LAVORATORI NO-VAX E SOSPENSIONE DAL SERVIZIO: in caso di dimissioni, il preavviso è dovuto

In margine a Tribunale di Pesaro, Sezione Lavoro 28 giugno 2023 

 

Nicola Spadafora e Lorenzo Maratea, Avvocati in Milano 

 

La Sezione Lavoro del Tribunale di Pesaro si è pronunciata sul caso di una lavoratrice (attiva in ambito sanitario) che, subito dopo essere stata sospesa dal servizio in applicazione delle norme poste dal Decreto legge 1° aprile 2021, n. 44, ha rassegnato, senza preavviso, le sue dimissioni dal rapporto, vedendosi applicare, da parte del datore di lavoro, la conseguente trattenuta del valore dell’indennità sostitutiva del preavviso dalle competenze di fine rapporto. Il Tribunale marchigiano ha disatteso la domanda della lavoratrice chiarendo che l’obbligo di preavviso, in caso di dimissioni, ha valenza generale e che il ricorrere della giusta causa costituisce l’unica effettiva ipotesi in deroga (art. 2119 c.c.).

Del resto, il chiaro disposto codicistico non ha mai dato luogo a particolari dubbi interpretativi: la costante giurisprudenza afferma che il preavviso costituisce una “condizione di liceità del negozio unilaterale di recesso dal contratto di lavoro, nel senso che esso è legittimamente esercitato solo con l’adempimento del dovere di preavviso”, la cui inottemperanza comporta l’obbligo per il recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva (si v., ex multis, Cass., 6 agosto 1987, n. 6769, RIDL, 1988, II, 276; Cass., 9 giugno 1981, n. 3741, MGL, 1982, 214; P. Milano 18 marzo 1988, RIDL, 1988, II, 994). Anzi, è solo la parte non recedente che è titolare del diritto di rinunciare al preavviso, essendo tale istituto posto nel suo esclusivo interesse.

Su queste solide basi si innesta la pronuncia in commento che ha quale elemento di sicuro interesse quello di concentrarsi su una fattispecie regolata da una norma recente e che ha tanto fatto discutere non solo gli “addetti ai lavori”, ossia la sopra richiamata normativa emergenziale posta dal Decreto legge n. 44/2021.

Secondo il Giudice del Lavoro, la giusta causa di dimissioni (unico caso di esonero possibile dall’obbligo del preavviso) si realizza solo quando l’evento in grado di rendere impossibile la prosecuzione del rapporto non dipenda in alcun modo dal soggetto dimissionario, cosa che, al contrario, secondo il Tribunale, ha obiettivamente caratterizzato il caso oggetto del giudizio; per questa ragione, appaiono molto interessanti i passaggi in cui il Tribunale, accogliendo le tesi della parte datoriale, ha dato peso alla riferibilità alla persona della lavoratrice del fatto generatore della sospensione del rapporto di lavoro e, quindi, il rifiuto da parte di quest’ultima ad adempiere all’obbligo vaccinale (art. 4 bis, Decreto legge n. 44/2021): ci , peraltro, al fine di rigettare la ricostruzione da parte della lavoratrice di una sorta di impossibilità sopravvenuta della prestazione. A tale proposito, risultano particolarmente suggestivi i passaggi in cui il Tribunale ha valorizzato il campo delle norme sulla risoluzione per impossibilità sopravvenuta: quella dedotta dalla lavoratrice non poteva rappresentare una causa di impossibilità sopravvenuta in quanto il codice civile esclude tutti i casi in cui tale impossibilità sia volontariamente procurata dalla parte interessata alla risoluzione del contratto: la volontà di non vaccinarsi (peraltro ampiamente osteggiata dal Legislatore) va collocata nel solco di tali casi.

Vi è, poi, un ulteriore profilo ed è quello che riguarda la tenuta dell’obbligo di preavviso nel caso in cui le dimissioni si abbiano in una fase di sospensione del rapporto; ebbene, nel caso deciso dal Tribunale di Pesaro, non solo è stata pienamente confermata la ratio del preavviso di dimissioni, ossia quella di tutelare l’esigenza organizzativa del datore che deve potere disporre di un periodo di tempo per operare la sostituzione del dipendente dimissionario, ma tale esigenza è stata ritenuta pienamente valida anche in costanza di una causa sospensiva: quella appunto derivante dal rifiuto di adempiere all’obbligo vaccinale. Anche questa affermazione del Tribunale marchigiano si fonda su basi granitiche: se il recesso del dipendente interviene in una fase di sospensione del rapporto di lavoro (e.g., malattia, cassa integrazione guadagni (cig)), anche in tali ipotesi, il Legislatore protegge l’interesse del datore a disporre di un periodo di tempo utile per riorganizzare la struttura. L’obbligatorietà del preavviso, anche in costanza di una causa sospensiva del rapporto, ha, del resto, una logica (non solo giuridica) solidissima.

In primo luogo, vale notare che sostenere il contrario avrebbe esiti aberranti; pensiamo al caso di sospensione per eccellenza: la malattia. Per i lavoratori subordinati sarebbe sufficiente collocarsi in malattia per potere utilmente rassegnare dimissioni senza preavviso. L’esito sarebbe chiaramente assurdo e si tradurrebbe nella agevole elusione della norma che (fatta salva la giusta causa) prevede sempre e comunque il preavviso. Vi è altresì un altro tema: talune ipotesi di sospensione non sono prive di effetti per il datore in quanto (per esempio) implicano l’obbligo di conservazione del posto di lavoro. Sarebbe assurdo se il Legislatore – a fronte di un obbligo così penetrante a carico del datore (irrecedibilità dal rapporto e impegno alla conservazione del posto in costanza della causa sospensiva) – lo “ripagasse” con la assurda libertà del lavoratore di recedere senza preavviso alcuno (pur in assenza di giusta causa). Sarebbe assurdo perché penalizzerebbe oltremodo il datore rispetto a una dimensione (quella organizzativa) che – dal punto di vista datoriale – è cruciale. Ebbene, il preavviso assolve la funzione di cautelare il datore contro il rischio di trovarsi “spiazzato” rispetto alla decisione del lavoratore di trasformare una situazione di astensione reversibile (tale è la malattia, la cig e la fattispecie esaminata dal Tribunale di Pesaro) in una, al contrario, irreversibile (le dimissioni quale causa di cessazione definitiva del rapporto).

Molto indicative parimenti le pronunce che hanno riguardato il caso delle dimissioni del lavoratore in cig; su tutte una della Corte di Cassazione (Cass., 9 aprile 1993, n. 4306): “anche il lavoratore dimissionario in pendenza di c.i.g. è tenuto a dare il preavviso, dato che, rimanendo il rapporto di lavoro sospeso di giorno in giorno ed essendo incerto il termine di prevedibile durata della c.i.g., il datore di lavoro ha interesse ad essere preavvisato del venir meno della disponibilità di un lavoratore, tanto più ove, come nella specie, questi svolga mansioni di una certa importanza e delicatezza”.

Concludendo, quindi, la sentenza del Tribunale di Pesaro ha un impianto solido e, senza dubbio, condivisibile.

In sostanza, essa afferma che, quale che sia l’effetto della sospensione sul reddito del lavoratore (come noto, i dipendenti sospesi per inottemperanza all’obbligo vaccinale non solo non hanno goduto di trattamento stipendiale ma non hanno neppure ricevuto copertura previdenziale), è dato rilevare la vigenza dell’obbligo di preavviso. Non essendo ipotizzabile che la mera sospensione del rapporto dia luogo a giusta causa di dimissioni, la lavoratrice coinvolta nel giudizio in commento avrebbe dovuto osservare il preavviso; non facendolo, e’ stata ritenuta legittima la trattenuta operata dal datore

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Una proposta al mese – VORREI… NON VORREI… ma se vuoi…

di Manuela Baltolu – Consulente del lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Il disegno di legge in materia di lavoro approvato dal Consiglio dei Ministri del 1° maggio 2023, introduce una norma a tutela delle aziende in tutti quei casi dove i lavoratori, strategicamente, “spariscono” fisicamente dal posto di lavoro e diventano irreperibili ad oltranza. In tali situazioni, altro non può fare il datore di lavoro se non procedere a contestare l’assenza ingiustificata, secondo quanto stabilito dall’art.7 della L. n. 300/1970, attendere eventuali giustificazioni, per poi procedere, entro i termini stabiliti dalla norma o dal Ccnl al licenziamento per giusta causa, da cui scaturisce l’obbligo del pagamento del ticket Naspi che, ricordiamo, per il 2023 è pari a € 603,19 annuali e € 1.809,57 come importo massimo per 3 anni di anzianità.

In seguito a ciò, oltre al disagio creato in azienda, il “furbetto” percepisce beatamente anche la Naspi fino ad un massimo di 24 mesi. L’alternativa a quanto sopra descritto è perseverare in una molteplicità di contestazioni in cui si esorta il lavoratore a rassegnare le proprie dimissioni volontarie, poiché la volontà di interrompere il rapporto è abbastanza chiara, e a comunicarlo secondo quanto stabilito dall’articolo 26 del decreto legislativo n. 151/2015; seppure raramente, a volte il lavoratore desiste dal suo atteggiamento da “desaparecidos” manifestando la volontà di rescindere unilateralmente il rapporto ma, purtroppo, nella maggior parte dei casi ciò non accade. In tutte le situazioni in cui il lavoratore “cede”, ovviamente l’azienda non è tenuta al pagamento del ticket ed egli non percepisce la Naspi.

A tal proposito si era espresso il Tribunale di Udine, con la sentenza n. 20 del 27 maggio 2022, affermando che

“le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015”.

Il Giudice prosegue analizzando il contenuto della Legge delega del D.lgs. n. 151/2015, ovvero la L. n. 183/2014, che prevedeva “… modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore”.

Tale ultimo assunto risulta inattuato nel D. lgs. n. 151/2015, ma comunque, afferma il Giudice, pienamente valido: “Si deve ritenere, di contro, che non sia affatto riconducibile all’ambito applicativo dell’esaminato art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata, come accaduto nella vicenda al vaglio, in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti -anche omissivi- idonei ad assicurare un’agevole verifica della sua genuinità”. La sentenza afferma inoltre che, poiché in caso di inerzia del lavoratore nel rassegnare formali dimissioni già fattualmente intervenute, è possibile pervenire alla risoluzione del rapporto di lavoro solo attraverso il licenziamento per giusta causa, si pone il dubbio sulla compatibilità costituzionale con gli articoli 41 e 38 Cost.. Nello specifico, si paventa violazione dell’art. 41 Cost. per la limitazione dell’autonomia imprenditoriale, causata dall’imposizione in capo al datore di lavoro di farsi carico dei rischi relativi ad un eventuale giudizio e del costo del ticket Naspi, nonché di procedere con l’atto del licenziamento disciplinare che il datore medesimo non avrebbe assunto a fronte del comportamento del lavoratore rimasto a lungo assente senza giustificazione. Relativamente all’art. 38 Cost., si evidenzia l’ingiusta sottrazione di risorse (Naspi) destinate ai lavoratori che si siano trovati in stato di disoccupazione involontaria, “giacché, proprio attraverso un licenziamento strumentalmente sollecitato e, di fatto, indebitamente imposto al datore, si darebbe luogo, a favore del licenziato, ad un esborso di provvidenze pubbliche per la tutela di un fittizio stato di disoccupazione, in realtà costituente l’esito di una scelta libera ed in alcun modo involontariamente subita dall’ex dipendente”.

Orbene, perfettamente in linea con la pronuncia giurisprudenziale citata, l’art. 26 della citata bozza del D.D.L. lavoro, titolato “Modifiche in materia di dimissioni”, inserisce il nuovo comma 7-bis all’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015, in cui si afferma: “In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo”. FINALMENTE! Verrebbe da dire, anche perché, purtroppo, abbiamo assistito negli anni a comunicazioni di dimissioni volontarie verbali dei lavoratori che poi, improvvisamente, magari dopo adeguata analisi, si sono magicamente trasformate in assenze strategiche volte a produrre quanto sopra descritto. Assolutamente encomiabile l’iniziativa, che reca però qualche criticità di gestione.

In primo luogo, i rumors comparsi all’indomani della bozza approvata paventavano già strategie risolutive per i lavoratori e, poiché siamo la patria del “trovata la legge, fatto l’inganno”, uno dei possibili escamotage è quello di assentarsi per un numero di giorni inferiore a quello stabilito dalla norma o dal Ccnl, rientrare successivamente al lavoro, per poi riassentarsi e così via, costringendo di fatto il datore di lavoro ad attivare la procedura disciplinare L. n. 300/70. Sarebbe quindi opportuno identificare un lasso di tempo determinato entro cui valutare le assenze, che dovrebbero essere considerate utili allo scopo anche qualora non siano continuative, per evitare che i lavoratori disonesti ne possano approfittare.

Inoltre, l’assenza ingiustificata non ha una definizione giuridica propria, ma viene definita tale in virtù del procedimento disciplinare, che ha però come conclusione il licenziamento, così come stabilito negli stessi Ccnl. Nasce quindi la problematica di istituire una nuova procedura pseudo-disciplinare che si concluda con la definizione delle dimissioni per factia concludentia o, in alternativa, e senza dubbio molto più semplice e snello, si potrebbe stabilire che in caso di licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata non trova applicazione l’obbligo di pagamento del ticket Naspi e, di conseguenza, non sorgerà in capo al lavoratore il diritto alla prestazione. L’occasione della discussione di questa novità inserita nella bozza del D.D.L. potrebbe essere propedeutica alla valutazione di qualche modifica relativa alla gestione delle dimissioni del lavoratore.

Sarebbe opportuno pensare di eliminare la possibilità attualmente prevista di revocare le dimissioni on-line entro 7 giorni dall’invio telematico (c.2, art. 26, D.lgs. n. 151/2015), anche per evitare situazioni pregiudizievoli qualora il datore di lavoro avesse, nel frattempo,  già provveduto ad assumere un nuovo lavoratore al posto del dimissionario. Per quanto riguarda i genitori dimissionari, appare priva di utilità la convalida obbligatoria delle dimissioni oltre il primo anno ed entro il terzo anno di età o di ingresso in famiglia del figlio mentre, al contrario, è pienamente condivisibile l’obbligo entro il periodo in cui vige il divieto di licenziamento.

Inoltre, ferma restando la legittimità dell’ulteriore tutela relativa alla percezione della Naspi in caso di dimissioni entro il primo anno del figlio, così come l’esonero dall’obbligo del preavviso, non appare altrettanto equo l’obbligo in capo all’azienda di erogare l’indennità di mancato preavviso al lavoratore, che comunque ha scelto unilateralmente di interrompere il rapporto di lavoro, quantomeno nella formula attuale in cui la relativa somma resta totalmente in capo al datore di lavoro, così come il pagamento del ticket Naspi che sarebbe opportuno porre a carico dello Stato, costituendo una specifica tutela alla genitorialità. Relativamente alle tutele derivanti dal congedo di paternità, sia obbligatorio che alternativo, qualora il padre lavoratore non abbia reso noto al datore di lavoro l’avvenimento della paternità e decidesse poi di dimettersi entro l’anno del figlio, senza convalidare le proprie dimissioni, laddove il lavoratore pretendesse successivamente il reintegro per inefficacia delle dimissioni non convalidate, si dovrebbe prevedere una qualche tutela della buona fede del datore di lavoro che, di fatto, è stato tenuto totalmente allo scuro della situazione, e quindi non in grado di valutare l’obbligo di convalida delle dimissioni rassegnate nel periodo “protetto”.

Confidiamo che i lavori di consolidamento del disegno di legge siano forieri di utili semplificazioni.

 

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Comunicazione telematica di dimissioni versus comunicazione ordinaria: quando decorre il preavviso?

di Alberto Borella – Consulente del Lavoro in Chiavenna

 

Anche Facebook e i gruppi di discussione che vengono creati al suo interno possono essere fonte di ispirazione per i nostri articoli. Una problematica ricorrente, che riguarda la gestione del preavviso in funzione della comunicazione telematica di dimissioni, diventa così il pretesto per chiarire modalità e particolarità dell’istituto.

La diatriba da cui vogliamo partire riguarda il caso di un’eventuale preventiva comunicazione predisposta dal lavoratore ai soli fini della decorrenza del preavviso, posticipando ad altro momento l’invio della comunicazione telematica delle dimissioni. A questa manifestazione di volontà può essere riconosciuta la caratteristica di atto unilaterale ricettizio oppure i suoi effetti dipendono da un accordo con il datore di lavoro?

Le dimissioni telematiche 

La risposta alla domanda non può che partire dall’analisi della disciplina delle “Dimissioni volontarie e risoluzione consensuale” prevista dall’art. 26, co. 1, del D.lgs. n. 151/2015 (c.d. Decreto Semplificazioni) che così dispone:

Al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 55, comma 4, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali attraverso il sito www.lavoro.gov.it e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente con le modalità individuate con il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di cui al comma 3.

La volontà del legislatore appare chiara in quanto la procedura di dimissioni e di risoluzione consensuale assurge a forma tipica, che quindi non può essere derogata da altre e diverse modalità comunicative fino ad oggi utilizzate.

In parole povere il lavoratore, a differenza di quanto previsto dal sistema della “convalida” contenuto nella c.d. Riforma Fornero (che prevedeva la presentazione delle dimissioni in modalità cartacea procedendo successivamente alla loro ratifica), dovrà utilizzare questa specifica procedura comunicativa, per la quale dovrà seguire necessariamente il canale telematico, essendo l’unica modalità ammessa pena l’inefficacia delle dimissioni stesse.

L’accesso alla predetta procedura quale modalità legale di esternazione della volontà è confermata chiaramente anche nelle FAQ ministeriali:

20. Il modulo telematico ha la funzione di convalidare delle dimissioni già presentate con altra forma o quella di comunicare la volontà di dimettersi?

Il modello telematico non ha la funzione di convalidare dimissioni rese in altra forma bensì introduce la “forma tipica” delle stesse che per essere efficaci devono essere presentate secondo le modalità introdotte dall’articolo 26 del Decreto Legislativo n. 151/2015.

In questo contesto come vedremo si inserisce la problematica in argomento ovvero in quali termini un’eventuale comunicazione del lavoratore della volontà di dimettersi – in modalità cartacea e preventiva rispetto quella telematica – esplichi i suoi effetti sugli obblighi di preavviso.

La tesi della autonoma rilevanza del preavviso

La tesi da cui prende spunto la nostra disamina è quella che considera la nuova normativa riguardante esclusivamente la modalità legali di formalizzazione della decisione di porre fine al rapporto di lavoro. Rimarrebbero invece in vigore gli effetti ricettizi di una diversa comunicazione relativa il rispetto del preavviso previsto contrattualmente il quale, quindi, inizierebbe a decorrere immediatamente a prescindere dall’aver seguito o meno la nuova procedura telematica. Seguendo questa impostazione il datore di lavoro si vedrebbe costretto, in funzione della mera intenzione del lavoratore di comunicare (in un prossimo futuro) le proprie dimissioni nelle forme di legge, a considerare da subito decorrenti gli effetti del preavviso, senza nulla poter eccepire in merito.

Una tesi che taluni vedrebbero confermata dalla stessa prassi che, ritengono, avrebbe riconosciuto come la data di cessazione indicata sul modulo telematico sia aspetto irrilevante e secondario (ma vedremo che non è vero) sulla scorta della facoltà riconosciuta alle parti di rettificare tale termine senza che sia necessario provvedere all’invio di ulteriore comunicazione telematica1.

Al contrario è proprio nelle FAQ – strumento che in verità chi scrive non ama particolarmente – che si ritiene venire smentita la tesi sopra riportata.

22. Nell’ipotesi in cui il lavoratore e il datore di lavoro si accordino per modificare il periodo di preavviso, spostando quindi la data di decorrenza indicata nel modello telematico, come si può comunicare la nuova data se sono trascorsi i 7 giorni utili per revocare le dimissioni e variare la data di cessazione?

Come indicato nella circolare n. 12/2016, la procedura online non incide sulle disposizioni relative al preavviso lasciando quindi alle parti la libertà di raggiungere degli accordi modificativi che spostino la data di decorrenza delle dimissioni o della risoluzione consensuale. Sarà cura del datore di lavoro indicare l’effettiva data di cessazione nel momento di invio della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro, senza che il lavoratore revochi le dimissioni trasmesse telematicamente.

La possibilità di un accordo sul periodo di preavviso non significa che lo stesso non sia “gestito” dalla comunicazione telematica; anzi è proprio la prevista “libertà di raggiungere degli accordi modificativi che spostino la data di decorrenza delle dimissioni o della risoluzione consensuale” a presupporre che la comunicazione telematica contenga implicitamente le decisioni del lavoratore in merito alla data di decorrenza del preavviso da cui conseguentemente ricavare la volontà o meno di rispettarlo.

Se così non fosse il lavoratore sarebbe sempre costretto ad una duplice comunicazione per gestire le proprie dimissioni: una telematica ai fini dell’espressione della volontà e un’altra cartacea (contestuale o meno) per la decorrenza dei termini di preavviso.

Chiarito ciò, semplificando possiamo dire che se il lavoratore ha indicato sul modulo telematico la data del 31 dicembre, quella data (rectius: il giorno prima) sarà l’ultimo giorno di lavoro e pertanto:

– se questa data cadrà antecedentemente alla scadenza teorica del periodo di preavviso previsto dal Ccnl si considererà, implicitamente, la volontà di lavorare solo in parte il preavviso e il datore di lavoro sarà autorizzato a trattenere pro quota l’indennità sostituita e il lavoratore, salvo accordi con il datore di lavoro, non potrà avanzare pretesa di completare il periodo al quale si intende abbia rinunciato;

– se la data cadrà oltre il termine minimo del periodo di preavviso significherà che il lavoratore ha individuato quella data come ultimo giorno di lavoro (anticipando la sua volontà al datore di lavoro magari solo per una questione di correttezza nei confronti di costui) e su quella data l’azienda potrà fare affidamento per tutti gli aspetti normativi e organizzativi.

L’errore di data nel modulo telematico

Le conclusioni sopra riportare trovano del resto conferma anche in una successiva FAQ:

23. Se la data di decorrenza è stata inserita dal lavoratore calcolando erroneamente il preavviso e sono trascorsi i 7 giorni utili per revocare le dimissioni, come può essere comunicata la data di cessazione esatta?

La procedura telematica introdotta dall’articolo 26 del D.lgs.151/2015 e dal DM del 15 dicembre 2015 interviene sulle modalità di manifestazione della volontà, la quale non viene inficiata da un eventuale errore di calcolo o di imputazione. In questa ipotesi, la Comunicazione obbligatoria di cessazione, da effettuare secondo le vigenti disposizioni normative, fornisce l’informazione esatta sull’effettiva estinzione del rapporto di lavoro.

Anche dalle indicazioni ministeriali si intuisce quindi come la comunicazione telematica dia piena contezza delle scelte del dimissionario circa l’eventuale periodo di preavviso lavorato proprio perché tale scelta – che è ovviamente a carico del lavoratore – può comportare un errore di calcolo o di imputazione.

Un eventuale errore che, comunque, rimane irrilevante per il datore di lavoro, salvo che possa essere considerato riconoscibile ai sensi dell’art. 1431 c.c. ovvero “quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”.

A prescindere quindi da qualsiasi inesattezza, l’indicazione da parte del dimissionario della data di risoluzione del rapporto (dato peraltro obbligatorio) produrrà – quantomeno nell’immediato – il duplice effetto a valenza giuridica di porre fine al proprio rapporto di lavoro e di formalizzare la sua decisione di rispettare o meno i termini di preavviso previsti dal contratto.

In conclusione troviamo anche in questa FAQ un’ulteriore conferma di come le modalità di gestione del preavviso emergano implicitamente dal contenuto (la data indicata di fine rapporto) della comunicazione telematica, che racchiude in sé la rinuncia o la disponibilità a lavorarlo, interamente o parzialmente.

Tutto ciò, come detto, senza che sia necessario ricorrere ad altra specifica comunicazione.

La modifica della data di cessazione rapporto

In questo quadro un eventuale errore nell’indicazione della data di cessazione potrà essere gestito, in autonomia dal lavoratore, entro i 7 giorni successivi previsti per la revoca delle dimissioni mediante un escamotage ovvero annullando la comunicazione inviata e presentandone una nuova con data diversa.

Oltre tale termine la data potrà essere modificata solo ed esclusivamente tramite accordo con il proprio datore. E non potrebbe essere altrimenti perché riconoscendo al lavoratore il potere unilaterale di modificare la data di fine rapporto si giungerebbe a situazioni paradossali.

Si ipotizzi infatti l’indicazione della cessazione del contratto dopo una decina di giorni, pur a fronte di un periodo di preavviso di un paio di mesi. Se fosse riconosciuto un potere unilaterale al lavoratore di modificare la data di fine lavoro questi potrebbe, di dieci giorni in dieci giorni, posticipare la cessazione del rapporto di lavoro creando non pochi disagi all’organizzazione del datore di lavoro.

Analoga situazione dove si permettesse al lavoratore di modificare – anticipando la chiusura del proprio rapporto – una comunicazione che sia stata presentata con largo anticipo rispetto ai termini previsti dal Ccnl. In questo caso si ritiene che l’abbandono del lavoro prima della data segnalata autorizzerà il datore di lavoro a trattenere il preavviso nella misura della prestazione lavorativa non eseguita, considerando il teorico periodo di preavviso con un calcolo a ritroso dalla data di cessazione effettiva. Una diversa interpretazione permetterebbe a ciascun lavoratore di segnalare la cessazione del rapporto di lavoro con la data ad esempio del compimento dei 100 anni lasciandosi così aperta la possibilità di cessare il proprio rapporto ad nutum senza incappare in alcuna trattenuta per il mancato rispetto del preavviso.

L’accordo tra le parti per la gestione del preavviso

Ovviamente nulla vieta che le parti prevedano – a mezzo di un accordo ad hoc, anche preventivo – gli effetti di un futuro verificarsi dell’evento dimissioni e pertanto convengano tra loro che il periodo di preavviso abbia decorrenza dalla manifestazione delle dimissioni, anche prescindendo dalla presentazione cartacea di una lettera di dimissioni. Si tratterebbe quindi di un accordo e mai di una conseguenza automatica di un atto unilaterale del lavoratore.

Si ritiene peraltro che un accordo di questo tipo sia fortemente da sconsigliare in quanto un ripensamento del lavoratore – anche se è improprio parlare di ripensamento dato che la volontà di dimettersi è giuridicamente inesistente – potrebbe creare non pochi problemi all’azienda che avesse fatto affidamento sulla cessazione del rapporto.

Si ipotizzi un lavoratore con un periodo di preavviso di qualche mese con il quale si concordasse la decorrenza del preavviso senza una valida comunicazione telematica e proprio a fronte di questa programmata assenza (giuridicamente non certa ma solo prospettata dal lavoratore) il datore di lavoro si organizzasse e contattasse un sostituto, formalizzando con questi un impegno di assunzione a tempo determinato, il quale in funzione di questa promessa abbandonasse il suo posto di lavoro.

E magari che il lavoratore dimissionario, spinto a dimettersi perché allettato da altra proposta lavorativa, si rendesse conto che il cambio lavoro non è così allettante come credeva e rinunciasse a dimettersi.

In tali casi, salvo integrare l’accordo di gestione del preavviso con una clausola penale di importo elevato per il caso di mancata cessazione del rapporto, le conseguenze economiche potrebbero essere di un certo rilievo.

Del resto non si riesce ad immaginare motivo alcuno – giuridicamente meritevole di tutela – per cui il lavoratore non possa accedere da subito alla procedura telematica o per permettergli di procrastinare, magari all’ultimo giorno di lavoro previsto, la formalizzazione della propria volontà nelle modalità previste ex lege ai fini dell’efficacia delle proprio dimissioni.

Conclusioni

La tesi dell’autonoma efficacia del preavviso che abbiamo preso a pretesto per questa disamina e per le successive considerazioni appare in tutta evidenza non sostenibile per le varie ragioni che abbiamo sopra esposto.

Ma soprattutto non appare condivisibile sulla base di una semplicissima considerazione: la norma parla di inefficacia delle dimissioni in assenza della forma tipica.

In assenza di una diversa precisazione, che nella norma non si intravede, l’inefficacia è da intendersi a tutto tondo e quindi ai fini civilistici, normativi ed economici (preavviso compreso) e non solo in relazione alla volontà di porre termine al proprio rapporto di lavoro.

Poiché solo la procedura telematica fornisce rilevanza giuridica alla decisione del lavoratore non appare possibile sostenere che in assenza dell’atto principale (le dimissioni) possano crearsi, per volontà unilaterale, effetti collaterali e secondari necessariamente collegati e riconducibili ad una volontà mai manifestata, inesistente in quanto priva della forma prevista dalla legge.

Se così fosse ci ritroveremmo a dare rilevanza giuridica a una manifestazione di intenti (la volontà di dimettersi) che per legge non vincola il lavoratore in quanto inesistente, ma che si vorrebbe produrre effetti sul datore di lavoro (in riferimento al preavviso) nel caso in cui la cessazione del rapporto si realizzasse in un successivo momento.

È un poco come sostenere che un datore di lavoro possa comunicare al lavoratore la decorrenza del preavviso in funzione di un licenziamento che ancora non si intende formalizzare, precisando che una vera e propria comunicazione di risoluzione del rapporto verrà inviata successivamente perché sta fissando un appuntamento con il proprio Consulente del lavoro per individuare e compiutamente esplicitare le necessarie motivazioni.

1 Ministero del Lavoro: Dimissioni on line: Risposte FAQ.

 

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Una Proposta al mese – Lavoratrici madri: alla ricerca di un nuovo equilibrio delle regole e tutele

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna

La normativa italiana in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, parliamo ovviamente del D.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001, è improntata ad una forte tutela dell’evento maternità con una attenzione che si rivolge indiscutibilmente più alla lavoratrice che all’azienda.

Divieto di discriminazione, anticipo del Tfr, sicurezza sul lavoro, controlli prenatali, congedo di maternità, interdizione anticipata, interruzione di gravidanza, congedo parentale, permessi per allattamento, congedo per malattia del figlio, lavoro notturno, divieto di licenziamento – senza dimenticare i diritti riconosciuti al padre – dimostrano questa sperequazione a favore della parte prestatrice.

Al datore di lavoro viene riservata una scarsissima considerazione nonostante le evidenti problematiche dovute sia alla lunga, spesso lunghissima, assenza della lavoratrice che agli oneri economici per retribuzioni, dirette e differite, che maturano in capo alla stessa nel periodo di gravidanza e maternità.

Non si vuole qui ipotizzare un, peraltro difficilmente dimostrabile, rapporto di causa-effetto, tuttavia appare più che evidente che l’iperprotezione della lavoratrice madre (spesso a danno e discapito del datore di lavoro) non rappresenta certo la miglior soluzione al problema della discriminazione che l’universo femminile subisce sia nell’accesso nel mondo del lavoro che nella propria carriera lavorativa.

Scopo del presente intervento non è certo una riscrittura delle tutele, quanto piuttosto un modesto suggerimento per un restyling di due disposizioni, una in ambito organizzativo e l’altra sotto l’aspetto economico, nel tentativo di superare la, ahimè diffusa, percezione della donna lavoratrice quale “portatrice sana di problemi in azienda”.

La sostituzione di lavoratrici in congedo

Si diceva di come all’azienda, che pure subisce pesanti ripercussioni organizzative dall’assenza della lavoratrice per maternità, venga riservata una attenzione minima che scorgiamo in pratica nel solo art. 4, Sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo, che opera su due fronti:

  1. l’aspetto economico, riconoscendo uno sgravio contributivo del 50% (peraltro riservato alle sole aziende con meno di 20 dipendenti) per i contributi dovuti per il personale assunto a tempo determinato in sostituzione di lavoratrici/lavoratori in congedo, oltre all’esenzione dal contributo dell’1,40% previsto per i normali contratti a tempo determinato;

  2. l’aspetto normativo, concedendo di procedere alle predette assunzioni anche con un anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio del congedo (salvo periodi superiori che possono essere previsti dalla contrattazione collettiva) oltre alla esclusione dalla computabilità degli assunti per esigenze sostitutive dai limiti massimi degli occupabili a tempo determinato in ciascuna azienda (art. 23 del D.lgs. n. 81/2015).

Se poco vi è da dire circa lo sgravio sulla quota di contribuzione dovuta per il sostituto, che di fatto permette di azzerare i costi indiretti che il datore di lavoro sostiene per le lavoratrici e lavoratori in congedo ai sensi del Testo Unico n. 151/2001 (quota ratei ferie, mensilità aggiuntive e Tfr), qualcosa in più poteva esser fatto in tema di periodo di affiancamento e sostituzione.

Procediamo con ordine analizzando per prima cosa ciò che l’attuale normativa prevede sul punto all’art. 4, co. 2:

L’assunzione di personale a tempo determinato e l’utilizzazione di personale temporaneo, in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo ai sensi del presente testo unico, può avvenire anche con anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio del congedo, salvo periodi superiori previsti dalla contrattazione collettiva.

La ratio è assolutamente condivisibile. Il lavoratore assunto per sostituire una lavoratrice, specie se occupa una posizione strategica, e che si assenterà per un periodo di almeno cinque mesi, ha l’assoluta necessità di coordinarsi con il sostituito e quindi di potersi affiancare ad essa per un passaggio di consegne quanto più indolore. Un periodo di affiancamento che la norma prevede in un mese ma che la contrattazione collettiva ha la possibilità di ampliare in funzione, quantomeno nelle intenzioni del legislatore, della specificità del settore o delle mansioni: si pensi al personale con funzioni concettuali, non necessariamente iperspecialistiche, non certo a figure facilmente intercambiabili quali, per fare un esempio banale, il personale di pulizia.

Un plauso quindi al legislatore al quale però, allo stesso tempo, dobbiamo sollevare un appunto ovvero l’essersi lasciato sfuggire che il medesimo problema si pone al rientro della sostituita (parleremo quasi sempre al femminile dato che l’assenza del lavoratore è caso raro e non ugualmente significativo in termini temporali), la quale si potrebbe ritrovare a rioccupare la propria posizione anche molto tempo dopo l’inizio del congedo.

Non è raro infatti (si potrebbe malignamente dire che è quasi la norma) che la dipendente sia oggetto di un provvedimento di interdizione anticipata – per gravi complicanze nella gestazione o per condizioni di lavoro o ambientali pregiudizievoli – che significa l’assenza della lavoratrice già dalle prime settimane di gravidanza, quindi anche otto mesi prima del parto. Ovviamente in questo caso la neo-mamma rientrerebbe al lavoro senza nemmeno aver svolto un affiancamento pre-partum e quindi senza aver conosciuto il sostituto e condiviso con lui le metodologie di lavoro essendo ovviamente l’assenza “anticipata” non programmabile per definizione.

Aggiungiamoci il periodo di assenza obbligatorio post-partum, quindi altri tre mesi. Ipotizziamo pure la fruizione del congedo parentale: altri sei mesi. Senza escludere poi che la lavoratrice possa chiedere di usufruire di una assenza non retribuita fino al compimento del primo anno di età del bambino.

E dovrà anche, prima del rientro, godere delle ferie maturate nel frattempo.

Siamo a venti mesi e oltre, quasi due anni di assenza, al termine della quale, come detto, la lavoratrice tornerebbe a rioccupare la propria “postazione” trovando la scrivania sommersa da pratiche, riferite a nuovi clienti o nuove procedure, di cui non sa ovviamente nulla e senza qualcuno che la possa aiutare o dare indicazioni.

Se aziende molto strutturate sono in grado, nella maggior parte dei casi, di gestire senza particolari intoppi questi eventi, l’assenza per maternità in aziende di ridotte dimensioni, dove spesso la parte amministrativa è tutta sulle spalle di un’unica impiegata, è evidentemente una problematica di una certa delicatezza, che può avere gravi ripercussioni sull’intera struttura organizzativa.

Spesso infatti, nelle piccole aziende, è difficile ipotizzare un passaggio di consegne interno – gestito direttamente dal titolare o da altro suo collaboratore – senza che ciò per costoro comporti il tralasciare le proprie mansioni rivolte ad altri settori o alla parte operativa. In questi casi l’alternativa diventa l’assunzione a termine con scadenza il mese successivo l’effettivo rientro al lavoro della lavoratrice sostituita, gestendo ulteriori necessità con delle proroghe.

Vi sarebbe quindi un originario duplice motivo alla base del rapporto lavorativo: un primo di tipo “sostitutivo”, che per espressa disposizione di legge comprende anche l’affiancamento pre-assenza, e un successivo per “affiancamento post-rientro”. Ovviamente per questo secondo periodo di contestuale presenza del sostituto e della sostituita, non spetterebbe alcun beneficio economico, imponendo quindi la doppia elaborazione ai fini contributivi nello stesso mese di due cedolini per lo stesso lavoratore.

Peraltro – e lo diciamo sottovoce – considerata la pretestuosità di alcune interpretazioni di prassi a mero fini di incasso non ci sorprenderemmo se l’assunzione venisse dall’Inps considerata “non sostitutiva pura ai sensi del D.lgs. n. 151/2001”, negando quindi i benefici, sia economici che normativi, per l’intero periodo sostitutivo.

Una proposta che superi qualsiasi complicazione operativa e elimini qualsiasi rischio di vertenza è semplice ed appare, per quanto sin qui detto, finanche pleonastico precisarla.

L’assunzione di personale a tempo determinato e l’utilizzazione di personale temporaneo, in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo ai sensi del presente testo unico, può avvenire anche con anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio del congedo e potrà protrarsi fino al mese successivo il rientro della lavoratrice o del lavoratore sostituita/o, salvo periodi superiori previsti dalla contrattazione collettiva.

Gli oneri economici per lo Stato non appaiono insostenibili dato che riguarderebbero solo lo sgravio contributivo del 50%, peraltro riservato alle sole aziende al di sotto delle 20 unità, costo che riteniamo facilmente giustificabile dall’esigenza di mantenere la piena competitività sul mercato delle aziende interessate, salvaguardando al contempo la professionalità ma anche e soprattutto – in ottica di prevenzione dal rischio da stress lavoro-correlato – la serenità personale delle lavoratrici in rientro.

Le dimissioni volontarie

Ma c’è una situazione che risulta difficile da spiegare e da far, come si suol dire, “digerire” ai nostri clienti ovvero i costi connessi alle dimissioni di una lavoratrice presentate nel primo anno di vita del bambino.

L’art. 55 del D.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001, Testo Unico sulla maternità, così dispone:

1. In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell’articolo 54, il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. La lavoratrice e il lavoratore che si dimettono nel predetto periodo non sono tenuti al preavviso.

Anche in questo caso il legislatore non è parso particolarmente illuminato.

La giurisprudenza si è infatti divisa interpretando in alcuni casi il diritto alle indennità previste da disposizioni contrattuali condizionato “alla sola condizione che le dimissioni volontarie siano state presentate durante il periodo in cui è previsto il divieto di licenziamento. Nessun altro elemento di natura soggettiva od oggettiva è richiesto dalla norma”1.

Una lettura rigida che si fonda sulla presunzione assoluta di non spontaneità completa delle dimissioni, dovute alla necessità di occuparsi del bambino in maniera esclusiva2.

Un diverso orientamento – più favorevole ai datori di lavoro – ha invece ritenuto che la presunzione di non spontaneità delle dimissioni della lavoratrice madre (che giustificherebbe l’obbligo indennitario a carico del datore di lavoro) potesse essere in qualche modo superata, osservando che, se si teme che le dimissioni della gestante o della madre siano dovute non alla sua volontà ma al sistema di organizzazione produttiva ed al datore di lavoro e sembra perciò ragionevole equipararle sul piano degli effetti patrimoniali al licenziamento, la ragionevolezza dell’equiparazione viene meno quando l’iniziativa sia dettata da chiare ragioni di convenienza del recedente.

Con molta lucidità la suprema Corte osserva che “La corresponsione dell’indennità … potrebbe anzi indurre la lavoratrice più facilmente alle dimissioni e … a ripeterle anche col nuovo datore di lavoro, senza esserne dissuasa da possibili conseguenze negative sul piano dell’abuso del diritto: figura di incerta consistenza nel campo dei contratti a prestazioni corrispettive. L’imposizione indiscriminata di obblighi indennitari al datore di lavoro contrasterebbe col principio costituzionale di ragionevolezza (art. 3, secondo comma, Cost.), che si concreta, nel caso in esame, in quello di responsabilità nonché nella necessità che all’indennizzo corrisponda almeno un “pericolo” di danno. Si avrebbe, inoltre, una sorta di premio di maternità a carico non già del sistema previdenziale ma dell’imprenditore, con ingiustificata riduzione della sua libertà di iniziativa economica” (art. 41 Cost.)3.

A far da contraltare al principio esposto vi sono dei se e dei ma. Gli ermellini infatti ritengono ripristinata la ratio legis, e quindi che l’indennità sia ugualmente dovuta, quando il datore di lavoro non sia in grado di provare che la lavoratrice abbia, subito dopo le dimissioni, iniziato un nuovo lavoro ovvero quando la lavoratrice riesca a provare che il nuovo impiego sia per lei meno vantaggioso sul piano sia patrimoniale sia non patrimoniale (ad esempio per gravosità delle mansioni o per maggiore distanza della sede di lavoro dall’abitazione, ecc.).

Premesso che ad avviso di chi scrive risulterebbe iniquo pretendere il versamento del mancato preavviso (quantomeno in misura totale) nel caso che il nuovo stipendio sia inferiore di pochi euro o che il nuovo luogo di lavoro sia raggiungibile impiegando qualche minuto in più, non si può non sottolineare la prova diabolica che viene richiesta al datore di lavoro, chiamato a discutere dell’asserita non equivalenza delle nuove mansioni rispetto le precedenti in riferimento ad aspetti spesso non valutabili in termini matematici, quali situazioni di vantaggio e di gravosità.

Non è poi da escludersi che la lavoratrice potrebbe sottoscrivere formalmente un contratto part-time pur di fatto lavorando a tempo pieno (magari facendosi pagare gli extra in nero o dilazionandoli sotto forma di bonus o premi periodici: la fantasia italica in questi casi non ha limiti), ovvero richiedere un sottoinquadramento per il periodo iniziale del rapporto se non addirittura posticipare ad arte l’assunzione presso il nuovo datore dato che, stando alla Cassazione, la lavoratrice perderebbe il diritto solo se l’inizio del nuovo lavoro avvenisse “senza intervallo di tempo”. In pratica: aspetta una settimana e nessuno potrà contestare nulla.

Che dire: il classico pastrocchio all’italiana dove tutto è ambiguo e il contenzioso dall’esito incerto perché i criteri indicati dalla giurisprudenza non si riferiscono a dati oggettivi e dove i soliti furbetti verrebbe stimolato e pure premiato. E di questo, in questa disastrata Italia, non se ne sente proprio il bisogno.

Forse sarebbe stato meglio puntare sin dall’inizio su una lettura che sottolineasse il fatto che il periodo finale del comma 1 dell’art. 55 dispone che la dimissionaria non è tenuta al rispetto del preavviso. Una precisazione che in effetti appare contraddittoria ove, nello stesso istante, si voglia intendere – in via interpretativa – riconosciuta implicitamente alla lavoratrice l’indennità sostitutiva del preavviso a carico del datore (che presuppone un licenziamento senza rispetto dei termini) e al contempo si esclude – in questo caso esplicitamente – il dovere di rispettare il preavviso per la lavoratrice, previsto in caso di dimissioni.

È evidente che c’è qualcosa che non va se per la medesima situazione giuridica, la cessazione del rapporto, si disciplinano contestualmente e a favore della lavoratrice le conseguenze di due diversi comportamenti, dimissioni e licenziamento, nonostante l’uno escluda necessariamente l’altro.

Ovviamente questa lettura porterebbe a negare l’indennità di mancato preavviso in tutti i casi, ma rispetterebbe la ratio di concedere alla lavoratrice dimissionaria, impossibilita proprio per la situazione organizzativa post-partum a proseguire il rapporto, di non attenersi ai termini di preavviso previsti dal contratto per le dimissioni.

Ma soprattutto risulterebbe una interpretazione aderente al criterio costituzionale della ragionevolezza, che impone al legislatore di bilanciare sempre i distinti valori costituzionali in gioco. Perché una domanda nasce spontanea: cosa avrà fatto di male il povero datore di lavoro per accollargli un onere economico quale conseguenza di un comportamento riconducibile ad altri? Perché questa eccezione al principio di autoresponsabilità? È sufficiente richiamare, come fatto dalla Cassazione, la considerazione che il datore di lavoro è “un esponente di un sistema di organizzazione produttiva che non sempre consente alla donna di conciliare adeguatamente le prestazioni lavorative con l’adempimento dei propri compiti di madre4?

Non scordiamoci peraltro che, dal punto di vista economico, la lavoratrice madre, non solo non subisce trattenuta alcuna per mancato preavviso a seguito delle proprie dimissioni, ma ha la possibilità di vedersi riconosciuto l’accesso alla Naspi.

Di un ulteriore “omaggio economico” a carico azienda non se ne sente il bisogno salvo ritenere che le dimissioni in periodo protetto della lavoratrice madre costituisca un costo sociale da far ricadere (al pari del collocamento obbligatorio) non sul sistema previdenziale statale ma proprio sul “meritevole” datore di lavoro che abbia provveduto, in questo caso per scelta volontaria, all’assunzione di personale di sesso femminile.

Affermazione chiaramente pericolosa.

Le considerazioni che precedono pongono in evidenza la necessità di fare giustizia di una norma la cui formulazione approssimativa e la conseguente lettura datale dalla giurisprudenza (nonostante un filone favorevole in talune fattispecie al datore di lavoro) ha creato una ingiustificata penalizzazione alle aziende che nei fatti percepiscono l’obbligo previsto dalla norma una prevaricazione se non un vero e proprio furto.

Questa quindi la proposta di modifica dell’art. 55 del D.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001

1. In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell’articolo 54, il divieto di licenziamento, la lavoratrice e il lavoratore non sono tenuti al preavviso. La lavoratrice che si dimetta nel predetto periodo ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento, esclusa l’indennità di mancato preavviso.

Come si può notare ci siamo limitati ad invertire i due periodi della disposizione originaria: dapprima stabilendo il principio generale dell’esclusione dagli obblighi di preavviso della lavoratrice e del lavoratore; poi andando a disciplinare il diritto della lavoratrice alle indennità previste per il caso di licenziamento.

La novità è solo nell’ultimo periodo (ove si esclude il diritto alla indennità di mancato preavviso) il quale appare, in effetti, tautologico e ridondante a conferma che la norma avrebbe potuto essere letta sin da subito in modo da escludere l’onere che qui si propone di abolire.

1 Cassazione 22 ottobre 1991, n. 11164.

2 Corte Cost. 24 marzo 1988 n. 332.

3 Cassazione 19 agosto 2000, n. 10994.

4 Cassazione 14 maggio 1985, n. 2999.

 

 

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