nelll’ individuare una giusta causa di recesso in una circostanza che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto è tanto severa quanto ampia e generica, tanto che tale margine di discrezionalità comporta, come già sottolineato, che un analogo comportamento tenuto da dipendenti diversi (anche della medesima categoria) possa essere valutato e sanzionato in modo sensibilmente diverso,[18] proprio perché rimesso alle valutazioni, di cui sopra, ad opera del giudice di merito.

 

Conclusioni

Sono trascorsi ormai 10 lustri dall’introduzione, nel panorama giuslavoristico, del concetto di giustificatezza accanto a quello di giusta causa del codice civile, e non possiamo certo dire che l’evoluzione del concetto si sia arrestata. Complice anche il fervore legale in materia di flessibilità (in uscita) dei rapporti di lavoro (Jobs Act) e della lunghissima crisi economica degli ultimi anni, nelle aule dei tribunali, con interpretazioni e valutazioni sui casi concreti, si sono confermati i principali detentori dell’evoluzione delle vicende legate alla cessazione del rapporto di lavoro dirigente/datore. Per completezza di analisi sull’argomento, occorre anche tenere in considerazione quanto avvenuto, in seguito alla procedura d’infrazione europea aperta nei confronti dell’Italia, con riguardo all’esclusione dei dirigenti nella disciplina dei licenziamenti collettivi nel nostro ordinamento, che ha portato il legislatore nazionale, ad opera della L. n. 161/2014, ad includere i dirigenti in tale disciplina.  In particolare, l’art. 16 della legge n. 161 del 2014 ha modificato l’art. 24 della legge n. 223 del 1991, stabilendo che i dirigenti debbono essere computati sia nella soglia dimensionale aziendale dei quindici dipendenti, sia nel numero dei lavoratori interessati dalla riduzione di personale. La norma prevede anche che in caso di mancato rispetto della procedura il datore di lavoro sia tenuto al pagamento, in favore del dirigente, di un’indennità in misura compresa tra dodici e ventiquattro mensilità; parallelamente il nuovo Ccnl dei dirigenti industriali (2015), ha espressamente stabilito che le previste indennità supplementari per il caso di recesso del datore di lavoro non vengono applicate nel caso di licenziamento collettivo, in tale ipotesi verrà applicata esclusivamente la tutela risarcitoria prevista dalla L. n. 161/2014. Viene così confermata, anche in questo caso, la scelta legislativa di mantenere una diversità di tutela tra la categoria dei dirigenti e quella degli altri lavoratori subordinati. Ad una prima lettura sembrerebbe paradossalmente evidenziarsi una tutela risarcitoria più favorevole rispetto a quella applicabile ai lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, in quanto non solo la misura minima dell’indennizzo, dodici mesi anziché quattro, risulta decisamente più elevata, ma, nel caso dei dirigenti, anziché essere determinata da un calcolo correlato all’anzianità di servizio, viene invece decisa dal giudice. Sarebbe in tal modo rivoluzionata la storica posizione del legislatore, che ha tradizionalmente escluso la categoria dei dirigenti dalla disciplina limitativa dei licenziamenti. Tuttavia per valutare l’evoluzione delle ultime novità legislative sul piano giuridico, bisognerà attendere il verificarsi di un significativo numero di casi.

[1] V. Sintesi nn. 3/2018, 6/2018 e 8/2018.

[2] Una delle più importanti è Corte Cost. 6 luglio 1972, n. 121 […] la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 in generale, e cioé affermato che la disciplina relativa ai licenziamenti unilaterali per giusta causa e per giustificato motivo non si riferisce, e senza alcun contrasto con l’art. 3 della Costituzione, ai dirigenti, […]

[3] Art. 22 del CCNL Dirigenti Industria e art. 39 del CCNL Dirigenti Commercio.

[4] Berruti M., Il rapporto di lavoro del dirigente, La giurisprudenza, 2005, pag. 19.

[5] C. Cost. n. 121/72 cit.

[6] Anche in tema di preavviso si riscontrano orientamenti diversi in merito all’efficacia del preavviso in ipotesi di recesso ad nutum  obbligatoria (Cass., sez. Lavoro., 21 maggio 2007, n. 11740; Cass., sez. Lavoro, 16 giugno 2009, n. 13959) oppure reale  (Cass, sez. Lavoro, 15 maggio 2007, n. 11094;  Cass., sez. Lavoro,  30 agosto 2004, n. 17334).

[7] Artt. 22 e 19 del CCNL Dirigenti Industria e artt.39 e 34 del CCNL Dirigenti Commercio

[8] Cass., sez. Lavoro, 11 febbraio 2013,  n. 3175:- Nel caso di specie un dirigente, contestando la genericità delle motivazioni addotte dalla società nella lettera di licenziamento, aveva adito l’autorità giudiziaria al fine di vedere accertata l’illegittimità del recesso ed ottenere il riconoscimento dell’indennità supplementare prevista dal CCNL Dirigenti Industria.

[9] M. De Cristofaro, Licenziamento dei dirigenti e comunicazione dei motivi, Dir. Lav.  2000, I, pag. 364 ss; C.  Diotallevi,  Il licenziamento dei dirigenti privati e pubblici, Edizioni Univ. Romane, 2010.

[10] M. L. Galantino,G, Pellacani,  Licenziamenti. Forma e procedura, Giuffrè, 2011,

[11] Il concetto di giustificatezza è apparso negli anni 70 ad opera della contrattazione collettiva (Ccnl dirigenti industria) come risposta all’esclusione della categoria alle tutele previste dalla Statuto dei Lavoratori e a quelle della L. n. 604/66.

[12] Cass., sez. Lavoro, 2 settembre 2010, n. 18998; Pulice M., La “giustificatezza” del licenziamento di un dirigente, Lav. giur.,2011; Cass., sez, Lavoro, 17 marzo 2014, n. 6110; Cass., sez. Lavoro, 11 giugno 2008, n. 15496 .

[13] Cass., sez. Lavoro., 17 febbraio 2015, n. 3121.

[14] P. Tullini, Questioni interpretative in tema di “giusta causa, Riv. trim. dir. proc. civ. 1988,  659.

[15] A. Ripa, Dirigenti e giusta causa, Ipsoa, 2018, 21 che richiama Cass., sez. Lavoro 26 giugno 1984, n. 3744.

[16]  Cass., sez. Lavoro, 10 dicembre 2015, n. 24941.

[17] Cass., sez. Lavoro, 7 ottobre 2013, n. 22791

[18] Cass., sez. Lavoro, 19 settembre 2011, n. 19074.

 

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Dirigenti: Previdenza ed assistenza sanitaria integrative

di Proia Alessandro – Consulente del lavoro in Milano

 

Il terzo contributo del 2018 di Sintesi dedicato alla figura del dirigente offre una panoramica delle caratteristiche delle forme di assistenza sanitarie integrative e previdenziali previste dai maggiori Ccnl.

L’assistenza sanitaria integrativa rappresenta una forma di tutela che permette l’integrazione o sostituzione della sanità pubblica per quel che riguarda le prestazioni sanitarie e i servizi medico-sanitari, attraverso l’intervento dei fondi sanitari integrativi. Può aderirvi il singolo in autonomia, oppure in forma collettiva se rientrante all’interno dei diritti previsti dai Ccnl, o dai contratti integrativi della singola azienda.

Gli enti che erogano i servizi di sanità integrativa possono presentarsi nella forma di fondi sanitari integrativi, come quelli che andremo a trattare, assicurazioni sanitarie, o casse e società di mutuo soccorso. A secondo dell’ente erogante, la sanità integrativa offre la possibilità ai propri iscritti di ricevere un rimborso totale o parziale delle prestazioni medico-sanitarie erogate presso la propria struttura ospedaliera o ambulatoriale di fiducia.

La previdenza complementare è una forma di previdenza fiscalmente agevolata che si aggiunge a quella obbligatoria ma non la sostituisce, va a integrare la normale pensione erogata dallo Stato. La si può ottenere perché si è scelto di versare del denaro in un fondo, come quelli creati per i dirigenti, e l’obiettivo è quello di mantenere inalterato il tenore di vita anche quando, ormai anziani, si ritireranno dal lavoro.

È fondata su un sistema di finanziamento a capitalizzazione, per ogni iscritto viene creato un conto individuale nel quale affluiscono i versamenti che vengono poi investiti nel mercato finanziario da gestori specializzati (in azioni, titoli di Stato, titoli obbligazionari, ecc.) e che producono, nel tempo, rendimenti variabili in funzione dell’andamento dei mercati e delle scelte di gestione.

I fondi di previdenza complementare dei dirigenti sono di tipo “chiuso”, ossia basati su accordi fra organizzazioni imprenditoriali e sindacali, a cui possono accedere solo i lavoratori a cui viene applicato un Ccnl di cui le summenzionate organizzazioni sono firmatarie. Durante la vita lavorativa è prevista una contribuzione obbligatoria, anche a carico dei datori di lavoro, che, al raggiungimento, da parte dei dirigenti, di determinati requisiti anagrafici e contributivi, diventerà una vera e propria pensione aggiuntiva. Spesso questi fondi pensione permettono, in determinate situazioni, di ottenere anticipi e riscatti, e indennità in caso di invalidità permanente.

Previndai

Previndai è un fondo pensione preesistente, cioè istituito antecedentemente all’emanazione della normativa che per la prima volta ha disciplinato in modo organico il sistema della previdenza complementare, precisamente nel 1989.

Si tratta di una forma di previdenza che provvede all’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, a cui possono aderire, in maniera volontaria, tutti i dirigenti delle imprese che applicano il Ccnl per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi sottoscritto da Confindustria e Federmanager, o da un diverso Ccnl, sottoscritto da almeno una di tali parti. In tal caso, l’adesione è vincolata al preventivo assenso dell’altra parte, risultante dalla sottoscrizione di specifico accordo.

Come premesso, il Fondo, che non ha fini di lucro, ha lo scopo di consentire agli iscritti di disporre, all’atto del pensionamento, di prestazioni pensionistiche complementari del sistema obbligatorio. A tale fine, esso provvede alla raccolta dei contributi, alla gestione delle risorse nell’esclusivo interesse degli iscritti, e all’erogazione delle prestazioni secondo quanto disposto dalla normativa in materia di previdenza complementare.

Il Fondo si articola in tre comparti di investimento: Assicurativo, caratterizzato da garanzie di rendimento minimo, consolidamento dei risultati a fine anno e coefficienti di conversione in rendita predeterminati; Bilanciato e Sviluppo, questi ultimi caratterizzati da diverse percentuali massime di esposizione in titoli azionari e da un modello di gestione attivo, che ha permesso anche nei negli anni peggiori della crisi di chiudere in positivo. Gli iscritti possono suddividere liberamente la propria posizione, per ottenere la migliore risposta alle loro esigenze previdenziali.

Altre interessanti peculiarità del Fondo sono costituite dalla possibilità di poter gestire le risorse tramite lo strumento assicurativo tradizionale (riservata ai fondi preesistenti), dall’opzione concessa a dirigenti e aziende di versare quote aggiuntive rispetto a quanto stabilito dal contratto, senza limite di massimale, e da quella che permette agli associati non in attività di mantenere l’iscrizione e integrare la propria posizione con versamenti volontari a loro carico, cosa di non poco conto considerando la forte mobilità che caratterizza la categoria dirigenziale.

Il Fondo è finanziato tramite contributi versati dai datori di lavoro e dai lavoratori, e dal conferimento, integrale o parziale, del Tfr.

I dirigenti iscritti al Previndai sono ripartiti in differenti classi, in base alla data di prima iscrizione alla previdenza obbligatoria e alla titolarità, o meno, di una posizione pensionistica complementare. A seconda della categoria di appartenenza, e in caso di conferimento del Tfr, cambia il calcolo della relativa quota.

La base per il calcolo dei contributi e le aliquote a carico dell’impresa e del dirigente sono, invece, uguali per tutti gli iscritti: 4% della retribuzione utile al calcolo del Tfr, fino a 150.000 euro annui ed escludendo eventuali compensi e indennizzi percepiti per effetto di dislocazione all’estero, e con un contributo annuo minimo a carico azienda di 4.800 euro, per i dirigenti in servizio alla data del 1° gennaio 2010, o con anzianità dirigenziale superiore a 6 anni.

I beneficiari delle prestazioni in caso di decesso dell’iscritto sono il coniuge, ovvero i figli, ovvero i genitori, se già viventi a suo carico. In mancanza di tali soggetti, o di diverse disposizioni dell’iscritto, la posizione resta acquisita al Fondo.

L’azienda deve dichiarare trimestralmente al Previndai gli importi dei contributi dovuti per ciascun dirigente, ed eventuali importi contributivi relativi ai premi di produttività, che, se destinati alla previdenza complementare, non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente (anche se eccedenti i limiti di deducibilità ex D.lgs. n. 252 del 2005) e dell’imponibile delle prestazioni al momento della loro erogazione. I versamenti dei contributi vanno effettuati dal datore di lavoro con cadenza trimestrale, anche per la quota a carico del dirigente, con bonifico bancario.

Normalmente, le prestazioni vengono erogate al momento della cessazione del rapporto di lavoro per pensionamento, e, sussistendo i requisiti, la prestazione può essere erogata interamente in rendita vitalizia, oppure in parte in rendita e in parte in capitale, i “vecchi iscritti”, invece, hanno la facoltà di percepire l’intera prestazione in capitale. L’entità della prestazione pensionistica è determinata in funzione della contribuzione versata e dei rendimenti della gestione selezionata.

È possibile richiedere un’anticipazione fino al 75% della posizione individuale maturata, costituita da tutti i versamenti effettuati e dal risultato di gestione; in qualsiasi momento per spese sanitarie conseguenti a gravissime condizioni relative a sé, al coniuge e ai figli, e dopo 8 anni di iscrizione per l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa propria o dei figli. Dopo 8 anni di iscrizione e per altre esigenze, è possibile chiedere un’anticipazione fino al 30%.

Sono previsti, inoltre, il riscatto parziale della posizione per inoccupazione non inferiore a 12 mesi e non superiore a 48 mesi, quelli totali per inoccupazione superiore a 48 mesi, invalidità permanente con riduzione di capacità lavorativa a meno di 1/3, o iscritti pensionati non in servizio, e il riscatto parziale o totale per cause diverse e cessazione dell’attività lavorativa. Con il rispetto di determinati requisiti, l’iscritto può anche richiedere la rendita integrativa temporanea anticipata (RITA), a valere sull’intera posizione individuale maturata, o su parte di essa.

I dirigenti iscritti a Previndai possono richiedere l’adesione dei propri familiari fiscalmente a carico, determinando liberamente l’ammontare e la periodicità della contribuzione.

Per quanto attiene alla fiscalità, i contributi versati al Fondi sono deducibili dal reddito complessivo fino a 5.164,57 euro per ogni anno, mentre non è deducibile dal reddito complessivo il Tfr annualmente destinato alla forma pensionistica complementare, in quanto, all’atto del versamento al Fondo, non è soggetto a tassazione.

Le prestazioni erogate da un fondo pensione, siano esse in capitale in unica soluzione, in rendita vitalizia ovvero anticipate vengono tassate in modo differenziato a seconda del periodo di accumulo degli importi versati. Per il dettaglio della relativa fiscalità è possibile consultare le tabelle pubblicate nel portale istituzionale del Fondo (www.previndai.it).

Fasi

Fasi è un fondo di assistenza sanitaria integrativa, costituito nel 1981 e dedicato ai dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi, e si rivolge, altresì, ai dirigenti di aziende che applicano Ccnl diversi, ma, comunque, sottoscritti da Confindustria o Federmanager. La sua finalità è quella di erogare ai dirigenti volontariamente iscritti, in servizio o in pensione, e ai loro nuclei familiari, prestazioni integrative dell’assistenza fornita dal Servizio Sanitario Nazionale, nell’ambito di un sistema di mutualità e solidarietà intergenerazionale.

Il Fasi oggi assiste più di 120 mila dirigenti, è convenzionato con circa 3.000 strutture sanitarie pubbliche e private accreditate presso il Servizio Sanitario Nazionale, e rappresenta uno dei maggiori fondi del settore in Europa; è particolarmente attento all’area odontoiatrica, e ulteriori misure adottate nel Fasi riguardano il potenziamento delle prestazioni nell’area chirurgica e in quelle dei servizi socio-sanitari.

Il Fondo, che non ha fini di lucro, fornisce servizi di assistenza sanitaria integrativa in forma diretta e in forma indiretta. Nel primo caso, provvedendo al pagamento della parte di propria competenza, sulla base di convenzioni amministrative con strutture sanitarie che concordano con il Fasi condizioni economiche di favore rispetto a quelle normalmente applicate; nel secondo caso, rimborsando le spese effettivamente sostenute dall’iscritto in Italia e all’estero, nei limiti previsti dalle tariffe indicate in un apposito nomenclatore-tariffario. Sono anche previste forme di assistenza in convenzione, che garantiscono all’assistito grandi vantaggi in quanto, tramite accordi amministrativi, vengono fissate condizioni economiche di maggior favore rispetto a quelle normalmente applicate.

Altra peculiarità del Fondo è quella di offrire, agli assistiti appartenenti a specifiche fasce di età, la possibilità di effettuare gratuitamente, una volta all’anno, test di screening per la diagnosi precoce, nelle strutture sanitarie convenzionate in forma diretta.

I contributi dovuti al Fasi, determinati in un importo fisso da corrispondersi per ogni dipendente in servizio iscritto al Fondo e alle dipendenze dell’azienda nel primo giorno di ciascun trimestre, devono essere versati in quote trimestrali entro la fine del secondo mese di ciascun trimestre.

Il contributo dovuto dai dirigenti in servizio viene versato dal datore di lavoro, unitamente al contributo aziendale, dopo aver effettuato la relativa trattenuta sulla retribuzione; a questi fini il dirigente è tenuto a comunicare all’azienda la propria iscrizione. È previsto anche un contributo per l’assistenza sanitaria dei dirigenti pensionati, commisurato a un importo fisso moltiplicato per il numero complessivo dei dirigenti in forza, anche se non iscritti al Fondo.

Per i dirigenti, anche pensionati, che si iscrivono o re-iscrivono al Fondo è dovuta una quota di ingresso di 500 euro, maggiorata a 1.500 in alcuni casi particolari, mentre l’iscrizione è gratuita per i dirigenti neo promossi, ovvero assunti per la prima volta con la qualifica di dirigente, se la domanda di iscrizione è inoltrata al Fondo entro sei mesi dalla nomina o dall’assunzione e per i titolari di pensione di reversibilità di pensionato iscritto al Fondo e dai titolari di pensione ai superstiti di dirigente iscritto al Fondo.

Il contributo annuo a carico delle imprese, dovuto per ciascun dirigente in servizio iscritto, è pari a 1.872 euro, a cui si aggiungono 960 euro a carico del dirigente; il contributo annuo a carico delle imprese per i dirigenti pensionati, dovuto per ciascun dirigente alle dipendenze, anche se non iscritto al Fasi, è pari 1.272 euro (1.590 euro per le aziende per le aziende che iscritte a forme di assistenza sanitaria integrativa sostitutiva del Fasi a favore dei soli dirigenti in servizio).

Per i dirigenti che si iscrivono al Fondo nel corso del trimestre di calendario, l’azienda è tenuta a corrispondere al Fasi i ratei mensili della quota trimestrale a partire dalla data di decorrenza dell’iscrizione (primo giorno del mese successivo a quello dell’invio al Fondo della richiesta da parte del dirigente).

Il Fasi fa parte di un più complesso sistema, costituito anche dalla gestione separata di sostegno al reddito per i dirigenti disoccupati (GSR), e dal FasiOpen, il fondo di assistenza sanitaria integrativa aperto ai lavoratori d’azienda non dirigenti. Sono obbligatoriamente iscritti alla GSR le imprese che applicano il Ccnl per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi stipulato da Confindustria e Federmanager, che devono versare al Fondo un contributo di 200 euro annui per ciascun dirigente iscritto all’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria dell’Inps in forza nel mese di gennaio.

Relativamente alla fiscalità, l’importo dei contributi versati dall’azienda e dal dirigente in servizio è interamente deducibile dal reddito dell’interessato fino al limite annuo di 3.615,20 euro, mentre non rileva fiscalmente la quota che l’azienda versa a titolo di solidarietà per i dirigenti in pensione. Conseguentemente, le spese mediche sono detraibili solo per la quota eccedente l’importo rimborsato dal Fondo. I dirigenti pensionati, che successivamente alla cessazione del rapporto lavorativo hanno deciso di iscriversi o di mantenere l’iscrizione al Fondo, non possono usufruire della deduzione dei contributi versati Fasi.

Maggiori informazioni sono reperibili sul portale istituzionale del fondo (www.fasi.it).

Mario Negri

Il Fondo Mario Negri, costituito nel 1956, gestisce i trattamenti previdenziali complementari previsti dai Ccnl dei dirigenti delle aziende commerciali, dei trasporti, dei servizi, ausiliarie e del terziario avanzato, nonché dei dirigenti degli alberghi, delle agenzie marittime e dei magazzini generali, stipulati da Manageritalia con Confcommercio, Confetra e le organizzazioni aderenti alle due confederazioni espressamente autorizzate. I dirigenti di aziende appartenenti ad altre categorie possono essere iscritti al Fondo solo con il consenso delle suddette organizzazioni e su delibera del consiglio di amministrazione.

Una delle principali prestazioni erogate dal Fondo è la pensione di vecchiaia, reversibile solo in favore dei superstiti indicati quali aventi diritto alla pensione indiretta, che spetta al dirigente che, alla data della domanda, possa far valere nel Fondo almeno 15 anni di anzianità contributiva e percepisca la pensione di vecchiaia o di anzianità da parte della previdenza obbligatoria. Dal 2009 l’anzianità contributiva minima è ridotta a 14 anni e, successivamente, di un ulteriore anno ogni biennio fino al limite di 5 anni. La liquidazione della pensione di vecchiaia sotto forma di rendita è consentita se l’importo mensile da erogare è pari, almeno, al 50% dell’assegno sociale. Nel caso in cui venga meno l’obbligo di contribuzione al Fondo prima della maturazione di tutti i requisiti per il pensionamento, l’iscritto con anzianità contributiva minima conserva il diritto alla pensione di vecchiaia per 10 anni dalla maturazione dell’età pensionabile.

La pensione di invalidità, anch’essa reversibile esclusivamente in favore dei superstiti indicati quali aventi diritto alla pensione indiretta, è prevista in favore degli iscritti con almeno 5 anni di anzianità contributiva, che contraggano un’invalidità permanente tale da comportare il definitivo abbandono del lavoro e una riduzione permanente della capacità lavorativa pari, almeno, al 60%.

In caso di decesso del dirigente in attività di servizio, con almeno 5 anni di anzianità contributiva, il Fondo eroga la pensione indiretta al coniuge, ai figli legittimi, naturali riconosciuti, legittimati o adottivi di età inferiore ai 18 anni. In mancanza di coniuge e figli con diritto a pensione, questa spetta ai genitori, se a carico. In alternativa, gli aventi diritto alla pensione indiretta possono chiedere il riscatto della posizione individuale. La prestazione suddetta spetta in caso di decesso, in favore degli eredi o dei diversi beneficiari designati dall’iscritto stesso, sempreché il dirigente non abbia esercitato, al momento dell’iscrizione o successivamente (anche a modifica della scelta iniziale), l’opzione per il riscatto della posizione maturata.

L’iscritto che, prima di aver maturato il requisito dell’anzianità contributiva per il diritto ai trattamenti pensionistici, cessi di lavorare nei settori contrattuali che prevedono l’iscrizione al Fondo, può richiedere, trascorsi 12 mesi, il riscatto della propria posizione, sempreché non sia stato nuovamente assunto con qualifica di dirigente presso azienda tenuta al versamento dei contributi al Fondo.

Altre peculiarità del fondo sono costituite dalla possibilità di richiedere, a particolari condizioni, una rendita integrativa temporanea anticipata (RITA), l’anticipazione della posizione individuale, sussidi per i figli minori con grave disabilità, mutui finalizzati all’acquisto dell’abitazione e borse di studio per i figli degli iscritti.

La misura dei contributi dovuti per gli iscritti è fissata dai contratti collettivi di lavoro.

I contributi dovuti al Fondo, ridotti in caso di assunzione di dirigenti di prima nomina, si compongono di una parte ordinaria, che affluisce nel conto individuale dell’iscritto, e di una parte integrativa aziendale, che affluisce in un conto generale separato, e vengono calcolati su una retribuzione convenzionale annua, attualmente pari a 59.224,54 euro.

Per quanto riguarda la fiscalità dei contributi, a quelli versati al Fondo Mario Negri non si applica il limite annuo di deducibilità previsto per la generalità dei fondi pensione. Conseguentemente, il datore di lavoro, in qualità di sostituto d’imposta, diminuisce l’imponibile fiscale del dirigente di un importo pari alla trattenuta operata e non lo incrementa, neppure in parte, con riferimento ai contributi a carico dell’azienda.

Da luglio del 2007 è possibile destinare al Fondo Mario Negri anche il Tfr. Per le quote di Tfr sono state create due linee di investimento, una che garantisce all’iscritto di ottenere una prestazione che non potrà essere inferiore alla somma delle quote di Tfr versate, la seconda, di tipo bilanciato, che prevede la possibilità di ottenere rendimenti maggiori, ma anche oscillazioni negative.

Ulteriori informazioni sono reperibili nel portale web del Fondo (www.fondonegri.it).

Mario Besusso (Fasdac)

Fasdac, o Fondo Mario Besusso, è il fondo di assistenza sanitaria per i dirigenti di aziende commerciali. È un soggetto collettivo senza scopi di lucro fondato nel 1948 a cui i dirigenti dei settori interessati sono obbligatoriamente iscritti, che garantisce, ai dirigenti stessi, a quelli pensionati, ai prosecutori volontari e ai familiari che al momento della fruizione delle prestazioni stesse siano in regola con le vigenti condizioni di assistibilità, prestazioni integrative di quelle fornite dal Servizio Sanitario Nazionale.

L’assistenza sanitaria integrativa ha inizio dalla data di nomina o dall’assunzione del dirigente, sempre che l’azienda ne dia comunicazione al Fondo entro 30 giorni, altrimenti essa decorrerà dalla data della comunicazione stessa.

Il Fondo eroga prestazioni in forma diretta attraverso un proprio network di strutture convenzionate distribuite su tutto il territorio nazionale. L’utilizzo di tale forma è particolarmente vantaggiosa per gli assistiti in quanto non devono anticipare l’intero onere della prestazione, ma sono tenuti a corrispondere alla Struttura la sola quota di compartecipazione a loro carico, ove prevista. Le principali prestazioni sanitarie erogate in forma diretta sono: visite specialistiche, ricoveri medici e chirurgici, analisi cliniche e accertamenti diagnostici, terapie fisiche e riabilitative, cure odontoiatriche, e prestazioni di prevenzione.

Fasdac garantisce agli assistiti, altresì, la libertà di rivolgersi a strutture sanitarie e/o professionisti di propria fiducia, anche non convenzionati col Fondo, in Italia o all’estero, tranne che per i programmi di prevenzione (non usufruibili in forma indiretta); in questo caso l’assistito corrisponderà l’intero onere della prestazione, inoltrando successivamente la richiesta di rimborso tramite l’associazione territoriale Manageritalia. Il Fondo provvederà al rimborso, nella misura stabilita dal nomenclatore tariffario.

Una peculiarità del Fondo è sicuramente quella di mettere a disposizione dei propri iscritti, che desiderano conoscere anticipatamente l’entità del rimborso per determinate prestazioni sanitarie da fruire in forma indiretta, la possibilità di avvalersi, tramite le associazioni territoriali Manageritalia, del servizio di “preventivazione dei rimborsi”, sia a carattere medico-chirurgico che odontoiatrico, al fine di evitare spiacevoli sorprese nella fase di liquidazione degli stessi. Nella forma indiretta, infatti, si rileva da sempre un’ampia variabilità di costi anche con riferimento a una medesima prestazione erogata nello stesso territorio.

Il contributo annuo a carico delle imprese, da versare trimestralmente, dovuto per ciascun dirigente in servizio iscritto, è pari a 4.561,84 euro, di cui 859,08 euro a carico del dirigente. Le aziende non iscritte alle organizzazioni datoriali firmatarie del Ccnl applicato pagano un contributo aggiuntivo di 137,82 euro ogni anno.

In merito al trattamento fiscale di contributi versati a Fasdac, essi non concorrono alla formazione del reddito dei dirigenti, mentre quelli versati direttamente dagli altri iscritti non in servizio (prosecutori volontari, pensionati, superstiti, inabili ed invalidi), essendo di natura volontaria non sono deducibili o detraibili ai fini IRPEF.

Per conoscere tutte le prestazioni sanitarie garantite dal Fondo, e ottenere qualsiasi altra informazione su di esso, è possibile consultare il portale istituzionale (www.fasdac.it).

Antonio Pastore (Previr)

L´Associazione senza fini di lucro Antonio Pastore, fondata nel 1997, è oggi un ente bilaterale costituito da Manageritalia e Confcommercio, e il suo ruolo è quello di organizzare forme di previdenza integrativa individuale e di garanzie di rischio a favore dei dirigenti a cui si applica il Ccnl del settore Terziario, Trasporti, Alberghi, Agenzie Marittime, o Magazzini Generali.

L’Associazione, a partire dal 1998, ha sottoscritto con primarie compagnie assicuratrici una serie di convenzioni, susseguitesi nel tempo, per l’erogazione di diverse prestazioni assicurative, ossia: il pagamento, al termine del periodo di contribuzione, di un capitale comprensivo dei premi versati e della rivalutazione realizzata anno per anno dalle apposite gestioni finanziarie; l’erogazione, nel caso di premorienza del dirigente, di una somma ai beneficiari per sopperire a eventuali problemi economici derivanti dall’improvvisa mancanza del reddito del dirigente; il riconoscimento di una rendita qualora l’assicurato perda definitivamente l’autosufficienza, di un indennizzo per invalidità permanente conseguente a malattia, e dell’esonero dal versamento dei premi assicurativi in caso di invalidità permanente totale, di grado pari o superiore al 66%, conseguente a malattia o infortunio.

Garanzia molto interessante è la cd. “polizza ponte”, che prevede che la società assicuratrice corrisponda, al dirigente licenziato o dimessosi per giusta causa, direttamente ai fondi Mario Negri e Mario Besusso, all’Associazione Antonio Pastore, e al Centro di formazione management del Terziario, i contributi a essi dovuti, per un periodo massimo di 12 mesi dalla data di perdita dell’impiego.

Completa l’elenco delle prestazioni assicurative la “tutela legale”, cioè una garanzia di rimborso delle spese sostenute dall’iscritto in caso di un contenzioso con terze persone, fisiche e giuridiche. La copertura vale per vertenze che possono sorgere nella vita di tutti i giorni, con esclusione di quelle legate all’attività professionale, al diritto di famiglia e alla responsabilità civile obbligatoria della circolazione.

L’importo dei contributi da versare trimestralmente all’Associazione viene calcolato prendendo a riferimento una retribuzione convenzionale annua, di ammontare diverso a seconda del settore economico di appartenenza del dirigente.

In caso di assunzione, o nomina, di un dirigente, è prevista, previo accordo col dirigente stesso, l’applicazione della contribuzione ridotta di durata massima prestabilita dal Ccnl sulla base dell’età anagrafica del dirigente e fino al compimento dei 48 anni di età. Tale agevolazione è prevista anche per l’assunzione di dirigenti privi di occupazione che abbiano compiuto 55 anni di età, ma per una durata limitata a 12 mesi.

L’intero importo del contributo pagato all’Associazione da datore di lavoro e lavoratore risulta fiscalmente imponibile. Il dirigente può usufruire della detrazione per oneri (19% su un importo massimo di euro 530,00) per la parte di premio avente per oggetto le garanzie caso morte, invalidità da malattia ed esonero pagamento premi. Limitatamente ai premi per assicurazioni aventi per oggetto il rischio di non autosufficienza nel compimento degli atti della vita quotidiana, si applicherà il massimale di euro 1.291,14, al netto dei premi aventi per oggetto il rischio di morte o di invalidità permanente.

Per ulteriori approfondimenti, è possibile consultare il portale web dell’Associazione (www.associazionepastore.it).

 

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Il dirigente: tra normativa e giurisprudenza – L’evoluzione della figura dirigenziale nel settore privato

Emilia Scalise – Consulente del lavoro in Milano

In questo numero il primo di quattro contributi, che saranno pubblicati nel corso del 2018, che trattano della figura del dirigente. Seguirà a questa prima analisi della figura dirigenziale che volge lo sguardo non solo alla nozione di dirigente ma anche all’applicazione della normativa sull’orario di lavoro e delle ferie, un percorso a tappe che toccherà i temi della retribuzione, dell’assistenza e previdenza integrative e della cessazione del rapporto di lavoro.

 

 

Lo sviluppo dell’attività d’impresa, nonché la modernizzazione dei processi aziendali, hanno nel tempo favorito l’evoluzione di un modello organizzativo basato non più su una struttura “verticalizzata”, fondata sull’accentramento decisionale in capo all’imprenditore, bensì sulla valorizzazione e sulla responsabilizzazione del manager, attraverso sempre più penetranti attribuzioni di poteri. È in questo contesto innovativo che la figura del dirigente aziendale acquisisce un ruolo centrale.

Nozione di dirigente: dalla normativa codicistica all’intervento giurisprudenziale

Ai sensi dell’art. 2095 c.c. il dirigente è una delle categorie legali, insieme all’operaio, all’impiegato e al quadro, in cui il prestatore di lavoro viene inquadrato in relazione alle mansioni a lui affidate.

In assenza di una nozione legislativa di dirigente, attualmente è la stessa contrattazione collettiva ad individuare i requisiti e le caratteristiche tipiche di questa figura. Pertanto, sulla base di una definizione uniforme e concorde presente nei principali contratti collettivi nazionali di lavoro, quali ad esempio il Ccnl del settore Terziario, Industria e Credito, il dirigente è colui che, a norma dell’art. 2094 codice civile (prestatore di lavoro subordinato), ricopre in azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale e svolge funzioni aziendali finalizzate a promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obbiettivi dell’impresa. Il dirigente, quindi, si caratterizza per il fatto di essere una figura professionale con un elevato grado di responsabilità, dotata di potere funzionale e decisionale che si manifesta attraverso la possibilità di impartire direttive a tutta l’impresa o ad una parte autonoma di essa, seppur in diretta correlazione con l’imprenditore, con il quale ovviamente rimane vincolato.

I tratti identificativi delineati dalla contrattazione collettiva, tuttavia, appaiono generici e suscettibili di differenti interpretazioni; per questo motivo la giurisprudenza è intervenuta nel merito, andando meglio a definire l’identità di questa figura.

Attraverso una classificazione di dirigente basata su un’attenta analisi dal ruolo rivestito all’interno della struttura aziendale e dalle funzioni a questi attribuite, una parte sostanziale della giurisprudenza aveva identificato la figura dirigenziale come alter ego dell’imprenditore. Questo orientamento giurisprudenziale, infatti, delimitava l’attribuzione della qualifica di dirigente, conferendola esclusivamente a coloro i quali possedevano un ruolo cosiddetto “apicale” nell’organigramma aziendale. Il dirigente “apicale” quindi, sulla base del dettato giurisprudenziale, era colui che possedeva ampissimi poteri decisionali, tali da essere considerato come vero e proprio sostituto dell’imprenditore. Al dirigente “apicale” si contrapponeva la figura del cosiddetto “pseudo dirigente” o anche detto “dirigente per convenzione”. Si trattava di un semplice impiegato, dotato di funzioni direttive e di poteri di iniziativa notevolmente ridotti, preposto a svolgere la sua attività presso un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto, sotto il controllo dell’imprenditore, al pari di un ordinario dipendente.

La giurisprudenza più recente ha tuttavia sensibilmente cambiato il proprio orientamento, alla luce delle nuove esigenze di un mondo del lavoro in rapido cambiamento, superando la precedente visione del dirigente come alter ego dell’imprenditore. La nuova impostazione, infatti, mira a considerare le mansioni effettivamente svolte da parte del prestatore di lavoro, a prescindere dal fatto che questi ricopra o meno un ruolo di vertice all’interno della realtà aziendale: “La qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, ricopra un ruolo di vertice nell’organizzazione o, comunque, occupi una posizione tale da poter influenzare l’andamento aziendale, essendo invece sufficiente che il dipendente, per l’indubbia qualificazione professionale, nonché per l’ampia responsabilità in tale ambito demandata, operi con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità, dovendosi, a tal fine, far riferimento, in considerazione della complessità della struttura dell’azienda, alla molteplicità delle dinamiche interne nonché alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale (non sempre riassumibili a priori in termini compiuti) ed alla contrattazione collettiva di settore, idonea ad esprimere la volontà delle associazioni stipulanti in relazione alla specifica esperienza nell’ambito del singolo settore produttivo” (Cfr. Cass. Civ., 24 giugno 2009, n. 14835). La figura dirigenziale, quindi, viene delineata tenendo conto dell’articolazione interna dell’azienda e della diversificazione dei ruoli; l’esigenza di un organigramma più agile, ma comunque connotato da diversi livelli di responsabilità ed autonomia, comporta l’abbandono della precedente visione monolitica del dirigente alter ego o sostituto dell’imprenditore: al top manager, quindi, si affiancano una serie di figure intermedie, dotate comunque di alta professionalità e di un discreto livello di autonomia gestionale e di responsabilità.

Responsabilità, funzioni e poteri: lo strumento del mandato

Sulla base della definizione di qualifica dirigenziale delineata sia dalla contrattazione collettiva che dai giudici di legittimità, appare evidente e condivisibile che il dirigente non è un semplice lavoratore subordinato, ma si tratta di una figura professionale che svolge determinate attività gestorie in posizione di collaborazione del tutto particolare, la cui ampia autonomia qualificata può costituire oggetto sia di rapporto di lavoro economicamente subordinato, sia di altri rapporti tipici come ad esempio quello del mandato ai sensi dell’art. 2086 c.c.. Il conferimento del mandato e dell’eventuale procura rappresentativa da parte degli amministratori costituisce un particolare arricchimento di compiti, poteri e responsabilità.

Nell’attuale sistema legislativo, infatti, appare frequente che alcune disposizioni normative attribuiscano deleghe e mandati ad esponenti aziendali qualificati non solo come datore di lavoro, preposto o “titolare responsabile di impresa”, ma anche come dirigente, in relazione alla rilevanza sociale e collettiva degli interessi tutelati dalla normativa stessa. Un caso tipico di delega di funzioni nei confronti della figura dirigenziale è ravvisabile negli obblighi nascenti dalla normativa in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro. Anzitutto il D.lgs. n. 81/2008 all’art. 2 definisce il dirigente come “la persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa”. L’art. 6 del Testo Unico, successivamente, definisce i limiti e le condizioni a cui deve sottostare la delega di funzioni da parte del datore di lavoro: in primis la delega deve risultare da atto scritto recante data certa e l’accettazione del delegato; il delegato deve possedere tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; la delega deve attribuire tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate nonché l’autonomia di spesa per lo svolgimento di tali funzioni. Non sono, invece, delegabili ai sensi dell’art. 17, una serie di attività, quali ad esempio la valutazione di tutti i rischi nonché la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, mentre è stato confermato il cosiddetto principio di “scalettamento” degli obblighi di sicurezza e di salute, in base al quale l’estensione dell’area di esposizione alla responsabilità va correlata, per i dirigenti prevenzionistici, al complesso delle attribuzioni e competenze ad essi conferite. L’art. 18, infine, elenca tutti gli obblighi gravanti sul datore di lavoro e sul dirigente che organizzano e dirigono le attività secondo le attribuzioni e le competenze ad essi conferite.

Un altro esempio di delega di funzioni si riscontra nel codice in materia di trattamento dei dati personali (D.lgs. n. 196/2003). In relazione all’attuazione degli scopi di tutela del trattamento dei dati personali, la legge infatti individua due importanti figure: il titolare, cioè la persona fisica o la persona giuridica cui competono le decisioni e gli obblighi in ordine alle finalità ed alle modalità del trattamento dei dati personali, e il responsabile cioè la persona fisica o giuridica preposti dal titolare al trattamento dei dati personali. In particolare, si prevede che il responsabile debba essere nominato tra i soggetti che per esperienza, capacità ed affidabilità forniscano idonea garanzia del pieno rispetto delle vigenti disposizioni in materia di trattamento, ivi compreso il profilo della sicurezza (art. 29). Il responsabile procede al trattamento attenendosi alle istruzioni impartite dal titolare il quale, anche tramite verifiche periodiche, vigila sulla puntuale osservanza delle disposizioni e delle proprie istruzioni. I compiti affidati al responsabile devono essere analiticamente specificati per iscritto.

L’amministratore dirigente”: possibile subordinazione?

Il dirigente oggi riveste un ruolo di spicco nella realtà aziendale, avendo acquisito sempre più poteri e posizioni rilevanti, per usare un paradigma, non solo nella classe proletaria della struttura societaria, nella quale sono collocati i lavoratori dipendenti, ma anche nella classe borghese e altolocata, rappresentata in senso lato dal consiglio di amministrazione. Sono, infatti, sempre più numerose le società che annoverano propri dipendenti tra i membri degli organi amministrativi. Si pensi ad esempio ad una SpA di medie dimensioni che ha, quale direttore amministrativo, un dirigente da diversi anni in azienda che gode della fiducia degli azionisti. Oppure altro caso assai frequente, soprattutto nelle multinazionali, è quello della società figlia italiana facente parte di un gruppo internazionale ove il country manager viene nominato amministratore unico della stessa, con tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione nei verbali di nomina, ma vincoli all’esercizio di tali poteri derivanti dalle policy di gruppo. Questo coinvolgimento diretto del personale dirigenziale pone dubbi e criticità sulla sussistenza effettiva del vincolo di subordinazione. Sul tema numerose sono state le pronunce giurisprudenziali, legate tutte ad un filo conduttore: non vi è l’esistenza del vincolo di subordinazione nel caso in cui un dirigente non risponda al consiglio di amministrazione nell’esecuzione della sua attività. Gli Ermellini, con la sentenza n. 22611/2013 hanno infatti precisato che l’esistenza del vincolo di subordinazione presuppone l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro con conseguente limitazione dell’autonomia del soggetto, che non sono provate dal lavoratore. Altri elementi, come la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario di lavoro e la retribuzione, nel caso in esame sono considerati elementi sussidiari e non decisivi per la valutazione.

La gestione del rapporto di lavoro dirigenziale: il legame con gli istituti normativi e contrattuali

Il dirigente, quindi, oggi appare come una figura professionale titolare di una serie di peculiari situazioni attive e passive, che rendono la sua posizione sempre più vicina all’impresa, alla quale è legato da un forte vincolo fiduciario. Nel rapporto di lavoro dirigenziale, diversamente dall’ordinario rapporto di lavoro subordinato, la rilevanza della fiducia si amplia a tal punto da consentire la valutazione dell’adempimento dell’obbligazione di lavorare anche in termini di raggiungimento del risultato gestionale. Proprio per il fatto che il legame tra dirigente e imprenditore sia caratterizzato da un elevato grado di fiduciarietà, che il rapporto di lavoro dirigenziale è regolato da una disciplina definibile “particolare”, per alcuni aspetti differente rispetto a quella applicata alle altre categorie di lavoratori subordinati. Infatti, molte disposizioni che prevedono tutele e garanzia in favore del lavoratore non si applicano ai dirigenti, tra cui ad esempio la disciplina del licenziamento (art. 10, L. n. 604/1966 e art. 1, D.lgs. n. 23/2015) e la normativa sull’orario di lavoro (D.lgs. n. 66/2003).

L’orario di lavoro

Quando il soggetto interessato è proprio il dirigente, la normativa sull’orario di lavoro incontra rilevanti difficoltà, non soltanto dal punto di vista interpretativo, ma anche sul piano pratico – applicativo.

Anzitutto occorre sottolineare che le disposizioni di legge in materia di orario di lavoro si applicano ai dirigenti solo con riferimento alle previsioni in materia di riposo settimanale, ferie e limitazioni dell’orario notturno; il D.lgs. n. 66/2003, all’art. 17 co. 5, prevede infatti che, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, le disposizioni in materia di orario normale di lavoro, durata massima della prestazione lavorativa, lavoro straordinario e del riposo giornaliero non si applicano ai dirigenti, al personale direttivo delle aziende o ad altre persone aventi potere di decisione autonomo. La delimitazione applicativa trova fondamento nelle caratteristiche peculiari dell’attività esercitata da tali figure: la loro prestazione lavorativa infatti non può essere misurata o predeterminata. Sulla base del tenore normativo, il dirigente quindi, può avvicendare in maniera autonoma lavoro e riposo, a condizione che venga rispettato l’obbligo di lavoro quotidiano. Di conseguenza, se il dirigente presta la propria attività lavorativa oltre l’orario normale di lavoro, non ha diritto ad alcun compenso per il lavoro straordinario, essendo la stessa retribuzione determinata in relazione alla qualità del lavoro effettuato e non alla quantità della prestazione resa.

Sul fronte della legittimità, questa differenza di trattamento del personale direttivo rispetto alle qualifiche di impiegato e operaio, a primo acchito, potrebbe apparire giustificata, a fronte del particolare ruolo rivestito dal dirigente nella realtà aziendale, ma è proprio il concetto di “rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori”, contenuto nello stesso art. 17, e di recupero dell’integrità psico-fisica dei dipendenti garantita dalla Costituzione che determinano la necessità di introdurre qualche limite all’ampia discrezionalità attribuita dal Legislatore. È in questo contesto che l’intervento giurisprudenziale ha avuto un ruolo decisivo; i giudici di legittimità, a partire proprio da quelli costituzionali (Corte Cost. n. 101/1975), hanno ritenuto opportuno individuare un “limite quantitativo globale” a tutela della salute e dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori, in relazione alle obiettive esigenze e caratteristiche dell’attività lavorativa richiesta, come strumento di valutazione della ragionevolezza della prestazione effettivamente pretesa. Il limite della ragionevolezza è affidato all’apprezzamento del giudice di merito; tuttavia, si deve rilevare che la giurisprudenza ha provato ad offrire una declinazione secondo tratti e caratteristiche distintivi, anche oggettivamente predeterminabili: è così che finisce innanzitutto per risultare in contrasto con il limite di ragionevolezza un orario del personale direttivo che risulti sensibilmente superiore a quello osservato dagli altri dipendenti (Cass., n. 11616/1999).

Superata la soglia oltre il quale l’ulteriore estensione della prestazione lavorativa non è più ragionevole, il giudice di legittimità potrebbe predicare l’insufficienza della relativa controprestazione retributiva, facendo sorgere quindi il diritto ad una adeguata remunerazione per il lavoro straordinario prestato. Secondo i giudici di legittimità, il compenso per lavoro straordinario dovrà essere riconosciuto quando le prestazioni aggiuntive richieste non rientrino nell’ambito dell’attività specifica del settore aziendale cui il dipendente è preposto (Cassa., n. 16041/2008). Il compenso per lavoro straordinario spetta inoltre quando vengono richieste prestazioni prolungate con carattere di continuità, oltre un certo limite, da fissarsi in rapporto alla necessaria tutela della salute e dell’integrità psico-fisica garantita costituzionalmente a tutti i lavoratori. Infine, il compenso per lavoro straordinario è altresì riconosciuto nel caso in cui la disciplina collettiva delimiti anche per esso l’orario normale di lavoro e tale orario venga in concreto superato (Cass., n. 12687/2016).

Sul fronte della contrattazione collettiva, il Ccnl Dirigenti Terziario ad esempio ha cercato di delimitare l’orario di lavoro dei dirigenti correlandolo, in linea di massima, all’orario dell’unità operativa in cui il dirigente è addetto, specie per quanto riguarda il riposo settimanale nel quadro delle leggi vigenti. Il suddetto Ccnl prevede inoltre una clausola generale, secondo cui “Per tutto ciò che non è diversamente regolato dal presente contratto valgono le norme contrattuali collettive in vigore per i quadri dipendenti dall’azienda per la quale il dirigente presta la propria attività”.

La fruizione delle ferie annuali

Altresì problematica è la questione relativa alla fruizione delle ferie, in virtù di un principio costituzionale e comunitario che sancisce l’irrinunciabilità del riposo annuale. Nello specifico, l’art. 36 della Costituzione e l’art. 7 della Direttiva 2003/388/CE stabiliscono che le ferie, oltre ad essere irrinunciabili, non possono essere monetizzate, se non alla fine del rapporto di lavoro. Vige quindi il cosiddetto divieto di monetizzazione delle ferie, volto a garantire l’effettivo godimento del riposo annuale ed il recupero dell’integrità psico-fisica dei lavoratori.

Il divieto di monetizzazione tuttavia ha un’eccezione: non trova applicazione per le ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della risoluzione del rapporto di lavoro. Alla cessazione del rapporto di lavoro, quindi, sono monetizzabili le ferie non godute nell’arco dell’anno corrente, mentre le ferie maturate negli anni precedenti e non godute non sono in alcun modo indennizzabili: è infatti dovere del datore di lavoro assicurare l’effettiva fruizione del riposo annuale, anche nel rispetto dell’obbligo di tutelare la salute del lavoratore, previsto dall’art. 2087 c.c..

Il divieto di monetizzazione delle ferie non si traduce in assenza di tutela per il lavoratore al quale il godimento delle ferie non sia stato garantito; egli, infatti, può invocare la tutela civilistica e far valere l’inadempimento del datore di lavoro che, impedendogli il riposo, abbia violato le norme inderogabili. Il mancato godimento delle ferie per essere indennizzabile e risarcibile deve derivare da una causa direttamente imputabile al datore di lavoro.

Nei rapporti di lavoro col dirigente, tuttavia, la responsabilità del datore di lavoro risulta attenuata: poiché il dirigente ricopre una posizione apicale in azienda, egli ha il potere di attribuirsi le ferie in piena autonomia, senza alcun condizionamento da parte del datore di lavoro. Ciò crea non poche difficoltà applicative in merito all’eccezione al divieto di monetizzazione. Su questo punto la giurisprudenza si è espressa in maniera del tutto concorde: “Al dirigente l’indennità sostitutiva può essere liquidata solo in presenza di oggettive ed eccezionali esigenze aziendali ostative alla fruizione” e poi ancora “Il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 7, comma 2, della Dir. 93/104/CE – poi confluita nella Dir. 2003/88/CE – e ripreso dall’art. 10, comma 2, del D.lgs. n. 66 del 2003, è finalizzato a garantirne il godimento effettivo che sarebbe vanificato qualora se ne consentisse la sostituzione con un’indennità, la cui erogazione non può essere ritenuta equivalente rispetto alla necessaria tutela della sicurezza e della salute. Da ciò discende che l’eccezione al principio – prevista nella seconda parte delle predette disposizioni, concernente la inapplicabilità del predetto divieto in caso di risoluzione del rapporto di lavoro – opera nei soli limiti delle ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della risoluzione in questione, e non consente la monetizzazione di quelle riferibili agli anni antecedenti. Ciò, peraltro, non esclude che il lavoratore, sia in corso di rapporto che al momento della sua risoluzione, possa invocare la tutela civilistica e far valere l’inadempimento del datore di lavoro che abbia violato le norme inderogabili sopra richiamate, a condizione però che il mancato godimento delle ferie sia derivato da causa imputabile al datore di lavoro. (Nella specie, il dirigente, per la posizione apicale ricoperta nell’azienda, pur avendo il potere di attribuirsi le ferie in piena autonomia, senza condizionamento alcuno da parte del titolare dell’impresa, non lo ha esercitato, così escludendo la configurabilità di un inadempimento colpevole del datore, né ha dimostrato la ricorrenza di condizioni imprevedibili ed eccezionali che ne hanno impedito il godimento)” (Cass., 10 ottobre 2017, n. 23697).

Qualora, quindi, il dirigente non abbia esercitato il potere e il diritto di determinare l’incidenza delle proprie ferie e di goderne, non può rivolgere rivendicazioni al datore di lavoro; la mancata fruizione delle ferie è riconducibile ad un’autonoma scelta del dirigente, che esclude la configurabilità di un inadempimento colpevole del datore di lavoro. In caso di contestazione circa la mancata fruizione delle ferie da parte del dirigente, il datore di lavoro dovrà provare come il dirigente abbia potuto autonomamente scegliere tempi e modi di godimento delle ferie, mentre il dirigente avrà l’onere di provare che il mancato riposo sia riconducibile a necessità aziendali eccezionali ed obiettive: “Il potere – in capo al dirigente – di scegliere da se stesso tempi e modi di godimento delle ferie costituisce eccezione da sollevarsi e provarsi a cura del datore di lavoro, mentre l’esistenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive, ostative alla fruizione di tali ferie, integra controeccezione da proporsi e dimostrarsi a cura del dirigente.” (Cass., 14 marzo 2016 n. 4920; Cass., 10 ottobre 2017 n. 23697).

Il divieto di monetizzazione delle ferie annuali viene ripreso anche dalla contrattazione collettiva, anche se in maniera attenuata rispetto quanto sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità. Nello specifico i principali Ccnl, quali ad esempio quello del settore Terziario e Industria, precisano che, salvo il principio di irrinunciabilità delle ferie, è possibile corrispondere la rispettiva indennità per ferie non godute solo per la frazione eccedente il periodo delle quattro settimane previste dall’art. 10 del D.lgs. n. 66/20003.

Il dirigente e il contratto a tempo parziale

La figura dirigenziale trova difficoltà applicative non solo con rifermento ad alcuni istituti disciplinanti il rapporto di lavoro, bensì anche con riferimento ad alcune tipologie contrattuali, quali ad esempio il contratto a tempo parziale. La normativa al riguardo non pone alcun limite applicativo circa l’utilizzo di questa tipologia contrattuale, tuttavia in relazione al ruolo e ai compiti affidati al dirigente, nonché alle disposizioni derogatorie in materia di orario di lavoro, vi sono non poche criticità circa l’applicazione della disposizione legislativa prevista all’art. 5 co. 2 del D.lgs. n. 81/2015, secondo cui “Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno”. Posto che la legge non prevede limitazioni dell’orario di lavoro per la figura dirigenziale e che il contratto di lavoro part time si caratterizza per la necessità di prevedere un limite quantitativo di orario per evitare un esercizio abusivo e contorto di tale istituto da parte del datore di lavoro, la giurisprudenza ha affermato che il contratto di lavoro subordinato a tempo parziale, per lo svolgimento di mansioni di livello dirigenziale, è rispettoso del disposto della normativa vigente laddove si limita ad indicare solamente il limite quantitativo della prestazione lavorativa, rimettendone all’autonomia del dipendente la distribuzione dell’orario.

Considerazioni conclusive

Attraverso questo breve excursus sull’evoluzione della figura dirigenziale nel settore privato, dalle origini ad oggi, emerge quindi ancora la necessità di individuare disposizioni applicative pratiche e concrete su cui andare a valorizzare e tutelare maggiormente il personale direttivo; non solo, sarebbe opportuno introdurre strumenti che facilitino anche l’imprenditore nella gestione dello stesso rapporto di lavoro, caratterizzato da un forte legame di collaborazione ed intesa tra le parti.

 

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