IL CONTRATTO A TERMINE E I SUOI DODICI MESI. Cosa cambia col decreto Lavoro

Andrea Morzenti, Curatore e autore di intornoallavoro.com

 

Lasciatemi innanzitutto dire che sono molto contento di tornare a scrivere su Sintesi, rivista piena di spunti interessanti e che leggo sempre con grande interesse e con piacere. Colpevolmente assente qui da troppo tempo, provo a dare ora il mio contributo in merito alle recenti novità introdotte al contratto a termine (tanto diretto quanto a scopo di somministrazione) dal decreto Lavoro e dalla sua legge di conversione.

Forse ci si aspettava di più da questo decreto. Puo’ darsi. Anche perché le anticipazioni diffuse dalla stampa nei primi mesi dell’anno facevano pensare ad un superamento totale del decreto dignità con un sostanziale ritorno al Jobs Act (salvo la conferma, ormai consolidata, della riduzione da trentasei a ventiquattro mesi della durata massima contrattuale). Si dava infatti ormai per certa l’eliminazione delle causali, con un conseguente ritorno pieno alla acausalità dei contratti a termine. Ma sappiamo non è stato così. Cosa sia avvenuto nei palazzi romani non è dato sapersi con esattezza. I ben informati dicono di un governo preoccupato di non innervosire troppo la CGIL vista l’abrogazione del reddito di cittadinanza, questa sì avvenuta ad opera del decreto Lavoro con la sua sostituzione mediante il diverso istituto dell’assegno di inclusione, che a Maurizio Landini non è piaciuta per nulla.

Ma torniamo al punto. Dopo aver accantonato (Deo gratias) l’impraticabile idea della certificazione dei contratti, il governo Meloni decide di riscrivere completamente il meccanismo delle causali introdotto dal decreto Dignità.

Nessun ritorno alla acausalità sempre e comunque, come detto, ma un primo colpo al decreto Dignità è servito (l’altro arriverà con la legge di conversione, vedremo dopo). Ricordate cos’era necessario per prorogare un contratto oltre i dodici mesi o, semplicemente, per rinnovarlo? Non era sufficiente, ad esempio, un incremento dell’attività ordinaria, ma era necessario che tale incremento fosse i) temporaneo, ii) significativo e iii) non programmabile, con specifica declinazione dei tre aggettivi. Insomma, una prova diabolica a cui era possibile assolvere solo – forse – a seguito di un allineamento di tutti i pianeti del nostro sistema solare. Pensiamo a un gelataio che registra un incremento della produzione di gelato alla crema (attività ordinaria), in pieno inverno (non programmabile), per un mese o poco più (temporaneo), pari al triplo, anzi facciamo al quadruplo, della produzione media di quel periodo (significativo). Che poi, chissà, se questo allineamento planetario avrebbe anche trovato accoglimento da parte dei nostri giudici del lavoro.

Ora tutto questo non c’è più. E, lasciatemelo dire, io lo trovo un profondo senso di liberazione. Il governo col decreto Lavoro decide, infatti, di assegnare in prima battuta (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1, novellata lettera a)) ai contratti collettivi, di ogni livello anche aziendali, l’individuazione in via normale dei “casi” per cui, vedremo meglio dopo, è possibile “andare oltre i dodici mesi” di contratto/i (pur sempre entro i ventiquattro mesi). E anche la scelta del termine “casi” va letta con favore, in quanto molto ampia. Non più “specifiche esigenze” come fece in epoca Covid il governo Draghi col decreto Sostegni bis, ma “casi” appunto. Aprendo in questo modo alla contrattazione nazionale (che con “specifiche esigenze” era forse un po’ sacrificata) oltre che confermare, certo, quella aziendale. E avvalorando ora, senza dubbio alcuno, la possibilità di avere causali (rectius casi) anche soggettive e quindi rivolte a particolari tipologie di lavoratori e non solo, oggettive, legate all’organizzazione aziendale. In seconda battuta (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1, novellata lettera b), solo se e finché i contratti collettivi nulla dicono in tema di causali, sono le parti individuali del contratto di lavoro, datore di lavoro e lavoratore, a poter individuare una esigenza tecnica, organizzativa o produttiva a “far da causale”. Una funzione suppletiva pero’ a tempo, in quanto esercitabile solo sino al 30 aprile 2024. Poi, dall’1 maggio 2024, o i contratti collettivi saranno intervenuti oppure, salvo l’utilizzo della causale sostitutiva laddove possibile, il limite dei dodici mesi diverrà un limite temporale invalicabile.

In molti hanno osservato come, per un anno, potremmo essere in presenza di un ritorno al cosiddetto “causalone”. Un balzo indietro sino al 2001, al decreto legislativo n. 368, con tanto di pesante contenzioso giudiziale che ne è seguito? Sul punto, personalmente, preferisco l’interpretazione che porta a dare una risposta negativa a tale equiparazione. Perché, se da un lato la formulazione testuale è pressoché identica a quella del 2001, dall’altro lato molto diverso è l’impianto normativo in cui è oggi inserita rispetto a quello del passato. Se infatti il causalone di allora era sostanzialmente l’unica misura prevista per contrastare l’abuso derivante dalla successione di più contratti a termine (che è quanto chiede la direttiva europea) e quindi la causale oltre ad essere specifica doveva anche far emergere il necessario requisito della temporaneità, ora – fermo l’onere della specificazione in capo al datore di lavoro – la presenza di un limite temporale alla successione dei contratti che nel 2001 non era presente, i ventiquattro mesi, potrebbe da solo essere sufficiente per soddisfare la prerogativa della temporaneità. Vedremo se i giudici del lavoro terranno conto di questa possibile lettura nel valutare la bontà di una causale individuata dalle parti individuali.

Ci si è anche domandati se le causali introdotte dalla contrattazione collettiva prima del decreto Lavoro siano ancora utilizzabili oppure no. E, se sì, quali gli effetti sulla possibilità per le parti individuali di procedere con il causalone che, come detto, risulta precluso in caso di intervento della contrattazione collettiva. Personalmente ritengo che le “specifiche esigenze” introdotte dai contratti collettivi in attuazione del decreto Sostegni bis siano certamente ancora valide, per due ordini di motivi.

Il primo attiene al fatto che si tratta di norma successiva al decreto Dignità, nel tentativo di allargarne le maglie. Per lo stesso motivo, ri- ! tengo quindi che non abbiano più valore le causali collettive introdotte prima del decreto Dignità, dato che quest’ultimo aveva fatto tabula rasa di tutto quanto introdotto e normato prima della sua entrata in vigore. Il secondo ordine di motivi attiene al dato letterale. E cioè se le parti collettive erano state così brave nell’individuare una “specifica esigenza”, di certo questa previsione puo’ ora avere cittadinanza anche come “caso” che indubbiamente ha una accezione molto più ampia. Sono anche del parere, pero’, che queste causali collettive ante decreto Lavoro non siano, come lo saranno invece le post per espressa previsione di legge, impeditive della causale individuale (causalone). E questo perché, a ragionare diversamente, si assegnerebbe alla fonte collettiva ante decreto Lavoro una funzione che certo il Legislatore dell’epoca non aveva previsto. In altri termini, quando, ad esempio, nel 2022 le parti sociali intorno al tavolo hanno di comune accordo individuato le causali, l’hanno fatto per allargare le maglie del decreto Dignità e non certo, neppure, potendo immaginare che quell’allargamento, da lì a poco, avrebbe comportato al contrario un restringimento, essendo di fatto l’unico impianto causale possibile. Ora, dopo aver analizzato il primo colpo che il decreto Lavoro ha inferto al decreto Dignità (la completa riscrittura e semplificazione delle causali, come visto), proviamo ad analizzare il secondo colpo infertogli dalla legge di conversione. Premessa doverosa. Il decreto Dignità prevede(va) che la causale fosse necessaria in tre situazioni: i) contratto di durata iniziale superiore a 12 mesi, ii) proroga che porta la durata del contratto a superare i dodici mesi, iii) rinnovi, cioè riassunzioni del lavoratore a termine, indipendentemente dalle durate.

Questa impostazione era rimasta immutata con l’entrata in vigore, il 5 maggio 2023, del decreto Lavoro. La legge di conversione, in vigore dal 4 luglio 2023, ci consegna invece una novità importante: anche coi rinnovi la causale non serve sempre e a prescindere ma, invece, è necessaria solo quando “il termine complessivo eccede i dodici mesi” (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 4, ultimo periodo). Quindi, d’ora in avanti – riporto il testo novellato del D.lgs. n. 81/2015, art. 21, comma 01, primo periodo – “Il contratto puo’ essere prorogato e rinnovato liberamente nei primi dodici mesi”. Sul punto si sono già confrontate almeno due diverse interpretazioni. La prima afferma che i dodici mesi sono di calendario cioè, in altre parole, un contratto sottoscritto ad esempio il 1° settembre 2023 potrà essere (oltre che prorogato anche) rinnovato per dodici mesi, tenendo pero’ come ultimo giorno di contratto sempre e comunque il 31 agosto 2024. Una seconda e diversa, a mio parere più aderente alla lettera della norma (“termine complessivo”) e che credo collimi anche con la ratio della novella in commento, considera invece i dodici mesi non come anno solare ma come sommatoria delle durate dei vari contratti (il primo e i successivi rinnovi). Aderendo alla prima interpretazione, tra l’altro, i dodici mesi complessivi potrebbero non raggiungersi mai in considerazione della necessità di rispettare uno stacco (il cosiddetto stop & go) tra un contratto a termine e il successivo (previsione che, ricordo, non si applica in caso di contratti a termine a scopo di somministrazione). Anche in base a questo assunto, oltre al fatto di voler riconoscere al rinnovo una distinta connotazione rispetto al diverso istituto della proroga, la mia preferenza va appunto all’interpretazione che considera i dodici mesi raggiungibili per sommatoria in forza di diversi contratti stipulati anche in un arco temporale superiore all’anno. Ma non è finita qui. Perché la legge di conversione del decreto Lavoro introduce anche un’ulteriore novità. Si prevede infatti una sorta di franchigia che, in sostanza e ai soli fini dei dodici mesi sopra trattati, azzera tutti i contratti sottoscritti prima dell’entrata in vigore del decreto Lavoro (5 maggio 2023). Riporto testualmente: “Ai fini del computo del termine di dodici mesi previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, del decreto legislativo n. 81 del 2015, come modificati dai commi 1 e 1-bis del presente articolo, si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Quindi, tanto ai fini delle proroghe (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1) quanto ai fini dei rinnovi (D.lgs. n. 81/2015, art. 21, comma 01), i dodici mesi superati i quali si rende necessaria una causale, decorrono solo a partire dalla stipula dei contratti (attenzione, non proroga che non è un contratto ma la sua prosecuzione) dal 5 maggio 2023 in avanti.

Concludendo sul punto, possiamo dire che la legge di conversione introduce un nuovo e diverso contatore, di dodici mesi, necessario per sapere se e quando è necessario apporre una causale. Conteggio che si affianca (non sostituisce e non modifica) a quello dei ventiquattro mesi di durata complessiva di uno o più (salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi) contratti a termine.

Chiudo questo mio scritto con una domanda: alla luce della seconda novità introdotta dalla legge di conversione sopra descritta (computo dei dodici mesi solo a partire dai contratti post 5 maggio 2023), è possibile sostenere che il causalone (ricordo utilizzabile entro il 30 aprile 2024 in assenza della contrattazione collettiva) sia stato in sostanza ora definitamente abbandonato dal Legislatore, pur senza una abrogazione esplicita, in quanto fatto rivivere solo per i due mesi intercorrenti tra l’entrata in vigore del decreto lavoro e la sua conversione in legge?

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D.L. 48/23: il welfare squilibrato colpisce ancora

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Fra le misure di sicuro interesse e di applicazione immediata (salvo quanto più avanti) spicca quella contenuta nell’articolo 40 del D.L. 48/2023, di cui è utile riportare il testo per intero. Quello che vogliamo dimostrare, lo anticipiamo da subito, è che la misura appare ingiusta, squilibrata, malpensata e dimostra anche una certa distanza da una buona tecnica espositiva e da un approccio sistematico. Insomma, per parafrasare il titolo di un vecchio spettacolo teatrale, “una norma tutta sbagliata”.

Per non perderci nulla, e farvi apprezzare la criticità in ogni passaggio, riporteremo il testo per intero.

Art. 40 Misure fiscali per il welfare aziendale

1. Limitatamente al periodo d’imposta 2023, in deroga a quanto previsto dall’articolo 51, comma 3, prima parte del terzo periodo, del Testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non concorrono a formare il reddito, entro il limite complessivo di euro 3.000, il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti con figli, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti, i figli adottivi o affidati, che si trovano nelle condizioni previste dall’articolo 12, comma 2, del citato testo unico delle imposte sui redditi, nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi lavoratori dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. I datori di lavoro provvedono all’attuazione del presente comma previa informativa alle rappresentanze sindacali unitarie laddove presenti.

2. Resta ferma l’applicazione dell’articolo 51, comma 3, del citato testo unico delle imposte sui redditi, in relazione ai beni ceduti e ai servizi prestati a favore dei lavoratori dipendenti per i quali non ricorrono le condizioni indicate nel comma 1.

3. Il limite di cui al comma 1 si applica se il lavoratore dipendente dichiara al datore di lavoro di avervi diritto indicando il codice fiscale dei figli.

Agli oneri derivanti dal presente articolo, valutati in 142,2 milioni di euro per l’anno 2023 e 12,4 milioni di euro per l’anno 2024, si provvede ai sensi dell’articolo 44.

Cominciamo dal titolo: eh no, caro legislatore, non stiamo per nulla parlando di welfare aziendale. Il welfare aziendale, infatti, come dice fra le righe la stessa Agenzia delle Entrate nelle sue circolari, è una serie di prestazioni messe a disposizione dall’azienda verso la totalità o categorie di lavoratori per incontrare i loro bisogni e migliorarne il benessere e la sicurezza sociale. Sono pertanto misure di natura collettiva, a cui impropriamente vengono apparentati una serie di benefit che con il bisogno e con la necessità di accrescere il benessere hanno poco a che fare. Altro connubio sbagliato è quello di accomunare il welfare con la pianificazione fiscale (come di fatto fa il titolo della norma): si confonde cioè il fine (il benessere del lavoratore) con il mezzo (l’agevolazione fiscale). Se si invertono le questioni, il benessere (l’utilità e la finalità della misura) passa in secondo piano, l’importante è l’effetto di risparmio fiscale, che però, come vedremo, costa a tutti noi (e comunque è un brutto modo di porre la questione). Le considerazioni di cui sopra sono tanto vere che l’art. 51, comma 3 del Tuir non riguarda propriamente iniziative di welfare (contenute nel comma 2, di cui è chiara la vocazione sociale) ma piuttosto l’erogazione di beni e servizi indifferenziati e generici per i quali è previsto un limite di esenzione fiscale e previdenziale. Trattasi in buona sostanza di una sorta di pseudo-franchigia riservata alla non considerazione fiscale del valore di omaggi o servizi marginali erogati al lavoratore, quasi una specie di zona franca per non questionare su gentilezze risibili ma ricorrenti nel rapporto di lavoro (la cena aziendale, il regalo a Natale etc.). Tant’è che più che di “welfare”, per quelle somme si parla più genericamente di “benefit”.

Ma andando alla sostanza della norma, questa agevolazione è prevista per i lavoratori dipendenti che siano genitori con figli a carico; non si sa, o forse si saprà solo all’ultimo, se saranno compresi oppure no anche i percettori di reddito assimilato, come co.co.co. o amministratori: la storia non insegna nulla, ci vuole sempre l’interpretazione invece che una scrittura normativa esaustiva.

E già qui i più attenti di voi noteranno un secondo scivolone terminologico: eh sì, perché non c’è proprio bisogno di alcuna specifica per i figli riconosciuti nati fuori dal matrimonio, i quali hanno smesso di essere “figli del peccato” da un pezzo, e precisamente dal 2012; con la legge n. 219 del 2012 e la successiva integrazione a cura del D.lgs. n. 154/2013 vi è la piena equiparazione giuridica di tali figli rispetto a quelli nati all’interno di un matrimonio. Pertanto dire “figli” è più che sufficiente, la specificazione è superflua e fuorviante; è un po’ come dire “legislatore”, è un termine che comprende tutti i legislatori, sia quelli sapienti (sempre più rari), sia quelli che le norme del proprio Paese non le conoscono bene (o non se le ricordano).

Ma poi, proseguiamo, la norma risulta abbastanza poco utile per lo scopo che si è posta (è nel capo IV del Decreto, rubricato come “Misure a sostegno dei lavoratori e per la riduzione della pressione fiscale”).

Innanzitutto, è bene precisare che non è un diritto acquisito dal lavoratore, ma solamente una misura che dipende dalla disponibilità del datore di lavoro ad erogarla. Ora chi si occupa di welfare aziendale, sa bene che se c’è una categoria che in genere beneficia in modo agevole – senza questa nuova norma – del valore welfare messo a disposizione dall’azienda sono proprio i genitori, i quali fra pre-post scuola, rette, mense, trasporti, libri scolastici, gite di classe, abbonamenti ai mezzi pubblici etc. (il tutto sotto forma di rimborso spese, quindi cash) già a metà anno, se non prima, sono arrivati a esaurire il proprio plafond di welfare, anche se superiore a 3.000 euro. In seconda battuta, è poco utile perché, anche per quanto detto poche righe fa, riguarda unicamente le aziende che già si pongono il benessere (o il sostegno economico del lavoratore) come problema e quindi erogano il welfare o prevedono benefit. Di solito sono aziende in cui, per questo ed altri motivi, il dipendente proprio male non sta. Vedo purtroppo più difficile che il sostegno ai genitori arrivi in quelle situazioni (ben più bisognose) in cui un datore adotti un bel contratto-pirata e retribuisca i lavoratori al minimo possibile o al massimo ribasso: ve lo vedete mettere mani al portafoglio in modo volontario quando non lo fa nemmeno se obbligato da leggi e Costituzione? Peraltro non vorrei, casomai lo facesse, che fosse un mezzo maldestro di “retribuzione sostitutiva” (“Gino, visto che hai figli a carico ti va bene se invece di pagarti gli straordinari in nero ti do dei buoni spesa o ti rimborso le bollette? Tanto per te è uguale e così almeno scarico anch’io…”). E qui viene la critica vera alla norma, che si presenta davvero come squilibrata ed ingiusta. Per quale motivo i genitori sono un po’ più uguali degli altri lavoratori, cioè perché viene presentata come misura di fiscalità generale una misura che favorisce solo una parte dei lavoratori? Quelli senza figli a carico, ma magari con situazioni drammatiche alle spalle, non hanno eguali necessità? E quelli che aspettano una benedetta riduzione vera della pressione fiscale (ed altre manovre economiche necessarie) per mettere figli in cantiere e farsi una casa, una famiglia e quelle cose lì? E i single, e quelli con altri familiari a carico? Peraltro, oramai siamo a maggio, anche volendo, anche “dandosi da fare” il figlio prima del 2024 non arriva più… Quindi con una misura non stabile (solo per il 2023), di certo non si incrementa la tanto necessaria e sospirata natalità (e nemmeno il lavoro femminile, perché o il lavoro e i figli già ce li hai – e quindi il problema in qualche modo l’hai risolto – oppure sei ancora al palo, e ci resti). Inoltre, la misura è iniqua e squilibrata perché:

  • intervenendo sul comma 3 risultano beneficiati i genitori indipendentemente dalle spese che hanno in quanto genitori (ad esempio, possono godere dell’esenzione fiscale dell’autovettura data in uso promiscuo);
  • vengono ad essere “aiutati” anche coloro che non avevano alcun bisogno di essere aiutati: il dirigente con la moglie quadro (o viceversa, la dirigente con il marito quadro) e con figlio in università privata si beccano in famiglia  benefit esenti per 6.000 euro, davvero ne avevano bisogno?
  • la concessione del benefit è a mera discrezione del datore, pertanto, se il datore non prevede nulla il lavoratore, ancorchè avente “teoricamente” diritto, non avrà nulla;
  • la concessione del benefit, a differenza del welfare aziendale, è discrezionale anche rispetto alla collettività, per cui permette al datore interventi assolutamente ad personam (a Tizio do 3.000, a Caio do 1.000, a Sempronio non do nulla); un’ulteriore inversione del concetto di welfare aziendale, che si richiede sia rivolto ad una collettività (Agenzia delle Entrate non sa più come dirlo) e non al singolo. Diciamo che i profili discriminatori appaiono molteplici, lo scopo si perde, l’ingiustizia, salvo casi rari, finisce per acuirsi. Beninteso a spese di tutti, perché il conto (vedi comma 4 della norma) è a carico della fiscalità generale e non è nemmeno così indifferente.

Rispetto al problema del trattamento ad personam è inoltre prevista, nuova nel panorama, una misura surreale: l’informativa da rendere alle RSU se presenti. La norma è, al solito, oscura: i datori di lavoro devono informare le RSU se provvedono a dare attuazione alla misura (è un’opzione del tutto volontaria: forse si poteva usare un’espressione migliore di “dare attuazione”). Ma cosa dovranno fare i datori? Dovranno semplicemente dire che hanno intenzione di fare qualcosa in senso generico o dovranno dare alle RSU la lista dei beneficiari, con tanto di specifica del benefit destinato ad ogni singolo lavoratore? Cioè, tu datore di lavoro fai pure ciò che vuoi, ma poi si scatena la ridda di paragoni e mal di pancia fra i lavoratori, fra chi è stato fortunato, o beneficato, chi no (e magari nasce una qualche piattaforma rivendicativa per il futuro). E le RSU, in nome della riservatezza a cui comunque sono tenute anche loro in materia di dati personali, come potranno trattare queste informazioni? È pur vero che, salvo entità di certe dimensioni (e a volte anche lì), le RSU non sono poi così diffuse, ma alla fine il senso di questa informativa qual è (se c’è)?

Poi vi sono altre complicazioni simpatiche, chiamateli effetti perversi se volete. Un figlio è a carico se nell’anno in questione (cioè nel 2023) è percettore di un reddito fino a una certa soglia (4.000 euro di reddito fiscale, oppure 2.840,51 euro se maggiore di 24 anni). Immagino schiere di figli diffidati dal trovarsi un lavoro integrativo agli studi oppure un lavoro a ottobre (“Ma che, sei matto, per i tuoi stupidi miseri 3.000 euro io e tua madre ne perdiamo il doppio… Lascia stare”). Fantastico risultato. Da una parte si riforma (anche condivisibilmente, almeno nelle intenzioni) un reddito di cittadinanza perché appare favorire meccanismi di inerzia, ma si introducono norme che potrebbero innescare “inerzie di ritorno”.

E infine, il capolavoro. Incertezza, inutilità e asistematicità di una norma in poche righe. Eh sì, perché non è ancora chiaro il trattamento contributivo applicabile ai benefits in oggetto. È una cosa che già abbiamo visto con i 200 euro di bonus carburante 2023 previsto dal D.l. n. 5/2023 la cui legge di conversione confermò, a sorpresa, l’imponibilità contributiva. Anche rispetto a questi “nuovi 3.000” la copertura contributiva, in sede di programmazione finanziaria, non è prevista e la relazione accompagnatoria al Decreto sul punto è molto, molto sibillina.

Da qui gli effetti sopra anticipati. In primis l’incertezza: come è possibile per le aziende programmare un intervento senza sapere quale sarà il costo effettivo? Quindi, finchè non si scioglie il dilemma, tutto resta paralizzato. Per una norma che riveste carattere d’urgenza – tale è per definizione un decreto legge – non appare proprio una genialata. Secondariamente, il rischio inutilità. Esattamente come era accaduto per il Bonus benzina 2023, non è che le aziende siano poi così incentivate ad erogare benefits che saranno pure utili per il lavoratore ma che per loro costano esattamente allo stesso modo (“Ah, è imponibile contributivo? Allora grazie, mi spiace, non se ne fa niente…”). Oppure, se proprio, possono pensare di utilizzarlo in chiave malandrinamente sostitutiva di altre poste retributive (come già detto in precedenza).

Infine due parole sull’asistematicità. Nel 1997 una norma molto chiara (il D.lgs. n. 314 del 1997) sanciva dall’anno successivo come regola generale la benedetta armonizzazione della base imponibile fiscale e previdenziale del lavoro subordinato, salvo poche eccezioni. Il concetto, oltre che di grande civiltà giuridica e di semplificazione operativa (che già è tanta roba), aveva un’importanza fondamentale in quanto permetteva di poter discorrere (da parte di un operatore o di un Ente) di un benefit, di un emolumento o di quant’altro del genere senza dover ricadere in specificazioni di cosa fosse imponibile per un verso o per l’altro, come succedeva prima, cosa che chi ha qualche decennio di esperienza non può che ricordare tristemente. Davvero incomprensibile è pertanto constatare che oggi si ricade in certe prospettive viziose (e per ricaderci bisogna farlo apposta, che è anche peggio).

Ma andiamo a concludere.

Criticare il legislatore non porta certo amicizie e favori (mai), eccepire su una norma che per diversi aspetti rappresenta comunque un vantaggio per molti – anche influenti – non alza certo il livello di popolarità e simpatia, interventi che rimpolpano il calderone magmatico del welfare aziendale e di tutti gli interessi che ci stanno dietro dovrebbero essere salutati con favore da chi, come il sottoscritto, nel welfare aziendale opera con l’assistenza professionale alle aziende che vi ci vogliono impegnarsi. Pertanto, se permettete una chiosa ironica, a chi scrive potrebbe essere rivolta la frase tormentone del Crozza-Razzi pensiero: amico caro, fatti “gli affari” tuoi. Chi scrive appartiene però irrimediabilmente a una razza (maledetta?) per cui vedere realizzate norme intelligenti, equilibrate, giuste, semplici, sistematiche, chiare (indipendentemente ed anzi completamente al di fuori da qualsiasi schieramento “di qua” o “di là”) fa parte … degli affari propri. Avendo per giunta scelto un mestiere cruciale – così come cruciale è il lavoro nella vita delle persone, anche persino quando lo negano – in cui la sofferenza per norme ideologiche o strampalate si fa ancora più acuta. Se però una cosa bisogna riconoscere a questo Decreto è una certa disponibilità all’ascolto, tanto che rispetto a prime versioni circolate una qualche modifica migliorativa del testo alla fine partorito c’è stata.

Siamo palesemente in una situazione “de iure condendo”. Quindi offriamo queste riflessioni non con lo spirito della contrapposizione, ma della collaborazione all’emendamento in melius. La speranza è l’ultima a morire.

 

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DECRETO LAVORO QUO VADIS? breve carrellata delle prime indiscrezioni

Manuela Baltolu, Consulente del Lavoro in Sassari (Ss)

Il provvedimento, atteso in questi giorni al tavolo del Consiglio dei Ministri, è decisamente corposo e prevede interventi in vari ambiti. Proviamo a sintetizzare alcune delle misure contenute nella bozza diffusa il 18 aprile u.s..

CONTRATTI A TERMINE

L’unico intervento sui contratti a tempo determinato riguarda la rivisitazione delle “causali impossibili” introdotte dal c.d. Decreto Dignità, che saranno sostituite dalle seguenti casistiche: “a) specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ovvero dalle rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria; b) specifiche esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti in assenza della previsione della contrattazione collettiva, previa certificazione delle stesse presso una delle commissioni di cui agli articoli 75 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276; c) esigenze di sostituzione di altri lavoratori”.

In buona sostanza, solo nel caso in cui i Ccnl non abbiano provveduto ad identificare specifiche causali le parti potranno procedere in autonomia, certificandole ai sensi del D.lgs. n. 276/2003.

In tutta sincerità ci si aspettava un intervento maggiormente incisivo, pur consapevoli che la contrattazione a termine costituisce da sempre terreno di scontro cruento tra le parti sociali. La certificazione obbligatoria necessita peraltro dei tempi “tecnici” di attivazione, di conseguenza l’utilizzo non risulterebbe particolarmente agevole in caso di assunzioni o proroghe urgenti, anche se, ad onor del vero, la normativa non ne vieta la formalizzazione anche a contratto stipulato ma, chiaramente, la causale deve essere certificata nel momento stesso in cui viene apposta. Si rende quindi necessario, in tal senso, un adeguamento mirato del percorso di certificazione, diversamente la soluzione prospettata rischia di diventare un aggravio burocratico. Nulla cambia rispetto all’identificazione del momento in cui sorge l’obbligo di apporre la causale obbligatoria, ovvero in caso di superamento della durata di 12 mesi, anche mediante proroga, e in caso di qualsiasi rinnovo, anche all’interno dei 12 mesi. Abolire la necessità di apporre la causale nei primi 12 mesi anche in caso di rinnovo, sarebbe stata una piccola modifica ma con un impatto decisamente importante.

Non è stato invece soppresso il contributo addizionale Naspi dello 0,50% previsto per i rinnovi, come invece si era ipotizzato in precedenza.

MODIFICHE AL D.LGS. N.104/2022

Gli obblighi di informazione al lavoratore sulle condizioni di lavoro di cui all’art. 1, D.lgs. n. 152/97, come modificato dal D.lgs. 104/2022, e precisamente le lettere da h) a r) esclusa la q)1, potranno essere assolti con l’indicazione del riferimento normativo o della contrattazione collettiva, anche aziendale, che ne disciplina le materia, e che dovrà essere consegnata o comunque messa a disposizione del lavoratore. Anche in questo caso, in luogo di una modifica strutturata si è preferito agire con una veloce riammissione del riferimento alla contrattazione, considerato inadeguato e insufficiente dalla circolare n. 19/2022 del Ministero del lavoro.

SANZIONI PER OMESSO VERSAMENTO DEI CONTRIBUTI TRATTENUTI AI LAVORATORI Viene finalmente modificato il testo dell’art. 2, co. 1-bis, del D.l. n. 463/1983, che prevede, in caso di omesso versamento dei contributi trattenuti ai lavoratori per importi inferiori a 10.000 euro, l’applicazione della sanzione con importo minimo fissato a 10.000 euro, indipendentemente dall’importo di contribuzione omessa. A causa di ciò, anche in caso di omesso versamento di importo pari, per fare un esempio, a 50 euro, paradossalmente la sanzione dovuta è sempre 10.000 euro.

Con questa modifica la sanzione sarà da una volta e mezzo a quattro volte, stabilendo un’equa proporzionalità tra omissione e sanzione.

DEDUCIBILITÀ CONTRIBUTI LAVORATORI DOMESTICI L’attuale soglia di deducibilità prevista per i datori di lavoro domestico della contribuzione versata per i lavoratori domestici, pari a 1.549,37 euro, sarà elevata a 3.000 euro.

INCENTIVI ALL’OCCUPAZIONE DEI GIOVANI Una nuova misura incentivante viene introdotta per gli under 30 che non studiano e non lavorano (c.d. neet), iscritti al programma “iniziativa occupazione giovani”.

L’incentivo sarà pari al 60% della retribuzione imponibile ai fini contributivi erogata al giovane assunto a tempo indeterminato o con contratto di apprendistato dal 1° giugno al 31 dicembre 2023, e potrà essere fruito per un massimo di 12 mesi. Sarà cumulabile con l’under 36 e con altri esoneri; il testo della bozza afferma inoltre che in caso di cumulo con altre misure, il beneficio in trattazione spetterà in misura pari al 20% della retribuzione imponibile Inps, e, pertanto, si presume anche in eccedenza a credito rispetto all’importo dei contributi a carico del datore di lavoro.

G.I.L. – GARANZIA PER L’INCLUSIONE Dal 1° gennaio 2024, abrogato il reddito di cittadinanza (R.d.C.), occuperà il suo posto una nuova misura di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro, la “garanzia per l’inclusione”– G.I.L., riservata ai nuclei familiari aventi al loro interno disabili, minori, over 60 o titolari di invalidità civile.

Le caratteristiche e il funzionamento ricalcano quelle del R.d.C., con opportune modifiche ed integrazioni.

REQUISITI DEI BENEFICIARI

I nuclei che potranno richiederla dovranno avere un valore ISEE non superiore a 7.200 euro e un reddito familiare non superiore a 6.000 euro rapportato al corrispondente parametro della scala di equivalenza identificata; sono state inoltre riproposte molte condizioni già previste per il reddito di cittadinanza, quali, ad esempio, il non essere intestatari di autoveicoli di cilindrata superiore a 1.600 c.c. e di navi e imbarcazioni da diporto, aeromobili etc. Non avranno diritto alla misura coloro che risultano disoccupati a seguito di dimissioni volontarie, per i 2 mesi successivi alla cessazione del rapporto.

MISURA, DURATA E CONDIZIONALITÀ DELL’ASSEGNO

L’importo dell’assegno non potrà superare i 6.000 euro annui moltiplicati per la scala di equivalenza e sarà esente da prelievo fiscale; l’utilizzo potrà avvenire mediante la “carta di inclusione” (sistema di pagamento elettronico). Ai nuclei familiari residenti in abitazione concessa in locazione potrà essere erogato un ulteriore importo, pari all’ammontare del canone annuo di locazione e fino ad un massimo di euro 3.360 euro annui, ovvero 280 euro mensili. La somma delle due provvidenze è pari 780 euro mensili, esattamente quanto previsto attualmente a titolo di R.d.C.. Esso potrà essere erogato per un massimo di 18 mesi con una sola proroga di ulteriori 12, previa sospensione di 1 mese. Resta l’obbligo di comunicare all’Inps, entro 30 giorni, l’eventuale avvio di rapporti di lavoro dipendente che, qualora non producano un reddito superiore a 3.000 euro annui non modificheranno l’importo dell’assegno; al contrario, l’eventuale importo eccedente la somma indicata concorrerà alla determinazione del beneficio. In caso di mancata comunicazione l’erogazione viene sospesa fino ad avvenuto adempimento. Più o meno le stesse regole varranno per l’avvio di nuova attività autonoma, ma in tal caso la comunicazione all’istituto di previdenza dovrà avvenire entro il giorno antecedente l’inizio della stessa.

I beneficiari sono tenuti ad accertare offerte di lavoro a tempo indeterminato e determinato di durata non inferiore a 3 mesi, a tempo pieno o parziale non inferiore al 60% rispetto al tempo pieno, con minimi salariali non inferiori a quelli previsti dai Ccnl ex art. 51, D.lgs. n. 81/2015. Se l’offerta di lavoro ha durata compresa tra 1 e 6 mesi, la G.I.L. viene sospesa d’ufficio per tutta la durata del contratto.

MODALITÀ DI FUNZIONAMENTO

Una volta trasmessa la domanda nell’apposita piattaforma, i servizi sociali effettueranno una valutazione multidimensionale dei bisogni del nucleo familiare, finalizzata alla sottoscrizione di un patto per l’inclusione e, nell’ambito di tale valutazione, i componenti di età compresa tra 18 e 59 anni attivabili al lavoro, verranno inviati ai centri per l’impiego per la sottoscrizione del patto di servizio personalizzato, che potrà essere anche coordinato con quanto previsto dal programma G.O.L. (garanzia di occupabilità dei lavoratori). Sarà istituito il “Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa – SIISL”, che consentirà l’interscambio di informazioni tra tutte le piattaforme digitali dei soggetti accreditati al sistema sociale e del lavoro che concorrono alla realizzazione di itinerari personalizzati per i beneficiari, favorendone i percorsi autonomi di ricerca di lavoro e il rafforzamento delle competenze. I beneficiari della misura attivabili al lavoro iscritti al SIISL accederanno ad informazioni e proposte sulle offerte di lavoro, corsi di formazione, tirocini e politiche attive a loro adeguati, selezionati sulla base delle esperienze educative e formative e delle competenze professionali pregresse del soggetto stesso.

I  CONTROLLI

I controlli sulla spettanza della misura saranno effettuati preventivamente all’erogazione del beneficio da Inl, Inps, Comando Carabinieri per la tutela del lavoro e, su apposite convenzioni, dalla Guardia di Finanza.

Per le finalità di cui sopra vi sarà condivisione tra Inps e Inl di tutte le informazioni e banche dati detenute dall’istituto di previdenza, con modalità che saranno definite con apposito decreto ministeriale.

I controlli anagrafici saranno in capo ai singoli comuni, ed eventuali mancanze determineranno la responsabilità amministrativo – contabile delle amministrazioni interessate e di tutti gli altri soggetti incaricati e preposti alle citate funzioni (art. 1, L. n. 20/1994), oltre ad integrare eventuale responsabilità disciplinare degli stessi.

LE SANZIONI

Per dichiarazioni o documentazioni false è prevista la reclusione da due a sei anni, mentre l’omissione della variazione di redditi e patrimonio o altre informazioni rilevanti, è punita con la reclusione da uno a tre anni, in entrambi i casi unitamente alla revoca immediata del beneficio e all’obbligo di restituzione di quanto indebitamente percepito. Per casi particolari è inoltre prevista la decadenza della G.I.L. per tutto il nucleo familiare (mancata presentazione ai servizi sociali e per il lavoro, mancata partecipazione alle attività formative etc.)

In caso di lavoro irregolare di percettori di G.I.L. è applicata la maggiorazione del 20% delle sanzioni previste dal c. 3/quater, art. 3, D.l. n. 12/2002.

Il beneficio sarà sospeso in caso di determinate condanne per reati vari nonché in caso di provvedimento definitivo di misure di prevenzione da parte dell’autorità giudiziaria.

INCENTIVI PER ASSUNZIONE DI PERCETTORI DI G.I.L.

  • assunzioni a tempo indeterminato o apprendistato e trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, f.time o p.time: esonero pari al 100% dei contributi Inps per massimo 24 mesi e fino a 8.000 euro anno;
  • assunzioni a termine e stagionali, f.time o p.time: esonero pari al 50% dei contributi Inps, fino a 4000 euro l’anno per massimo 12 mesi.

In entrambi i casi il regime di riferimento dell’incentivo sarà il regolamento UE n. 1408/2013, il c.d. regime de minimis”, che consentirà l’immediata applicazione della misura in quanto non soggetta ad autorizzazione preventiva UE.

Inoltre, qualora le agenzie per il lavoro prendano parte alla ricollocazione dei lavoratori, spetterà ad esse il 30% dell’incentivo complessivo.

Vengono inoltre riproposti due elementi di dubbia utilità già presenti nella regolamentazione del R.d.C.:

  • la bizzarra condizione secondo cui, nel caso di licenziamento del beneficiario di G.I.L. effettuato nei ventiquattro mesi successivi all’assunzione (a tempo indeterminato), il datore di lavoro dovrà restituire l’incentivo fruito maggiorato delle sanzioni civili ma, udite udite, fatti salvi i licenziamenti per G.S. e per G.M.O., che, di fatto, costituiscono la quasi totalità dei licenziamenti possibili, essendo il G.M.S. un’ipotesi abbastanza residuale;
  • la spettanza dell’incentivo legata all’inserimento dell’offerta di lavoro da parte dell’azienda nel SSISSL, obbligo anch’esso previsto per i percettori di R.d.C., cancellato dalla L. n.234/2021 anche perché difficilmente effettuabile, poiché la piattaforma preesistente non è mai stata pienamente funzionante. La registrazione potrebbe essere vantaggiosa solo se fosse obbligatorio dare evidenza dell’eventuale rifiuto della proposta di assunzione da parte del percettore, in modo non solo da tracciare tale evento per poter revocare il beneficio, ma anche, qualora il rifiuto sia motivato dall’assenza di una delle caratteristiche previste per le offerte, per poter individuare ulteriori proposte di impiego maggiormente valide2.

Infine, gli incentivi descritti sono compatibili e aggiuntivi rispetto ad under 36 ed esonero donne di cui all’art. 1, commi 297 e 298, L. n. 197/2022, fermo restando che se già con tali sgravi contributivi l’aliquota Inps viene azzerata, non è chiaro come si potrà cumulare con questa nuova misura, in quanto il cumulo andrebbe oltre i contributi dovuti, a meno che non venga considerata oggetto di sgravio anche l’Inps a carico del lavoratore, come avviene per lo sgravio previsto dal D.l. n. 4/2019 per i percettori di R.d.C..

È inoltre previsto un beneficio di 500 euro per un massimo di 6 mesi per i percettori di G.I.L. che avviano un’attività di lavoro autonomo, erogabile in un’unica soluzione entro i primi 12 mesi.

PRESTAZIONE DI ACCOMPAGNAMENTO AL LAVORO PER I PERCETTORI DI R.D.C.

I percettori di R.d.C. che hanno terminato il periodo massimo di fruizione, stabilito per il 2023 in 7 mensilità, potranno richiedere dal 1° settembre la nuova “Prestazione di Accompagnamento al Lavoro” – PAL, pari a 350 euro mensili per ciascun richiedente fino a dicembre 2023, compatibile con redditi di lavoro fino a 3.000 euro annui.

G.A.L. GARANZIA PER L’ATTIVAZIONE LAVORATIVA La G.A.L., “Garanzia per l’Attivazione Lavorativa”, è un sostegno previsto per i soggetti di età compresa tra 18 e 59 anni in condizione di povertà (ISEE fino a 6.000 euro) a rischio di esclusione sociale e lavorativa, facenti parte di nuclei familiari che non hanno i requisiti per accedere alla G.I.L.

La G.A.L. potrà essere riconosciuta per un massimo di due persone per nucleo familiare, con requisiti pressoché identici a quelli previsti per la G.I.L., e sarà pari a 350 euro mensili per 12 mensilità senza possibilità di rinnovo per il primo beneficiario, e 175 euro mensili per il secondo.

Per poter richiedere la G.A.L. dovrà essere sottoscritto il patto di attivazione digitale, in seguito alla convocazione presso il centro per l’impiego competente che dovrà avvenire entro 120 giorni dalla richiesta; in mancanza di tale sottoscrizione il beneficio sarà sospeso.

Una volta sottoscritto il patto di attivazione il percettore sarà tenuto ad aderire ad un percorso personalizzato di inserimento lavorativo, mediante la sottoscrizione di un patto di servizio personalizzato, anche coordinato con GOL. Come detto, la bozza di decreto tocca diverse argomentazioni; sono presenti numerosi ulteriori interventi che saranno oggetto di futura trattazione, in materia di sicurezza sul lavoro, Fondo nuove competenze, contratto di espansione, familiari degli studenti vittime di infortuni in occasione delle attività formative, lavoro sportivo, assegno unico universale, etc.

1. h) periodo di prova; i) formazione erogata dal datore di lavoro; l) ferie e altri congedi retribuiti; m) preavviso; n) retribuzione con periodo modalità di pagamento; o) la programmazione dell’orario normale di lavoro e le eventuali condizioni relative al lavoro straordinario; p) elementi relativi a lavori con modalità organizzative in gran parte o interamente imprevedibili; r) gli enti e gli istituti che ricevono i contributi dal datore di lavoro.

2. Sia concesso il rinvio a Baltolu M., La politica (in) attiva del reddito di cittadinanza, Sintesi, giugno 2022.

 

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