La GIG Economy: cogliamo l’opportunità per rimettere a modello il sistema nel suo complesso

Potito di Nunzio – Presidente dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano e provincia1

Il mondo del lavoro è cambiato così come sono cambiati i rapporti civili, economici, di solidarietà, di fratellanza, di rispetto. La stessa scala dei valori è cambiata. Così come sono cambiati costumi, necessità e prodotti di consumo.

Una volta si pensava al risparmio, alla casa, alla solidità delle cose, oggi invece si spende più di quello che si guadagna in prodotti di consumo e si ambisce a un tenore di vita più alto di quello che ci si può permettere anche a costo di indebitarsi fino al collo.

Tutto questo ha portato ad una precarizzazione dei rapporti, compreso quelli di lavoro, complice anche la tecnologia sempre più presente nella nostra vita tanto da portare i giovani all’isolamento dietro ad uno schermo, piccolo o grande che sia.

Lo stesso modo di scrivere sta cambiando perchè oggi si scrive molto di più di prima anche se non si usa più carta e penna. Però ci si dimentica di usare correttamente la lingua italiana.

Oggi parliamo di Impresa 4.0, della fabbrica senza gli operai, della tassazione dei robot e del reddito di cittadinanza.

Dobbiamo spaventarci di tutto questo? Assolutamente no, bisogna però necessariamente adeguare il corpus normativo a tutela dei più deboli. Una volta c’era la classe operaia da difendere, oggi si avverte una necessità trasversale che abbraccia tutte le classi sociali, quindi sono necessarie normative universalistiche di tutela indipendentemente dal tipo di occupazione o di lavoro, superando la classica suddivisione codicistica che vede contrapposti i dipendenti agli autonomi. E ci aggiungerei anche il piccolo imprenditore.

Né si può correre dietro ai fenomeni del momento. Oggi i riders, ieri i tassisti di Uber e così via. Neanche si può pensare ad un mercato protezionistico vietando alcune fattispecie di lavoro o impedendone di fatto lo sviluppo perché così ci priviamo del lavoro che deriva dall’utilizzo delle piattaforme informatiche, oppure, più verosimilmente, lo consegniamo alle forme più deteriori di lavoro nero o “grigio scuro”.

Non sono convinto che la via negoziale sia la migliore. In questo modo si creano sacche di evasione e/o di elusione, visto il problema, mai risolto, della rappresentanza sindacale e imprenditoriale che abbiamo in Italia e della mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione.

I nuovi lavori non devono però far dimenticare i vecchi lavori che pure hanno necessità di essere protetti. Mi riferisco ai lavori in agricoltura, nell’edilizia, nell’artigianato, a quella manodopera non specializzata molto spesso straniera e a volte anche illegale.

Oggi stiamo vivendo, inoltre, fenomeni di vero e proprio dumping sia nazionale che internazionale che colpiscono anche il lavoro cd “protetto”, quello di coloro i quali hanno un rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato che sia, ai quali si applicano le corrette normative legali e contrattuali. Mi riferisco a tutti quei contratti collettivi al ribasso stipulati da non meglio identificate associazioni imprenditoriali, complici i sindacati autonomi dei lavoratori che si fregiano della maggior rappresentatività comparata (a loro dire). Ma non solo, il fenomeno del body rental che con la somministrazione di manodopera si voleva debellare è oggi più pregnante che mai. Il sistema degli appalti, gestiti da alcune cooperative senza scrupoli, sta davvero rendendo il mercato del lavoro una jungla feroce nella quale vince sempre il più forte. Ed il più forte non è il lavoratore ma colui il quale può permettersi di pagare le sanzioni amministrative, alte che siano, senza rischiare la galera.

Anche in campo internazionale, limitandomi ad osservare la sola comunità europea, stiamo vivendo una stagione di vero e proprio dumping dovuto a importanti flussi migratori derivanti dagli appalti internazionali aggiudicati da aziende estere che, pur appartenenti all’Unione Europea, hanno regole del lavoro e soprattutto un costo del lavoro totalmente diverso da quello italiano. L’allargamento della UE a 28 Paesi non è stato, per alcuni versi, un toccasana per il mercato del lavoro italiano. E quand’anche in Italia venga rispettato il cd “nocciolo duro” delle nostre normative, non essendoci eguaglianza in termini di costo del lavoro, perché ad esempio il gravame contributivo è decisamente più basso negli stati stranieri, questi appalti tolgono lavoro alle nostre imprese e ai lavoratori italiani, perché non sono competitive.

Voglio chiudere queste brevi riflessioni con una provocazione che riguarda l’agire quotidiano di ognuno di noi. Quanta colpa possiamo attribuirci nel ricercare prezzi sempre più bassi nell’acquisizione di beni e servizi? A tutti fa piacere risparmiare, ma nessuno si pone il problema che tutto ciò che risparmiamo ricade negativamente sull’anello più debole della catena e cioè su chi lavora. Però tutti ci indigniamo quando sentiamo parlare di tre euro a consegna per riders o tre euro all’ora per chi raccoglie pomodori nei campi. Saremmo disposti a pagare dieci euro per una consegna di una pizza o un euro per barattolo di pelati anzichè 50 centesimi?

La riflessione si fa ampia ma non si possono attendere tempi biblici per la rimessa a modello del sistema nel suo complesso. Iniziamo a prevedere un salario minimo legale, a reintrodurre le sanzioni penali per gli appalti illeciti e per le somministrazioni fraudolente di manodopera, a monitorare di più e meglio i distacchi internazionali per evitare il dumping europeo, a reintrodurre i voucher vecchia maniera per evitare il lavoro nero, a semplificare le leggi sul lavoro, a ridurre il costo del lavoro, a risolvere il problema della rappresentanza e dell’art. 39 cost., a rivedere il doppio livello di contrattazione collettivo che ha creato disparità di trattamento retributivo fra piccola e grande azienda. Anche i professionisti potrebbero essere di grande aiuto – se qualcuno con decisione ne valorizzasse normativamente le potenzialità – con meccanismi di prevenzione del contenzioso e di promozione di legalità, quali certificazioni, audit ed asseverazioni. Una cosa è certa: non possiamo solo diagnosticare le malattie e non sperimentare mai alcuna cura.

1 In corso di pubblicazione su Guida al Lavoro, Il Sole 24 Ore.

 

Preleva l’articolo completo in pdf 

Violazione dello jus variandi e rifiuto del lavoratore di adempiere

di Laura Di Nunzio – Avvocato in Milano

 

Il rifiuto del dipendente di svolgere la sua prestazione lavorativa è sicuramente uno dei più gravi inadempimenti di cui lo stesso possa rendersi responsabile e legittima il datore di lavoro ad esercitare il potere disciplinare fino alle sue estreme conseguenze, ossia l’irrogazione del licenziamento per giusta causa. Del resto, il rapporto di lavoro altro non è che un contratto a prestazioni corrispettive, nel quale si contrappongono, da un lato, l’obbligo del prestatore di lavoro di svolgere una determinata attività lavorativa e, dall’altro, l’obbligo del datore di lavoro di erogare il corrispettivo pattuito per l’attività resa. Il rifiuto del dipendente di adempiere alla propria obbligazione, dunque, fa venir meno il “sinallagma” che caratterizza il rapporto di lavoro, alterando quella reciprocità di condotte sulla quale si erge e si giustifica l’esistenza stessa di tale peculiare contratto, la cui causa – lo si ricorda – è di “scambio”. Ma cosa accade se il lavoratore si rifiuta di rendere la sua attività lavorativa perché la prestazione richiestagli non è conforme a quella pattuita in sede di assunzione o a quella successivamente assegnatagli? Più specificamente, se parte datoriale affida ad un proprio dipendente una mansione non rientrante nel suo livello di inquadramento contrattuale e/o nella categoria legale riconosciutagli, può il lavoratore legittimamente negare la sua prestazione? La questione non è di poco conto e tocca diversi aspetti giuridici, tra i quali i confini da riconoscere allo jus variandi del datore di lavoro e il grado di rilevanza da attribuire all’inadempimento datoriale qualora abusi di tale potere. Perché, se assegnare mansioni non conformi all’inquadramento contrattuale e/o alla categoria legale integrasse una condotta inadempiente di “non scarsa” rilevanza, al dipendente non potrebbe negarsi il diritto di avvalersi della c.d. “eccezione di inadempimento” per liberarsi, a sua volta, della sua obbligazione. L’eccezione di inadempimento è disciplinata dall’art. 1460 c.c. e rappresenta uno strumento di autotutela che il nostro ordinamento riconosce alle parti di un contratto a prestazioni corrispettive laddove una di queste non adempia o non offra di adempiere la propria prestazione: in tali casi, la controparte può rifiutarsi a propria volta di adempiere, sempre che tale rifiuto non sia contrario a buona fede. Infatti, non ogni inadempimento giustifica il ricorso a tale forma di (auto)tutela: per negare la prestazione occorre che l’altrui inadempimento sia di tale gravità e rilevanza da compromettere quella reciprocità di condotte che connota il rapporto di lavoro; in altri termini, è necessario che la reazione alla violazione sia proporzionale alla violazione stessa.

Proprio argomentando in ordine alla proporzionalità e buona fede del rifiuto, la giurisprudenza ha per lo più escluso la legittimità della negazione opposta dal lavoratore di rendere la propria prestazione lavorativa in caso di demansionamento, giudicando tale reazione non proporzionale alla condotta – pur illegittima – del datore di lavoro. Secondo l’orientamento consolidatosi in giurisprudenza, “il lavoratore può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo – che peraltro può essergli urgentemente accordato in via cautelare – di eseguire la prestazione richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartito dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., (…) e può legittimamente invocare l’art. 1460 c.c., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell’altra parte”1.

Dunque, il rifiuto di rendere l’attività lavorativa quale strumento di autotutela del lavoratore è ammesso unicamente nel caso in cui vi sia un totale o grave inadempimento datoriale agli obblighi che gli discendono dal contratto di lavoro, ossia una violazione talmente importante da incrinare quella reciprocità di condotte sulla quale si giustifica la tipologia contrattuale in esame. La valutazione in ordine alla legittimità del rifiuto opposto dal lavoratore dunque passa attraverso la necessaria comparazione dei comportamenti delle parti, essendo necessario stabilire se vi sia relazione causale ed adeguatezza – nel senso della proporzionalità rispetto alla funzione economico- sociale del contratto – tra l’inadempimento del dipendente e il precedente inadempimento datoriale. Il rifiuto di adempiere, come reazione all’inadempimento dell’altra parte, deve infatti risultare ragionevole e logico in senso oggettivo, trovando concreta giustificazione nella gravità della prestazione ineseguita, alla quale si correla la prestazione rifiutata2.

Prendendo in considerazione le pronunce giurisprudenziali esistenti in materia, la violazione dei limiti allo jus variandi non è stata considerata una condotta tanto grave da legittimare l’astensione dal lavoro: le Corti giudiziali infatti sottolineano in tali casi come il dipendete sia tenuto a dare continuità alla propria prestazione, soddisfacendo l’interesse datoriale, ben potendo attendere la tutela apprestatagli (ex post) dal giudice, una volta eccepito e provato in giudizio l’inadempimento di quest’ultimo. Diverso è invece il caso in cui le mansioni di nuova adibizione richiedano al lavoratore una “particolare onerosità”, o perché incidenti direttamente sulle sue immediate esigenze vitali o perché lesive di beni fondamentali della persona, quali la salute o vita3. In tali ipotesi, infatti, la reazione all’inadempimento datoriale non può che essere immediata ed anticipata rispetto al ricorso al giudice. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’assegnazione a mansioni confliggenti con le accertate limitazioni fisiche del lavoratore o per le quali il datore di lavoro non abbia apprestato le necessarie misure di sicurezza4: in tali casi il rifiuto di prestare l’attività lavorativa è stato giudicato lecito, in quanto l’unica misura idonea a garantire al lavoratore un’effettiva tutela, che sarebbe invece esclusa ove il dipendente fosse costretto ad attendere i tempi del processo. Un’altra ipotesi in cui sussiste – secondo la magistratura – una legittima causa di rifiuto di prestare l’attività lavorativa è la violazione dell’obbligo retributivo e della copertura contributiva, trattandosi questi di inadempimenti ad obbligazioni che connotano la tipologia stessa del contratto di lavoro, la cui causa è – come detto – lo scambio tra un “fare” e un “dare”, dove il “dare” riguarda proprio la retribuzione e ciò che ne consegue dal punto di vista previdenziale e assicurativo. Peraltro, tale inadempimento incide sulle esigenze vitali del lavoratore, essendo la retribuzione una fonte di sostentamento per il lavoratore. Un caso in cui invece certamente il lavoratore non potrà invocare l’art. 1460 c.c. è quello in cui lo stesso venga adibito ad un’attività complessa, comportante una molteplicità di operazioni ed una pluralità di compiti, solo alcuni dei quali “demansionanti”: in tale caso, il rifiuto allo svolgimento di qualsiasi prestazione non sarebbe sicuramente proporzionale all’inadempimento datoriale, potendo il lavoratore svolgere tutte le altre attività perfettamente in linea con il suo inquadramento contrattuale.

1 Cass. civ. Sez. lavoro 16 gennaio 2018, n. 836.

2 In punto di proporzionalità dell’inadempimento al rifiuto, si citano ex aliis, Cass. civ. Sez. lavoro, 26 giugno 1999, n. 6663; Cass. civ. Sez. lavoro, 1 marzo 2001, n. 2948; Cass. civ. Sez. lavoro, 7 novembre 2005, n. 21479, Cass. civ. Sez. II, 8 giugno 2006, n. 13365; Cass. civ. Sez. lavoro, 27 aprile 2007, n. 10086; Cass. civ. Sez. lavoro, 12 febbraio 2008, n. 3304; Cass. civ. Sez. lavoro, 19 luglio 2013, n. 17713.

3 Così, ex multis, Cass. civ. Sez. lavoro, 13 giugno 2016, n. 12102; Cass. civ. Sez. lavoro, 31 gennaio 2011, n. 2153.

4 Cass. civ. Sez. lavoro, 7 novembre 2005, n. 21479.

Preleva l’articolo completo in pdf