Esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: le Sezioni Unite non fanno completa chiarezza

di Lucio Imberti – Professore Associato di Diritto del Lavoro Università degli Studi di Milano

I contrasti giurisprudenziali nella Sezione Lavoro

Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 27436/2017,si sono finalmente pronunciate sui profili sanzionatori della disciplina applicabile in caso di esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, cercando in tal modo di assicurare l’uniforme interpretazione della l. 142/2001 da parte della giurisprudenza di legittimità, rivelatasi alquanto ondivaga negli ultimi anni.

In sintesi, un primo orientamento della Sezione Lavoro – alla luce dell’art. 5, co. 2, Legge n. 142/2001 secondo cui il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio – ha affermato che il legislatore ha … previsto un rapporto di consequenzialità fra il recesso o l’esclusione del socio e l’estinzione del rapporto di lavoro, che esclude la necessità, in presenza di comportamenti che ledono il contratto sociale oltre che il rapporto di lavoro, di un distinto atto di licenziamento, così come l’applicabilità delle garanzie procedurali connesse all’irrogazione di quest’ultimo (Cass. n. 14741/2011; nello stesso senso: Cass. n. 2802/2015; Cass. n. 9916/2016). Queste decisioni ritengono – adottando l’interpretazione della disciplina più condivisibile ad avviso di chi scrive – che l’esclusione del socio comporti automaticamente il venir meno del rapporto di lavoro subordinato.

In senso diametralmente opposto, si è posto altro orientamento della Sezione Lavoro, secondo cui se la delibera di esclusione del socio si fonda esclusivamente sull’intervenuto licenziamento …, una volta ritenuto quest’ultimo illegittimo, consegue che parimenti illegittima è la delibera di esclusione del socio. Pertanto Legge n. 142 del 2001, ex art. 2 … trova applicazione l’art. 18 St.Lav. (Cass. n. 14143/2012; di questo avviso anche: Cass. n. 6224/2014; Cass. n. 17868/2014; Cass. n. 1259/2015; Cass. n. 19918/2016). Questo orientamento riconosce ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato tutele analoghe a quelle previste per i lavoratori subordinati tout court, ritenendo applicabili le garanzie procedurali e la disciplina sostanziale del licenziamento, anche in caso di esclusione e contestuale licenziamento.

Non è poi mancato un ulteriore indirizzo interpretativo, espresso da Cass. n. 11548/2015, che pur affermando la sussistenza di un rapporto di consequenzialità fra l’esclusione del socio ed il recesso, incidendo la delibera di esclusione pure sul concorrente rapporto di lavoro, ha conclusivamente ritenuto applicabile l’art. 18, Legge n. 300/1970 una volta rimosso il provvedimento di esclusione.

Ancora più vario è stato il panorama delle opinioni nella giurisprudenza di merito, che in parte ha seguito orientamenti analoghi a quelli della Cassazione sopra citati ed in parte ha proposto ulteriori ed originali soluzioni interpretative quanto ai profili formali, sostanziali e sanzionatori relativi all’esclusione ed al licenziamento del socio lavoratore.

Ne è risultato, in definitiva, un quadro di estrema incertezza.

Due articolate e puntuali ordinanze interlocutorie del maggio 2017 (Cass. nn. 13030 e 13031/2017) hanno opportunamente ritenuto che a fronte dei contrasti esistenti in materia nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e dell’importanza della questione – la quale attiene alla ricostruzione dei meccanismi estintivi del rapporto e delle tutele applicabili per i moltissimi lavoratori che operano in cooperative come soci – si rende opportuno rimettere il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite della Corte.

La decisione delle Sezioni Unite

Il ricorso oggetto dell’ordinanza n. 13030 è stato ritenuto inammissibile dalla sentenza n. 27435, mentre le Sezioni Unite – nel pronunciarsi sul ricorso cui si riferiva l’ordinanza n. 13031 – sembrano aver optato con la sentenza n. 27436/2017 per un indirizzo interpretativo nuovo ed originale.

La questione presa in esame riguarda il caso di un socio lavoratore – al contempo escluso dalla cooperativa e da essa licenziato per giusta causa, in ragione della contestata aggressione ad un superiore gerarchico – che si era limitato ad impugnare il licenziamento, senza invece impugnare la delibera di esclusione.

In primo luogo, le Sezioni Unite affermano che la cessazione del rapporto associativo … trascina con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro. Sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore. Alla luce di tale premessa, non è condivisibile l’orientamento volto sostanzialmente alla tutela giuslavoristica del socio lavoratore, la cui impostazione determina il capovolgimento della relazione di dipendenza prefigurata dal legislatore tra l’estinzione del rapporto associativo e quella del rapporto di lavoro, che deriva dal collegamento tra essi.

Da altro punto di vista, tuttavia, la sentenza n. 27346 rileva che il nesso di collegamento tra rapporto associativo e rapporto di lavoro … per quanto unidirezionale, non riesce ad oscurare la rilevanza di quello di lavoro, anche nella fase estintiva. Da questa osservazione discende la critica rivolta anche all’applicazione della sola disciplina societaria, sulla base della considerazione per cui non mostra di tener conto di tale autonoma rilevanza l’orientamento … in base al quale, al cospetto di condotte che ledano nel contempo il rapporto associativo e quello di lavoro, sarebbe unico il procedimento volto all’estinzione di entrambi; di modo che, adottata la delibera di esclusione, risulterebbe ultroneo un distinto atto di recesso datoriale dal rapporto di lavoro.

Date queste premesse interpretative, ne discende in punto di conseguenze sanzionatorie che l’effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall’esclusione dalla cooperativa a norma del 2° comma dell’art. 5 della Legge n. 142/2001 impedisce senz’altro, in mancanza d’impugnazione della delibera …, di conseguire il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore. In caso di impugnazione della delibera, può invece trovare applicazione la tutela restitutoria, che consegue all’invalidazione della delibera, dalla quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario, sia dell’ulteriore rapporto di lavoro: tale tutela è del tutto estranea ed autonoma rispetto alla tutela reale prevista dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori, di matrice, appunto, lavoristica.

Chiarito che è la -sola- tutela restitutoria ad essere preclusa qualora, insieme col rapporto di lavoro, venga a cessare anche quello associativo, le Sezioni Unite si premurano di precisare che l’omessa impugnazione della delibera ne garantisce … l’efficacia, anche per il profilo estintivo del rapporto di lavoro, ma tale effetto estintivo, tuttavia, di per sé non esclude l’illegittimità del licenziamento, lasciando impregiudicata l’esperibilità di tutela diversa da questa, ossia di quella risarcitoria contemplata dall’art. 8 della legge 16 luglio 1966, n. 604.

Da tali assunti deriva, infine, l’affermazione del principio di diritto in base al quale in tema di tutela del socio lavoratore di cooperativa, in caso d’impugnazione, da parte del socio, del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria non è inibita dall’omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni, afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria.

I dubbi non chiariti

Le Sezioni Unite sembrano aver optato per una soluzione di sostanziale compromesso, che tuttavia inaugura un nuovo orientamento interpretativo, dando adito a dubbi in merito alla sua applicabilità in relazione a casi non perfettamente sovrapponibili a quello oggetto della sentenza n. 27436.

Ci si può, infatti, domandare se ed in quali termini tali principi – affermati in un caso di mancata impugnazione della delibera di esclusione e di impugnazione del solo licenziamento – possano trovare applicazione nell’ipotesi di tempestiva e contestuale impugnazione della delibera di esclusione e del licenziamento (eventualmente, ma non necessariamente effettuato), fondati sulle medesime circostanze. In altre parole, può la difesa del socio lavoratore proporre in via principale la domanda rivolta all’impugnazione della delibera per ottenere la tutela restitutoria in ambito societario ed in via subordinata la domanda relativa all’impugnazione del licenziamento per chiedere la tutela risarcitoria di matrice lavoristica ex art. 8, Legge n. 604/1966? Per tutelarsi di fronte a tale possibile duplice domanda è necessario che la cooperativa giunga all’esclusione ed al licenziamento attraverso le rispettive procedure societarie e lavoristiche e rispettando i relativi adempimenti formali?

Ed ancora i principi fissati dalle Sezioni Unite sono rilevanti anche con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato dei soci lavoratori cui si applica la disciplina del D.lgs. n. 23/2015? Nei loro confronti risulta applicabile, in caso di mancata impugnazione della delibera di esclusione, l’art. 8 della Legge n. 604/1966 a prescindere dal requisito dimensionale o, invece, la disciplina del D.lgs. n. 23/2015, dal momento che l’art. 2, co. 1, Legge n. 142 esclude esplicitamente solo l’applicazione dell’art. 18 della Legge n. 300/1970 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo? Che rilievo assume al riguardo la circostanza che nel D.lgs. n. 23/2015 permangano ipotesi in cui il licenziamento è sanzionabile con la reintegrazione nel posto di lavoro?

Si tratta di questioni che in larga parte esulavano dal caso su cui erano chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite (che, pertanto, non potevano in alcun modo esprimersi puntualmente ed esplicitamente al riguardo) e su cui, tuttavia, la soluzione per così dire “intermedia” adottata nella sentenza n. 27436 non aiuta a fare chiarezza e ad offrire sicuri indirizzi interpretativi.

È senza dubbio possibile ed auspicabile che la giurisprudenza di merito e di legittimità chiamata prossimamente a decidere si conformi a tale pronuncia, adottando un’interpretazione condivisa della stessa sentenza ed approdando ad un rapido consolidamento di orientamenti univoci in tema di profili formali, sostanziali e sanzionatori dell’esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa.

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, non è improbabile che – nonostante l’intervento delle Sezioni Unite ed alla luce delle prime pronunce di merito successive a tale intervento – tornino viceversa a manifestarsi molteplici ed ondivaghi orientamenti giurisprudenziali, in considerazione delle numerose, divergenti ed ormai radicate opzioni interpretative della disciplina della Legge n. 142 e dell’art. 2533 c.c. prospettate nei quindici anni dall’entrata in vigore dell’art. 9 della Legge n. 30/2003, che ha modificato la Legge n. 142 con riferimento alla disciplina dell’esclusione e del licenziamento del socio lavoratore.

Nel caso dovesse purtroppo realizzarsi questa seconda ipotesi, non rimane, quindi, che invocare un intervento legislativo risolutivo che sappia finalmente definire sul punto in questione una disciplina chiara e semplice. Ciò soprattutto in ragione del fatto che l’attuale situazione di grandissima e palese incertezza giuridica rischia di andare a tutto vantaggio delle false cooperative, che più facilmente proliferano in tale quadro normativo e giurisprudenziale confuso e farraginoso.

In ogni caso, oggi – a molti anni di distanza dall’approvazione e dalla successiva parziale modifica della Legge n. 142 – non pare essere ancora giunto il momento della certezza del diritto nell’interpretazione ed applicazione della disciplina dell’esclusione e del licenziamento del socio lavoratore di cooperativa. Anche il fattore tempo non è evidentemente una variabile indipendente e irrilevante per la (sempre relativa) certezza del diritto.

 

 

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Comunicazione telematica di dimissioni versus comunicazione ordinaria: quando decorre il preavviso?

di Alberto Borella – Consulente del Lavoro in Chiavenna

 

Anche Facebook e i gruppi di discussione che vengono creati al suo interno possono essere fonte di ispirazione per i nostri articoli. Una problematica ricorrente, che riguarda la gestione del preavviso in funzione della comunicazione telematica di dimissioni, diventa così il pretesto per chiarire modalità e particolarità dell’istituto.

La diatriba da cui vogliamo partire riguarda il caso di un’eventuale preventiva comunicazione predisposta dal lavoratore ai soli fini della decorrenza del preavviso, posticipando ad altro momento l’invio della comunicazione telematica delle dimissioni. A questa manifestazione di volontà può essere riconosciuta la caratteristica di atto unilaterale ricettizio oppure i suoi effetti dipendono da un accordo con il datore di lavoro?

Le dimissioni telematiche 

La risposta alla domanda non può che partire dall’analisi della disciplina delle “Dimissioni volontarie e risoluzione consensuale” prevista dall’art. 26, co. 1, del D.lgs. n. 151/2015 (c.d. Decreto Semplificazioni) che così dispone:

Al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 55, comma 4, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali attraverso il sito www.lavoro.gov.it e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente con le modalità individuate con il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di cui al comma 3.

La volontà del legislatore appare chiara in quanto la procedura di dimissioni e di risoluzione consensuale assurge a forma tipica, che quindi non può essere derogata da altre e diverse modalità comunicative fino ad oggi utilizzate.

In parole povere il lavoratore, a differenza di quanto previsto dal sistema della “convalida” contenuto nella c.d. Riforma Fornero (che prevedeva la presentazione delle dimissioni in modalità cartacea procedendo successivamente alla loro ratifica), dovrà utilizzare questa specifica procedura comunicativa, per la quale dovrà seguire necessariamente il canale telematico, essendo l’unica modalità ammessa pena l’inefficacia delle dimissioni stesse.

L’accesso alla predetta procedura quale modalità legale di esternazione della volontà è confermata chiaramente anche nelle FAQ ministeriali:

20. Il modulo telematico ha la funzione di convalidare delle dimissioni già presentate con altra forma o quella di comunicare la volontà di dimettersi?

Il modello telematico non ha la funzione di convalidare dimissioni rese in altra forma bensì introduce la “forma tipica” delle stesse che per essere efficaci devono essere presentate secondo le modalità introdotte dall’articolo 26 del Decreto Legislativo n. 151/2015.

In questo contesto come vedremo si inserisce la problematica in argomento ovvero in quali termini un’eventuale comunicazione del lavoratore della volontà di dimettersi – in modalità cartacea e preventiva rispetto quella telematica – esplichi i suoi effetti sugli obblighi di preavviso.

La tesi della autonoma rilevanza del preavviso

La tesi da cui prende spunto la nostra disamina è quella che considera la nuova normativa riguardante esclusivamente la modalità legali di formalizzazione della decisione di porre fine al rapporto di lavoro. Rimarrebbero invece in vigore gli effetti ricettizi di una diversa comunicazione relativa il rispetto del preavviso previsto contrattualmente il quale, quindi, inizierebbe a decorrere immediatamente a prescindere dall’aver seguito o meno la nuova procedura telematica. Seguendo questa impostazione il datore di lavoro si vedrebbe costretto, in funzione della mera intenzione del lavoratore di comunicare (in un prossimo futuro) le proprie dimissioni nelle forme di legge, a considerare da subito decorrenti gli effetti del preavviso, senza nulla poter eccepire in merito.

Una tesi che taluni vedrebbero confermata dalla stessa prassi che, ritengono, avrebbe riconosciuto come la data di cessazione indicata sul modulo telematico sia aspetto irrilevante e secondario (ma vedremo che non è vero) sulla scorta della facoltà riconosciuta alle parti di rettificare tale termine senza che sia necessario provvedere all’invio di ulteriore comunicazione telematica1.

Al contrario è proprio nelle FAQ – strumento che in verità chi scrive non ama particolarmente – che si ritiene venire smentita la tesi sopra riportata.

22. Nell’ipotesi in cui il lavoratore e il datore di lavoro si accordino per modificare il periodo di preavviso, spostando quindi la data di decorrenza indicata nel modello telematico, come si può comunicare la nuova data se sono trascorsi i 7 giorni utili per revocare le dimissioni e variare la data di cessazione?

Come indicato nella circolare n. 12/2016, la procedura online non incide sulle disposizioni relative al preavviso lasciando quindi alle parti la libertà di raggiungere degli accordi modificativi che spostino la data di decorrenza delle dimissioni o della risoluzione consensuale. Sarà cura del datore di lavoro indicare l’effettiva data di cessazione nel momento di invio della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro, senza che il lavoratore revochi le dimissioni trasmesse telematicamente.

La possibilità di un accordo sul periodo di preavviso non significa che lo stesso non sia “gestito” dalla comunicazione telematica; anzi è proprio la prevista “libertà di raggiungere degli accordi modificativi che spostino la data di decorrenza delle dimissioni o della risoluzione consensuale” a presupporre che la comunicazione telematica contenga implicitamente le decisioni del lavoratore in merito alla data di decorrenza del preavviso da cui conseguentemente ricavare la volontà o meno di rispettarlo.

Se così non fosse il lavoratore sarebbe sempre costretto ad una duplice comunicazione per gestire le proprie dimissioni: una telematica ai fini dell’espressione della volontà e un’altra cartacea (contestuale o meno) per la decorrenza dei termini di preavviso.

Chiarito ciò, semplificando possiamo dire che se il lavoratore ha indicato sul modulo telematico la data del 31 dicembre, quella data (rectius: il giorno prima) sarà l’ultimo giorno di lavoro e pertanto:

– se questa data cadrà antecedentemente alla scadenza teorica del periodo di preavviso previsto dal Ccnl si considererà, implicitamente, la volontà di lavorare solo in parte il preavviso e il datore di lavoro sarà autorizzato a trattenere pro quota l’indennità sostituita e il lavoratore, salvo accordi con il datore di lavoro, non potrà avanzare pretesa di completare il periodo al quale si intende abbia rinunciato;

– se la data cadrà oltre il termine minimo del periodo di preavviso significherà che il lavoratore ha individuato quella data come ultimo giorno di lavoro (anticipando la sua volontà al datore di lavoro magari solo per una questione di correttezza nei confronti di costui) e su quella data l’azienda potrà fare affidamento per tutti gli aspetti normativi e organizzativi.

L’errore di data nel modulo telematico

Le conclusioni sopra riportare trovano del resto conferma anche in una successiva FAQ:

23. Se la data di decorrenza è stata inserita dal lavoratore calcolando erroneamente il preavviso e sono trascorsi i 7 giorni utili per revocare le dimissioni, come può essere comunicata la data di cessazione esatta?

La procedura telematica introdotta dall’articolo 26 del D.lgs.151/2015 e dal DM del 15 dicembre 2015 interviene sulle modalità di manifestazione della volontà, la quale non viene inficiata da un eventuale errore di calcolo o di imputazione. In questa ipotesi, la Comunicazione obbligatoria di cessazione, da effettuare secondo le vigenti disposizioni normative, fornisce l’informazione esatta sull’effettiva estinzione del rapporto di lavoro.

Anche dalle indicazioni ministeriali si intuisce quindi come la comunicazione telematica dia piena contezza delle scelte del dimissionario circa l’eventuale periodo di preavviso lavorato proprio perché tale scelta – che è ovviamente a carico del lavoratore – può comportare un errore di calcolo o di imputazione.

Un eventuale errore che, comunque, rimane irrilevante per il datore di lavoro, salvo che possa essere considerato riconoscibile ai sensi dell’art. 1431 c.c. ovvero “quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”.

A prescindere quindi da qualsiasi inesattezza, l’indicazione da parte del dimissionario della data di risoluzione del rapporto (dato peraltro obbligatorio) produrrà – quantomeno nell’immediato – il duplice effetto a valenza giuridica di porre fine al proprio rapporto di lavoro e di formalizzare la sua decisione di rispettare o meno i termini di preavviso previsti dal contratto.

In conclusione troviamo anche in questa FAQ un’ulteriore conferma di come le modalità di gestione del preavviso emergano implicitamente dal contenuto (la data indicata di fine rapporto) della comunicazione telematica, che racchiude in sé la rinuncia o la disponibilità a lavorarlo, interamente o parzialmente.

Tutto ciò, come detto, senza che sia necessario ricorrere ad altra specifica comunicazione.

La modifica della data di cessazione rapporto

In questo quadro un eventuale errore nell’indicazione della data di cessazione potrà essere gestito, in autonomia dal lavoratore, entro i 7 giorni successivi previsti per la revoca delle dimissioni mediante un escamotage ovvero annullando la comunicazione inviata e presentandone una nuova con data diversa.

Oltre tale termine la data potrà essere modificata solo ed esclusivamente tramite accordo con il proprio datore. E non potrebbe essere altrimenti perché riconoscendo al lavoratore il potere unilaterale di modificare la data di fine rapporto si giungerebbe a situazioni paradossali.

Si ipotizzi infatti l’indicazione della cessazione del contratto dopo una decina di giorni, pur a fronte di un periodo di preavviso di un paio di mesi. Se fosse riconosciuto un potere unilaterale al lavoratore di modificare la data di fine lavoro questi potrebbe, di dieci giorni in dieci giorni, posticipare la cessazione del rapporto di lavoro creando non pochi disagi all’organizzazione del datore di lavoro.

Analoga situazione dove si permettesse al lavoratore di modificare – anticipando la chiusura del proprio rapporto – una comunicazione che sia stata presentata con largo anticipo rispetto ai termini previsti dal Ccnl. In questo caso si ritiene che l’abbandono del lavoro prima della data segnalata autorizzerà il datore di lavoro a trattenere il preavviso nella misura della prestazione lavorativa non eseguita, considerando il teorico periodo di preavviso con un calcolo a ritroso dalla data di cessazione effettiva. Una diversa interpretazione permetterebbe a ciascun lavoratore di segnalare la cessazione del rapporto di lavoro con la data ad esempio del compimento dei 100 anni lasciandosi così aperta la possibilità di cessare il proprio rapporto ad nutum senza incappare in alcuna trattenuta per il mancato rispetto del preavviso.

L’accordo tra le parti per la gestione del preavviso

Ovviamente nulla vieta che le parti prevedano – a mezzo di un accordo ad hoc, anche preventivo – gli effetti di un futuro verificarsi dell’evento dimissioni e pertanto convengano tra loro che il periodo di preavviso abbia decorrenza dalla manifestazione delle dimissioni, anche prescindendo dalla presentazione cartacea di una lettera di dimissioni. Si tratterebbe quindi di un accordo e mai di una conseguenza automatica di un atto unilaterale del lavoratore.

Si ritiene peraltro che un accordo di questo tipo sia fortemente da sconsigliare in quanto un ripensamento del lavoratore – anche se è improprio parlare di ripensamento dato che la volontà di dimettersi è giuridicamente inesistente – potrebbe creare non pochi problemi all’azienda che avesse fatto affidamento sulla cessazione del rapporto.

Si ipotizzi un lavoratore con un periodo di preavviso di qualche mese con il quale si concordasse la decorrenza del preavviso senza una valida comunicazione telematica e proprio a fronte di questa programmata assenza (giuridicamente non certa ma solo prospettata dal lavoratore) il datore di lavoro si organizzasse e contattasse un sostituto, formalizzando con questi un impegno di assunzione a tempo determinato, il quale in funzione di questa promessa abbandonasse il suo posto di lavoro.

E magari che il lavoratore dimissionario, spinto a dimettersi perché allettato da altra proposta lavorativa, si rendesse conto che il cambio lavoro non è così allettante come credeva e rinunciasse a dimettersi.

In tali casi, salvo integrare l’accordo di gestione del preavviso con una clausola penale di importo elevato per il caso di mancata cessazione del rapporto, le conseguenze economiche potrebbero essere di un certo rilievo.

Del resto non si riesce ad immaginare motivo alcuno – giuridicamente meritevole di tutela – per cui il lavoratore non possa accedere da subito alla procedura telematica o per permettergli di procrastinare, magari all’ultimo giorno di lavoro previsto, la formalizzazione della propria volontà nelle modalità previste ex lege ai fini dell’efficacia delle proprio dimissioni.

Conclusioni

La tesi dell’autonoma efficacia del preavviso che abbiamo preso a pretesto per questa disamina e per le successive considerazioni appare in tutta evidenza non sostenibile per le varie ragioni che abbiamo sopra esposto.

Ma soprattutto non appare condivisibile sulla base di una semplicissima considerazione: la norma parla di inefficacia delle dimissioni in assenza della forma tipica.

In assenza di una diversa precisazione, che nella norma non si intravede, l’inefficacia è da intendersi a tutto tondo e quindi ai fini civilistici, normativi ed economici (preavviso compreso) e non solo in relazione alla volontà di porre termine al proprio rapporto di lavoro.

Poiché solo la procedura telematica fornisce rilevanza giuridica alla decisione del lavoratore non appare possibile sostenere che in assenza dell’atto principale (le dimissioni) possano crearsi, per volontà unilaterale, effetti collaterali e secondari necessariamente collegati e riconducibili ad una volontà mai manifestata, inesistente in quanto priva della forma prevista dalla legge.

Se così fosse ci ritroveremmo a dare rilevanza giuridica a una manifestazione di intenti (la volontà di dimettersi) che per legge non vincola il lavoratore in quanto inesistente, ma che si vorrebbe produrre effetti sul datore di lavoro (in riferimento al preavviso) nel caso in cui la cessazione del rapporto si realizzasse in un successivo momento.

È un poco come sostenere che un datore di lavoro possa comunicare al lavoratore la decorrenza del preavviso in funzione di un licenziamento che ancora non si intende formalizzare, precisando che una vera e propria comunicazione di risoluzione del rapporto verrà inviata successivamente perché sta fissando un appuntamento con il proprio Consulente del lavoro per individuare e compiutamente esplicitare le necessarie motivazioni.

1 Ministero del Lavoro: Dimissioni on line: Risposte FAQ.

 

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Una Proposta al mese – Lavoratrici madri: alla ricerca di un nuovo equilibrio delle regole e tutele

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna

La normativa italiana in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, parliamo ovviamente del D.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001, è improntata ad una forte tutela dell’evento maternità con una attenzione che si rivolge indiscutibilmente più alla lavoratrice che all’azienda.

Divieto di discriminazione, anticipo del Tfr, sicurezza sul lavoro, controlli prenatali, congedo di maternità, interdizione anticipata, interruzione di gravidanza, congedo parentale, permessi per allattamento, congedo per malattia del figlio, lavoro notturno, divieto di licenziamento – senza dimenticare i diritti riconosciuti al padre – dimostrano questa sperequazione a favore della parte prestatrice.

Al datore di lavoro viene riservata una scarsissima considerazione nonostante le evidenti problematiche dovute sia alla lunga, spesso lunghissima, assenza della lavoratrice che agli oneri economici per retribuzioni, dirette e differite, che maturano in capo alla stessa nel periodo di gravidanza e maternità.

Non si vuole qui ipotizzare un, peraltro difficilmente dimostrabile, rapporto di causa-effetto, tuttavia appare più che evidente che l’iperprotezione della lavoratrice madre (spesso a danno e discapito del datore di lavoro) non rappresenta certo la miglior soluzione al problema della discriminazione che l’universo femminile subisce sia nell’accesso nel mondo del lavoro che nella propria carriera lavorativa.

Scopo del presente intervento non è certo una riscrittura delle tutele, quanto piuttosto un modesto suggerimento per un restyling di due disposizioni, una in ambito organizzativo e l’altra sotto l’aspetto economico, nel tentativo di superare la, ahimè diffusa, percezione della donna lavoratrice quale “portatrice sana di problemi in azienda”.

La sostituzione di lavoratrici in congedo

Si diceva di come all’azienda, che pure subisce pesanti ripercussioni organizzative dall’assenza della lavoratrice per maternità, venga riservata una attenzione minima che scorgiamo in pratica nel solo art. 4, Sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo, che opera su due fronti:

  1. l’aspetto economico, riconoscendo uno sgravio contributivo del 50% (peraltro riservato alle sole aziende con meno di 20 dipendenti) per i contributi dovuti per il personale assunto a tempo determinato in sostituzione di lavoratrici/lavoratori in congedo, oltre all’esenzione dal contributo dell’1,40% previsto per i normali contratti a tempo determinato;

  2. l’aspetto normativo, concedendo di procedere alle predette assunzioni anche con un anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio del congedo (salvo periodi superiori che possono essere previsti dalla contrattazione collettiva) oltre alla esclusione dalla computabilità degli assunti per esigenze sostitutive dai limiti massimi degli occupabili a tempo determinato in ciascuna azienda (art. 23 del D.lgs. n. 81/2015).

Se poco vi è da dire circa lo sgravio sulla quota di contribuzione dovuta per il sostituto, che di fatto permette di azzerare i costi indiretti che il datore di lavoro sostiene per le lavoratrici e lavoratori in congedo ai sensi del Testo Unico n. 151/2001 (quota ratei ferie, mensilità aggiuntive e Tfr), qualcosa in più poteva esser fatto in tema di periodo di affiancamento e sostituzione.

Procediamo con ordine analizzando per prima cosa ciò che l’attuale normativa prevede sul punto all’art. 4, co. 2:

L’assunzione di personale a tempo determinato e l’utilizzazione di personale temporaneo, in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo ai sensi del presente testo unico, può avvenire anche con anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio del congedo, salvo periodi superiori previsti dalla contrattazione collettiva.

La ratio è assolutamente condivisibile. Il lavoratore assunto per sostituire una lavoratrice, specie se occupa una posizione strategica, e che si assenterà per un periodo di almeno cinque mesi, ha l’assoluta necessità di coordinarsi con il sostituito e quindi di potersi affiancare ad essa per un passaggio di consegne quanto più indolore. Un periodo di affiancamento che la norma prevede in un mese ma che la contrattazione collettiva ha la possibilità di ampliare in funzione, quantomeno nelle intenzioni del legislatore, della specificità del settore o delle mansioni: si pensi al personale con funzioni concettuali, non necessariamente iperspecialistiche, non certo a figure facilmente intercambiabili quali, per fare un esempio banale, il personale di pulizia.

Un plauso quindi al legislatore al quale però, allo stesso tempo, dobbiamo sollevare un appunto ovvero l’essersi lasciato sfuggire che il medesimo problema si pone al rientro della sostituita (parleremo quasi sempre al femminile dato che l’assenza del lavoratore è caso raro e non ugualmente significativo in termini temporali), la quale si potrebbe ritrovare a rioccupare la propria posizione anche molto tempo dopo l’inizio del congedo.

Non è raro infatti (si potrebbe malignamente dire che è quasi la norma) che la dipendente sia oggetto di un provvedimento di interdizione anticipata – per gravi complicanze nella gestazione o per condizioni di lavoro o ambientali pregiudizievoli – che significa l’assenza della lavoratrice già dalle prime settimane di gravidanza, quindi anche otto mesi prima del parto. Ovviamente in questo caso la neo-mamma rientrerebbe al lavoro senza nemmeno aver svolto un affiancamento pre-partum e quindi senza aver conosciuto il sostituto e condiviso con lui le metodologie di lavoro essendo ovviamente l’assenza “anticipata” non programmabile per definizione.

Aggiungiamoci il periodo di assenza obbligatorio post-partum, quindi altri tre mesi. Ipotizziamo pure la fruizione del congedo parentale: altri sei mesi. Senza escludere poi che la lavoratrice possa chiedere di usufruire di una assenza non retribuita fino al compimento del primo anno di età del bambino.

E dovrà anche, prima del rientro, godere delle ferie maturate nel frattempo.

Siamo a venti mesi e oltre, quasi due anni di assenza, al termine della quale, come detto, la lavoratrice tornerebbe a rioccupare la propria “postazione” trovando la scrivania sommersa da pratiche, riferite a nuovi clienti o nuove procedure, di cui non sa ovviamente nulla e senza qualcuno che la possa aiutare o dare indicazioni.

Se aziende molto strutturate sono in grado, nella maggior parte dei casi, di gestire senza particolari intoppi questi eventi, l’assenza per maternità in aziende di ridotte dimensioni, dove spesso la parte amministrativa è tutta sulle spalle di un’unica impiegata, è evidentemente una problematica di una certa delicatezza, che può avere gravi ripercussioni sull’intera struttura organizzativa.

Spesso infatti, nelle piccole aziende, è difficile ipotizzare un passaggio di consegne interno – gestito direttamente dal titolare o da altro suo collaboratore – senza che ciò per costoro comporti il tralasciare le proprie mansioni rivolte ad altri settori o alla parte operativa. In questi casi l’alternativa diventa l’assunzione a termine con scadenza il mese successivo l’effettivo rientro al lavoro della lavoratrice sostituita, gestendo ulteriori necessità con delle proroghe.

Vi sarebbe quindi un originario duplice motivo alla base del rapporto lavorativo: un primo di tipo “sostitutivo”, che per espressa disposizione di legge comprende anche l’affiancamento pre-assenza, e un successivo per “affiancamento post-rientro”. Ovviamente per questo secondo periodo di contestuale presenza del sostituto e della sostituita, non spetterebbe alcun beneficio economico, imponendo quindi la doppia elaborazione ai fini contributivi nello stesso mese di due cedolini per lo stesso lavoratore.

Peraltro – e lo diciamo sottovoce – considerata la pretestuosità di alcune interpretazioni di prassi a mero fini di incasso non ci sorprenderemmo se l’assunzione venisse dall’Inps considerata “non sostitutiva pura ai sensi del D.lgs. n. 151/2001”, negando quindi i benefici, sia economici che normativi, per l’intero periodo sostitutivo.

Una proposta che superi qualsiasi complicazione operativa e elimini qualsiasi rischio di vertenza è semplice ed appare, per quanto sin qui detto, finanche pleonastico precisarla.

L’assunzione di personale a tempo determinato e l’utilizzazione di personale temporaneo, in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo ai sensi del presente testo unico, può avvenire anche con anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio del congedo e potrà protrarsi fino al mese successivo il rientro della lavoratrice o del lavoratore sostituita/o, salvo periodi superiori previsti dalla contrattazione collettiva.

Gli oneri economici per lo Stato non appaiono insostenibili dato che riguarderebbero solo lo sgravio contributivo del 50%, peraltro riservato alle sole aziende al di sotto delle 20 unità, costo che riteniamo facilmente giustificabile dall’esigenza di mantenere la piena competitività sul mercato delle aziende interessate, salvaguardando al contempo la professionalità ma anche e soprattutto – in ottica di prevenzione dal rischio da stress lavoro-correlato – la serenità personale delle lavoratrici in rientro.

Le dimissioni volontarie

Ma c’è una situazione che risulta difficile da spiegare e da far, come si suol dire, “digerire” ai nostri clienti ovvero i costi connessi alle dimissioni di una lavoratrice presentate nel primo anno di vita del bambino.

L’art. 55 del D.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001, Testo Unico sulla maternità, così dispone:

1. In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell’articolo 54, il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. La lavoratrice e il lavoratore che si dimettono nel predetto periodo non sono tenuti al preavviso.

Anche in questo caso il legislatore non è parso particolarmente illuminato.

La giurisprudenza si è infatti divisa interpretando in alcuni casi il diritto alle indennità previste da disposizioni contrattuali condizionato “alla sola condizione che le dimissioni volontarie siano state presentate durante il periodo in cui è previsto il divieto di licenziamento. Nessun altro elemento di natura soggettiva od oggettiva è richiesto dalla norma”1.

Una lettura rigida che si fonda sulla presunzione assoluta di non spontaneità completa delle dimissioni, dovute alla necessità di occuparsi del bambino in maniera esclusiva2.

Un diverso orientamento – più favorevole ai datori di lavoro – ha invece ritenuto che la presunzione di non spontaneità delle dimissioni della lavoratrice madre (che giustificherebbe l’obbligo indennitario a carico del datore di lavoro) potesse essere in qualche modo superata, osservando che, se si teme che le dimissioni della gestante o della madre siano dovute non alla sua volontà ma al sistema di organizzazione produttiva ed al datore di lavoro e sembra perciò ragionevole equipararle sul piano degli effetti patrimoniali al licenziamento, la ragionevolezza dell’equiparazione viene meno quando l’iniziativa sia dettata da chiare ragioni di convenienza del recedente.

Con molta lucidità la suprema Corte osserva che “La corresponsione dell’indennità … potrebbe anzi indurre la lavoratrice più facilmente alle dimissioni e … a ripeterle anche col nuovo datore di lavoro, senza esserne dissuasa da possibili conseguenze negative sul piano dell’abuso del diritto: figura di incerta consistenza nel campo dei contratti a prestazioni corrispettive. L’imposizione indiscriminata di obblighi indennitari al datore di lavoro contrasterebbe col principio costituzionale di ragionevolezza (art. 3, secondo comma, Cost.), che si concreta, nel caso in esame, in quello di responsabilità nonché nella necessità che all’indennizzo corrisponda almeno un “pericolo” di danno. Si avrebbe, inoltre, una sorta di premio di maternità a carico non già del sistema previdenziale ma dell’imprenditore, con ingiustificata riduzione della sua libertà di iniziativa economica” (art. 41 Cost.)3.

A far da contraltare al principio esposto vi sono dei se e dei ma. Gli ermellini infatti ritengono ripristinata la ratio legis, e quindi che l’indennità sia ugualmente dovuta, quando il datore di lavoro non sia in grado di provare che la lavoratrice abbia, subito dopo le dimissioni, iniziato un nuovo lavoro ovvero quando la lavoratrice riesca a provare che il nuovo impiego sia per lei meno vantaggioso sul piano sia patrimoniale sia non patrimoniale (ad esempio per gravosità delle mansioni o per maggiore distanza della sede di lavoro dall’abitazione, ecc.).

Premesso che ad avviso di chi scrive risulterebbe iniquo pretendere il versamento del mancato preavviso (quantomeno in misura totale) nel caso che il nuovo stipendio sia inferiore di pochi euro o che il nuovo luogo di lavoro sia raggiungibile impiegando qualche minuto in più, non si può non sottolineare la prova diabolica che viene richiesta al datore di lavoro, chiamato a discutere dell’asserita non equivalenza delle nuove mansioni rispetto le precedenti in riferimento ad aspetti spesso non valutabili in termini matematici, quali situazioni di vantaggio e di gravosità.

Non è poi da escludersi che la lavoratrice potrebbe sottoscrivere formalmente un contratto part-time pur di fatto lavorando a tempo pieno (magari facendosi pagare gli extra in nero o dilazionandoli sotto forma di bonus o premi periodici: la fantasia italica in questi casi non ha limiti), ovvero richiedere un sottoinquadramento per il periodo iniziale del rapporto se non addirittura posticipare ad arte l’assunzione presso il nuovo datore dato che, stando alla Cassazione, la lavoratrice perderebbe il diritto solo se l’inizio del nuovo lavoro avvenisse “senza intervallo di tempo”. In pratica: aspetta una settimana e nessuno potrà contestare nulla.

Che dire: il classico pastrocchio all’italiana dove tutto è ambiguo e il contenzioso dall’esito incerto perché i criteri indicati dalla giurisprudenza non si riferiscono a dati oggettivi e dove i soliti furbetti verrebbe stimolato e pure premiato. E di questo, in questa disastrata Italia, non se ne sente proprio il bisogno.

Forse sarebbe stato meglio puntare sin dall’inizio su una lettura che sottolineasse il fatto che il periodo finale del comma 1 dell’art. 55 dispone che la dimissionaria non è tenuta al rispetto del preavviso. Una precisazione che in effetti appare contraddittoria ove, nello stesso istante, si voglia intendere – in via interpretativa – riconosciuta implicitamente alla lavoratrice l’indennità sostitutiva del preavviso a carico del datore (che presuppone un licenziamento senza rispetto dei termini) e al contempo si esclude – in questo caso esplicitamente – il dovere di rispettare il preavviso per la lavoratrice, previsto in caso di dimissioni.

È evidente che c’è qualcosa che non va se per la medesima situazione giuridica, la cessazione del rapporto, si disciplinano contestualmente e a favore della lavoratrice le conseguenze di due diversi comportamenti, dimissioni e licenziamento, nonostante l’uno escluda necessariamente l’altro.

Ovviamente questa lettura porterebbe a negare l’indennità di mancato preavviso in tutti i casi, ma rispetterebbe la ratio di concedere alla lavoratrice dimissionaria, impossibilita proprio per la situazione organizzativa post-partum a proseguire il rapporto, di non attenersi ai termini di preavviso previsti dal contratto per le dimissioni.

Ma soprattutto risulterebbe una interpretazione aderente al criterio costituzionale della ragionevolezza, che impone al legislatore di bilanciare sempre i distinti valori costituzionali in gioco. Perché una domanda nasce spontanea: cosa avrà fatto di male il povero datore di lavoro per accollargli un onere economico quale conseguenza di un comportamento riconducibile ad altri? Perché questa eccezione al principio di autoresponsabilità? È sufficiente richiamare, come fatto dalla Cassazione, la considerazione che il datore di lavoro è “un esponente di un sistema di organizzazione produttiva che non sempre consente alla donna di conciliare adeguatamente le prestazioni lavorative con l’adempimento dei propri compiti di madre4?

Non scordiamoci peraltro che, dal punto di vista economico, la lavoratrice madre, non solo non subisce trattenuta alcuna per mancato preavviso a seguito delle proprie dimissioni, ma ha la possibilità di vedersi riconosciuto l’accesso alla Naspi.

Di un ulteriore “omaggio economico” a carico azienda non se ne sente il bisogno salvo ritenere che le dimissioni in periodo protetto della lavoratrice madre costituisca un costo sociale da far ricadere (al pari del collocamento obbligatorio) non sul sistema previdenziale statale ma proprio sul “meritevole” datore di lavoro che abbia provveduto, in questo caso per scelta volontaria, all’assunzione di personale di sesso femminile.

Affermazione chiaramente pericolosa.

Le considerazioni che precedono pongono in evidenza la necessità di fare giustizia di una norma la cui formulazione approssimativa e la conseguente lettura datale dalla giurisprudenza (nonostante un filone favorevole in talune fattispecie al datore di lavoro) ha creato una ingiustificata penalizzazione alle aziende che nei fatti percepiscono l’obbligo previsto dalla norma una prevaricazione se non un vero e proprio furto.

Questa quindi la proposta di modifica dell’art. 55 del D.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001

1. In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell’articolo 54, il divieto di licenziamento, la lavoratrice e il lavoratore non sono tenuti al preavviso. La lavoratrice che si dimetta nel predetto periodo ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento, esclusa l’indennità di mancato preavviso.

Come si può notare ci siamo limitati ad invertire i due periodi della disposizione originaria: dapprima stabilendo il principio generale dell’esclusione dagli obblighi di preavviso della lavoratrice e del lavoratore; poi andando a disciplinare il diritto della lavoratrice alle indennità previste per il caso di licenziamento.

La novità è solo nell’ultimo periodo (ove si esclude il diritto alla indennità di mancato preavviso) il quale appare, in effetti, tautologico e ridondante a conferma che la norma avrebbe potuto essere letta sin da subito in modo da escludere l’onere che qui si propone di abolire.

1 Cassazione 22 ottobre 1991, n. 11164.

2 Corte Cost. 24 marzo 1988 n. 332.

3 Cassazione 19 agosto 2000, n. 10994.

4 Cassazione 14 maggio 1985, n. 2999.

 

 

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