LA CARICA DEI 104

Loredana Salis, Consulente del Lavoro in Milano
e Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Si può coniugare semplicità con tutela? Si può concepire il rapporto di lavoro come una relazione e non come una gabbia? Si può applicare una direttiva UE senza complicarla? Sono queste le domande che hanno indirizzato il lavoro del Centro Studi della Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano che qui siamo lieti di presentare: un testo di legge come l’avremmo scritto noi e che quindi sostituisce completamente il D.lgs. n. 104/2022 (e anche il D.lgs. n. 152/1997). Le esigenze, nate dallo sconcerto e dallo sconforto che fin dai primi giorni erano scaturiti dalla lettura del Decreto in questione, erano molteplici e stringenti: – concepire un testo di legge che non fosse il solito patchwork normativo, fatto di rimandi poco chiari, sovrapposizioni, stratificazioni; – evitare la formazione obbligatoria di documenti chilometrici ma poco, o per nulla utili (anzi, con il rischio di essere addirittura confusivi e fuorvianti) in un’epoca in cui le informazioni sono disponibili – o possono essere rese – con pochi e intelligenti mezzi; – bilanciare la gestione del rapporto e l’esercizio dei diritti di tutti senza squilibri impropri e costi ed oneri iniqui per i datori di lavoro. Dati questi presupposti, offriamo alcune brevi note di lettura per il testo che seguirà e per quanto abbiamo cercato di realizzare con questa proposta.

a) Dal decreto e dagli obblighi sono stati quasi completamente espunti i committenti (e correlativamente anche i collaboratori coordinati e continuativi): in un Paese serio – prima o poi lo diventeremo – gli autonomi sono autonomi e i subordinati sono subordinati, senza commistioni confusive. Siamo per rafforzare le tutele serie, non per annacquarle in fattispecie di dubbia o equivoca definizione.

b) I contenuti dell’informativa da fornire sono stati resi più chiari ed equilibrati, così come i modi di comunicazione ed i tempi di conservazione.

c) Gli obblighi non previsti dalla Direttiva, ma di mera invenzione italiana, sono stati aboliti: in un ambito di competizione internazionale non sembra il caso di distinguersi sempre per italici lacci e lacciuoli o per complicazioni burocratiche di derivazione vetero-ideologica.

d) È stato conservato, ancorché razionalizzato, il nucleo delle tutele che si volevano inserire o specificare: non siamo per un mercato del lavoro volto al più spinto liberismo. Dove il legislatore ha operato in ragione di un forte sbilanciamento abbiamo cercato di equilibrare le posizioni delle parti, peraltro in modo non dissimile a quello di altre norme con analogo scopo.

e) Abbiamo pensato ad un sistema sanzionatorio semplice e chiaro, che favorisca l’intesa e la rettitudine anziché meccanismi esclusivamente punitivi.

f) Abbiamo rivalutato la funzione della contrattazione, anzitutto collettiva (completamente ignorata nella stesura del decreto originario, contrariamente a quanto prevedeva la stessa Direttiva) e, in qualche caso, individuale.

g) In alcuni passaggi abbiamo anche mantenuto il testo di legge originario, integralmente o quasi: il nostro non è stato infatti un lavoro “contro” ma una riflessione “per”. Come ci è capitato di dire in casi analoghi, la (ri)scrittura normativa – certamente non facile e irta di insidie– non è stato esercizio velleitario di stile o manifestazione di presunzione ma semplice esigenza di chiarezza e di efficacia. Non abbiamo pertanto alcuna pretesa di essere stati perfetti o esaustivi, ma confidiamo di avere comunque confezionato una buona esemplificazione del senso sotteso alla Direttiva, nonché di quel che vorremmo vedere e che si potrebbe fare. Offriamo pertanto questo lavoro alla riflessione di tutti, aperti a critiche, suggerimenti, dibattito: il tentativo non è quello di sostituirsi a nessuno ma di sollecitare un confronto costruttivo non partendo da meri principi o desideri ma da un progetto concreto, misurabile parola per parola. È da ultimo doveroso un ringraziamento a tutti i colleghi che, oltre a noi, hanno contribuito a questo progetto, sacrificando tempo e risorse con la segreta speranza di non dover più perdere il sonno (o il senno) rincorrendo norme assurde o scritte in modo discutibile e approssimativo.

 

Hanno collaborato alla stesura del presente lavoro i colleghi del Centro Studi della Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano: Andrea Asnaghi, Manuela Baltolu, Alberto Borella, Margherita Bottino, Loredana Buzzanca, Mariagrazia Di Nunzio, Potito Di Nunzio, Sabrina Pagani, Maria Paladini, Paolo Reja, Alessia Riva, Loredana Salis, Federica Sgambato.

 

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TRASPARENZA E DIRITTI DELLA DIRETTIVA EUROPEA 2019/1152: distonie non solo italiane*

Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in  Paderno Dugnano (Mi)

 

Il D.lgs. n. 104/2022 è stato oggetto, del tutto legittimamente e giustificatamente, di numerose critiche in ordine a diversi aspetti dell’applicazione della Direttiva UE 2019/1152: non sono state criticate solo le tempistiche e le modalità di formazione del decreto (che ha visto lo scarso coinvolgimento di parti importanti del mondo del lavoro, quali i professionisti) ma anche alcune prese di posizione estremamente burocratiche e vessatorie prese dal legislatore italiano, non richieste dalla Direttiva ed in qualche caso anche in contraddizione con essa. Di questo si è parlato e si parlerà ampliamente, ma forse uno sguardo su qualche sbavatura (a parere di chi scrive) nella Direttiva stessa ha influito sull’applicazione italiana e influirà nel futuro su tutto il territorio dell’Unione. Faremo alcuni esempi di seguito di alcune dissonanze notate nel testo europeo, ma è prima opportuno fare due premesse. La prima è che non può che essere salutata favorevolmente una norma che persegua principi di trasparenza, informazione e maggiori condizioni di tutela nei rapporti di lavoro. Opportunamente il Considerando n. 48 (bellamente disatteso dal legislatore italiano) ha previsto un carico burocratico maggiore ed ha quindi cercato di porvi un freno prevedendo che “gli Stati membri dovrebbero evitare di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di micro, piccole e medie imprese. Gli Stati membri sono pertanto invitati a valutare l’impatto dei rispettivi atti di recepimento sulle piccole e medie imprese per accertarsi che non siano colpite in modo sproporzionato”. Tutto molto giusto, però è arduo comprendere perchè questa prerogativa sia riservata solo alle PMI, per quanto sicuramente meritevoli di un’attenzione preferenziale, e non a tutte le imprese in generale. Appesantire il lavoro con “lacci e lacciuoli” spesso inutili (pensiamo a certi rapporti annuali obbligatori, tanto per fare un esempio) fa male a tutti, ma proprio a tutti, e non contribuisce a creare una cultura positiva del lavoro e dell’apprezzamento delle giuste tutele ad esso riservate.

La seconda premessa è che la Direttiva in questione pare mossa, lo dichiara la Direttiva stessa (vedi Considerando n. 2 e 4, solo per citarne alcuni), dalla preoccupazione verso una maggior tutela delle forme di lavoro più flessibili e precarie o atipiche. Tale presupposto, tuttavia, pare far dimenticare alcuni principi fondamentali comuni del rapporto di lavoro, creando in qualche caso un effetto di “squilibrio di ritorno”: in altre parole, la Direttiva cercando di incidere su alcuni aspetti, anche comprensibilmente, in qualche passaggio non si muove in una prospettiva ecologica (o sistemica) e ciò che protegge da una parte rischia di trascurare dall’altra. Se si identificano norme che hanno come obiettivo, rider, lavoratori a chiamata o precari, forse è utile non dimenticare che esistono anche (sono la stragrande maggioranza) rapporti di lavoro normali a cui applicare condizioni di lavoro “non sospettose”.

Ciò premesso, procediamo all’analisi di qualche criticità.

Sicuramente, balza all’occhio un passaggio del Considerando n. 8.

“I lavoratori effettivamente autonomi non dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente direttiva, in quanto non soddisfano tali criteri. L’abuso della qualifica di lavoratore autonomo, quale definito dal diritto nazionale, a livello nazionale o nelle situazioni transfrontaliere, costituisce una forma di lavoro falsamente dichiarato che è spesso associata al lavoro non dichiarato. Il falso lavoro autonomo ricorre quando il lavoratore, al fine di evitare taluni obblighi giuridici o fiscali, è formalmente dichiarato come lavoratore autonomo pur soddisfacendo tutti i criteri che caratterizzano un rapporto di lavoro. Tali persone dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente direttiva. a. È opportuno che la determinazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro si fondi sui fatti correlati all’effettiva prestazione di lavoro e non basarsi sul modo in cui le parti descrivono il rapporto”.

Salvato un poco (ma solo un poco) dall’ultimo periodo, il concetto che ci si presenta è piuttosto strano, che potremmo riassumere con un sillogismo: i lavoratori dipendenti, a differenza degli autonomi, hanno diritto all’informazione; esistono falsi lavoratori autonomi, che in realtà sono lavoratori dipendenti camuffati; anche questi lavoratori hanno diritto all’informazione.

A parte che è poco comprensibile comprendere perché lavoratori realmente autonomi (penso agli agenti e rappresentanti, ma è solo un esempio fra i tanti) non avrebbero diritto ad un’apprezzabile trasparenza, ma se proprio volessimo incidere sul mercato del lavoro, dovremmo prevedere non tanto che ai “falsi autonomi” vada fornita un’informazione completa, ma, piuttosto, che essi abbiano diritto ad un inquadramento contrattuale corrispondente alla propria prestazione, risolvendo così in radice il problema. Si noti ad esempio che la trasposizione di questa ambiguità comporta, nell’applicazione italiana a cura del D.lgs. n. 104/22, l’obbligo di informativa anche per i co.co.co. (che autonomi sono e restano, e ai quali di fatto la maggior parte delle informazioni previste dalla norma non riguardano). Forse è il caso di uscire dai sospetti e dalle ibridazioni e di tracciare una linea definita fra autonomia e subordinazione, una volta per tutte, in Italia ed in Europa. Passando ad altri esempi, l’articolo 8 della Direttiva disciplina il periodo di prova e precisamente stabilisce al comma 2.

“Nel caso di rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri provvedono affinché la durata di tale periodo di prova sia proporzionale alla durata prevista del contratto e alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto per la stessa funzione e gli stessi compiti, il rapporto di lavoro non è soggetto a un nuovo periodo di prova.” Nulla quaestio sulla necessaria indeterminatezza del termine “proporzionale” (che però forse potrebbe avere avuto una consistenza meno descrittiva), sennonché esso pare lasciato completamente al buon senso del legislatore statale (nel caso italiano,

carente) o alla determinazione delle parti sociali (nel caso italiano, non considerate sull’argomento), con tutti i risvolti possibili in termini di contenzioso.

Ma altrettanto pare strano non dare alcun limite temporale al termine “rinnovo”. Se ho assunto dieci anni fa per un lavoro una persona e oggi la richiamo, è legittimo voler verificare se sia la stessa di allora (e di converso, anche la persona non potrebbe voler verificare che l’azienda sia la stessa?). Sono limiti che si vedono anche nella normativa italiana sul tempo determinato. È che quando si concretizza una norma, sarebbe opportuno pensare a tutte (o almeno alla maggior parte del)le possibili conseguenze ed applicazioni sul lato pratico. Uguali discrasie si trovano nell’articolo 9 sull’impiego in parallelo.

“Gli Stati membri provvedono affinché il datore di lavoro non vieti a un lavoratore di accettare impieghi presso altri datori di lavoro al di fuori della programmazione del lavoro stabilita con il primo né gli riservi un trattamento sfavorevole sulla base di tale motivo.

2. Gli Stati membri possono stabilire condizioni per il ricorso a restrizioni di incompatibilità da parte dei datori di lavoro sulla base di motivi oggettivi quali la salute e la sicurezza, la protezione della riservatezza degli affari, l’integrità del servizio pubblico e la prevenzione dei conflitti di interessi.”

Una domanda: è un diritto disponibile o no? E, soprattutto, è un diritto in qualche modo economicamente compensabile?

Ad esempio, se offro ad un lavoratore, magari strategico, condizioni economiche ottimali, perché non posso prevedere che la sua attività lavorativa sia dedicata completamente alla mia azienda?

Ed anche in caso di lavoro part-time, se chiedo una disponibilità o una flessibilità, perché non posso garantirmi la stessa (senza intoppi di altri impegni di lavoro), con un’equa compensazione economica (senza andare lontano, è quello che succede in certi contratti della GDO con le cassiere part-time sottoposte a turni alternati).

È assurdo che non sia stata prevista una compensazione economica equa che permetta al datore di lavoro di stare tranquillo ed al lavoratore di conseguire una retribuzione giusta. La norma in questione invece, pare giustificare, quasi istigare, ai lavoretti, ai secondi lavori etc. etc. a cui anzi il lavoratore avrebbe “diritto” (salvo poi, come vedremo dopo, agognare e acquisire diritti a lavori più stabili, quasi un controsenso).

E ancora: cosa è posto in carico al datore di lavoro in termini di controllo sul rispetto di pause e riposi per altrui attività, magari autonome? Non sarebbe compito dello Stato vigilare in tal senso? Il nostro Ispettorato del lavoro pensa di no: se due datori di lavoro part-time, magari uno all’insaputa dell’altro, sforano nella sommatoria il limite settimanale di ore di lavoro sarebbero entrambi sanzionabili: si sfiora l’assurdo se si cerca di conciliare questa posizione, peraltro paradossale di per sé, con la norma appena commentata.

Altrettanto discutibile è l’art. 12, sulla transizione ad un’altra forma di lavoro.

“1. Gli Stati membri provvedono affinché un lavoratore con almeno sei mesi di servizio presso lo stesso datore di lavoro, che abbia completato l’eventuale periodo di prova, possa chiedere una forma di lavoro con condizioni di lavoro più prevedibili e sicure, se disponibile, e riceva una risposta scritta motivata. Gli Stati membri possono limitare la frequenza delle richieste che fanno scattare l’obbligo di cui al presente articolo.”

Dietro l’apparente equità e attenzione sociale, cosa manca, evidentemente, a questa norma? Qualsiasi riferimento alle mansioni esercitate in precedenza o ad altre almeno analoghe. Per come è scritta, un lavoratore che magari possegga i requisiti, può lavorare sei mesi ed un giorno come addetto alle pulizie part-time e poi avanzare la richiesta per il posto, resosi vacante, di … direttore generale.

Comprendiamo quali e quante situazioni paradossali potrebbero nascondersi dietro la mancanza (del tutto irragionevole) di qualsiasi limite in proposito?

Beninteso, non si vuole inserire nessun vincolo agli ascensori sociali, però pare logico e ragionevole che un’azienda che prova un lavoratore in una mansione non dovrebbe essere tenuta ad altri obblighi se non nei limiti di ciò che ha conosciuto per quella mansione o (al limite) per altre corrispondenti.

Infine, l’art. 18, che si preoccupa di proteggere il lavoratore che avanzi i suoi diritti nell’ambito della presente legge. Così i commi 2, 3 e 4.

“2. I lavoratori che ritengono di essere stati licenziati, o soggetti a misure con effetto equivalente, per il fatto di aver esercitato i diritti previsti dalla presente direttiva possono chiedere al datore di lavoro di fornire i motivi debitamente giustificati del licenziamento o delle misure equivalenti. Il datore di lavoro fornisce tali motivi per iscritto.

3. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, quando i lavoratori

di cui al paragrafo 2 presentano, dinanzi a un organo giurisdizionale o a un’altra autorità od organo competente, fatti in base ai quali si può presumere che vi siano stati tale licenziamento o tali misure equivalenti, incomba al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento è stato basato su motivi diversi da quelli di cui al paragrafo 1.

  1. Il paragrafo 3 non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole ai lavoratori”.

Fino al comma 3 potremmo esser d’accordo. Tuttavia, il comma 4, cioè la possibilità di inversione completa di onere della prova (guarda caso, subito applicata dal legislatore italiota) è un principio giuridico da maneggiare con estrema cautela. Se vi sono, lo prevede la Direttiva (ma qui in Italia si è andati verso la sanzione e la condanna aprioristica), possibilità di difesa dei propri diritti ricorrendo in prima battuta agli organi di vigilanza, non sarebbe stato meglio imporre una via conciliativa?

Sappiamo tutti che esistono datori buoni e datori non buoni (così come esistono lavoratori sfruttati e lavoratori furbetti): allora per evitare, da una parte o dall’altra, gli “espedienti”, perchè non immaginare come via preferenziale, anzi direi proprio come strada maestra da seguire, procedure preventive obbligatorie di accomodamento (dopo le quali, allora sì che ogni parte in causa si prende le proprie responsabilità)?

Quelli che precedono sono solo alcuni esempi di disorganicità, ad avviso di chi scrive, della normativa europea in commento, che poi nelle mani di alcuni Stati membri avrebbe potuto prevedibilmente essere peggiorata o interpretata nel modo più deteriore. E in questo purtroppo, in Italia sembriamo non essere secondi a nessuno.

 

 

 

* Pubblicato anche su Lavoro Diritti Europa, n. 3/2022.

 

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Una proposta al mese – DECRETO TRASPARENZA e il sito internet del Ministero del Lavoro

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

In linea teorica gli onerosi adempimenti previsti in capo alle aziende dal Decreto Trasparenza in tema di Informazioni sul rapporto di lavoro avrebbero dovuto trovare un più che valido aiuto grazie alla previsione del nuovo comma 6 dell’art. 1 del D.lgs. n. 152/1997 che così dispone:

Le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro sono disponibili a tutti gratuitamente e in modo trasparente, chiaro, completo e facilmente accessibile, tramite il sito internet istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Per le pubbliche amministrazioni tali informazioni sono rese disponibili tramite il sito del Dipartimento della funzione pubblica.

L’obbligo imposto dal Decreto Trasparenza è stato per così dire “assolto” dal Ministero del Lavoro attivando sul proprio sito istituzionale una apposita sezione intitolata: Norme e contratti collettivi – Archivio CNEL. Il Ministero parte da un preambolo precisando agli utenti che:

Per consultare nel dettaglio i contratti collettivi di lavoro è possibile navigare sull’apposito portale del CNEL. Per una fruizione più semplice è anche possibile consultare la Guida CNEL, in formato Pdf.

Per ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato si può anche visitare la sezione web dedicata allo Sportello Unico Digitale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Prosegue poi ribadendo la finalità di questa nuova pagina internet, ovvero

Questa area del sito istituzionale è finaliz-

zata a rendere disponibili per lavoratori e datori di lavoro le principali disposizioni normative e dei contratti collettivi applicabili ai rapporti di lavoro del settore privato.

In pratica suggerisce a lavoratori e datori di lavoro di andare sul sito del Cnel, cercare il proprio Ccnl e, senza tanti giri di parole, di leggerlo per bene se si vuole informare o essere informati. E aggiunge:

Per ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato si può anche visitare la sezione web dedicata allo Sportello Unico Digitale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Dalle mie parti qualcuno liquiderebbe la questione con un vöia de fán sòltòm adóss. Infatti, se fate bene attenzione, il Ministero rende disponibili solo le le principali disposizioni normative e dei contratti collettivi. Ci segnala pure dove trovare le ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato.

Probabile che per il Ministero esistano disposizioni e informazioni “meno principali”, quelle secondarie, quelle di serie B, quelle che evidentemente, se portate o meno a conoscenza dei lavoratori, non rilevano sul loro diritto ad essere informati in base alla Direttiva europea. Il tutto alla faccia di una informazione istituzionale che, per legge, deve essere trasparente, chiara, ma soprattutto completa. Ma non basta. Il Ministero si mostra pienamente consapevole dei propri obblighi tanto che ci tiene a precisare che:

Tali disposizioni sono utili anche ai fini delle informazioni che il datore di lavoro è tenuto a comunicare al lavoratore in attuazione del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152 (omissis).

Infatti, ai sensi dell’articolo 1, comma 6, del medesimo decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali rende disponibili le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro del settore privato.

Segue quindi un elenco dedicato alla principale normativa in materia di rapporti di lavoro riportando un elenco, ad oggi, di 18 norme (presumibile che questo possa essere aggiornato di volta in volta) ovvero:

D.lgs. 27 giugno 2022, n. 104 – D.lgs. 30 giugno 2022, n. 105 – D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 – Legge 22 maggio 2017, n. 81 – D.lgs. 14 settembre 2015, n. 148 – D.lgs. 4 marzo 2015, n. 22 – D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 – Legge 4 novembre 2010, n. 183 – D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 – D.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 – D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 – D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 – D.lgs. 26 maggio 1997, n. 152 – Legge 23 luglio 1991, n. 223 – Legge 8 agosto 1972, n. 457 – Legge 20 maggio 1970, n. 300 – Legge 17 ottobre 1967, n. 977 – Legge 15 luglio 1966, n. 604.

Fateci caso. La circolare n. 19 del 20 settembre 2022 del Ministero del Lavoro – dopo aver detto di ritenere che l’obbligo di informazione per il datore di lavoro riguardi solo quelle astensioni espressamente qualificate dal legislatore come “congedo – ci indica in via esemplificativa e non esaustiva alcune ipotesi di congedi retribuiti previsti dalla legge:

  • congedi di maternità e paternità, congedo parentale e congedo straordinario per assistenza a persone disabili, secondo la disciplina di cui al D.lgs. n. 151/2001;
  • congedo per cure per gli invalidi, secondo la disciplina di cui all’articolo 7 del D.lgs. n. 119/2011;
  • congedo per le donne vittime di violenza di genere secondo la disciplina di cui all’articolo 24 del D.lgs. n. 80/2015.

Bene, solo due di queste normative, il D.lgs. n. 151/2001 e D.lgs. n. 80/2015, vengono richiamate nel sito internet; ci si dimentica invece del D.lgs. n. 119/2011.

Ma come? Da una parte, con la circolare, si dice una cosa e dall’altra, nel sito internet, una diversa? Ma i tecnici dei vari uffici del Ministero si parlano tra di loro o ognuno fa da sé? Sorvoliamo pure e analizziamo gli esempi proposti. Quale utilità pratica hanno? Partiamo dal fatto che stiamo parlando di un Decreto legislativo, quindi emanato dal Governo che, è presumibile, ha affidato ai soli tecnici dell’ex ministro Orlando la trasposizione della Direttiva europea. Se così fosse, è corretto dire che fu il Ministero a prevedere, nel redigere la norma, l’onere in capo a sè stesso di pubblicare sul proprio sito internet istituzionale – in modo trasparente, chiaro, completo e facilmente accessibile – le informazioni riguardanti le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali che devono essere comunicate dai datori di lavoro del settore privato.

Singolare che, dovendo scrivere una circolare e pubblicare la pagina web ad hoc, non sia nemmeno stato capace di riportare un elenco completo dei congedi previsti dalla legislazione nazionale. Non è in grado di farlo il Ministero a distanza di quattro mesi dalla definizione del Decreto 104 e pretende che lo facciano d’emblée i poveri datori di lavoro? E due cose vanno dette anche sulla prevista accessibilità facilitata alle informazioni. Facilmente accessibile è prevedere un rinvio al sito Cnel?

Qualcuno del Ministero ha mai provato a cercare sul sito il nome del Fondo di Previdenza complementare delle Scuole materne Fism? Vi pare trasparente, chiaro, completo precisare che Per ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato si può anche visitare la sezione web dedicata allo Sportello Unico Digitale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali? Imbarazzante.

Oltre il danno pure la beffa. Il Ministero nello scrivere la norma aveva a suo tempo consapevolmente optato per negare ai datori di lavoro la possibilità di rimando ai contratti collettivi, nonostante ciò fosse un’opportunità concessa dall’art. 4, comma 3, della Direttiva europea. Oggi invece, con un classico due pesi e due misure, per i propri obblighi si arroga questo diritto, facendolo peraltro in modo assolutamente parziale ed insufficiente.

Come si intuisce la delusione è tanta.

Per questo motivo questa volta la Proposta del mese non concerne la modifica di una norma o di un suo passaggio. Questo mese la proposta del mese riguarda una legittima pretesa: la pretesa che un ente pubblico rispetti ciò che la norma gli richiede e gli impone di fare per semplificare la vita alle aziende. Una sorta di invito ad adempiere rivolto al neo eletto Ministro del lavoro e da valersi quantomeno fino a quando non si vorrà intervenire con una semplificazione degli obblighi informativi previsti dal D.lgs. n. 152/1997, auspicando un testo più comprensibile e in toto conforme allo spirito della Direttiva europea. Perché una cosa deve essere ben chiara. Fino a quando il Ministero resterà inadempiente il rischio è che i datori di lavoro si sentano autorizzati dalla legge a citare nelle loro informative solo quanto è riportato sul sito istituzionale. Perché – e lo rammentiamo nel caso qualcuno volesse fare il finto tonto – è questo che la norma prevede: Le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro sono disponibili … in modo … completo … tramite il sito internet istituzionale del Ministero del lavoro. E lo ribadiamo per chi non l’avesse capito, Ministero del Lavoro compreso: per come scritta la norma questa non è una facoltà ma un preciso obbligo: i datori di lavoro devono essere resi edotti, tramite il sito istituzionale ministeriale, quantomeno (a voler esser buoni) del quadro normativo vigente da cui, al massimo, estrapolare le dettagliate informazioni da fornire ai lavoratori all’atto dell’assunzione.

Se quindi il Ministero nel proprio sito internet si dimenticasse di citare una certa norma istitutiva di un determinato congedo (così come se lo facesse su un sito diverso) ciò significherà che questa specifica informazione non deve essere fornita al lavoratore. Per quale strano motivo non si sa e nemmeno ci deve interessare: la notizia non è di interesse per il lavoratore ai sensi del Decreto Trasparenza, semplicemente perché è il Ministero del lavoro che ce lo sta dicendo.

Con il corollario finale che, in riferimento a tutte quelle informazioni non sono riportate sul sito istituzionale, ci saranno delle inevitabili conseguenze:

– il lavoratore non potrà avvalersi in toto della possibilità di denunciare all’Ispettorato nazionale del lavoro il mancato, ritardato, incompleto o inesatto assolvimento degli obblighi di cui agli articoli 1, 1-bis , 2, e 3, e 5, comma 2 (art. 4 del D.lgs. n. 152/1197). – idem per lo stesso Ispettorato del Lavoro che vedrà fortemente limitato il proprio potere sanzionatorio in caso di violazione degli obblighi informativi.

 

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DECRETO TRASPARENZA: la fake del diritto alla transizione a forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

Se si consente al legislatore (e alla prassi) l’utilizzo
di un linguaggio giuridico inadeguato, non ci si può
poi lamentare dell’incertezza del diritto.

DECRETO TRASPARENZA: LA TRANSIZIONE AD UN’ALTRA FORMA DI LAVORO

Smoke gets in your eyes, cantavano i Platters nel 1958 in quella che forse è la versione più famosa di un brano scritto ben 25 anni prima, esattamente nel 1933. Fumo negli occhi. Un ritornello che oggi suona attualissimo. Eh già, perché non so voi ma leggendo l’articolo 10 – Transizione a forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili del Decreto Legislativo n. 104 del 27 giugno 2022, attuativo della direttiva (UE) N. 2019/1152 (relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea) l’impressione che ne ricavo è di essere di fronte ad una norma che, di fatto, poco o nulla dispone in termini di diritto, rappresentando al massimo una mera dichiarazione di principio. Tra l’altro, al solito, scritta pure male. Proveremo ad analizzarla nel dettaglio, commentandola comma per comma.

IL COMMA 1 – IL DIRITTO A FORME DI LAVORO “MIGLIORI”

  1. Ferme restando le disposizioni più favorevoli già previste dalla legislazione vigente, il lavoratore che abbia maturato un’anzianità di lavoro di almeno sei mesi presso lo stesso datore di lavoro o committente e che abbia completato l’eventuale periodo di prova, può chiedere che gli venga riconosciuta una forma di lavoro con condizioni più prevedibili, sicure e stabili, se disponibile.

Detto che l’inciso con cui si fa salva, se più favorevole, la vigente normativa non è già di suo un concetto cristallino (meglio forse la formula generica Sono abrogate tutte le disposizioni incompatibili con le disposizioni del presente decreto), tutto ciò che segue presenta difficoltà interpretative anche maggiori.

L’anzianità al lavoro del lavoratore subordinato

Onde poter avanzare la richiesta di transizione viene previsto in capo al lavoratore un doppio requisito: una anzianità lavorativa di almeno sei mesi e il completamento dell’eventuale periodo di prova. Condizioni che la norma richiede esplicitamente sia ai lavoratori subordinati che ai collaboratori. Per la prima categoria – i dipendenti – il riferimento, considerato il contesto di intervento del Decreto Trasparenza, è da intendersi rivolto ai titolari di:

  • contratti di lavoro subordinato, ivi compreso quello di lavoro agricolo, a tempo indeterminato e determinato, anche a tempo parziale; – contratti di lavoro somministrato; – contratti di lavoro intermittente. Come tale disciplina troverà concreta attuazione nei rapporti di somministrazione non pare chiaro.

Ma proseguiamo. Considerato che in base all’art. 7 del Decreto Trasparenza il periodo di prova non può essere superiore a sei mesi, il doppio requisito dell’anzianità di lavoro e dell’aver completato l’eventuale periodo di prova non potrà che riguardare solo quei lavoratori – e sono casi rari – che hanno registrato delle assenze di entità tale per le quali l’originario periodo di prova, prolungato in misura corrispondente alla durata delle stesse, abbia oltrepassato il limite massimo dei sei mesi.

L’anzianità al lavoro del collaboratore Per la seconda categoria – i collaboratori – il riferimento è da intendersi ai soggetti attivi nei rapporti di collaborazione quali individuati dal campo di applicazione del Decreto ovvero: – rapporti di collaborazione con prestazione prevalentemente personale e continuativa organizzata dal committente di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81; – contratti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile;

  • contratti di prestazione occasionale di cui all’articolo 54 -bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96. Anche per questi lavoratori viene richiesto il requisito di una anzianità lavorativa di almeno 6 mesi. Una verifica impropria quando ci si deve riferire a dei rapporti in cui, pur in presenza di un arco temporale, difficilmente si può parlare di una vera e propria anzianità. Considerazione che alimenta il dubbio che lo spirito originario della Direttiva possa essere stato travisato. E la conferma di ciò la troviamo infatti nella stessa Direttiva europea il cui articolo 12 pare indubbiamente riferirsi ai soli datori di lavoro citando per questo un lavoratore con almeno sei mesi di servizio presso lo stesso datore di lavoro.

Una diversa forma di lavoro …

In questo passaggio si parla di transizione ad una diversa forma di lavoro, concetto certamente ampio. Questo significa che la richiesta potrebbe riguardare non solo il passaggio da autonomo a subordinato ma, in linea teorica, anche quello inverso. Va peraltro detto che risulta difficile individuare concrete situazioni nelle quali un collaboratore possa ottenere – dato che questo parrebbe il fine della norma come recepita dall’ordinamento italiano – il passaggio ad un rapporto di lavoro dipendente. Ce lo vedete un collaboratore chiedere se è disponibile un posto come lavoratore subordinato per una mansione che di certo non può aver svolto come “autonomo”? Peraltro, dovendo vantare una anzianità di almeno 6 mesi? A quali casi pensava il legislatore quando ha formulato questo “diritto di istanza”? Probabile si tratta di una svista, o ad essere cattivi diciamo che è stata fatta una estensione del diritto a favore di telecamera ossia demagogia di basso livello.

Più verosimile invece che la disposizione riguardi i soli lavoratori a tempo determinato, a tempo parziale e gli intermittenti (per questi ultimi con i dubbi sopra esposti). Una lettura che rispetterebbe la finalità riportata nel Considerando 36 che invitava a promuovere la transizione verso forme di lavoro più sicure nei casi in cui

 i datori di lavoro hanno la possibilità di offrire contratti di lavoro a tempo pieno o a tempo indeterminato a lavoratori in forme di lavoro non standard.

… con condizioni più prevedibili, sicure e stabili …

Si dice che il datore dovrà verificare la disponibilità di condizioni migliori rispetto a quelle attuali.

Qui il primo aspetto critico nasce dall’utilizzo della congiunzione copulativa “e” anziché la congiunzione disgiuntiva “o”. Che significa ciò? Che tutti i requisiti devono essere verificati o ne basta uno?

Ugualmente problematico è lo stesso concetto di condizioni più prevedibili, sicure e stabili. L’utilizzo, infatti, di un avverbio comparativo porta a ritenere che qualsiasi condizione di lavoro più prevedibile, più sicura, più stabile dovrà essere valutata dal datore di lavoro e dal committente. Sarà effettivamente così? In attesa di avere maggiori certezze possiamo dire che le condizioni migliori devono comunque riguardare solo le modalità di espletamento delle originarie mansioni che quindi, si ritiene, debbano restare invariate. Sarebbe assurdo che l’obbligo posto in capo al datore di lavoro e committenti possa riguarda il passaggio ad inquadramenti diversi, categorie o qualifiche diverse. La domanda, inoltre, che ci poniamo è se, a parità di mansioni, un parttime al 50% dell’orario possa chiedere se c’è la possibilità di passare ad uno al 60%. O anche se un lavoratore a tempo pieno ma a termine possa chiedere se esiste la possibilità di passare ad un part-time al 50% ma a tempo indeterminato. Domande alle quali al momento chi scrive non sa dare risposta. O meglio una risposta ci sarebbe ove ci potessimo riferire al già citato Considerando 36 che chiaramente riferiva la possibilità di presentare istanza e di ricevere una risposta esplicitamente nei casi in cui

i datori di lavoro hanno la possibilità di offrire contratti di lavoro a tempo pieno o a tempo indeterminato a lavoratori in forme di lavoro non standard.

Questo, rifacendoci ad una lettura finalistica della Direttiva, dovrebbe portare a dire che il lavoratore part-time che voglia aumentare il proprio monte ore lavorative non potrà percorrere questa strada. Stessa cosa di un intermittente che aspirasse ad un tempo determinato o anche solo ad un tempo parziale. Il problema è che i Considerandi non hanno una diretta cogenza giuridica. Perplessità maggiori sorgono poi per i lavoratori titolari di un contratto, full-time o part-time, di lavoro somministrato: anche costoro hanno diritto ad una risposta dall’utilizzatore riguardo la possibilità di un contratto diretto a tempo pieno e indeterminato? Dato che la norma concede il diritto di istanza verso i datori di lavoro e i committenti, e l’utilizzatore non è né l’uno né l’altro rispetto al lavoratore somministrato, la risposta dovrebbe essere negativa. L’istanza va rivolta solo alla propria Agenzia. Ma anche qui un dubbio ci assale. Considerata infatti la presa di posizione a suo tempo formulata dall’Inl rispetto al susseguirsi di rapporti in somministrazione e di contratti a termine, ritenuti quali rinnovi ai fini dell’obbligo di indicazione della causale, qualche dubbio che possa essere proposta una lettura diversa è più che lecito.

… ma solo se disponibile.

Qui le domande sono: quando un posto è considerato disponibile? Chi verifica la sua disponibilità?

Sussiste a carico del lavoratore un onere di allegazione dei posti assegnabili o è sufficiente un semplice promemoria al datore di lavoro a cui segnalare il proprio desiderio verso qualcosa di migliore dal punto di vista qualitativo e quantitativo? Anche questo un ulteriore punto critico.

IL COMMA 2 – LA REITERAZIONE DELL’ISTANZA

  1. Il lavoratore che abbia ricevuto risposta negativa può presentare una nuova richiesta dopo che siano trascorsi almeno sei mesi dalla precedente.

La previsione non appare chiarissima. Quale è infatti l’esatta volontà del legislatore? Limitare la reiterazione della richiesta o garantire una validità semestrale alla stessa? In pratica, il datore di lavoro (o il committente) una volta ricevuta l’istanza la dovrà continuamente rivalutare nei 6 mesi successivi per verificare una eventuale sopravvenuta disponibilità di posti oppure una volta data la sua risposta (per la quale ha tempo un mese) non ha più alcun onere di accertare l’esistenza successiva di condizioni di lavoro più prevedibili, sicure e stabili?

Questo non è detto chiaramente dalla norma e mai vorremmo che la questione debba essere risolta, come al solito, dalla giurisprudenza.

IL COMMA 3 – LA FORMA SCRITTA DELL’ISTANZA

  1. La facoltà di cui al comma 1 può essere esercitata a condizione che il lavoratore manifesti per iscritto la propria volontà al datore di lavoro o al committente.

 Non si comprende la necessità di un comma specifico per dire che la richiesta del lavoratore deve essere fatta per iscritto: non era più semplice dire al comma 1 che il lavoratore “può chiedere, solo in forma scritta, che gli venga riconosciuta una forma di lavoro con condizioni più prevedibili, sicure e stabili, se disponibile”. Il dono della sintesi, questo sconosciuto.

IL COMMA 4 – LA RISPOSTA DEL DATORE DI LAVORO O DEL COMMITTENTE

  1. Entro un mese dalla richiesta del lavoratore il datore di lavoro o il committente forniscono risposta scritta motivata.

In caso di richiesta reiterata da parte del lavoratore di analogo contenuto, le persone fisiche in qualità di datori di lavoro o le imprese che occupano fino a cinquanta dipendenti possono rispondere in forma orale qualora la motivazione della risposta rimanga invariata rispetto alla precedente.

I datori di lavoro e i committenti sono tenuti entro un mese a fornire una risposta scritta. La scelta di individuare il mese e non i giorni come termine per riscontrare l’istanza del lavoratore non sembra felice: se la richiesta viene avanzata a gennaio si avrà tempo 31 giorni; se a febbraio solo 28. Meglio sarebbe stato individuare un termine di 30 giorni. Incomprensibile appare poi la possibilità concessa ai soli datori di lavoro con determinate caratteristiche (le persone fisiche in qualità di datori di lavoro o le imprese che occupano fino a cinquanta dipendenti) – i committenti, quindi, dovranno sempre rispondere per iscritto – di poter dare una risposta in forma orale qualora la motivazione della risposta rimanga invariata rispetto alla precedente. In primis non si comprende per quale motivo una ditta individuale con 51 lavoratori sia esonerata dalla risposta scritta e una impresa con gli stessi 51 dipendenti lo debba fare in modo formale. Ma soprattutto è l’idea della risposta orale in presenza di invarianza di motivazione a non convincere: nel caso in cui il lavoratore intendesse contestare che una risposta verbale non gli è stata data il datore dovrebbe replicare, ma per iscritto, che la risposta è stata data verbalmente in quanto legalmente non era dovuto alcun riscontro scritto: tanto vale secondo chi scrive metter nero su bianco, fin da subito, il diniego al passaggio a condizioni più prevedibili, sicure e stabili.

La risposta deve comunque essere motivata. Non essendo un diritto automatico alla transizione la risposta potrebbe limitarsi a spiegare il perché di un diniego che, ad avviso di chi scrive, rimane discrezionale. Ad esempio, si può rispondere che il posto è disponibile ma non assegnabile al richiedente semplicemente perché il lavoratore è ritenuto non avere le determinate qualità, professionali ma anche caratteriali, richieste dalla Direzione. Ricordiamo infatti che il Considerando 36 prevedeva che la risposta del datore di lavoro possa tenere conto delle esigenze del datore di lavoro e del lavoratore.

Lo ripetiamo non è un diritto di precedenza come quello del lavoratore licenziato per riduzione di personale o del lavoratore a termine con una certa anzianità. E’ un diritto ad evidenziare il proprio interesse ad una migliore posizione lavorativa e a ricevere una risposta motivata dell’eventuale diniego, su cui il perimetro di sindacabilità da parte del giudice risulta assai limitato. Questa perlomeno è l’interpretazione di chi scrive.

 

IL COMMA 5 – IL CAMPO DI APPLICAZIONE E LE ESCLUSIONI

  1. Le previsioni del presente articolo non si applicano ai lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ai lavoratori marittimi e del settore della pesca ed ai lavoratori domestici.

Partiamo dal campo di applicazione che vede esclusi i datori di lavoro pubblici, i lavoratori domestici e quelli del settore marittimo e della pesca.

Ma non dimentichiamo che il Decreto Trasparenza esclude già di suo (art. 1, comma 4) dall’applicazione delle proprie disposizioni alcuni soggetti tra cui: i rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro V del codice civile e  di lavoro autonomo sportivo in senso stretto (lett. a); i rapporti di agenzia (lett. c); le collaborazioni prestate nell’impresa da taluni familiari (lett. d); i rapporti nel pubblico impiego (lett. f e g). Tutto bene tranne per l’esclusione di quei soggetti indicati alla lettera b) ovvero

i rapporti di lavoro caratterizzati da un tempo di lavoro predeterminato ed effettivo di durata pari o inferiore a una media di tre ore a settimana in un periodo di riferimento di quattro settimane consecutive.

Ma come, proprio a quei lavoratori che forse più di tutti aspirerebbero e necessiterebbero di un posto di lavoro più stabile diciamo che questo diritto non gli compete? Teniamo peraltro presente che il diritto alla transizione è invece riconosciuto ai lavoratori con contratto di lavoro intermittente.

In base a quale ratio si è deciso di escludere i primi e riconoscere il diritto ai secondi? Mistero.

CONSIDERAZIONI FINALI

Come si vede più si analizza il Decreto Trasparenza e più emergono evidenti criticità. Che fare? Metterci mano e emendare ogni singolo passaggio o ripensare tutta la disciplina operando una riscrittura più conforme allo spirito della Direttiva europea?

Mi viene in mente il solito consiglio che mi dà il mio programmatore quando si impalla il computer.

Schiacciamo CTRL+ALT+CANC e riavviamo il tutto.

Ecco, probabilmente si farebbe prima. E meglio.

 

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IL PUNTO – ERA ORA! Marina Calderone Ministro del Lavoro

Potito di Nunzio, Presidente del Consiglio dell’Ordine provinciale di Milano

La nostra Presidente Nazionale, Collega Marina Calderone, è stata nominata Ministro della Repubblica italiana con delega al Lavoro e politiche sociali. Complimenti vivissimi da tutti noi, Marina! Non devo raccontare ai lettori di questa Rivista chi è Marina Calderone, il suo passato lo conosciamo e siamo orgogliosi del coraggio che ha avuto nell’accettare l’incarico in un momento difficile come quello che stiamo vivendo.

Perché dico coraggio: perché muovere critiche al sistema è più facile; avere il coraggio (da tecnico) di mettersi a disposizione della nazione per cercare di cambiarlo (il sistema) è sicuramente più difficile e ci vuole davvero molto coraggio in un momento come questo e con questo clima di generale diffidenza e perché no, anche di odio.

Sono sfide importanti che le si presenteranno già dal giorno dopo l’insediamento. Dovrà condividere scelte difficili e qui ne elenco solo alcune:

  • Riforma delle pensioni
  • Salario minimo legale
  • Reddito di cittadinanza
  • Costo del lavoro.

Sono scelte sociali con forti risvolti economici. Certamente non potrà accontentare tutti e la mia speranza è che si smetta di ideologizzare il mondo del lavoro e si gettino le basi per una equa ripartizione delle risorse riprendendo il cammino dei doveri ancor prima che dei diritti e indirizzando le risorse verso coloro i quali possono creare ricchezza controllandoli efficacemente ma non con tecniche vessatorie. Gli aiuti a pioggia leniscono l’immediato ma non costruiscono nulla di buono per il futuro. Ci vuole una politica stabile che pensi al vero tessuto socio economico del nostro Paese  fatto di micro e piccole imprese, nelle quali l’operosità non manca anche se spesso viene limitata dall’eccesso di burocrazia e di adempimenti inutili. Una politica sociale che livelli le disuguaglianze senza creare sacche di inefficienza. In materia di occupazione bisogna eliminare gli incentivi disincentivanti, l’asfissiante cuneo fiscale, una politica di inclusione che consenta a tutti di lavorare con rafforzamento delle competenze che sono l’unica strada per combattere la disoccupazione strutturale consentendoci di essere competitivi con il resto del mondo.

Da parte nostra siamo sicuri che la nostra Presidente, ops! Il nostro Ministro del Lavoro (Marina ci permetterà “il nostro”) saprà muoversi con saggezza ed equilibrio.

A lei auguriamo ogni bene e il successo che merita. La competenza non le manca e l’esperienza neppure, inoltre sa di poter contare su 26.000 colleghi pronti a darle una mano. Ma la Categoria sarà altrettanto pronta a manifestarle il disaccordo se alcune scelte governative fossero non improntate all’equilibrio e all’equità.

Noi non le faremo mancare suggerimenti e proposte di semplificazione normativa perché è questo un altro grande obiettivo da raggiungere. Il mondo del lavoro è soffocato da eccessi di normazione, spesso contradditoria dove tutti possono dire tutto e spesso chi dovrebbe essere tutelato (il lavoratore) ne viene pesantemente danneggiato e scoraggiato nell’intraprendere qualsiasi azione perché sarebbe eccessivamente dispendioso in risorse fisiche, mentali ed economiche rispetto al diritto che vorrebbe aver tutelato. Inoltre, ci vuole una vera semplificazione della Pubblica Amministrazione, eliminando norme insensate che mettono in difficoltà qualsiasi operatore del diritto, magistrati compresi. Ricordo a tutti che il prossimo anno festeggeremo il centenario della legge sull’impiego privato anche se è stata totalmente stravolta da integrazioni e modifiche nonché da interpretazioni giudiziali che l’hanno resa obsoleta ma che comunque “tiene botta” cose si usa dire. Ma che si semplifichino le norme, abrogandole espressamente e non tacitamente; si riprenda a scrivere le norme con una tecnica legislativa degna di tale nome; si verifichi l’efficacia e l’applicabilità delle norme prima di emanarle; si smetta con il diritto “circolatorio” non degno di un paese civile che può vantare una storia di giuristi eccellenti che parte dalle codificazioni giustinianee. Cerchiamo di diventare un paese normale dove la semplicità entra nel fare quotidiano e che nessun ostacolo burocratico debba rendere infelici persone fisiche e giuridiche.

Un avvertimento però lo voglio dare a chiunque osi gettar discredito sulla nostra Categoria con illazioni e false notizie: sappiate che non solo ci difenderemo ma attaccheremo a testa bassa chiunque, perché il ruolo di noi Consulenti del Lavoro, che della legalità e della tutela dei deboli ne abbiamo fatto una bandiera, non deve essere minimamente messo in dubbio o in discussione, indipendentemente da quelle che saranno le scelte governative. Buttarla in caciara o creare discredito come qualcuno sta cercando di fare (vi prego di leggere, subito a seguire, il graffiante e condiviso articolo del Collega Andrea Asnaghi) non giova alla serenità che in questo momento tutti abbiamo bisogno.

BUON LAVORO MARINA

 

SENZA FILTRO 

Rubrica impertinente di PENSIERI IRRIVERENTI

UN MANIFESTO di stupidate

di Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

Il 21 ottobre 2022, in contemporanea con la presentazione del nuovo Consiglio dei Ministri, l’onorevole testata del Manifesto esce con un articolo di Massimo Franchi: “I tanti conflitti di interessi di Marina Calderone”, neo Ministro del Lavoro. Il breve articolo contiene una serie tale di imprecisioni, maliziosamente costruite ad arte, probabilmente per eccitare le menti sensibili di qualche lettore affezionato, che se non fossimo in una Rivista seria ma in un film di Fantozzi potremmo appellarlo come la Corazzata Potemkin. Fa specie che un giornale storico e dignitoso ricorra a mezzucci di tremenda disinformazione per conquistare, malamente, qualche interesse. Non entreremo qui nel merito degli attacchi personali a Marina Calderone e famiglia, che ha un profilo ed una capacità intellettuale perfettamente in grado di difendersi da sola contro certe insinuazioni, ma spiace particolarmente veder mettere in mezzo tutta una categoria con nozioni distorte, che rivelano la piena e palese incompetenza di chi le scrive (e quando non si sa di una cosa, sarebbe meglio discettare di altro, a meno che non si voglia semplicemente fare i … Franchi tiratori). Secondo l’articolista in questione, “negli ultimi decenni non c’è professione che abbia contribuito ad abbassare diritti e salari più dei consulenti del lavoro”, con una “propensione alla riduzione del costo del lavoro con qualsiasi mezzo” che addirittura si caratterizzerebbero per “mancanza di etica”. Ora, frasi simili non si giustificano (e difatti il nostro mica spiega il perché, siamo all’insulto libero) nemmeno dopo aver bevuto due litri di grappa fatta male in casa.

Se la professione di consulente del lavoro giustifica la sua esistenza e la sua dimensione ordinistica (lo dice la L. n. 12/79 e lo ribadisce il Codice deontologico) è proprio in funzione del ruolo delicato che viene svolto da questa attività, nel garantire che quanto riguarda adempimenti e gestione del personale sia svolto con tutti i crismi, garantendo etica e legalità. L’eventuale attenzione al costo del lavoro ed alla forbice di divario fra il netto al dipendente ed il costo finale per l’azienda è un problema comune a tutto il mondo del lavoro ed ampiamente dibattuto da qualsiasi parte sociale (sindacati dei lavoratori compresi) che si occupi seriamente e non un tanto al chilo (come il Franchi, quantomeno in questa occasione) di questioni occupazionali. Dopo una serie di illazioni sui rapporti fra la Calderone ed il mondo politico, che comunque contribuiscono a creare un alone preliminare di sospetto nell’ignaro lettore, ecco che parte la filippica contro i consulenti del lavoro che, tramite il loro Consiglio Nazionale, con vari interpelli minerebbero i diritti dei lavoratori su vari temi, come “gli appalti e la sicurezza” (ma se sugli appalti, la sicurezza e la legalità i consulenti di tutta Italia hanno fatto battaglie e proposte serie, perché non riconoscerlo? A chi diamo fastidio? O siamo solo tirati in mezzo per una critica ad un Governo che al Manifesto ovviamente non piace, così come legittimamente a molti altri?).

Beninteso: gli interpelli sono domande tecniche al Ministero del lavoro, che a sua volta fornisce risposte tecniche. Per cui al Ministero io posso chiedere qualsiasi cosa (cum grano salis, ovviamente), ma ciò che conta è ciò che risponde il Ministero, in linea con le norme vigenti (lo so che voi lo sapete, lo sto spiegando al Franchi che o non lo sa, oppure lo sa ma dice una cosa per un’altra). Secondo il Franchi, per il quale evidentemente le sciocchezze sono come le ciliegie (una tira l’altra) il Durc in edilizia (“in vigore dal 1° novembre 2021”) sarebbe “lo strumento principe per evitare le assunzioni post-datate in caso di incidenti”. Qui dobbiamo fare i complimenti al Franchi perché in due righe tante imprecisioni simultanee sono da Guinness dei primati. Il Durc in edilizia (e non solo) c’è da quasi 15 anni, quello che è entrato in vigore da poco è un particolare meccanismo di controllo che riguarda (sostanzialmente) i versamenti alle casse edili (il c.d. “Durc di congruità”) il cui meccanismo è talmente complesso e burocratico da suscitare parecchie giustificate riserve (tanto che quasi quasi giustifico anche il Franchi tanto non ci capisce nulla). E comunque non serve  ad evitare assunzioni post-datate, per quello da più di 20 anni c’è la dichiarazione di preventiva di assunzione. Preventiva vuol dire il giorno prima, Franchi, do you understand? Per cui se c’è un incidente e il lavoratore è in nero, il datore è (giustamente) nei guai. Un secondo interpello incriminato (e c’è stato) riguarderebbe la domanda (perché questo è un interpello, non è un’azione politica, è una richiesta di chiarimenti) sulla possibile esclusione dei dipendenti in smart-working dal computo dei dipendenti ai fini dell’assunzione di disabili. Per il disinformato Franchi “in pratica si usa il telelavoro per assumere meno disabili”. Guardi Franchi che la realtà è differente, in quanto attualmente il telelavoratore (che non è il lavoratore in smart-working, ma si vede che la confusione è una Sua specialità) è già escluso dal computo dei dipendenti ai fini della L. n. 68/99. Il dubbio se questa esclusione possa riguardare anche, per assimilazione, i lavoratori in smart-working era legittimo.

Vede Franchi, i consulenti del lavoro ragionano, si informano e chiedono (e poi rispettano la legge e le risposte del Ministero, in questo caso negativa); è una pratica differente da quella a cui forse è abituato Lei e certi suoi compari, per cui importante è fare caciara ed imbastire prove di forza per far passare ciò che si vuole, giusto o sbagliato che sia (anche se si pensa fastidiosamente ed acriticamente di esser sempre dalla parte del giusto). Infine, il Franchi si straccia le vesti per la richiesta dei consulenti del lavoro di poter accedere ai dati previdenziali dei lavoratori. Qui il pezzo va riportato per intero perché rischia di superare il Guinness appena conquistato poche righe prima. “In questo modo la categoria farebbe concorrenza – sleale – ai patronati dei sindacati ma – soprattutto – sarebbe in grado di poter consultare i dati con evidenti rischi per i lavoratori.

L’esempio limite rende però bene l’idea: se un’impresa di 15 dipendenti fosse in difficoltà finanziarie e decidesse di tagliare sul costo del lavoro, l’accertamento da parte dei Consulenti del lavoro che uno dei lavoratori sia vicino alla pensione, permetterebbe all’azienda di proporre una buona uscita in cambio delle dimissioni del lavoratore. Una mossa che porterebbe l’azienda a scendere sotto i 15 dipendenti con tutte le normative semplificate anche sui licenziamenti”. Santa pazienza, Franchi, ma le regole deontologiche dei Consulenti del Lavoro impongono un principio di competenza specifica, che vuol dire trattare di cose che si conoscono; non c’è una regola simile anche per l’Ordine dei Giornalisti, oppure un giornalista può dire liberamente cose a sentimento, anche senza saperne nulla? La richiesta dei consulenti, che personalmente condivido, è quella di poter trattare le pratiche previdenziali; i consulenti sono esperti e tanti lavoratori si rivolgono a loro, riconoscendone la competenza e la serietà. Concorrenza sleale ai patronati? E perché mai “sleale”? Se più soggetti possono offrire un servizio, che male c’è? I consulenti, peraltro, lo fanno con coscienza e obblighi deontologici (per esempio, se sbagliano pagano), i patronati lo fanno gratis (talvolta, mica sempre, e comunque in esenzione da qualsiasi imposta) e quando danno informazioni sbagliate (e lo fanno, oh se lo fanno…) va tutto bene. Ma comunque: anche i patronati (e figuriamoci i consulenti del lavoro, qualora potessero) non possono accedere alle posizioni di un lavoratore senza una delega specifica dello stesso. Ha compreso Franchi? Nessun gioco al massacro, chè se un lavoratore chiedesse di fare una proiezione per capire le proprie possibilità, magari ha interesse anche lui a comprendere come e quando può andare in pensione e se c’è un qualche incentivo per andare prima. Sa quanti dipendenti lo fanno? Magari sono stanchi di lavorare tanto quanto io sono stanco di leggere il Suo articolo pieno di imprecisioni, che per fortuna è finito qui. Ma davvero Lei, Franchi, ne sa qualcosa di lavoro e lavoratori?

Franchi, giusto per concludere. Questa non è una filippica osannante i consulenti del lavoro o Marina Calderone (che si è assunta un bel carico da 90 e tanti rischi). Errori o possibilità di miglioramento ci sono da tutte le parti, ma i consulenti del lavoro (il cui compito è aiutare i datori a stare nella legalità) senza legalità non avrebbero senso di esistere. Sono altri i soggetti, che i consulenti del lavoro combattono, spesso da soli, su cui puntare il dito, mi creda. Quindi niente peana sulla categoria. Ma solo la richiesta, sacrosanta, da qualcuno che di lavoro vive e sul lavoro parla con competenza ma sprattutto con passione: Franchi, parli di ciò che sa. E se vuole parlare di lavoro, cortesemente, prima si informi, due dritte, anche gratis, gliele diamo volentieri,

 

 

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GESTIONE SEMPLIFICATA DEL RAPPORTO DI LAVORO OCCASIONALE: fine di un’epoca

Manuela Baltolu, Consulente del Lavoro in Sassari (Ss)

Il D.lgs. n. 104/2022 ha messo le sue grinfie anche sui rapporti di lavoro occasionale.

E pensare che, nonostante la loro storia travagliata, fino al 12 agosto 2022 erano rimasti l’ultimo, vero e forse unico baluardo della gestione “semplificata” dei rapporti di lavoro. Ma facciamo un passo indietro nella storia: c’era una volta il rapporto di lavoro occasionale accessorio, introdotto (sulla carta) dal D.lgs. n. 276/2003 e riservato, in origine, ai prestatori a rischio di esclusione sociale ed a soggetti non ancora entrati nel mercato del lavoro, od in procinto di uscirne.

Era infatti limitato ai disoccupati da oltre un anno, casalinghe, studenti e pensionati, disabili e soggetti in comunità di recupero, lavoratori extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia nei 6 mesi successivi alla perdita del lavoro. La durata delle prestazioni non doveva superare i 30 giorni e/o 3mila euro di compenso nell’anno solare, e poteva essere svolta esclusivamente in specifici ambiti, quali piccoli lavori domestici a carattere straordinario compresa l’assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con handicap, insegnamento privato supplementare, piccoli lavori di giardinaggio e di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti, realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli, collaborazioni con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza causati da calamità, eventi naturali improvvisi. Il sistema non venne però concretamente applicato fino al 2008, quando l’art. 22 del D.l. n. 112/2008 convertito dalla L. n. 133/2008 aggiunse all’ambito di applicazione anche le attività agricole di carattere stagionale nonché quelle svolte nell’ambito dell’impresa familiare limitatamente al commercio, al turismo e ai servizi, le consegne porta a porta e la vendita ambulante di stampa quotidiana e periodica, oltre ad estenderne l’utilizzo ai giovani con meno di 25 anni regolarmente iscritti ad un ciclo di studi presso l’università o un istituto scolastico di ogni ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, in qualsiasi settore produttivo il sabato e la domenica e durante i periodi di vacanza. Successivamente, il D.l. n. 5/2009 convertito dalla L. n. 33/2009, aggiunse alla platea dei prestatori occasionali anche i percettori di prestazioni integrative del salario o con sostegno al reddito.

I lavoratori venivano allora retribuiti con i “buoni lavoro” o “voucher” cartacei, ciascuno del valore di 7,5 euro di cui 5,8 euro di compenso, fiscalmente esente, acquistato dal committente e ceduto al lavoratore, che lo convertiva in danaro presso l’ente in cui era stato acquistato.

Ulteriore importante modifica al sistema voucher, volta a limitarne l’abuso, si ebbe poi con la L. n. 92/2012, in cui venne stabilito che “per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative di natura meramente occasionale che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare”. Ancora, la L. n. 99/2013 eliminava il riferimento alla “natura meramente occasionale” e, successivamente, il D.lgs. n. 81/2015 (art.. 48, 49, 50) innalzava il limite economico massimo generico per anno da 5.000 euro a 7.000 euro (3.000 euro per anno civile per i percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito, specificando che per le prestazioni svolte nei confronti di ciascun committente imprenditore commerciale o professionista tale importo massimo era invece pari a 2.000 euro per anno). Inoltre, venne introdotto il divieto di utilizzo dei buoni lavoro in ambito di appalti di forniture e/o servizi, e il valore nominale del singolo buono fu modificato in 10 euro, a fronte di un compenso netto per il prestatore di 7,50 euro. Infine, venne resa obbligatoria la procedura telematica per le imprese che, per la prima volta, dovevano registrare preventivamente le prestazioni nella piattaforma telematica Inps,  ma senza indicare orario di inizio e fine dell’attività lavorativa, e ciò, come è facile intuire, rendeva comunque fin troppo semplice eludere la reale entità delle ore lavorate.

Proprio in conseguenza dell’abuso dell’utilizzo dei buoni lavoro (o almeno, questa era stata la motivazione all’epoca pubblicizzata), il D.l. n. 25/2017, pubblicato ed entrato in vigore immediatamente, nella serata di venerdì 17 marzo 2017, con un fulmineo colpo di spugna che tutti ricordiamo, li abrogò totalmente, come contro-partita concessa dall’allora governo Gentiloni ai sindacati in cambio della loro rinuncia al referendum abrogativo del Jobs Act. Dopo poco più di un mese dall’abrogazione dei voucher, in data 24 aprile 2017, con l’entrata in vigore del D.l. n. 50/2017, vide la luce il nuovo assetto gestionale delle prestazioni occasionali, che è rimasto più o meno intatto fino a giorni nostri (fino al 12 agosto scorso, sic!). Nello specifico, furono individuati due ambiti di utilizzo caratterizzati da diverse specificità, ovvero il libretto famiglia (in seguito L.F., di cui all’art. 54-bis, c.6, lettera a), D.l. n. 50/2017) per l’utilizzo in ambito familiare e delle società sportive (lettera b-bis), e i prest-O in ambito imprenditoriale (lettera b) e pubblico (c.7). I limiti di utilizzo stabiliti erano (e sono tutt’ora) i medesimi per entrambi i sistemi, pari a 280 ore annue e/o 5.000 euro annui per ciascun prestatore con riferimento alla totalità degli utilizzatori, 5.000 euro annui per ciascun utilizzatore con riferimento alla totalità dei prestatori, e 2.500 euro per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore (5.000 euro per gli steward nelle società sportive). Altri paletti limitanti sono costituiti dal divieto di utilizzo da soggetti con i quali l’utilizzatore abbia in corso o abbia cessato da meno di 6 mesi un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa, da aziende che abbiamo una media semestrale di lavoratori a tempo indeterminato superiore a 5 (8 nel settore turistico-alberghiero per le sole prestazioni svolte dai medesimi soggetti autorizzati nel settore agricolo), da aziende del settore edile ed affini e lapideo, fermo restando il divieto già esistente in caso di esecuzione di contratti d’appalto. Le prestazioni occasionali non sono ammesse, inoltre, nel settore agricolo, fatta eccezione per i soggetti che, purché non iscritti nell’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli, siano pensionati, giovani con meno di 25 anni regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado e università, e percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI o SIA), ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito. Il L.F. retribuisce ogni ora di lavoro con un netto i 8 euro a fronte di un costo, per il committente, di 10 euro; il prest-O prevede invece un netto orario minimo di 9 euro ad un costo complessivo di 12,48 euro. Relativamente ai prest-O, per ogni giornata di lavoro il prestatore deve ricevere un minimo di retribuzione pari 36 euro, ovvero l’equivalente di 4 ore, indipendentemente dalle ore effettivamente lavorate; inoltre, 4 è il numero massimo consentito di ore lavorate continuative giornaliere.

La gestione di questo sistema è interamente telematica: prest-O e L.F. possono essere acquistati dal committente con pagamento elettronico mediante la piattaforma Inps o utilizzando il Modello F24 Elide, previa registrazione dello stesso e del prestatore; successivamente, il datore di lavoro registrerà le prestazioni di lavoro, entro 60 minuti prima dell’inizio delle stesse per il prest-O, non oltre il terzo giorno del mese successivo allo svolgimento per il L.F. L’Inps eroga il compenso direttamente al lavoratore entro il giorno 15 del mese successivo a quello in cui la prestazione è avvenuta. Non vi è obbligo di redigere alcuna lettera/ contratto di assunzione, né di inviare il modello Unilav al Ministero. Nessun periodo di prova da formalizzare, nessuna elaborazione del Lul, Uniemens, versamento mensile di contributi e ritenute fiscali. Nessuna CU, autoliquidazione Inail, modello 770.

Praticamente il paradiso degli adempimenti, solo la mera compilazione dei dati minimi necessari sulla piattaforma Inps e, per questo, quasi totalmente gestita in autonomia dai datori di lavoro senza costi aggiuntivi.

Troppo facile?

Si, tant’è che, a due giorni dall’ultima festa dell’assunzione di Maria (!!!!!!), l’ormai celeberrimo D.lgs. n. 104/2022, ha spezzato l’incantesimo, affermando, all’art. 1, c.1, lettera f, che tutte le disposizioni ivi contenute si applicano anche al “contratto di prestazione occasionale di cui all’articolo 54-bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96”.

Ei fu.

Finita la favola della gestione snella e sburocratizzata, anche i datori di lavoro dei prestatori occasionali dovranno ora redigere l’informativa con le informazioni previste dalla lettera a) alla lettera e) del co.1, art. 1 del D.lgs. n. 104/2022.

Se non fosse tragico, sarebbe quasi divertente analizzare quanto sia necessario ed opportuno informare il lavoratore di ogni singolo elemento previsto, confrontandolo con quanto già in essere nella gestione consolidata pre-D.lgs. n. 104: Lettera a) – identità delle parti: informazione già a disposizione del lavoratore mediante registrazione sulla piattaforma Inps. Lettera b) – luogo di lavoro: idem come lettera a). Lettera c) – sede o il domicilio del datore di lavoro: idem come lettere a) e b). Lettera d) – caratteristiche o descrizione sommaria del lavoro (non compatibili le informazioni relative a inquadramento, livello e qualifica): idem come lettere a), b) e c). Lettera e) – data di inizio del rapporto di lavoro: idem come lettere a), b), c) e d). Alla luce di ciò, nascono difficoltà oggettive a cogliere l’utilità del nuovo obbligo, in considerazione del fatto che, come sopra descritto, tutti gli elementi richiesti sono già conosciuti. L’unico dato estremamente chiaro ed inequivocabile è l’importo delle sanzioni previste in caso di inadempimento, di importo variabile da 250 a 1.500 euro per ogni lavoratore interessato che, malignamente, potrebbe essere considerato l’unico scopo del nuovo adempimento. Tra l’altro, relativamente alla lettera e), un ulteriore dubbio sorge in considerazione del fatto che lo svolgimento del lavoro occasionale è soggetto a limiti meramente economici, risulta complicato identificare con precisione il momento esatto della costituzione del rapporto. Consideriamo ad esempio che un lavoratore effettui prestazioni nel mese di febbraio 2022, e successivamente a dicembre 2022, dopo ben 9 mesi di inattività, faranno comunque capo ad un unico rapporto di lavoro o, al contrario, dovranno essere considerate come due distinti rapporti, con conseguente necessità di due diverse informative, una per ogni rapporto?

A chiusura di questa triste storia non possiamo esimerci dall’evidenziare che, citando l’art. 54-bis, D.l. n. 50/2017, il D.lgs. n. 104/2022 si riferisce sia i rapporti gestiti con L.F. che quelli gestiti con prest-O, e il novellato testo (ad opera sempre del D.lgs. n. 104/2022, art. 5, co.1) del secondo periodo del co.17, art. 54-bis, D.l. n. 50, inserisce l’obbligo delle informazioni relative alla trasparenza affermando che “copia della dichiarazione, contenente le informazioni di cui alle lettere da a) ad e) è trasmessa, in formato elettronico, oppure è consegnata in forma cartacea prima dell’inizio della prestazione”.

Ma il comma 17 dell’art. 54-bis rimanda espressamente agli utilizzatori di cui al comma 6, lettera b) del medesimo articolo, ovvero gli “altri utilizzatori, nei limiti di cui al comma 14, per l’acquisizione di prestazioni di lavoro mediante il contratto di prestazione occasionale di cui al comma 13”; in ragione di ciò, l’obbligo di consegna della dichiarazione di cui al D.lgs.n. 104/2022 risulta essere limitato ai soli rapporti “prest-O”, con esclusione sia del L.F. che delle società sportive (lettere a e b-bis, c.17, art. 54-bis).

In sostanza, il testo del D.lgs. n. 104/2022 afferma che tutti i rapporti occasionali sono assoggettati alle previsioni del medesimo decreto, mentre il nuovo testo del D.l. n. 50/2017 riconduce l’obbligo solo ai “prest-O”. Il conflitto potrebbe essere risolto considerando che lo stesso D.lgs. n. 104/2022 è applicabile anche ai rapporti di lavoro domestico, ed essendo di fatto il L.F. la versione “domestica” del prest-O, l’esclusione dagli obblighi di trasparenza del L.F. non appare del tutto coerente, anche se questa mancanza di coerenza fa pendant con tutto l’impianto normativo. Ai posteri l’ardua sentenza, per ora confidiamo nell’abrogazione di queste previsioni assurde o, in subordine, di una sostanziale e realmente utile modifica.

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IL PROLUNGAMENTO DEL PATTO DI PROVA del Decreto Trasparenza

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

Se si consente al legislatore (e alla prassi) l’utilizzo
di un linguaggio giuridico inadeguato, non ci si può
poi lamentare dell’incertezza del diritto.

La nuova disciplina legale del patto di prova, introdotta dall’art. 7 del D.lgs. n. 104 del 27 giugno 2022, prevede la possibilità che tale periodo possa essere prorogato in relazione a determinati eventi. La fattispecie è disciplinata al comma 3.

3. In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

La formulazione non è affatto limpida e qualche perplessità sulla sua portata è più che legittima, ponendo all’interprete la domanda se gli eventi citati sono degli esempi o una indicazione vincolante.
Una prima risposta è comparsa su urponline.lavoro.gov.it il 9 settembre 2022.

D. Il prolungamento del periodo di prova previsto dall’articolo 7, comma 3, del recente decreto legislativo n. 104/2022 si applica anche ai congedi e permessi fruiti dalle lavoratrici e dai lavoratori ai sensi della legge n. 104/1992? 
R. Sì, il principio affermato all’articolo 7, comma 3, del decreto legislativo n. 104/2022 – che prevede il prolungamento del periodo di prova in caso di eventi sopravvenuti – si applica anche nelle ipotesi di assenze diverse da quelle riportate in maniera esemplificativa nella disposizione in esame.
Infatti, l’articolo 7, comma 3, non ha inteso incidere sulla natura del periodo di prova, ormai consolidata nel nostro ordinamento, per la cui effettività si tiene conto del solo servizio effettivamente prestato. Pertanto, il
periodo di prova resta sospeso in caso di assenza per malattia e in tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, compresi, quindi, i congedi e i permessi di cui alla legge n. 104 del 1992.

Una seconda risposta, più articolata ma non per questo più convincente, arriva dalla circolare n. 19 del 20 settembre 2022 del Ministero del Lavoro che dice:

Il comma 3 stabilisce che il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza, richiamando – a titolo meramente esemplificativo – la sopravvenienza di eventi quali malattia, infortunio, congedo
di maternità/paternità obbligatori. L’indicazione di tali assenze, coerentemente con quanto previsto nella direttiva e come si evince dal tenore letterale della disposizione, non ha carattere tassativo e dunque rientrano nel campo di applicazione del comma 3 tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, fra cui anche i congedi e i permessi di cui alla legge n. 104/1992 (cfr. Cass. n. 4573 del 22 marzo 2012 e Cass. n. 4347 del 4 marzo 2015).

La questione, secondo chi scrive, non appare affatto così scontata.
Partiamo dalla discutibile tecnica legislativa  usata per il comma in commento.

In primis una norma non dovrebbe necessitare degli esempi per precisare la sua stessa portata.
Riportare infatti all’interno di essa un elenco indicativo e non esaustivo non aiuta affatto la certezza del diritto.
Qualora proprio si voglia fare ricorso a degli esempi questi devono essere significativi e chiarificatori di eventuali dubbi che la locuzione pone, ma che la norma, e questo è il punto, non dovrebbe porre.
Detto questo, analizzando il comma 3, mi verrebbe da dire che na manca un tóc, ne manca un pezzetto. Se infatti la frase “quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori” fosse un inciso a scopo
esemplificativo, il resto del periodo deve rappresentare, anche ove lo eliminassimo, una frase di senso compiuto.
Proviamo allora a togliere i ritenuti, dalla circolare ministeriale, “esempi”: In caso di sopravvenienza di eventi, [quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori,] il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.
Vi pare chiaro? No e infatti per dare un senso alla frase andrebbe precisato quali sono gli eventi in questione, ovvero le sottintese assenze, e quindi il comma andrebbe quantomeno così riformulato:
In caso di sopravvenienza di eventi comportanti una assenza dal lavoro durante il periodo di prova, il periodo stesso è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza. Ecco che volendo inserire l’inciso “quali malattia,
infortunio, congedo di maternità o paternità  obbligatori” questo avrebbe un senso esemplificato (ma di certo non chiarificatore) come sostenuto dal Ministero.
Resta il fatto che il legislatore italiano ha operato una precisa scelta dei vocaboli, parlando di “eventi” e non di assenze dal lavoro, addirittura di “eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori”.
Concentriamoci su di essi.  Se si voleva proporre degli esempi perché citare quelli che ictu oculi tutti immaginiamo comportare il prolungamento del periodo di prova?
Qualcuno avrebbe nutrito dubbi – qualora si fossero omessi tali esempi – che la maternità determinasse un prolungamento? E perché citare il “congedo di maternità o paternità” specificando il requisito di “obbligatori”? La volontà era quindi di escludere quelli “ facoltativi”?
E poi, non sarebbe stato meglio citare tra gli esempi, che ne so, lo sciopero o i permessi per lutto? Se si sceglie di fornire degli esempi per chiarire la portata di una norma (palesemente  scritta male), perché proporre delle fattispecie che, anziché chiarire, mettono ulteriori dubbi? Perché è palese che il chiarimento
ministeriale non risolve un bel nulla. Se tutte le assenze comportassero una proroga della prova non avrebbe alcun senso logico citare degli esempi. Se li proponi significa che solo ciò che è simile agli esempi fatti consente il
prolungamento della prova. Ed allora perché il Ministero nella circolare cita gli scioperi ed i permessi? Se si ammettono queste assenze allora, di conseguenza, vanno ammesse tutte.
Cosa che infatti il Ministero riconosce: … Ciò a ulteriore conferma del fatto che l’elencazione di cui al comma 3 è puramente esemplificativa e non esaustiva delle ipotesi di prolungamento del periodo di prova, nel cui novero si devono intendere ricomprese tutte quelle già riconosciute dall’attuale ordinamento giuridico.
Un’ultima amara considerazione: se parlassimo di una norma di rilievo penale permetteremmo  questo modo di individuare le casistiche? Ad  esempio, se disponessimo – ad assurdo – che In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di carcerazione di un detenuto-
lavoratore è aumentato in misura corrispondente alla durata dell’assenza potremmo mai sostenere che l’elencazione è esemplificativa?
Qualcosina andrebbe detta anche sulle considerazioni che il Ministero fa per supportare la propria lettura.

Ciò risponde al principio di effettività del periodo di prova, in forza del quale è stata riconosciuta valenza sospensiva dello stesso alla mancata prestazione lavorativa causata  da malattia, infortunio, gravidanza,puerperio, permessi, sciopero, sospensione dell’attività da parte del datore di lavoro.
Trattandosi di un principio consolidato nell’ordinamento giuridico nazionale, appare evidente che se l’elencazione di cui al terzo comma dell’articolo 7 fosse considerata esaustiva delle ipotesi di sospensione del periodo di prova, si avrebbe una riduzione generale del livello di protezione riconosciuto ai lavoratori, in contrasto con l’articolo
20 della direttiva (UE) 2019/1152 …

La cosa fa sorridere, quasi tenerezza. Il Ministero ci sta dicendo che la lettura della norma in senso restrittivo andrebbe in contrasto con un principio consolidato nell’ordinamento giuridico nazionale, determinando addirittura una riduzione generale del livello di protezione riconosciuto ai lavoratori, in contrasto con l’articolo 20 della direttiva.
Questa osservazione (la definirei una bacchettata sulle dita) me la sarei aspettata da un giudice non certo dal Ministero del Lavoro che – non scordiamocelo – è il principale artefice della scrittura del nuovo patto di prova.
Parliamo infatti di un Decreto legislativo emanato dal Governo che, immagino, abbia di fatto affidato ai soli tecnici del ministro Orlando la trasposizione della Direttiva europea. Ora, dopo aver fatto precise scelte grammaticali e di sintassi, il Ministero si  mette a fare il maestrino senza rendersi nemmeno conto che sta correggendo in pratica sè
stesso con una circolare interpretativa.
È il Ministero che ha formulato una norma in modo equivoco – tanto da esser costretto oggi a precisare che una lettura alternativa, diversa dalla sua, sarebbe in contrasto sia con un consolidato principio nell’ordinamento sia con l’art. 20 della Direttiva – e ci vorrebbe pure fare la lezioncina sul diritto?
Certo, l’interpretazione ministeriale di fatto corregge l’errore del legislatore italiano – ma imputabile in primis allo stesso Ministero del Lavoro – che ha fatto di testa sua senza accogliere i molteplici, limpidi suggerimenti di quello europeo.
Sarebbe bastato infatti riproporre la struttura dell’art. 8 della Direttiva che, pur senza indicare in modo analitico le varie tipologie di assenza, così suggeriva:

Qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell’assenza.

Ma ci si poteva pure rifare al Considerando n. 28 della stessa Direttiva che auspicava chiaramente che

I periodi di prova dovrebbero poter essere prorogati in misura corrispondente qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, ad esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di lavoro di verificare l’idoneità del lavoratore al compito in questione.

Invece no. Al legislatore delegato non piaceva il termine ad esempio. Molto meglio un bel quali con quanto a seguire.
E come al solito siamo riusciti a modificare un testo cristallino, con un chiaro principio di diritto espresso dalla Direttiva europea, in uno dal significato oscuro.
E non pensiate che bastino due indicazioni di prassi a risolvere l’eventuale querelle sul periodo di prova scaduto sì o scaduto no. Non è affatto detto che il giudice adito legga la norma come propone il Dicastero retto da Andrea
Orlando e concordi con voi che prolungare il periodo di prova per una assenza per donazione sangue sia concesso dalla norma.

 

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IL PUNTO – iL MINISTERO DEL LAVORO CONTRADDICE il proprio Ispettorato nazionale

Potito di Nunzio, Presidente del Consiglio dell’Ordine provinciale di Milano

Scusatemi se torno ancora sul Decreto  Trasparenza ma l’incubo di cui parlavo nello scorso editoriale pare non aver fine. Mi riferisco alla recente circolare del Ministero del Lavoro, la numero 19 del 20 settembre 2022, con la quale il Ministero è intervenuto offrendo le proprie interpretazioni sul Decreto Trasparenza, precisando che si tratta solo di un primo intervento che prende in esame le questioni più rilevanti, che necessitavano di un immediato chiarimento. Spero proprio che il Ministero si fermi e non mantenga la promessa perché proprio non ce la faremmo a leggere ulteriori interventi soprattutto se ricalcano le “profonde riflessioni” fatte nella citata circolare 19.
Tra l’altro la circolare del Ministero pare in netta contrapposizione con quella dell’Ispettorato del Lavoro (circolare n. 4/2022) la quale lasciava molta più leggerezza al contratto avendo previsto possibilità più ampia di rimando alla contrattazione collettiva o alla legge.
L’inserimento nel contratto di lavoro, oltre  alla normativa delle ferie e dei permessi, anche di tutti gli altri congedi previsti dalla legge italiana, sembra proprio una esagerazione. Fra non molto ci obbligheranno a somministrare ai dipendenti un corso di formazione in diritto del lavoro e della previdenza sociale con tanto di manuale come materiale didattico.
Mi fa piacere riportare le parole che ho ascoltato con piacere, sabato 24 settembre durante i lavori della Summer school riservata ai Presidenti dei CPO organizzata dal CNO (ottima occasione di incontri e riflessioni), dal filosofo Prof. Luciano Floridi, Direttore del Centro per l’etica digitale del Tecnopolo di Bologna, durante un dialogo intervista sul tema “Lavoro&Tecnologia: quali nuovi orizzonti”. Il professore ricordava a tutti che per  migliorare il mondo bisogna pensare di più, meglio e prima. Sacrosante parole. Qui di seguito trovate uno speciale “Senza filtro” sottoscritto da tutti i Consiglieri del CPO Milano e dell’ANCL SU UP di Milano. Abbiamo la presunzione, ce ne scuserete, di aver riportato nel Manifesto il pensiero di ognuno di voi che pazientemente legge la nostra Rivista, il quale, se vorrà, potrà farlo proprio rilanciandolo quale sottoscrizione ideale.

 

SENZA FILTRO 

Rubrica impertinente di PENSIERI IRRIVERENTI

MANIFESTO per ciò che è e per ciò che sarà

La rubrica “Senza filtro” della nostra Rivista ha visto interventi di vario tipo, divertenti ed ironici, a volte fino al sarcasmo, oppure analitici, o ancora pieni di passione e di esperienze, e infine fantasiosi. Riteniamo però il momento di cambiarne, almeno per una volta, il registro. Perché ormai non c’è molto da sorridere, in effetti.
Ed anche il sarcasmo e l’analisi richiedono, dall’altra parte, interlocutori istituzionali che sappiano coglierli con un’intelligenza che al momento non dà segno di sé. La fantasia è completamente surclassata dalle soluzioni, tanto
bizzarre quanto improbabili e lontane dalla realtà, ideate da norme e circolari.
Solo la passione non ci è stata ancora tolta e c’è tutta; ma lotta contro il pesante fardello degli adempimenti assurdi che ci vengono quotidianamente appioppati, senza nessun (ripetiamo: nessuno) reale beneficio rispetto agli scopi che attraverso di essi qualcuno pensa di realizzare. Usciamo da un biennio terribile, in cui siamo stati distanti e divisi, oppressi da situazioni personali ed economiche oltre il sopportabile. In questo periodo abbiamo visto molte cose: burocrazia inutile, orpelli normativi, prebende a questa o quella parte sociale, impennate ideologiche, ripensamenti senza senso, regolazioni improvvisate ideate sull’orlo del sensazionalismo più becero, il tutto condito da un’incompetenza imbarazzante e da una siderale distanza dai problemi e dalle questioni reali.
Quando pensavamo di avere visto tutto, e comunque sempre troppo, siamo stati protagonisti – anzi spettatori allibiti – dell’ennesimo mese (agosto 2022) caratterizzato dal peggio (a cui  evidentemente non c’è mai fine): alcuni decreti
scritti in modo tardivo ed indecente, appesantendo inutilmente gli adempimenti e ipotizzando pseudo-soluzioni marziane, circolari che si rincorrevano e contraddicevano senza scopo e  definizione, decisioni di prassi arrivate in pesante ritardo costringendo a faticosi (e a volte impossibili) recuperi. E, purtroppo, dovremmo dire: “come al solito”. Il tutto dentro un mondo, quello del lavoro, già di per sé caotico, e che necessita  di regole, chiarezza, tempestività, precisione, pianificazione, equilibrio. Che mancano del tutto. Con il fantasma di un’altra, forse peggiore, crisi alle porte.
Siamo stanchi di tutto ciò.
Non lo merita la nostra professione, non lo merita il mondo del lavoro, non lo meritano imprese e lavoratori, non lo meritano giovani ed anziani, non lo merita la società civile. Ecco perché desideriamo con tutto il cuore metterci alle spalle l’insieme di queste brutte esperienze e sentiamo la necessità di chiedere a gran voce un profondo  cambiamento; perché quello che in modo desolante c’è, non sia anche quello che ci sarà.
Siamo lieti che questo nostro intervento appaia dopo le elezioni politiche del 25 settembre, di modo che non possa, nemmeno minimamente, sembrare un “endorsement” verso questa o quella forza politica, o che nessuno se ne possa appropriare o lo possa in qualche modo strumentalizzare per propri fini.  Anzi la nostra passione e la nostra competenza la mettiamo al servizio di chiunque (CHIUNQUE) voglia confrontarsi con le nostre idee, con le nostre
analisi e le nostre proposte (da cinque anni ne pubblichiamo, inascoltati, una al mese).
Noi continueremo, sempre. Non ci arrendiamo al peggio che sembra non aver mai fine. Ma un profondo cambiamento è ora più che mai indispensabile. È un appello che rivolgiamo a chiunque lo voglia
seriamente considerare.

Milano, 26 settembre 2022

 

I consiglieri del Cpo Milano
e dell’Ancl SU UP di Milano

 

 

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Aggiornamento sulla cd. “informativa trasparenza” ,di cui al DECRETO LEGISLATIVO 104-2022

di Roberta Simone, Consulente del lavoro in Milano

 

Nel precedente numero di questa Rivista1 abbiamo pubblicato un contributo che trattava gli aspetti più critici dello Schema di decreto legislativo2 di attuazione della Direttiva UE 2019/11523. Poche ore dopo, il 29 luglio 2022, nella GURI n. 176 veniva pubblicato il Decreto Legislativo 27 giugno 2022, n. 104, Attuazione della direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea4 (a seguire anche Decreto) il quale, con pochissime modifiche, confermava il testo di cui allo Schema di decreto citato. Da quel momento, un decreto il cui iter legislativo si era sviluppato nella sostanziale indifferenza di molti, nonostante le varie bozze fossero disponibili e pubblicate sui siti istituzionali da diversi mesi5, è prepotentemente divenuto l’oggetto di dissertazioni tra diversi colleghi Consulenti del Lavoro e – come vedremo oltre – ha richiesto l’intervento dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, oltre che del nostro CNO6. La nostra Rivista questo mese ha dedicato questo e diversi altri contributi, tra i quali il Senza Filtro del collega Andrea Asnaghi e un articolo di approfondimento sulla specifica tematica delle sanzioni a cura del collega Alberto Borella, che proseguono l’attività di studio e analisi da noi avviata nei mesi scorsi, anche con diversi webinar di approfondimento da noi dedicati, e che vedrà un’ulterio1. La rivista Sintesi del mese di luglio 2022 è disponibile a questo link. re trattazione nel convegno, a cura dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano e ANCL U.P. di Milano, che si terrà il prossimo 12 settembre. Questo contributo si è reso necessario per sottolineare diversi aspetti che meritano una disamina aggiuntiva alla luce della pubblicazione del Decreto, con l’auspicio che il nostro intervento, in forma addirittura corale unitamente agli altri citati, possa offrire spunti di riflessione per attuare le necessarie modifiche al testo legislativo e, prima ancora, essere utile per dirimere alcune questioni per le quali esistono ad oggi punti di vista ed approcci differenti.

APPLICAZIONE TEMPORALE DEL DECRETO (ART. 16, D.LGS. 104/2022 – DISPOSIZIONI TRANSITORIE)

Non si tratta di un refuso, perché iniziare dal penultimo articolo del D.lgs. n.104/2022 è assolutamente volontario e ne comprenderete presto il motivo. Il Decreto, pubblicato il 29 luglio 2022, è entrato in vigore il 13 agosto. All’art. 16, in ossequio alla Direttiva UE 2019/1152 che ne obbligava il recepimento entro l’inizio del mese di agosto, è indicato che “1. Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano a tutti i rapporti di lavoro già instaurati alla data del 1° agosto 2022”, precisando che – in tema di trasparenza – a tali lavoratori dovranno essere fornite le informazioni prescritte dal Decreto entro il termine di 60 giorni7 decorrenti dalla loro (eventuale) richiesta nei confronti del datore di lavoro-committente.

La criticità è evidente: per i contratti8 instaurati tra il 2 e il 12 agosto 2022 si crea di fatto un vuoto normativo, in quanto non solo gli adempimenti in tema di informativa, ma tutto il Decreto non trova applicazione. Quale approccio adottare? Le soluzioni potrebbero essere diverse:

1. applicare il Decreto ai lavoratori in forza al 1° agosto, applicare il precedente D.lgs. n. 152/1997 ai lavoratori assunti tra il 2 e il 12 agosto, (ri)applicare il Decreto ai lavoratori assunti dal 13 agosto;

2. applicare il Decreto ai lavoratori in forza al 1° agosto, applicare comunque il Decreto anche ai lavoratori assunti tra il 2 e il 12 agosto, in quanto di miglior favore rispetto al precedente D.lgs. n. 152/1997, (ri)applicare il Decreto ai lavoratori assunti dal 13 agosto. Soprassedendo sul fatto che rispetto al contenuto della norma, prima della sua pubblicazione, era doveroso porsi quantomeno un interrogativo sugli effetti di tale enunciato in combinato con il principio ben noto della vacatio legis9, è indiscutibile come l’approccio di diritto (il primo) cozzi con l’approccio pragmatico (il secondo) lasciando non pochi dubbi interpretativi ed applicativi all’operatore attento e scrupoloso. Nei giorni successivi alla pubblicazione del Decreto, il 10 agosto, è intervenuto l’Ispettorato Nazionale del Lavoro con la circolare n. 4/202210, la quale nelle proprie “Disposizioni transitorie” dichiara “Per il richiamato disallineamento temporale la lettera della norma non sembra interessare direttamente i rapporti di lavoro instaurati tra il 2 ed il 12 di agosto 2022, rispetto ai quali trovano comunque applicazione i medesimi principi di trasparenza, solidarietà contrattuale e parità di trattamento tra lavoratori che fondano la novella normati8. Si rammenta che il Decreto si applica ai rapporti di lavoro subordinato, compreso il lavoro agricolo, a tempo indeterminato e determinato, anche a tempo parziale, ma anche al lavoro somministrato, al lavoro intermittente, alle collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015, alle collaborazioni coordinate e continuative ai sensi dell’art. 409, n. 3, c.p.c., ai contratti di prestazione occasionale di cui all’art. 54-bis del D.L. n. 50/2017 (conv. dal L. n. 96/2017), al lavoro marittimo, della va, cosicché anche questi ultimi possono richiedere l’eventuale integrazione delle informazioni relative al proprio rapporto di lavoro”.

Fa sicuramente onore che l’Inl abbia voluto dare un approccio pratico e risolutivo della questione e sia voluto intervenire, e non solo su questo aspetto, con parole chiare e precise le quali tuttavia – ancora una volta – ci fanno precipitare in un vortice di ulteriori interrogativi. La circolare infatti, nell’includere anche i lavoratori venutisi a trovare loro malgrado nel limbo del periodo 2-12 agosto, fa riferimenti letterari espliciti solo agli obblighi di trasparenza, i quali non sono che una parte del contenuto della norma. A questi lavoratori, nemmeno per l’Inl, non trovano dunque applicazione i precetti di cui al Capo 3 – Prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro (artt. 7÷11) e al Capo 4 – Misure di tutela (artt. 12÷17) del Decreto? Ma prima di tutto, può una circolare andare a sanare un vulnus, per di più di tale portata? Nelle more di ulteriori precisazioni, la seconda opzione sopra esposta, in barba al diritto, appare la più prudenziale purché non limitata agli obblighi di trasparenza ma estesa a tutte le prescrizioni del Decreto.

RINVIO ESTERNO SÌ O NO?

L’art. 4, co. 3 della Direttiva cita “Le informazioni di cui al paragrafo 2, lettere da g) a l) e lettera o)11, possono, se del caso, essere fornite sotto forma di un riferimento alle disposizioni legislative, regolamentari, amministrative o statutarie o ai contratti collettivi che disciplinano tali punti”. Come abbiamo già avuto modo di esporre nel precedente articolo, tale possibilità è stata preclusa dallo Schema e dal successivo Decreto, sia per l’abrogazione del D.lgs. 152/1997 che invece conteneva esplicitamente tale possibilità (“L’informazione […] può essere effettuata mediante rinvio alle norme del contratto collettivo applicato al lavoratore”), sia perché, nel Decreto approvato, non è prevista alcuna modalità di rinvio esterno. A scanso di equivoci, e a sostegno di tale assunto, è doveroso ricordare che il Dossier A.G. 37712 “Schema di D.lgs. recante attuazione della Direttiva (UE) 2019/1152 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea” pubblicato il 13 aprile 2022, a pagina 4 dichiara in modo manifesto che “Sebbene la direttiva comunitaria consenta il rinvio alla normativa vigente, lo schema di decreto richiede che l’informazione sia indicata in modo puntuale, gravando di fatto sul datore di lavoro la ricognizione degli strumenti adattabili al singolo lavoratore”. In ossequio quindi alle indicazioni della Direttiva che ammette la possibilità (non obbligo) di rimando a fonti esterne all’informativa (sul punto è chiaro il passaggio della Direttiva poc’anzi citato “L’informazione […] può essere effettuata”) il nostro Legislatore ha preferito non accogliere l’invito UE, imponendo l’indicazione delle informazioni previste senza prevedere la possibilità di alcun rimando esterno. Questo aspetto rappresenta di certo il punto critico del c.d. Decreto trasparenza13, perché la mole di informazioni da rendere al lavoratore è tale che l’esatto adempimento della norma imporrebbe al datore di lavoro-committente l’indicazione di una serie di dati tale da vanificare l’obiettivo di trasparenza precipuo della Direttiva. Per di più, nemmeno l’auspicato rinvio a fonti esterne, se da un lato rappresenterebbe una semplificazione (rectius un non ulteriore aggravio di adempimenti), dall’altro forse non esaudirebbe appieno i principi di informazione chiara, trasparente, completa e accessibile, vuoi per la difficoltà di lettura dei Ccnl, vuoi per la difficoltà di reperire, anche per noi Professionisti, i contratti regionali o provinciali anche di epoche molto remote e che continuano a trovare odierna applicazione. Tuttavia, anche in questo ambito è intervenuta la circolare Inl n. 4/2022 il cui passaggio citiamo per esteso “Il nuovo art. 1 del D.Lgs. n. 152/1997 non fa più espresso riferimento alla possibilità di rendere alcune informazioni al lavoratore mediante il rinvio alle norme del contratto collettivo applicato. Tuttavia, fermo restando che con la consegna del contratto individuale di lavoro o di copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro […] il lavoratore deve essere già informato sui principali contenuti degli istituti di cui all’art. 1 (ad es. orario di lavoro giornaliero per n. giorni alla settimana; importo retribuzione mensile per numero delle mensilità ecc.), la relativa disciplina di dettaglio potrà essere comunicata attraverso il rinvio al contratto collettivo applicato o ad altri documenti aziendali qualora gli stessi vengano contestualmente consegnati al lavoratore ovvero messi a disposizione secondo le modalità di prassi aziendale”. Di nuovo il dubbio è lecito: come si colloca una circolare nelle fonti del diritto? Quale la portata e gli effetti? Sono domande le cui risposte sono a noi tutti ben note e, nonostante lodevole sia l’intento semplificatorio dell’Ispettorato, è doveroso approcciarsi a tale apertura in modo cauto, posto che l’interpretazione ministeriale se può (forse) metterci al riparo da eventuali sanzioni comminate dal medesimo istituto che l’ha emanata, potrebbe ragionevolmente non trovare applicazione nel caso di contenzioso giudiziario.

IL PORTALE WEB ISTITUZIONALE (ART. 4, CO. 6, D.LGS. N. 104/2022)

La creazione del portale web, ad oggi ancora non attuata, è mero adempimento ad una precisa intimazione della Direttiva la quale all’art. 5 impone che “Gli Stati membri provvedono affinché le informazioni […] siano rese disponibili […] anche tramite portali online esistenti”. Il Decreto, all’art. 4, co. 6, precisa che “Le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro sono disponibili a tutti gratuitamente e in modo trasparente, chiaro, completo e facilmente accessibile, tramite il sito in ternet istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Per le pubbliche amministrazioni tali informazioni sono rese disponibili tramite il sito del Dipartimento della funzione pubblica”. Benché il testo, anche in questo passaggio, appaia a dir poco sibillino, al portale è attualmente collegata una funzione conoscitiva delle condizioni applicabili ai rapporti di lavoro meramente aggiuntiva rispetto all’adempimento informativo in capo al datore-committente, in quanto una funzione sostitutiva dello stesso, ad esempio mediante rimando al sito web, non è richiamata in alcun passaggio della norma. LA PARZIALE ABROGAZIONE DEL D.LGS. N. 152/1997 Il Decreto n. 104/2022 ha abrogato gli articoli da 1 a 4 del D.lgs. n. 152/1997, lasciando vigente l’art. 5 Disposizioni transitorie e finali. Tale abrogazione parziale comporta un’ulteriore problematica, poiché rimangono vigenti prescrizioni, relative al preesistente D.lgs. n. 152/1997, in contrasto con il nuovo Decreto, in particolare: • al comma “1. Gli obblighi di informazione previsti dal presente decreto non trovano applicazione: a) nei rapporti di lavoro di durata complessiva non superiore ad un mese e il cui orario non superi le otto ore settimanali […]”, mentre il Decreto include i rapporti a prescindere dalla loro durata complessiva, escludendo quelli di durata inferiore alle 3 ore settimanali includendo tuttavia quelli c.d. a zero ore14;

• al comma “2. Per i rapporti di lavoro in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto il lavoratore può richiedere, per iscritto, le informazioni di cui agli articoli 1, 2 e 3. Il datore di lavoro fornisce le predette informazioni con comunicazione scritta da consegnarsi entro trenta giorni dalla data di ricevimento della richiesta”, mentre il Decreto ha modificato il precedente Schema innalzando tale termine a 60 giorni. La parziale abrogazione è tecnica non del tutto condivisibile per una serie di motivi, tra cui: 1. la corretta applicazione del novellato D.lgs. n. 152/1997 necessita la lettura di altri articoli del Decreto, ad esempio l’art. 1 (Ambito di applicazione), l’art. 2 (Definizioni), e l’art. 3 (Modalità di comunicazione delle informazioni), oltre al già citato art. 16 (Disposizioni transitorie e finali), tutti di estrema importanza ai fini della corretta applicazione della normativa; 2. il Decreto n. 104/2022, proprio per la sua parziale integrazione in altre norme, deve comunque mantenere una sua indipendenza non potendo essere superato dalle norme così come da esso novellate. Sarebbe stata più opportuna una abrogazione completa ed espressa del D.lgs. n. 152/1997, con decorrenza dal 1° agosto, senza rimandi e abrogazioni di dettaglio, così da poter applicare autonomamente il Decreto nella sua interezza e rendere più agevole l’applicazione della precedente normativa per i rapporti vigenti entro tale data. Il che porta a una riflessione ulteriore, ben più ampia ma doverosa. Può il nostro sistema di diritto (del lavoro ma non solo) continuare a poggiarsi su una stratificazione normativa come la nostra? È lecito continuare a giustificare la coesistenza di diverse fonti sulla stessa singola questione o, peggio ancora, circolari di Ministeri, Enti previdenziali o assicurativi, laddove il loro intervento – come è successo nel caso in esame – sia finalizzato a dirimere dubbi emersi da un testo letterale promiscuo se non addirittura erroneo? Può il nostro sistema di gerarchia e competenza delle fonti del diritto continuare ad essere continuamente confuso e sconvolto da circolari che, pur se con finalità apprezzabili, di fatto spesso agiscono in ambiti ad esse precluse? Infine, considerata la complessità del nostro ordinamento giuridico, delle materie che esso disciplina e quanto sia ormai evidente la necessità di un approccio multidisciplinare, quando matureremo la convinzione che la produzione legislativa deve coinvolgere tutti i Professionisti che siano in grado di dare un contributo pragmatico alla redazione di norme, tra i quali certamente i Consulenti del Lavoro?

 

1. La rivista Sintesi del mese di luglio 2022 è disponibile a questo link.

2. Lo Schema di decreto, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri il 31 marzo 2022, trasmesso a parere il 1° aprile 2022 e infine approvato in via definitiva come da comunicato stampa del 22 giugno 2022, è disponibile a questo link.

3. Il testo della Direttiva completo è reperibile a questo link.

4. Il testo del Decreto Legislativo 27 giugno 2022 n. 104 è disponibile a questo link.

5. Ad esempio, lo Schema di decreto era già disponibile al link di cui in nota precedente, fin dalla sua approvazione.

6. Il testo della lettera della Presidente Calderone, Prot. 0005414/U del 1° agosto 2022 è disponibile a questo link. La successiva lettera, Prot. 0005469/U del 3 agosto 2022 è disponibile a questo link.

7. Nello Schema di decreto il termine concesso era di 30 giorni.

8.Si rammenta che il Decreto si applica ai rapporti di lavoro subordinato, compreso il lavoro agricolo, a tempo indeterminato e determinato, anche a tempo parziale, ma anche al lavoro somministrato, al lavoro intermittente, alle collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015, alle collaborazioni coordinate e continuative ai sensi dell’art. 409, n. 3, c.p.c., ai contratti di prestazione occasionale di cui all’art. 54-bis del D.L. n. 50/2017 (conv. dal L. n. 96/2017), al lavoro marittimo, della pesca e della PA (con eventuali limitazioni).

9. Art. 73 della Costituzione “[…] Le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso”.

 

10. Il testo della Circolare INL n. 4/2022 del 10 agosto 2022 è disponibile a questo link.

11. Direttiva, art. 4, punto 3: “[…] g) la durata e le condizioni del periodo di prova, se previsto; h) il diritto alla formazione erogata dal datore di lavoro, se previsto; i) la durata del congedo retribuito cui ha diritto il lavoratore o, se ciò non può essere indicato all’tto dell’informazione, le modalità̀ di attribuzione e di determinazione di tale congedo; j) la procedura, compresi i requisiti di forma e la durata dei periodi di preavviso, che deve essere seguita dal datore di lavoro e dal lavoratore in caso di cessazione del rapporto di lavoro o, nell’impossibilità di indicare la durata dei periodi di preavviso all’atto dell’informazione, le modalità di determinazione di detti periodi; k) la retribuzione, compresi l’importo di base iniziale, ogni altro elemento costitutivo, se del caso, indicati separatamente, e la periodicità e le modalità di pagamento della retribuzione cui ha diritto il lavoratore; l) se l’organizzazione del lavoro è interamente o in gran parte prevedibile, la durata normale della giornata o della settimana di lavoro del lavoratore nonché́ eventuali condizioni relative al lavoro straordinario e alla sua retribuzione e, se del caso, eventuali condizioni relative ai cambi di turno; […] o) ove la responsabilità incomba al datore di lavoro, l’identità delle istituzioni di sicurezza sociale che ricevono i contributi sociali collegati al rapporto di lavoro e qualunque forma di protezione in materia di sicurezza sociale fornita dal datore di lavoro”.

12. Il testo è reperibile nella sezione della documentazione parlamentare, sezione Dossier di cui a questo link.

13. La terminologia ormai già entrata nel gergo comune è fuorviante: il Decreto Legislativo 104/2022 non si limita a regolamentare gli obblighi informativi in materia di trasparenza.

14. Sul punto si rimanda all’articolo pubblicato su Sintesi di luglio 2022, lettera A, pagina 5, disponibile a questo link.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

DECRETO TRASPARENZA: un regime sanzionatorio più soft?

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

Il nuovo D.lgs. n. 104 del 27 giugno 2022, meglio conosciuto come Decreto Trasparenza, attuativo della direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea, presenta varie criticità interpretative.
Una questione che ha attirato in particolare la mia attenzione è l’apparato sanzionatorio previsto dall’art. 4 del D.lgs. n. 152/1997, rivisto dal nuovo D.lgs. n. 104/2022, che oggi quindi così dispone:

art. 4. – Sanzioni

1. Il lavoratore denuncia il mancato, ritardato, incompleto o inesatto assolvimento degli obblighi di cui agli articoli 1, 1-bis , 2, e 3, e 5, comma 2, all’Ispettorato nazionale del lavoro che, compiuti i necessari accertamenti di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, applica la sanzione prevista all’articolo 19, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276.
Contestualmente il Decreto Trasparenza interviene sul comma 2 dell’art. 19 del D.lgs. n. 276/2003, così modificandolo:
art. 19 – Sanzioni amministrative
2. La violazione degli obblighi di cui all’articolo 1, commi da 1 a 4 del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 250 a euro 1.500 per ogni lavoratore interessato. In caso di violazione degli obblighi di cui all’articolo 1-bis, commi 2, 3, secondo periodo, 5 del medesimo decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, si applica, per ciascun mese di riferimento, la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 750 euro …
… omissis …
In caso di violazione degli obblighi di cui al comma 6, secondo periodo, del medesimo articolo 1-bis si applica, per ciascun mese in cui si verifica la violazione, la sanzione amministrativa pecuniaria da 400 a 1.500 euro.

IL NUOVO QUADRO SANZIONATORIO
Il regime sanzionatorio risulta sostanzialmente modificato ma soprattutto di non facile lettura, complice anche l’infelice scelta di prevedere l’importo della sanzione in una norma, il D.lgs. n. 276/2003, per la violazione di una parte degli obblighi previsti da un’altra norma, il D.lgs. n. 152/1997, e una seconda, proprio il D.lgs. n. 152/1997, che rimanda a sua volta al D.lgs. n. 276/2003 per la quantificazione dell’importo da pagare, sia per la violazione degli stessi obblighi (già sanzionati dal D.lgs. n. 276/2003) che per l’inosservanza di ulteriori obblighi del D.lgs. n.
152/1997 ma in questo caso – e ciò emerge dalla interpretazione letterale e combinata delle due disposizioni – in base a quello che è da intendersi un chiaro requisito di procedibilità: la preventiva denuncia del lavoratore all’Ispettorato del lavoro.
Per una migliore leggibilità e comprensibilità del provvedimento sarebbe stato opportuno, a detta di chi scrive, evitare questa sovrapposizione di norme e di richiami ed inserire tutto in un unico articolo. In questo marasma sorge spontanea una domanda: che modo di legiferare è questo? E sì che le modifiche ai due D.lgs., con un confuso incrocio di rimandi, sono contenute proprio nel Decreto Trasparenza! Bella coerenza, non c’è che dire.
Ma torniamo a noi evidenziando in primis come la circolare Inl n. 4 del 10 agosto 2022 non si sia espressa sulla questione “Sanzioni” (problematica che auspichiamo verrà presto affrontata) come del resto sulle altre
criticità riguardanti l’informativa tra cui: la formazione, altri congedi retribuiti, forme di protezione in materia di sicurezza sociale, sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati. Probabile che nemmeno al Ministero del
Lavoro – il più diretto interessato e coinvolto visto che parliamo di un Decreto legislativo, quindi scritto dall’Esecutivo – abbiano ancora le idee chiare. E questo è tutto dire. L’argomento viene invece trattato nella circolare n. 11 del 18 agosto 2022 della Fondazione Studi, che ritiene la denuncia del lavoratore non costituire condizione di procedibilità, derubricandola a mero ausilio agli organi di vigilanza per quanto di loro non
specifica e diretta conoscenza.
Con tutto il dovuto rispetto si ritiene possibile una diversa lettura. La questione appare infatti a chi scrive più complessa e merita alcuni distinguo. Proviamo insieme a capirci qualcosa di più accennando anche un’analisi ragionata su alcuni degli obblighi previsti dal Decreto.

L’ART. 19, CO. 2, DEL D.LGS.N. 276/2003
Come abbiamo visto l’art. 19, comma 2, del D.lgs. n. 276/2003 prevede una sanzione per la violazione dei seguenti obblighi previsti dal D.lgs. n. 152/1997:
a. mancata comunicazione al lavoratore, secondo le modalità di cui al successivo comma 2, delle previste informazioni sul rapporto di lavoro (art. 1, comma 1).
b. mancato assolvimento dell’obbligo di informazione mediante consegna, all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro e prima dell’inizio dell’attività lavorativa, del contratto individuale o di copia del modello Unilav (art. 1, comma 2).
c. mancata integrazione entro 7 giorni dall’inizio della prestazione – ovvero entro un mese per le informazioni di cui alle lettere g), i), l), m), q), e r) – delle informazioni non contenute nei documenti indicati al comma 2,
lettere a) e b) ovvero nel contratto individuale o nel modello Unilav (art. 1, comma 3).
d. mancata consegna, in caso di cessazione del rapporto di lavoro prima della scadenza del termine di un mese dalla data dell’instaurazione, delle informazioni non contenute nei noti documenti previsti dal comma 2,
lettere a) e b) (art. 1, comma 4).
e. mancata informativa al lavoratore circa l’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio (art. 1-bis, comma 2). Il comma deve essere letto in stretto riferimento agli obblighi di cui al comma 1, tenendo anche presente che tutti gli obblighi informativi di cui all’art. 1-bis gravano anche sul committente nell’ambito sia dei rapporti di lavoro di cui
all’art. 409, n. 3, c.p.c. che dei rapporti di cui all’art. 2, comma 1, del D.lgs. n. 81/2015 (art. 1-bis, comma 7).
f. mancato riscontro entro 30 giorni alla richiesta del lavoratore di accesso ai dati e di ulteriori informazioni concernenti gli obblighi di cui al comma precedente (art. 1-bis, comma 3, secondo periodo). Qui va evidenziata una criticità non comprendendo quali siano le ulteriori informazioni, pertanto diverse da quelle obbligatorie e già fornite, a cui il lavoratore avrebbe interesse ad accedere. Il rischio è di trovarsi di fronte ad istanze pretestuose e ricattatorie.
g. mancata informazione scritta, almeno 24 ore prima, di ogni modifica delle informazioni già fornite ai sensi del comma 2 (art. 1-bis, comma 5).
Un commento a parte merita invece la violazione contestabile per i casi di:

h. mancata comunicazione – nel caso di utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati – delle informazioni e dei dati di cui ai commi da 1 a 5 dell’art. 1-bis alle rappresentanze sindacali aziendali ovvero alla rappresentanza sindacale unitaria e, in assenza delle predette rappresentanze, alle sedi territoriali delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art. 1-bis, comma 6, secondo periodo).
Di questo aggravio di burocrazia – sanzionato peraltro con ben 400 euro (sempre che si adempia alla diffida prevista dall’art. 13 del D.lgs. n. 124/2004) per ciascun mese in cui si verifica la violazione (e qui, a chi scrive, sfugge il riferimento temporale) – non se ne sentiva davvero il bisogno.

L’ART. 4 DEL D.LGS. N. 152/1997
Anche nel caso dell’art. 4 del D.lgs. n. 152/1997  le modifiche sono rilevanti.
La  prima cosa che salta all’occhio è che non è   più previsto il meccanismo che prevedeva: a) la denuncia del lavoratore all’Ispettorato; b) l’invito di quest’ultimo al datore di lavoro ad adempiere entro il termine di quindici giorni; c) l’applicazione della sanzione in caso di inottemperanza alla richiesta. Oggi il lavoratore denuncia e l’Ispettorato, compiuti i necessari accertamenti, applica la sanzione.
Altro rilievo è come all’art. 4 venga citato impropriamente, quale destinatario della denuncia del lavoratore, l’Ispettorato nazionale anziché quello territoriale. Dettagli o la cosa potrebbe avere delle conseguenze?
Il fatto però più rilevante – ne abbiamo già accennato – è che il predetto art. 4 prevede la sanzionabilità, su denuncia del lavoratore, sia per l’inadempimento agli specifici obblighi informativi indicati nell’art. 19, comma 2, del D.lgs. n. 276/2003, ma anche per l’inosservanza degli ulteriori e specifici obblighi informativi, imposti sempre dal D.lgs. n. 152/1997.
Di fatto, ad una prima lettura, solo a seguito di formale, circostanziata (e secondo chi scrive pure spontanea) segnalazione del lavoratore – denuncia che, ove esistente, dovrebbe essere citata nelle motivazioni del verbale pena l’illegittimità dello stesso – dovrebbero potersi sanzionare le seguenti ulteriori violazioni:
i. mancata comunicazione al lavoratore delle informazioni, previste per i lavoratori dipendenti, anche nell’ambito dei rapporti di lavoro di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., dei rapporti di cui all’art. 2, comma 1, del D.lgs. n. 81/2015, nonché dei contratti di prestazione occasionale di cui all’art. 54-bis del D.l. n. 50/2017 (art. 1, comma 5). Qui la criticità risiede nel fatto che questa informativa è dovuta nei limiti della compatibilità: un lavoro di analisi non semplice e foriero di contenzioso.
l. negato accesso al lavoratore alle informazioni già fornite; mancata conservazione della prova di avvenuta consegna delle informazioni stesse (art. 1, comma 8). Per i termini di conservazione si deve fare riferimento all’ultimo periodo dell’art. 3 del D.lgs. n. 104/2022 che li prevede per la durata di cinque anni dalla conclusione del rapporto di lavoro. Questa previsione merita una censura perché potrebbe accadere il caso di un dipendente assunto il 13 agosto 2022 e in forza per 40 anni nella medesima azienda, quindi fino al 12 agosto 2062. La mancata informativa potrebbe quindi essere sanzionata, su denuncia del lavoratore, sino al 12 agosto 2067. Ovvero 45 anni dopo l’assunzione. In pratica disponendo – seppur solo previa la denuncia del lavoratore interessato – un allungamento dei termini prescrizionali previsti dall’art. 28 della Legge n. 689 del 24 novembre 1981, secondo il quale il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la  violazione. Ma in fondo chi se ne importa: l’importante è portarsi a casa dei soldini. m. mancata integrazione all’informativa già data al lavoratore con le istruzioni riguardo la sicurezza dei dati e l’aggiornamento del registro dei trattamenti riguardanti le attività di cui al comma 1 dell’art. 1-bis, incluse le attività di sorveglianza e monitoraggio (art. 1-bis, comma 4). Andrebbe chiarita la portata di questo obbligo onde evitare la consegna di corposi manuali di cui il lavoratore non se ne farà nulla secondo l’assioma che cento informazioni equivalgono a zero informazioni.
n. mancata comunicazione al lavoratore – nel caso di utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati – in modo trasparente, in formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico delle informazioni e dei dati di cui ai commi da 1 a 5 dell’art. 1-bis (art. 1-bis, comma 6, primo periodo). Qui non si condivide sia l’utilizzo di aggettivi di difficile e ambigua interpretazione ma soprattutto la previsione di un dispositivo automatico per la lettura: a parte capire esattamente a cosa ci si riferisca, l’adempimento potrebbe risultare particolarmente oneroso per le aziende poco o per nulla strutturate.
o. mancato riscontro alla richiesta del Ministero del lavoro e dell’Ispettorato nazionale del lavoro alla comunicazione delle informazioni e dati di cui ai commi da 1 a 5 dell’art. 1-bis e l’accesso agli stessi (art. 1-bis, comma 6, terzo periodo).
p. mancata informativa prevista per i casi di prestazioni di lavoro all’estero nell’ambito di una prestazione  transnazionale di servizi, sia per i distacchi in uno Stato membro che in uno Stato terzo (art. 2, commi 1, 2 e 3).
q. mancata comunicazione al lavoratore, entro il primo giorno di decorrenza degli effetti della modifica, di qualsiasi variazione degli elementi di cui agli articoli 1, 1-bis e 2 che non derivino direttamente dalla modifica di
disposizioni legislative o regolamentari, ovvero dalle clausole del contratto collettivo (art. 3). Qui il Legislatore non ha considerato che qualora il Ccnl prevedesse una modifica del periodo di preavviso il lavoratore che
volesse dimettersi non saprebbe che i termini di preavviso sono ora diversi rispetto a quanto comunicatogli in sede di assunzione. Un bel ciao alla informazione trasparente. Merita anche qui un commento specifico il
richiamo alla violazione prevista per:

r. il mancato riscontro entro trenta giorni, e parliamo dei rapporti di lavoro in corso alla data di entrata in vigore del D.lgs. n. 152/1997, alla richiesta del lavoratore di accesso alle informazioni di cui agli articoli 1, 2 e 3 (art. 5, comma 2).
Il perché di questa specifica attenzione? Semplicemente perché il predetto art. 5 del D.lgs. n. 152/1997 – che riguardava le disposizioni transitorie per i rapporti di lavoro in corso alla data di entrata in vigore del provvedimento del 1997 – non risulta modificato dal D.lgs. n. 104/2022.
Si tenga peraltro presente che lo stesso Decreto Trasparenza prevede, come ovvio, una propria disciplina transitoria disponendo all’art. 16, comma 2 che: … il datore di lavoro o il committente, su richiesta scritta del lavoratore già assunto alla data del 1° agosto 2022, è tenuto a fornire, aggiornare o integrare entro sessanta giorni le informazioni di cui agli articoli 1, 1-bis, 2 e 3 del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, come modificati
dall’articolo 4 del presente decreto. In caso di inadempimento del datore di lavoro o del committente, si applica la sanzione di cui all’articolo 19, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Ora, l’art. 5, comma 2, del D.lgs. n. 152/1997 – espressamente richiamato dal nuovo art. 4 dello stesso provvedimento e, ribadiamolo,
mai abrogato – prevede un termine di trenta giorni per dare riscontro al lavoratore che, ove inascoltato, denuncerà il fatto all’Ispettorato, mentre il comma 2 dell’art. 16 del D.lgs. n. 104/2022 ne prevede ben sessanta, senza peraltro sia chiaro se per la sanzione sia necessaria la specifica  denuncia del lavoratore o basti una presa d’atto del fatto in sede ispettiva.
Insomma, il solito legislatore pasticcione.
Mi chiedo quando vedrà la luce un Decreto Trasparenza, con destinatarie le imprese, che imponga al Legislatore l’emanazione di norme chiare, limpide e comprensibili

 

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