Senza filtro – Io sto con M&G!

Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

 

“Siamo uomini o caporali?”

                                                                                                                                             Totò

Io sto con M&G.

Ma chi sono costoro (direte voi)?

Come come, non avete mai sentito parlare di M&G? M&G è una cooperativa, anzi no una società, forse una holding, poi però … Oddio, la realtà è un po’ fluida e difficile da acchiappare … Insomma, per farla breve, M&G è il marchio di fabbrica (ma d’ora in poi la chiameremo anche cooperativa, per semplicità) di un’avventura che raduna 5 mila, 7 mila o forse più lavoratori, che vengono offerti sul mercato a prezzi concorrenziali attraverso una serie di contratti di appalto. La cooperativa in questione è stata oggetto di una campagna di informazione e di attacco da parte dei Consulenti del lavoro, a dire dei quali i contratti di appalto in questione mascheravano in realtà una fattispecie di somministrazione illecita ed abusiva. Secondo i consulenti, dotati in questo caso di una dose di malignità notevole, era addirittura riprovevole che alla M&G fosse stata rilasciata l’autorizzazione ministeriale alla somministrazione, un immeritato suggello a tale attività borderline. Offesa e danneggiata da cotanto pregiudizievole preconcetto, la M&G si è sentita in dovere di querelare i Consulenti del lavoro per diffamazione e lesione di immagine. Per non sbagliare, riportiamo la notizia.

Dopo mesi di attacchi unilaterali, la M&G ha deciso di scendere in campo per difendere la propria reputazione. Con un atto depositato a metà ottobre presso il Tribunale ordinario di Roma, l’azienda ha citato in giudizio il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del lavoro, la Fondazione studi dei Consulenti del lavoro e l’Associazione nazionale Consulenti del Lavoro. È una richiesta di risarcimento di oltre 4 milioni e 600 mila euro quella che l’M&G ha avanzato nei confronti dei tre Enti considerati congiuntamente responsabili di aver portato avanti, negli ultimi due anni, una campagna mediatica aggressiva e distruttiva. I Consulenti del lavoro, travalicando i confini della loro funzione, hanno azionato, contro l’azienda e il suo presidente, Luca Gallo, una macchina del fango che ha avuto come drammatica conseguenza la soppressione di oltre 7.000 posti di lavoro, la compromissione della capacità di concorrenza professionale, incalcolabili danni economici e d’immagine.

(Fonte: Adnkronos)

 

Per una volta, però, io non la penso come gli stimatissimi succitati consessi nazionali di categoria (spero non me ne vogliano). No, io sto dalla parte di M&G. Ma andiamo con ordine.

Bisogna dire che il mondo è pieno di malpensanti, sempre pronti a cavillare e a spaccare il capello in quattro. Peggio ancora quando certe affermazioni nascono dal pregiudizio. La storia è piena di esempi di persone ingiustamente giudicate male. Pensate a Caino: vegano ante litteram, quali altri mezzi aveva per fermare la strage di agnelli del crudelissimo Abele (oltretutto nemmeno giustificato dalla Pasqua, che ancora non era stata inventata)?  Eppure oggi tutti a dire che Caino era un assassino.

Ed Erode? Passato alla storia per la Strage degli Innocenti, nessuno dice che in realtà quella fu una campagna contro la diffusione del morbillo (forse era un no vax in anticipo…).

Bruto e Cassio? Che colpa avevano se mentre si allenavano al lancio del giavellotto per le Olimpiadi, uno sbadato Cesare passava sul campo di gittata? Loro due, poveri, ci rimasero così male che abbandonarono la pratica sportiva e si diedero alla politica (anche allora – evidentemente – ricettacolo di delusi, falliti, incompetenti …).

Pilato? Uno che aveva una giusta preoccupazione per l’igiene personale. Oggi in ogni ospedale o luogo pubblico si raccomanda di lavare bene le mani: merito di Pilato, ingiustamente assurto a simbolo di ignavia.

Di Giuda nemmeno vale la pena di parlare, perché chissà che male c’è a baciare affettuosamente un amico in un oliveto …

L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma – bando agli indugi – nella galleria degli incompresi eccoci arrivare alla nostra M&G. Voi forse siete scettici (ve lo leggo negli occhi …) ma io ho prove inconfutabili della bontà della suddetta azienda (come l’ha definita Adnkronos).

Ad esempio, lo sapevate che M&G ha versato 7 milioni di euro all’Agenzia delle Entrate? Voi, voi che criticate tanto, una cifra simile allo Stato l’avevate mai data?

Il 1° agosto 2018 è stato firmato il verbale di accertamento con adesione che sigilla l’accordo tra l’M&G e il Fisco italiano. L’azienda si è impegnata a versare all’Agenzia delle Entrate una cifra che supera i 7 milioni di euro, evitando in questo modo l’insorgere di una lite tributaria. L’accertamento con adesione è stato, infatti, firmato per risolvere senza controversie le indagini fiscali avviate dal nucleo della polizia tributaria della Guardia di Finanza, nel giugno 2017, e relative ai pagamenti riguardanti il quadriennio d’imposta 2013-2016.

(Fonte: sito megholdingsrl.com)

Ora, potrà essere cattiva un’azienda che corrisponde così tanti soldi al nostro, sempre bisognoso, Paese?

Come dite? Un accertamento con adesione significa che c’erano irregolarità? Ma lo vedete come siete pretestuosi, pettegoli e maliziosi? Dai, lo sapete anche voi come sono pignoli i ragazzi dell’AdE (che già la sigla, AdE, non vi evoca qualcosa di terrificante?): trovano una fattura un po’ spiegazzata, uno scontrino sbiadito e ne fanno una tragedia …

Continuo a trovarvi scettici, ma ho in serbo altre sorprese

Martedì 11 Aprile 2017, l’Onorevole Walter Rizzetto, VicePresidente della commissione permanente XI Lavoro alla Camera dei Deputati, ha visitato la M&G.

L’appuntamento fissato presso gli uffici della nostra Sede primaria, è stato cordiale e informale e subito il Presidente Dott. Luca Gallo, accompagnato dalla Direttrice Generale Dott.ssa Federica Scipioni e dal Dott. Giorgio Celato hanno instaurato un rapporto di stima reciproca.

L’onorevole ha voluto conoscere ed apprezzare con i suoi occhi la realtà in forte crescita rappresentata dalla nostra società e le dinamiche imprenditoriali collegate e coordinate dal Dott. Luca Gallo.

(Fonte: sito megholdingsrl.com)

Ora, mi pare chiaro che quando un’azienda gode del favore di un politico, non può che essere una realtà seria e stimabile. D’altronde, stiamo parlando di un Onorevole Vicepresidente di una commissione parlamentare. Vi-ce-pre-si-den-te (mica un cialtrone qualunque …)!

Potremmo addirittura formalizzare la cosa in un elementare sillogismo:

la politica è una cosa seria / un’azienda è oggetto di favore politico / l’azienda è seria.

Fine delle discussioni.

Uffa. Ancora replicate? Siete stancanti per quanto siete sospettosi … Ma lo sapete o no, che la M&G ha ottenuto l’autorizzazione alla somministrazione di lavoro? Ma che pensate, che al Ministero (in questo caso, ANPAL) ci siano degli incompetenti o dei faciloni, gente che fa le pratiche un tanto al chilo? Come dite? È stata una svista o una leggerezza? Ma quale leggerezza! E poi non sapete che anche il Tar del Lazio ha dato ragione ai nostri (la M&G), annullando la revoca all’autorizzazione? Ma la campagna è continuata … E dai e dai, però, alla fine uno si stanca … è normale …

La M&G ha deciso di riconsegnare nelle mani dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro l’autorizzazione alla somministrazione di manodopera. La comunicazione ufficiale è stata presentata all’Anpal, venerdì 6 aprile.

Un forte segnale di protesta che il Presidente della M&G, Luca Gallo, ha voluto lanciare in risposta ai continui attacchi subìti nell’ultimo anno e mezzo.

(Fonte: sito megholdingsrl.com)

Bravo Luca Gallo, così si fa! Come dice il vecchio adagio, “chi non ci ama non ci merita”.

Inutile andare dietro alle chiacchiere di chi sostiene che tanto una nuova revoca dell’autorizzazione sarebbe stata questione di tempo e che questa è stata solo una mossa per evitare di dare soddisfazione agli avversari (e per poter avanzare le richieste milionarie).

Ma insomma … Un’azienda (o cooperativa) che ha nel cuore solo la voglia di far lavorare la gente e di far risparmiare le imprese (così si legge nel loro sito: “Il tempo è denaro. Ottimizza il tuo risparmio con la M&G”) potrà mai essere cattiva? Guardate sul sito le facce del loro organigramma, si vede che sono persone per bene, che ci tengono ai loro lavoratori, che si toglierebbero il pane di bocca per loro (Il pane … solo il pane … d’altronde, quando si lavora meglio stare leggeri. E poi, la dieta mediterranea allunga la vita).

Lo dice anche la stampa, che si risparmia.

“Ad esempio, a Torino una tabaccheria paga 1.114 euro al mese la cooperativa multiservizi M&G di Roma per avere un lavoratore, pagato solo 688 euro netti per 87 ore mensili. Se la tabaccheria avesse assunto un dipendente, avrebbe speso non meno di duemila euro, più ferie, tfr, malattia.”

(Da: http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/08/06/news/false-coop-la-grande-truffa)

È inutile, vedo che non vi convincerò mai … Siete sospettosi, malfidati, anche un po’ saccenti. Amici degli ispettori e nemici delle imprese. Siete come i Consulenti del lavoro, gente che non si fa i fatti propri “travalicando i confini della propria funzione” (che, lo sanno tutti, è quella di elaborare i cedolini, mica di preoccuparsi della legalità nel mondo del lavoro, e che diamine!).

Voi siete come il dottore del Centro, che viene a trovarmi tutti i giorni e mi parla durante la passeggiata nel parco. Anche lui cerca di convincermi che sono pazzo, o che – ben che vada – sono in malafede, o un venduto, o un incompetente. Che chi entra in queste reti, lavoratori o imprese che siano, rischia grosso e finisce male. Ma io non ci casco. Le pillole che mi danno faccio finta di prenderle ma poi le sputo. Sono lucidissimo. E quando torno nella mia celletta, che misuro a passi forzati avanti e indietro, lo ripeto con forza, quasi come un mantra (perché loro sono i miei idoli): io sto con M&G.

 

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Profili di criticità e possibili abusi del diritto nell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate nelle Cooperative Sociali

di Paolo Palmaccio – Consulente del Lavoro in Formia

 

“De hoc satis!”: potrebbe essere questa una possibile reazione all’ennesima esposizione di criticità ed abusi nel mondo delle cooperative. E a dire il vero, l’utilizzo dello schermo cooperativo per mascherare fenomeni di caporalato è fenomeno antico, se già nel 1911, con il R.D. 12 febbraio 1911, n. 278[1], il Legislatore si era posto il problema di stabilire paletti e vincoli in ordine tanto alla parità di trattamento tra soci ed ausiliari (non solo relativamente all’obbligo di corrispondere retribuzioni non inferiori ai “salari correnti”, ma anche alla partecipazione ai risultati dello scambio mutualistico), quanto all’impiego di tecnici, impiegati e dirigenti (onde non veder snaturate le modalità di resa della prestazione da parte dei soci). E che questo fenomeno continuasse è dimostrato da come, poco tempo dopo l’entrata in vigore della Legge Basevi[2], il Comitato della Commissione Centrale per la Cooperazione, con pronuncia del 16 settembre 1953[3], si sia preoccupato di ricostruire il fenomeno dell’appalto di manodopera (prima della Legge 23 ottobre 1960, n. 1369), bollandolo con lo stigma dell’illiceità dello scopo sociale[4]. Il resto, ripercorribile lungo una sorta di “cingulum diaboli”, ci porta alla cronaca di questi giorni, con l’ennesimo intervento della giurisprudenza (questa volta amministrativa: Consiglio di Stato – III sez. – sentenza n. 1571 del 12 marzo 2018) a sanzionare l’appalto a cooperative di servizi quando mascheri, in realtà, la somministrazione irregolare, e con la storia, riportata da La Stampa del 3 dicembre 2018[5], di lavoratori “svenduti al minor offerente” nel campo dei servizi a privati, sempre sfruttando “il veicolo” della cooperativa di lavoro.

L’analisi odierna, tuttavia, vuole soffermarsi sulle criticità specifiche (e quindi sugli abusi che da queste possono sorgere) relative ad una tipologia particolare di cooperativa, quale la cosiddetta Cooperativa Sociale. Si tratta di un genere di cooperativa che si affianca a quelle storiche di lavoro e di consumo (o di servizi per i soci), caratterizzate dall’eterodestinazione dei fini: laddove tradizionalmente lo scopo mutualistico era rivolto ai soci (in termini di lavoro, piuttosto che di acquisto di beni e servizi), in queste l’attività si rivolge alla comunità in termini di promozione sociale, culturale e di servizi sociali, sanitari ed assistenziali, oppure a soggetti in condizione di svantaggio fisico e sociale (che non devono necessariamente essere soci) per promuoverne l’inserimento lavorativo, ovvero ad entrambi. È quindi un genus autonomo – e in un certo qual modo “ibrido” come, per chi le ricorda, le cooperative culturali (da cui qualche autore del settore le fa discendere) – rispetto alle tipologie classiche di cooperativa, che il Legislatore vede meritevole di una legislazione speciale che ne fissa tipi, scopi, limiti e controlli, ma anche misure agevolative.

Per onestà intellettuale e chiarezza metodologica è bene sgombrare il campo da ogni equivoco: l’istituto della cooperazione, ed in questo ambito quello specifico della cooperativa sociale, svolge un compito – per modalità e finalità – meritevole di riconoscimento normativo e, in quest’ambito, anche di vedersi riconosciute (quale naturale conseguenza!) misure di tutela ed agevolazioni specifiche. Lo scrivente, d’altronde lo confessa: per trascorsi personali e professionali è sostenitore e fautore del fenomeno cooperativo e, in quanto tale, anche del riconoscimento di misure specifiche per la sua crescita e promozione. Non può tuttavia negarsi che, ove qualcuno guardi a queste misure con “occhio rapace” e con un “animo disinvolto” (per usare un eufemismo) si possa far leva su eventuali criticità e dar luogo ad abusi anche gravi.

L’analisi che segue riguarda in particolare il disposto degli articoli 4 e 5 della Legge 8 ottobre 1991, n. 381, recante la Disciplina delle Cooperative Sociali.

L’ultimo articolo, in particolare, che va letto in coordinamento con il precedente, prevede una deroga importante alla normativa in materia di contratti pubblici per le cooperative sociali di tipo b) – quelle, cioè, che si occupano dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (di cui proprio all’art. 4 della L. n. 381/1991) – che possono essere destinatarie di affidamenti diretti per la fornitura di beni e servizi.

Statuisce infatti la norma che “gli enti pubblici […], anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, possono stipulare convenzioni con le cooperative che svolgono attività di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b) […], per fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell’IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate di cui all’articolo 4, comma 1 […]”.

Se si tiene conto di come nel tempo e per lo stratificarsi di norme sullo svantaggio sociale e lavorativo (di derivazione tanto europea quanto nazionale[6] e regionale[7]), la categoria delle “persone svantaggiate” abbia visto un progressivo ampliamento, da ultimo comprendendo anche i migranti a cui sia stata riconosciuta la protezione internazionale[8], e le donne vittime di violenza di genere[9] con misure “ad hoc” quantitativamente analoghe a quelle riguardanti i lavoratori detenuti (che rientrano tra i soggetti di cui all’art. 4 della L. n. 381/1991, pur godendo di agevolazioni contributive diverse da quelle di cui al comma 3 di detto articolo), non è difficile rendersi conto di come l’operatore si trovi davanti ad un tema di particolare complessità laddove debba valutare se sia ancora rinvenibile una cesura tra i soggetti di cui all’articolo 4, comma 1, della L. n. 381/1991 e gli altri portatori di svantaggio, ovvero se il Legislatore, pur adoperando strumenti diversi da quello del D.P.C.M. di cui all’ultima parte del comma 1 del citato articolo 4, non abbia inteso ampliare tacitamente la categoria dei soggetti svantaggiati di cui all’anzidetto articolo.

Né aiuta in questo la giurisprudenza della Suprema Corte che con le sentenze n. 10506/2012 e n. 5472/2005 ha ammesso la possibilità che la cooperativa sociale si avvalga, ai fini della fruizione delle agevolazioni previdenziali, dell’ampliamento della platea delle persone svantaggiate, operata dalla Legislazione regionale, purche’ questa enumeri dettagliatamente le casistiche.

La questione è viepiù resa complessa dalla prassi amministrativa, ed in particolare dalla risposta all’interpello del 20 luglio 2015, n. 17, che in ordine alle modalità di computo dei lavoratori svantaggiati, ex articolo 4, comma 2, pur con il fine lodevole di non penalizzare l’attività delle cooperative, riduce queste al calcolo “per testa”, sorvolando bellamente, sia sulle eventuali specificità e caratterizzazione della prestazione da questi resa rispetto all’attività della cooperativa (che invece il R.D. n. 278/1911 quanto meno implicitamente richiedeva), sia sull’incidenza quantitativa (ovvero sul numero delle ore da questi svolte) rispetto al monte ore di lavoro complessivo richiesto dall’attività svolta.

È superfluo osservare come un “imprenditore di riferimento” particolarmente “disinvolto” non avrebbe – partendo da queste premesse – particolari problemi a costituire una cooperativa di tipo b), mettendoci dentro un po’ di tutto (tanto dall’inizio della crisi sembra che il Legislatore non neghi la qualifica di svantaggiato a nessuno), e comunque – in termini prudenziali – rispettando il limite del trenta per cento per i soggetti ex articolo 4, comma 1, requisito che si perfeziona e si conserva anche a fronte di una prestazione irrisoria in termini di incidenza qualitativa e quantitativa sul lavoro complessivamente prestato tra soci ed ausiliari, e che potrebbe addirittura venir meno, purché per periodi limitati[10]. E – sempre su queste premesse – a pretendere di usufruire non solo di sgravi contributivi (che possono arrivare anche all’azzeramento dell’intera obbligazione contributiva), ma anche di poter partecipare alle procedure di affidamento diretto di forniture di beni e servizi.

Dall’altra parte, non è difficile immaginare un amministratore locale, che, preso dall’emergenza sociale e dall’esigenza “di far rimanere le risorse sul territorio” (altro “slogan” che dimostra come le vie dell’inferno siano lastricate di buone intenzioni), presti orecchio a quelle sirene che gli prospettano la possibilità di affidare lavoro a soggetti che, grazie a questo escamotage, occuperebbero più di qualche “disoccupato storico” locale.

Come certe cose vadano poi a finire, in sede amministrativa e talvolta anche penale, è cronaca.

Il quesito che ci poniamo, come operatori del diritto, è se, al di là delle valutazioni metagiuridiche, esista una spada in grado di tagliare “il nodo gordiano” sopra descritto.

Un aiuto ci viene dai criteri ermeneutici di cui alle Disposizioni Preliminari sulla Legge in Generale. Da un’analisi storico–sistematica, infatti, non è difficile verificare come gli articoli 4 e 5 della L. n. 381/1991 siano non solo “norma speciale”, ma anche di “diritto eccezionale” (in quanto individuano non solo una disciplina specifica, ma prevedono espressamente eccezioni rispetto ai principi generali dell’ordinamento): come tali non sono suscettibili né di taciti ampliamenti (salvo quelli espressamente previsti), né di applicazione o interpretazione estensiva o analogica. D’altra parte, riandando alla citata sentenza della Cassazione 25 giugno 2012, n. 10506 (che richiama la sentenza n. 5472/2005), non si può fare a meno di osservare come la stessa prenda in esame un ampliamento dei soggetti di cui all’articolo 4, comma 1, operato da una norma emanata da una regione a statuto speciale, ed in quanto tale avente potestà propria sulla materia (anche in ragione del criterio di “maggior favore” conseguente alla riforma del Titolo V della Costituzione operata nel 2001); non solo: il criterio che la Suprema Corte porta a giustificazione del riconoscimento della validità dell’estensione della platea dei soggetti svantaggiati è la “dettagliata indicazione”, da cui discende la tassatività, elemento tipico della legislazione eccezionale.

Da ciò consegue che i lavoratori svantaggiati sono – per le finalità di inserimento sociale e lavorativo di cui all’articolo 1, lettera b) della L. n. 381/1991 – esclusivamente quelli di cui all’articolo 4, comma 1, e che, in assenza di apposito D.P.C.M., o di legislazione regionale assunta ex articolo 9, la loro elencazione non possa che considerarsi “numerus clausus”. Non solo: discende anche che – ove rispettati i requisiti numerici – le agevolazioni contributive di cui all’ultimo comma dell’articolo 4 sono riferibili solo a costoro e non ad altre tipologie di lavoratori in condizioni di svantaggio. Interpretazione, questa, suffragata a contrariis dalle misure per le donne ed i migranti che sono riferite alle cooperative sociali in virtù di norma speciale (segno che, in assenza di questa, la loro prestazione non sarebbe destinataria di alcuna agevolazione). Discende inoltre, con riferimento all’articolo 5, che la possibilità di dar luogo ad affidamenti diretti sia possibile esclusivamente per la fornitura di beni o servizi, ma riferibile anche all’esecuzione di opere pubbliche o alla concessione di servizi, per le quali deve procedersi ad indizione di gara (Consiglio di Stato – sez. IV – sentenza n. 2342/2013). Orientamento confermato dal Consiglio di Stato – sez. V – con sentenza n. 5149/2014. E che, comunque, l’affidamento deve sempre avvenire secondo criteri di trasparenza, meritevolezza e nell’ambito di una procedura comparativa, come stabilito sempre all’articolo 5 dall’ultimo periodo del comma 1, così come introdotto dall’articolo 1, comma 610 della Legge 29 dicembre 2014, n. 190: “…le convenzioni di cui al presente comma sono stipulate previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza”.

Conseguentemente, aggiunge chi scrive, per non tradire lo spirito della norma andrebbe anche verificato, in sede di revisione annuale di cui al D.lgs. n. 220/2002, che l’inserimento o l’accompagnamento al lavoro delle persone svantaggiate avvenga secondo un progetto di inserimento e sia coerente  con questo, venendo altrimenti messa in dubbio la stessa meritevolezza della misura di favore.

Non a caso, l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, aveva dato indicazioni ben prima dell’inserimento dell’inciso di cui sopra, con determinazione del 1° agosto 2012 n. 3[i], oltre al suggerimento dell’adozione di procedure comparative negoziate, che nell’ambito di queste, il merito della cooperativa all’affidamento diretto dovesse essere valutato sulla base del progetto di inserimento delle persone svantaggiate, che doveva trovare esposizione nella proposta di quest’ultima. Orientamento, questo, che trova conferma nelle rinnovellate “Linee Guida per l’affidamento di servizi a Enti del Terzo Settore e alle Cooperative Sociali”, di cui alla determinazione n. 32 del 20 gennaio 2016 dell’ANAC in cui, anzi, si ribadiscono – pur con le opportune deroghe al “principio di rotazione” di cui all’articolo 36 del Codice degli appalti – i criteri della “durata ragionevole della convenzione” (al fine di garantire la parità di accesso a tutti gli operatori del settore) e della “adeguatezza”, che impone la definizione ex ante delle finalità di ordine sociale che si vogliono raggiungere, e che il perseguimento delle stesse sia oggetto di appositi controlli in sede di esecuzione della convenzione.

[1] Regolamento relativo alla concessione di appalti a società cooperative di produzione e lavoro e alla costituzione dei consorzi di cooperative per appalti di lavori pubblici.

[2] D.lgs.C.P.S. 14 dicembre 1947, n. 1577.

[3] E successive pronunce del 27 luglio e 6 ottobre 1955, del 23 gennaio 1957 e del 24 luglio 1959.

[4]E’ da ritenere contrastante con lo scopo mutualistico delle società cooperative l’attività di quelle cooperative di lavoro, le quali, prive di propria gestione sociale, si limitano ad avviare i soci ad aziende industriali nel cui normale ciclo produttivo i soci stessi si inseriscono accanto alla rimanente maestranza. L’attività delle cooperative in questione è anzi illecita qualora lo scopo dei dirigenti sia quello di eludere le norme sul collocamento o evadere gli obblighi assicurativi e previdenziali, ovvero quelli derivanti dai contratti collettivi. Le cooperative di cui si tratta non possono essere iscritte nel registro prefettizio”.

[5]Il caporalato in giacca e cravatta. Messi all’asta 10 mila lavoratori” di Nicola Pinna.

[6] Da ultimo il D.M. del M.L.P.S. del 17 ottobre 2017 adottato in applicazione dell’art. 31, co.2, del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, in conformità al Reg. UE n. 651/2014, di esecuzione degli art. 107 e 108 del TFUE.

[7] L.R. n. 7/1992 della Regione Friuli Venezia Giulia e L.R. n. 16/1997 della Regione Sardegna adottate in applicazione dell’art. 9 della L. n. 381/1991.

[8] L. 27 dicembre 2017, n. 205.

[9] D. I. 11 maggio 2018.

[10] Si veda l’interpello M.L.P.S. n. 4/2008.

[i] “Linee guida per gli affidamenti a cooperative sociali ai sensi dell’art. 5, co. 1, della L. n. 381/1991” in G.U. del 9 agosto 2012, n. 185.

 

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Senza filtro – Puliti dentro, brutti fuori: gli altarini del dumping delle aziende dal volto umano

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

 

Sembra giusto cominciare questo articolo dall’obbiettiva considerazione che Cristina Chiabotto, Laura Chiatti ed Elena Santarelli sono tre belle figliole; così quando, con o senza Del Piero, ci assicurano che l’assunzione regolare di determinate acque minerali lascia “puliti dentro e belli fuori” siamo del tutto disposti a credergli. E tanto dovevamo per aver parafrasato, nel titolo, il fortunato slogan pubblicitario propinatoci da sì avvenenti testimonial delle quali, purtroppo, smetteremo subito di occuparci ma senza abbandonare il mondo dorato della pubblicità e della comunicazione.

E sì perché a distanza di qualche secondo, ecco che appaiono in TV gli spot dei supermercati dal volto umano (quelli che si occupano di persone o più semplicemente di te o ancora “della tua libertà”), dei produttori che destinano parte del loro ricavato a questo o quel progetto umanitario, oppure di quelli che rispettano la filiera naturale per farci vivere in un mondo più pulito, o ancora del commerciante che ti strappa gridolini di gioia per il prodotto sottocosto, ma che più sottocosto non si può, recapitato a casa tua.

Poi però cambi canale e ti imbatti in qualche servizio (sono scherzi del telecomando, una volta quando dovevi alzarti e maneggiare coi tasti della TV per cambiare canale non lo facevi così di frequente – anche perché di emittenti al massimo ce n’erano tre o quattro ) da cui scopri che le cose non sono proprio così “rose e fiori”, che dietro molte di queste realtà “perbene” ci sono catene di distribuzione e di subappalto in cui le condizioni di lavoro ed i trattamenti riservati a chi vi è occupato sono di quelli che è meglio non far sapere troppo in giro.

Ma anche fuori dal mondo della pubblicità, tanto ormai anche la comunicazione è spesso puro advertising, ecco apparire l’imprenditore esasperatamente innamorato del “made in Italy”, l’azienda che chiama lo chef di grido ad inaugurare la propria mensa per i dipendenti, l’impresa che rimodella il proprio opificio o i propri uffici ricorrendo all’archistar famoso, la ditta che si impegna per la gestione della diversity, la compagnia che è tutta un asilo nido, uno smart working, una flessibilità che concilia tempi di lavoro ed esigenze di vita, l’ufficio dove si persegue il welfare, anzi il wellness, l’azienda nella top twenty del “best place to work”, l’impresa con un codice etico più lungo dei Promessi Sposi… E anche qui, fuori della patina dorata e (forse anche) delle oneste buone intenzioni, girata la pagina sul mondo dorato degli insider, ecco apparire gli outsider, quelli degli appalti al ribasso, quelli dell’indotto strozzato, quelli dei lavori sporchi ma tanto necessari, quelli dei lavoretti. Un mondo fatto di pulizie, di trasporti, di logistica, di guardiani armati e non, di distribuzione, di assistenza sanitaria e personale, di call center, di consegne, ma anche di catene di sottoproduzione o di seconda lavorazione.

Insomma, da tanto nitore e letizia interiori, da tanta cura alle persone interne, da tanta nobiltà di intenti si dipanano non di rado catene di esternalizzazione dal volto disumano, caratterizzate dalla precarietà e da condizioni al di sotto del minimo, da carenza non già di chissà quali attenzioni e coccole ma spesso anche solo delle tutele minime.

È il dumping interno, bellezza … Quella condizione di gran parte del nostro tessuto produttivo a cui nessun governo sembra finora aver posto dovuta attenzione, e che prolifera fin nelle più bieche offerte della somministrazione illecita, fra uno Stato impotente ed un’attività ispettiva che (dichiaratamente, è questo il bello) preferisce tartassare il piccolo, con cui fa la voce grossa, che non invischiarsi a tentare di fermare il grande. Ridicoli, poi, i richiami alla contrattazione maggiormente rappresentativa, quando nessuno sa indicare quale sia e quando anche i “maggiormente rappresentativi” si guardano bene dal contarsi veramente e dal darsi regole serie (e talvolta qualche interesse non del tutto immacolato ce l’hanno pure loro).

L’importante è trattare bene i propri – sempre meno numerosi – dipendenti. E poi esternalizzare il più possibile, risparmiare sui costi, strangolare chi lavora al di fuori e non è direttamente collegabile alla tua immagine, al tuo brand di successo. E magari con tanto di prestanome a fare da testa di legno, meglio se straniero e con un nome improbabile, così anche qualcuno dall’altra parte si fa complice organizzando, guadagnandoci, queste catene di sfruttamento, erodendo anche risorse pubbliche (ah, se un giorno qualcuno facesse due conti, con l’evasione sistematica di certe cooperative, di certi consorzi, di certi soggetti, si potrebbe tranquillamente recuperare l’equivalente economico di tre o quattro leggi di bilancio …).

Intendiamoci, non siamo contro l’esternalizzazione per partito preso, la terziarizzazione dei servizi e dei meccanismi produttivi è un’esigenza dei moderni sistemi economici. Solo diventa poco comprensibile ed inaccettabile pensare che non si possa realizzare senza ricorrere spesso allo sfruttamento indiscriminato delle risorse e delle persone.

Non sarà un caso che si parla sempre meno di concreta responsabilità sociale delle imprese e che fra gli stakeholder dei nuovi codici etici gli appaltatori (e i loro lavoratori) sono sempre meno considerati. Forse non sarà un caso nemmeno se nel rating di legalità, tanto considerato da AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), non si fa cenno (forse solo un distratto collegamento indiretto) a condizioni di lavoro nelle catene del subappalto che si dipanano dall’azienda principale. E che legalità è mai questa?

Ecco allora che tali aziende mi ricordano un po’ la signora Pina (c’è in ogni condominio una signora Pina, anche con un altro nome) che aveva il balcone ed i davanzali tanto puliti, perché buttava rifiuti e detriti ai piani di sotto, ed altrettanto pulito il pianerottolo davanti a casa, però spazzando lo sporco davanti all’uscio dei vicini.

Forse è sbagliato lo slogan che abbiamo messo a titolo, non puliti dentro e sporchi fuori, no al contrario, belli fuori (nel senso di immagine offerta all’esterno) e sporchi dentro, nell’interno di invisibili processi decisionali con cui si risparmia sulla pelle degli altri. Purchè poco o nulla collegabili. Tanto la gente dimentica presto, hai visto il nuovo sottocosto? E l’offerta speciale? Che qui, tra l’altro, scatta una riflessione parallela; chiediamolo, a ciascuno di noi: per realizzare un po’ più di giustizia sociale, saremmo disposti a pagare di più (magari, il prezzo corretto)?

Sì, forse “belli fuori e sporchi dentro” meglio rende l’immagine della più bieca ipocrisia che Qualcuno duemila anni fa descriveva benissimo con queste parole: “rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità”.

Ma non c’è solo tanta ipocrisia, c’è anche una grande miopia. Il manager che guarda al risparmio di oggi (e al bonus conseguente che si porterà casa) non sa o finge di non sapere che l’impresa per cui lavora e che ricorre all’esternazione selvaggia è seduta su una polveriera. Stolido e squallido sperare che non scoppi (perché a volte, sapete, scoppiano…) o che lo faccia il più in là possibile, forse solo in un domani di cui “non v’è certezza” (mentre del bonus di oggi, sì).

Un tessuto sociale ed un’imprenditoria che oggi pensano di risparmiare, stanno in realtà minando le fondamenta del vivere civile: se lasciamo crescere ed imperversare gli squali, alla fine domineranno loro, anzi dominerà proprio chi sarà “più squalo degli altri”.

La distruzione delle filiere serie, conseguente alla proliferazione di strutture selvagge e fetide, è un vulnus per tutti: si perdono professionalità, capacità e competenze.

Si perde le qualità del lavoro, della socialità e della vita; per gli sporchi interessi di quattro canaglie (e magari fossero solo quattro) che ieri forse sembravano servire, domani comanderanno il mercato. Anzi, lo stanno già condizionando oggi.

Ecco, forse solo il desiderio finale è che non ci siano più maschere ed infingimenti. Non siete i manager illuminati del mondo apparentemente bello e dorato che volete farci apparire sotto gli occhi, siete i complici consapevoli di un marciume che già ora non riuscite più a nascondere ed il cui accumulo finirà per travolgere anche voi.

E, soprattutto, non è ancora troppo tardi per fermarvi.

 

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Esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: le Sezioni Unite non fanno completa chiarezza

di Lucio Imberti – Professore Associato di Diritto del Lavoro Università degli Studi di Milano

I contrasti giurisprudenziali nella Sezione Lavoro

Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 27436/2017,si sono finalmente pronunciate sui profili sanzionatori della disciplina applicabile in caso di esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, cercando in tal modo di assicurare l’uniforme interpretazione della l. 142/2001 da parte della giurisprudenza di legittimità, rivelatasi alquanto ondivaga negli ultimi anni.

In sintesi, un primo orientamento della Sezione Lavoro – alla luce dell’art. 5, co. 2, Legge n. 142/2001 secondo cui il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio – ha affermato che il legislatore ha … previsto un rapporto di consequenzialità fra il recesso o l’esclusione del socio e l’estinzione del rapporto di lavoro, che esclude la necessità, in presenza di comportamenti che ledono il contratto sociale oltre che il rapporto di lavoro, di un distinto atto di licenziamento, così come l’applicabilità delle garanzie procedurali connesse all’irrogazione di quest’ultimo (Cass. n. 14741/2011; nello stesso senso: Cass. n. 2802/2015; Cass. n. 9916/2016). Queste decisioni ritengono – adottando l’interpretazione della disciplina più condivisibile ad avviso di chi scrive – che l’esclusione del socio comporti automaticamente il venir meno del rapporto di lavoro subordinato.

In senso diametralmente opposto, si è posto altro orientamento della Sezione Lavoro, secondo cui se la delibera di esclusione del socio si fonda esclusivamente sull’intervenuto licenziamento …, una volta ritenuto quest’ultimo illegittimo, consegue che parimenti illegittima è la delibera di esclusione del socio. Pertanto Legge n. 142 del 2001, ex art. 2 … trova applicazione l’art. 18 St.Lav. (Cass. n. 14143/2012; di questo avviso anche: Cass. n. 6224/2014; Cass. n. 17868/2014; Cass. n. 1259/2015; Cass. n. 19918/2016). Questo orientamento riconosce ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato tutele analoghe a quelle previste per i lavoratori subordinati tout court, ritenendo applicabili le garanzie procedurali e la disciplina sostanziale del licenziamento, anche in caso di esclusione e contestuale licenziamento.

Non è poi mancato un ulteriore indirizzo interpretativo, espresso da Cass. n. 11548/2015, che pur affermando la sussistenza di un rapporto di consequenzialità fra l’esclusione del socio ed il recesso, incidendo la delibera di esclusione pure sul concorrente rapporto di lavoro, ha conclusivamente ritenuto applicabile l’art. 18, Legge n. 300/1970 una volta rimosso il provvedimento di esclusione.

Ancora più vario è stato il panorama delle opinioni nella giurisprudenza di merito, che in parte ha seguito orientamenti analoghi a quelli della Cassazione sopra citati ed in parte ha proposto ulteriori ed originali soluzioni interpretative quanto ai profili formali, sostanziali e sanzionatori relativi all’esclusione ed al licenziamento del socio lavoratore.

Ne è risultato, in definitiva, un quadro di estrema incertezza.

Due articolate e puntuali ordinanze interlocutorie del maggio 2017 (Cass. nn. 13030 e 13031/2017) hanno opportunamente ritenuto che a fronte dei contrasti esistenti in materia nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e dell’importanza della questione – la quale attiene alla ricostruzione dei meccanismi estintivi del rapporto e delle tutele applicabili per i moltissimi lavoratori che operano in cooperative come soci – si rende opportuno rimettere il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite della Corte.

La decisione delle Sezioni Unite

Il ricorso oggetto dell’ordinanza n. 13030 è stato ritenuto inammissibile dalla sentenza n. 27435, mentre le Sezioni Unite – nel pronunciarsi sul ricorso cui si riferiva l’ordinanza n. 13031 – sembrano aver optato con la sentenza n. 27436/2017 per un indirizzo interpretativo nuovo ed originale.

La questione presa in esame riguarda il caso di un socio lavoratore – al contempo escluso dalla cooperativa e da essa licenziato per giusta causa, in ragione della contestata aggressione ad un superiore gerarchico – che si era limitato ad impugnare il licenziamento, senza invece impugnare la delibera di esclusione.

In primo luogo, le Sezioni Unite affermano che la cessazione del rapporto associativo … trascina con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro. Sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore. Alla luce di tale premessa, non è condivisibile l’orientamento volto sostanzialmente alla tutela giuslavoristica del socio lavoratore, la cui impostazione determina il capovolgimento della relazione di dipendenza prefigurata dal legislatore tra l’estinzione del rapporto associativo e quella del rapporto di lavoro, che deriva dal collegamento tra essi.

Da altro punto di vista, tuttavia, la sentenza n. 27346 rileva che il nesso di collegamento tra rapporto associativo e rapporto di lavoro … per quanto unidirezionale, non riesce ad oscurare la rilevanza di quello di lavoro, anche nella fase estintiva. Da questa osservazione discende la critica rivolta anche all’applicazione della sola disciplina societaria, sulla base della considerazione per cui non mostra di tener conto di tale autonoma rilevanza l’orientamento … in base al quale, al cospetto di condotte che ledano nel contempo il rapporto associativo e quello di lavoro, sarebbe unico il procedimento volto all’estinzione di entrambi; di modo che, adottata la delibera di esclusione, risulterebbe ultroneo un distinto atto di recesso datoriale dal rapporto di lavoro.

Date queste premesse interpretative, ne discende in punto di conseguenze sanzionatorie che l’effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall’esclusione dalla cooperativa a norma del 2° comma dell’art. 5 della Legge n. 142/2001 impedisce senz’altro, in mancanza d’impugnazione della delibera …, di conseguire il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore. In caso di impugnazione della delibera, può invece trovare applicazione la tutela restitutoria, che consegue all’invalidazione della delibera, dalla quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario, sia dell’ulteriore rapporto di lavoro: tale tutela è del tutto estranea ed autonoma rispetto alla tutela reale prevista dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori, di matrice, appunto, lavoristica.

Chiarito che è la -sola- tutela restitutoria ad essere preclusa qualora, insieme col rapporto di lavoro, venga a cessare anche quello associativo, le Sezioni Unite si premurano di precisare che l’omessa impugnazione della delibera ne garantisce … l’efficacia, anche per il profilo estintivo del rapporto di lavoro, ma tale effetto estintivo, tuttavia, di per sé non esclude l’illegittimità del licenziamento, lasciando impregiudicata l’esperibilità di tutela diversa da questa, ossia di quella risarcitoria contemplata dall’art. 8 della legge 16 luglio 1966, n. 604.

Da tali assunti deriva, infine, l’affermazione del principio di diritto in base al quale in tema di tutela del socio lavoratore di cooperativa, in caso d’impugnazione, da parte del socio, del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria non è inibita dall’omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni, afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria.

I dubbi non chiariti

Le Sezioni Unite sembrano aver optato per una soluzione di sostanziale compromesso, che tuttavia inaugura un nuovo orientamento interpretativo, dando adito a dubbi in merito alla sua applicabilità in relazione a casi non perfettamente sovrapponibili a quello oggetto della sentenza n. 27436.

Ci si può, infatti, domandare se ed in quali termini tali principi – affermati in un caso di mancata impugnazione della delibera di esclusione e di impugnazione del solo licenziamento – possano trovare applicazione nell’ipotesi di tempestiva e contestuale impugnazione della delibera di esclusione e del licenziamento (eventualmente, ma non necessariamente effettuato), fondati sulle medesime circostanze. In altre parole, può la difesa del socio lavoratore proporre in via principale la domanda rivolta all’impugnazione della delibera per ottenere la tutela restitutoria in ambito societario ed in via subordinata la domanda relativa all’impugnazione del licenziamento per chiedere la tutela risarcitoria di matrice lavoristica ex art. 8, Legge n. 604/1966? Per tutelarsi di fronte a tale possibile duplice domanda è necessario che la cooperativa giunga all’esclusione ed al licenziamento attraverso le rispettive procedure societarie e lavoristiche e rispettando i relativi adempimenti formali?

Ed ancora i principi fissati dalle Sezioni Unite sono rilevanti anche con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato dei soci lavoratori cui si applica la disciplina del D.lgs. n. 23/2015? Nei loro confronti risulta applicabile, in caso di mancata impugnazione della delibera di esclusione, l’art. 8 della Legge n. 604/1966 a prescindere dal requisito dimensionale o, invece, la disciplina del D.lgs. n. 23/2015, dal momento che l’art. 2, co. 1, Legge n. 142 esclude esplicitamente solo l’applicazione dell’art. 18 della Legge n. 300/1970 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo? Che rilievo assume al riguardo la circostanza che nel D.lgs. n. 23/2015 permangano ipotesi in cui il licenziamento è sanzionabile con la reintegrazione nel posto di lavoro?

Si tratta di questioni che in larga parte esulavano dal caso su cui erano chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite (che, pertanto, non potevano in alcun modo esprimersi puntualmente ed esplicitamente al riguardo) e su cui, tuttavia, la soluzione per così dire “intermedia” adottata nella sentenza n. 27436 non aiuta a fare chiarezza e ad offrire sicuri indirizzi interpretativi.

È senza dubbio possibile ed auspicabile che la giurisprudenza di merito e di legittimità chiamata prossimamente a decidere si conformi a tale pronuncia, adottando un’interpretazione condivisa della stessa sentenza ed approdando ad un rapido consolidamento di orientamenti univoci in tema di profili formali, sostanziali e sanzionatori dell’esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa.

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, non è improbabile che – nonostante l’intervento delle Sezioni Unite ed alla luce delle prime pronunce di merito successive a tale intervento – tornino viceversa a manifestarsi molteplici ed ondivaghi orientamenti giurisprudenziali, in considerazione delle numerose, divergenti ed ormai radicate opzioni interpretative della disciplina della Legge n. 142 e dell’art. 2533 c.c. prospettate nei quindici anni dall’entrata in vigore dell’art. 9 della Legge n. 30/2003, che ha modificato la Legge n. 142 con riferimento alla disciplina dell’esclusione e del licenziamento del socio lavoratore.

Nel caso dovesse purtroppo realizzarsi questa seconda ipotesi, non rimane, quindi, che invocare un intervento legislativo risolutivo che sappia finalmente definire sul punto in questione una disciplina chiara e semplice. Ciò soprattutto in ragione del fatto che l’attuale situazione di grandissima e palese incertezza giuridica rischia di andare a tutto vantaggio delle false cooperative, che più facilmente proliferano in tale quadro normativo e giurisprudenziale confuso e farraginoso.

In ogni caso, oggi – a molti anni di distanza dall’approvazione e dalla successiva parziale modifica della Legge n. 142 – non pare essere ancora giunto il momento della certezza del diritto nell’interpretazione ed applicazione della disciplina dell’esclusione e del licenziamento del socio lavoratore di cooperativa. Anche il fattore tempo non è evidentemente una variabile indipendente e irrilevante per la (sempre relativa) certezza del diritto.

 

 

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