Sentenze

Illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore

Cass., sez. Lavoro, sentenza 23 giugno 2023, n. 18070

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del  licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore. Ha condannato il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria liquidata in dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita oltre interessi legali dalla risoluzione del rapporto al soddisfo.
Il giudice di Appello, per quanto interessa, ha ritenuto che le violazioni contestate dal datore al dipendente, che aveva consapevolmente disatteso le procedure dettate per le operazioni eseguite, erano gravi non essendo consentito al lavoratore di contrastarle e modificarle e restando irrilevante il fatto che da tali comportamenti non era stato tratto alcun vantaggio personale essendo peraltro stato accertato che aveva comunque avvantaggiato dei terzi.
Tuttavia, ha accertato l’intempestività della contestazione di addebito, intervenuta a distanza di tempo dalla data in cui il fatto era stato pienamente accertato.
Il lavoratore ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, controricorso del datore.
La Corte adita, con giurisprudenza costante (cfr. tra le tante Cass., 20/06/2006 n. 14115, Cass., 12/05/2005 n. 9955 e anche recentemente Cass., n. 23068 del 2021), ha ritenuto che il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo non solo da rendere difficile la difesa del dipendente ma anche di perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto (che nello specifico è stato accertato che si era protratto per tutto il tempo senza alcuna iniziativa anche di  carattere cautelare).
Una nozione, quella dell’immediatezza della contestazione, da intendere in maniera relativa, correlata al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, procedendo ad un adeguato  accertamento e una precisa valutazione dei fatti (cfr. Cass., n. 29480 del 2008, n. 22066 del 2007, n. 1101 del 2007, n. 14113 del 2006 e n. 4435 del 2004) e da valutare con riferimento al tempo in cui i fatti sono conosciuti dal datore di lavoro, e non a quello in cui essi sono avvenuti.
La conoscenza deve tradursi nella ragionevole configurabilità dei fatti oggetto dell’inadempimento, inteso nelle sue caratteristiche oggettive, nella sua gravità e nella sua addebitabilità al lavoratore (cfr. al riguardo oltre alla già citata Cass., n. 16683 del 2015 le sentenze ivi richiamate Cass., 27/02/2014, n. 4724 e 26/03/2010, n. 7410).
In tale contesto ben può il datore di lavoro procedere a verifiche preliminari necessarie (cfr. Cass., 08/03/2010, n. 5546, 17/12/2008 n. 29480). La valutazione dei fatti del giudice di merito il quale, come nella specie è avvenuto, abbia accertato la tardività della contestazione di addebito tenendo conto dei  parametri sopra indicati e ancorando la sua decisione ad elementi oggettivamente riscontrati non è censurabile in Cassazione; a questa Corte è preclusa ogni ulteriore indagine.
La Corte di merito ha proceduto all’esame dei fatti contestati, pacifici nella loro materialità, e ne ha correttamente desunto la giusta causa di licenziamento sottolineando che, ai fini della sua gravità  specificatamente del notevole inadempimento), ciò che rileva non è tanto e soltanto il danno arrecato quanto piuttosto l’idoneità della condotta a ledere il vincolo fiduciario da valutare tenuto conto del tipo di mansioni svolte. In tale prospettiva il giudice di secondo grado ha esattamente valorizzato l’elemento soggettivo della condotta, consapevole e volontaria (dolo generico), e la circostanza della consapevolezza di agire in contrasto con specifiche e cogenti direttive datoriali.
In sostanza questi non solo era inadempiente ma con piena consapevolezza voleva esserlo.
La circostanza che il fatto tardivamente contestato comporti l’illegittimità del licenziamento non implica di per sé che lo stesso sia insussistente.
La tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4 citato è applicabile ove il fatto contestato sia insussistente. In tale nozione è compresa l’ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto che, pur sussistente, sia tuttavia privo del carattere di illiceità ma non anche il caso in cui difetti un elemento necessario per poter applicare una sanzione, qual è appunto l’inosservanza di un tempo ragionevole per intraprendere il procedimento disciplinare.
Come già ritenuto da questa Corte (cfr. Cass., 10/02/2020, n. 3076), infatti, la tutela applicabile va individuata solo una volta che sia stata accertata l’assenza di una giusta causa di licenziamento che si compendia anche dell’aspetto connesso alla tempestiva reazione all’inadempimento del lavoratore.
Nel caso in esame, l’esistenza di un ritardo notevole e non giustificato nell’avviare il procedimento disciplinare deve trovare applicazione l’art. 18, comma 5 della Legge n. 300 del 1970, così come modificata dal comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 (in questo senso si veda Cass., 27/12/2017, n. 30985). L’intempestività della contestazione connota il comportamento datoriale che viola i canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. i quali governano anche l’esercizio del potere disciplinare il quale deve essere improntato alla massima trasparenza poiché incide sulle sorti del rapporto e sulle relative conseguenze giuridiche ed economiche.
Per l’effetto la sentenza deve essere cassata con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione che rivedrà le conseguenze della tardiva contestazione alla luce dei principi sopra esposti.


Somministrazione illecita di manodopera e assenza di rischi d’impresa

Cass., sez. Lavoro, sentenza 4 maggio 2023, n. 18530

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Ancora un caso di somministrazione illecita di manodopera la cui illiceità è stata rilevata sulla base delle deposizioni dei testi escussi e dei verbali ispettivi.
A sua difesa la società fornitrice di manodopera  sosteneva l’apparente regolarità e adeguatezza di ogni attività posta in essere, nonostante in verità fosse emerso, durante le deposizioni dei testi e gli accertamenti ispettivi, che oltre a non aver titolo a fornire manodopera, la società aveva operato una concreta lesione dei diritti dei lavoratori, essendo stato rilevato che gli stessi erano stati sotto inquadrati,
che le denunce Inps riportavano dati imponibili inferiori rispetto a quelli esposti sul libro unico e che addirittura, in caso di cessazione del lavoratore, non veniva elaborato e pagato il cedolino paga relativo al trattamento di fine rapporto oltreché alle competenze finali.
Tutto questo aveva indotto i giudici del merito a ritenere sussistente l’elemento a fondamento della norma incriminatrice, ovvero la finalità dei contraenti di eludere norme inderogabili di legge o di  contratto collettivo.
Nessuna lettura alternativa poteva essere eseguita sul caso di specie, nonostante questa fosse la richiesta oggetto del ricorso per Cassazione promosso dalla società “somministratrice”.
In primo luogo perché non consentita in sede di legittimità una revisione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, ma poi perché l’apparato argomentativo non presentava profili di irrazionalità, e soprattutto perché la valutazione del materiale probatorio non poteva che condurre alla ricostruzione eseguita dai giudici di primo e secondo grado.
Per tale ragione il presente ricorso è stato cassato con addebito delle spese alla parte soccombente.


Licenziamento per giusta causa: i parametri contenuti nel Ccnl non sono vincolanti

Cass., sez. Lavoro, sentenza 30 maggio 2023, n.  15140

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Forlì con la quale erano state respinte le domande del lavoratore contro la Società cooperativa agricola, di cui era dipendente con contratto a termine, di accertamento della nullità del licenziamento per giusta causa e di condanna del datore di lavoro alla riassunzione e/o al risarcimento dei danni.
In particolare, il lavoratore, con mansioni di addetto all’eviscerazione presso il reparto macello tacchini, già dipendente della cooperativa con numerosi precedenti contratti stagionali, con mansioni di scaricatore di casse e successivamente di mulettista-carrellista, dichiarato poi parzialmente idoneo con limitazioni e ricollocato per tale ragione presso il reparto macello tacchini, era stato licenziato.
Il provvedimento espulsivo era stato adottato in conformità alle previsioni del Ccnl applicabile al rapporto di lavoro: “per non aver estratto correttamente il pacco intestinale ai tacchini”, previa  contestazione di recidiva specifica, essendo stato lo stesso addebito motivo di 3 precedenti sanzioni  disciplinari.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi: i giudici di merito avrebbero dovuto qualificare il licenziamento del lavoratore come licenziamento per scarso rendimento e non per giusta causa; un omesso esame della condotta delle parti alla luce delle prescrizioni mediche e della mancata ammissione di CTU; la violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità tra fatto contestato e provvedimento di licenziamento, con riguardo alle circostanze concrete e alle modalità soggettive della condotta del lavoratore.
La Suprema Corte non accoglie i motivi confermando la sentenza impugnata che aveva ritenuto di rilievo disciplinare, e dimostrate, le violazioni poste alla base della contestazione disciplinare, giustificando il
licenziamento, anche alla luce della recidiva specifica. Inoltre, non appare neppure dimostrata, prosegue la Suprema Corte, la violazione dell’art. 2087 c.c. in riferimento all’accertamento di conformità dell’assegnazione del lavoratore al reparto macello tacchini, sulla base delle risultanze delle valutazioni
sanitarie del medico competente e della descrizione dettagliata delle mansioni assegnate, in rapporto al peso del materiale da trattare, ai movimenti da svolgere e alla postura.

La Suprema Corte ha più volte affermato che rientra nell’attività “sussuntiva e valutativa del giudice di merito” la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del Ccnl. Il giudice non deve limitarsi a verificare la riconducibilità dei fatti concreti a fondamento del licenziamento alla fattispecie prevista dalla contrattazione collettiva, ma deve valutarne la gravità e proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro, ponendo altresì
attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.
Il ricorso è respinto.


La genuinità di un rapporto di collaborazione deve essere valutata sulla base della normativa vigente al momento della stipula del contratto

Cass., sez. Lavoro, 26 maggio 2023, n. 14744

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

È illegittimo giudicare un rapporto di collaborazione sulla base di una normativa successivamente  vigente rispetto al momento della sua stipula.
É a questo il principio a cui perviene la Corte di Cassazione nel caso di una collaboratrice che, dapprima in forma di collaborazione coordinata e continuativa, e successivamente di lavoro autonomo, ha ricevuto comunicazione di rescissione contrattuale da parte dell’azienda cooperativa per cui lavorava.
La vicenda prende avvio dal ricorso di una lavoratrice nei confronti dell’azienda per la quale aveva avuto una serie di rapporti di collaborazione (specificatamente contratti di collaborazione coordinata dal 28.5.2002 al 22.10.2004 e contratti autonomi a partita IVA dal 23.10.2004 al giorno 8.7.2014). La
lavoratrice chiede l’accertamento della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato, la illegittimità della risoluzione del rapporto ed il ripristino dello stesso con condanna della convenuta al pagamento della retribuzione globale di fatto spettante dalla messa in mora al ripristino.
In primo grado viene esclusa la subordinazione, il rapporto viene qualificato come collaborazione coordinata e continuativa regolata dal D.lgs. n. 276/2003 e viene applicato l’art. 69 del D.lgs. n.  276/2003 convertendo il rapporto in uno subordinato a tempo indeterminato sul rilievo che le prestazioni non fossero riconducibili ad un progetto. Si appella la società, ed in secondo grado, la Corte
d’Appello di Roma ha dichiarato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a far data dal 28 maggio 2002 ed ha condannato la società a ripristinare il rapporto e a pagare alla lavoratrice un’indennità, ex art. 32, co. 5, L. n. 183/2010.
Ricorre in appello la società basandosi su 3 motivi.
Nel primo, sostiene il principio del “tempus regis actum”, art.11 delle disposizioni di legge relative all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. Nel secondo motivo, ad avviso della ricorrente, erroneamente era stata ritenuta  inammissibile la censura con la quale in appello era stata denunciata l’erroneità della pronuncia
di primo grado che aveva escluso l’esistenza di un progetto sebbene i fatti sottostanti fossero stati tutti tempestivamente allegati sin dal primo grado e dunque, d’ufficio, anche in grado di appello, il giudice
avrebbe dovuto tenerne conto senza che possa ritenersi maturata alcuna decadenza.
Con il terzo motivo si sostiene il carattere innovativo dell’intervento normativo del 2012 che non si pone come interpretazione autentica della precedente disciplina avente effetto retroattivo ma piuttosto come disposizione proiettata al futuro ed applicabile solo ai nuovi contratti stipulati dal 18 luglio 2012 in poi.
Gli Ermellini rigettano il secondo ed il terzo motivo e ritengono ammissibile il primo. Infatti, risulta pacificamente accertato che tra le parti sono intercorsi due distinti rapporti. Uno che trae origine da un contratto di collaborazione coordinata e continuativa iniziato il 28.5.2002 e proseguito fino al  22.10.2004 quando era cessato. Un altro contratto di lavoro autonomo dispiegatosi nel periodo dal
23.10.2004 all’8.7.2014. La Corte ha qualificato entrambi i rapporti come collaborazioni coordinate e continuative ma ritiene tuttavia il Collegio che, per quanto concerne il rapporto iniziato nella vigenza
della Legge n. 196 del 1997 e proseguito nella vigenza del D.lgs. n. 276 del 2003, fino al 22 ottobre del 2004, la legittimità del contratto andava verificata alla luce delle disposizioni dettate per le  collaborazioni coordinate e continuative  dalla Legge n. 196 del 1997.
La Corte costituzionale ha ritenuto che riconoscendo il rapporto alla luce della L. n. 92/2012, si sacrificavano interessi che le parti avevano regolato nel rispetto della disciplina dell’epoca, irragionevolmente e contraddittoriamente con la ratio del decreto, che era quello di “aumentare i tassi di occupazione e di promuovere la qualità e la stabilità del lavoro”. Pertanto, viene ribadito che è al momento della genesi del contratto che si definisce il regime del rapporto con esso instaurato ed è in tale
regime contrattuale che il lavoratore può chiedere che si accerti comunque che il rapporto di lavoro autonomo, pur legittimamente istaurato come collaborazione continuativa e coordinata, si sia diversamente atteggiato come rapporto di lavoro subordinato stante l’inserimento stabile nell’ organizzazione del destinatario della prestazione, l’assoggettamento al suo potere disciplinare ed alle sue direttive, tratto tipico quest’ultimo della subordinazione che è riscontrabile anche quando il potere direttivo del datore di lavoro viene esercitato de die in diem, consistendo, in tal caso, il vincolo della subordinazione, nell’accettazione dell’esercizio del suddetto potere direttivo di ripetuta specificazione della prestazione lavorativa richiesta in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore stesso.

 

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Una proposta al mese – Le agevolazioni UNDER…

di Clarissa Muratori e Federica Sgambato,  Consulenti del lavoro in Milano

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

Prevalentemente usato in ambito sportivo, il termine Under indica atleti al di sotto di una certa età.

Facile! Se superi quella soglia anagrafica non è possibile rientrare nella categoria degli Under. Bene! Ci sto! Chiaro, cristallino, anche perché è un dato oggettivo e soprattutto inoppugnabile: chi viola la regola è squalificato. Ebbene, se da un punto di vista sportivo la definizione evoca immagini di accoglienza, inclusione, opportunità per i giovani talenti e anche, perché no, divertimento e spensieratezza, in ambito lavoristico, purtroppo, il termine Under non rimanda alla stessa leggerezza di pensiero. Tralasciando i requisiti che deve rispettare l’azienda, che, seppure stringenti, rappresentano indubbiamente elementi necessari per la legittima applicazione della normativa in esame, concentriamoci sull’analisi di chi siano i lavoratori a cui si riferisce il Legislatore e quali requisisti debbano possedere per essere inclusi in tale beneficio.

Partiamo dalla base: come in ambito sportivo, si tratta di “giovani”. Ma chi sono questi giovani? E fino a che età si è considerati tali? Ad oggi, è la Legge 29 dicembre 2022, n. 197 a fissare i parametri: si è giovani sino a 35 anni; o meglio, fino a 35 anni e 364 giorni. Facile no?! Questo è un dato di fatto concreto, incontestabile e soprattutto semplice da verificare. Peccato che il Legislatore abbia legato le agevolazioni Under anche ad un ulteriore requisito la cui verifica non richiama esattamente immagini di spensieratezza come in ambito sportivo. Eppure, a guardar bene, il contesto sembra richiamare comunque un’attività sportiva, anche se in questo caso ben più rischiosa. Quando pensiamo all’Under 36, a noi viene in mente un funambolo, che accettato il rischio della forza di gravità e senza rete di protezione, decide – consapevolmente, sia chiaro – di camminare su di un filo estremamente sottile. Fuor di metafora, il funambolo ci ricorda tanto il datore di lavoro e la forza di gravità l’amministrazione pubblica. Sì, non c’è rete di protezione nella norma oggetto delle agevolazioni per l’occupazione giovanile stabile.

Come noto, per la corretta applicazione dell’agevolazione in esame, uno dei requisiti è che il candidato non abbia mai avuto, nel corso della propria vita, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

La domanda sorge spontanea: perché?

Sarebbe stato così deleterio per il Paese prevedere un’agevolazione economica, magari di valore più contenuto, anche in caso di pregresse esperienze a tempo indeterminato? Eppure la norma così prescrive.

A rendere ancora meno agevole e “spensierata” la situazione ci ha pensato l’Inps. Se, da una parte, l’Istituto ha messo a disposizione delle aziende e dei loro intermediari una Utility con la quale è possibile verificare se il lavoratore in questione abbia o meno avuto nella sua storia lavorativa un contratto a tempo indeterminato, dall’altra, lo stesso Istituto dichiara senza mezzi termini che il risultato della sua Utility non ha valore certificativo, con la conseguenza che si rende necessaria una dichiarazione del lavoratore in cui questi certifichi il suo stato di servizio. Bene, ma non benissimo! Eh sì, perché neppure questa dichiarazione rappresenta un baluardo contro un eventuale recupero da agevolazioni indebite. Riassumendo, il datore di lavoro, che non ha mezzi formalmente riconosciuti come inconfutabili, acquisisce la dichiarazione del lavoratore, interroga l’Utility della pubblica amministrazione e, infine, applica l’agevolazione. Dopo due, tre o quattro anni riceve un avviso di accertamento da parte di Inps, lo stesso Istituto che dichiarava di non poter certificare il dato occupazionale del lavoratore. Sì, dopo due, tre, quattro anni l’Inps è in grado di accertare formalmente il possesso o meno dei requisiti del lavoratore oggetto di agevolazione e, proprio sulla base di tale accertamento, di elaborare un avviso che prevede, oltre al recupero dei contributi, e fin qui nulla da dire, anche l’applicazione delle relative sanzioni. Qual è la logica dietro tutto questo? Com’è possibile che dopo diversi anni diventi possibile accertare un dato che in origine non lo era? Perché non prevedere un sistema in cui l’Inps accerti preventivamente il possesso o meno dei requisiti per la corretta applicazione dell’agevolazione? Sembra di essere all’ufficio complicazioni affari semplici.

D’altra parte l’Istituto non è nuovo rispetto al tema delle agevolazioni preventive. Per citarne una recente, la Legge 30 dicembre 2021, n. 234 aveva previsto per l’anno 2022, uno sgravio contributivo pari al 50 per cento dei contributi a proprio carico per tutte le lavoratrici madri che rientrassero in servizio dopo la fruizione del congedo di maternità. In quella circostanza l’Inps aveva messo a disposizione un canale specifico e preventivo per l’autorizzazione allo sgravio e, tramite cassetto bidirezionale, i datori di lavoro potevano interrogare l’Istituto per ottenere una conferma circa la possibilità o meno di accedere al beneficio. Supponendo che per l’agevolazione Under 36 una verifica preventiva sia impraticabile, fermo restando che ci piacerebbe capirne il motivo, per quale assurda ragione attendere fino a due, tre o quattro anni prima di emettere un avviso di accertamento?

Per quanto sia innegabile l’utilità dello strumento messo a disposizione dall’Inps, di cui nessuno mette in discussione le potenzialità, il problema sta nel fatto che i vantaggi dell’Utility vengono vanificati dalla lentezza nelle verifiche sulla spettanza o meno del beneficio.

Lasciar trascorrere un lasso di tempo eccessivamente ampio determina inevitabilmente un aumento esponenziale dei recuperi e delle relative sanzioni che aggravano una situazione già di per sé estremamente onerosa. È davvero impossibile concludere gli accertamenti in un periodo di tempo che non superi l’anno? E badate bene, chiediamo un anno, 12 lunghi mesi, il quadruplo del tempo che invece mette a disposizione l’Inps per sanare gli errori. In caso di dichiarazione mendace del lavoratore che abbia indotto ad applicare un’agevolazione non spettante, c’è chi suggerisce di far pagare al lavoratore le relative sanzioni. Ma siamo davvero certi che dirottare ad altri la responsabilità sulla verifica di dati posseduti ab origine dalla pubblica amministrazione sia la scelta più corretta?

Per non parlare poi del fatto che, anche volendo seguire questa strada, comprensibile da un punto di vista pragmatico, dobbiamo comunque fare i conti col fatto che il lavoratore in occasione dell’accertamento potrebbe essere già cessato da tempo, e a quel punto che fare? Certo non è la prima norma con una struttura applicativa “discutibile” dal punto di vista del soggetto che, basando la sua gestione amministrativa su dichiarazione di altro soggetto, deve sostenere il rischio delle sanzioni. Si pensi alla Legge 8 agosto 1995, n.335, art. 2, c. 18 in tema di applicazione del massimale contributivo che pone le aziende a rischio di sanzioni per errate dichiarazioni del lavoratore. In questo caso, per , almeno c’è una via d’uscita: richiedendo al lavoratore copia dell’estratto conto contributivo è possibile risalire alla data di prima anzianità contributiva con ragionevole certezza, potendo a quel punto determinare se applicare o meno il massimale.

Lo stesso estratto conto contributivo, tuttavia, non dà modo alle aziende di verificare la tipologia del contratto di lavoro, rendendo il datore di lavoro un soggetto che si assume un rischio piuttosto elevato in termini di costi e sanzioni senza avere mezzi concreti per ridurre al minimo le conseguenze di una scelta che dovrebbe essere premiata, supportata e sempre più incentivata: quella di assumere un giovane e per giunta a tempo indeterminato.

Al di là di tante parole, facciamo una riflessione pratica: l’Inps ci dice che è in grado di individuare solo i dati dal 1998 in avanti, e tanto basta visto che nel 1998 quelli che oggi sono considerati giovani avevano solo 11 anni. Ma allora perché non certificare in anticipo e formalmente lo stato occupazionale del lavoratore? O, meglio ancora, perché non associare al codice fiscale del lavoratore un blocco in fase di controllo Uniemens al fine di permettere alle aziende di non accedere a risorse pubbliche indebite, evitando così successivi recuperi estremamente gravosi?

L’aspetto paradossale di tutto ci  è che se c’è un Ente in grado di fare tutto questo è proprio l’Inps! Nessun altro Istituto possiede così tali e tante informazioni sui suoi assicurati; perci  viene ancora una volta da chiedersi: perché mai non agire in anticipo? Infine, una riflessione molto generica, ma altrettanto onesta.

L’amministrazione pubblica ha certamente tra le sue funzioni quella di operare quale organo di controllo della finanza pubblica e di irrogare le dovute sanzioni, ma ha anche una funzione di carattere sociale, ovverosia quella di supportare cittadini, aziende e soggetti che ad essa si rivolgono, assistendoli nei corretti adempimenti che le diverse norme impongono. Se è vero che ignorantia legis non excusat, si potrebbe quanto meno ridurre d’ufficio le sanzioni alla misura degli interessi legali. D’altra parte, già l’articolo 116, comma 15, lettera a) della Legge n. 388/2000 contiene un’analoga previsione per i casi di mancato o ritardato versamento dei contributi dovuti, derivante da oggettive incertezze amministrative e/o diversi orientamenti giurisprudenziali.

Questa stessa soluzione, sempreché si dimostri la buona fede del datore di lavoro e vi sia un’autocertificazione del lavoratore, si potrebbe estendere anche alle ipotesi di recupero dei contributi omessi per errata applicazione del massimale contributivo di cui alla sopracitata Legge n. 335/1995.

Semplificare le procedure amministrative e migliorare l’accesso ai dati non avrebbe altro effetto che quello di portare un vantaggio all’intera collettività; quindi, perché non procedere in tal senso?

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Sentenze

Licenziamento disciplinare: la verifica in concreto della sussistenza di una giusta causa di licenziamento

Cass., sez. Lavoro, 28 marzo 2023, n. 8737

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Il dirigente impugnava il licenziamento in tronco irrogatogli deducendone la natura ritorsiva dello stesso, in quanto intimato a seguito e per effetto della rottura, all’inizio del luglio 2017, della relazione sentimentale che aveva intrattenuto sin dal luglio 2012 con la Presidente della Società, in subordine l’illegittimità del recesso per insussistenza dei fatti contestati e comunque per sproporzione della sanzione espulsiva. Il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso. In sede di opposizione, ritenuto ammissibile il ricorso, il Tribunale di Catanzaro ha affermato sussistenti, sulla base della prova testimoniale, gli episodi di insubordinazione contestati: è pertanto da escludersi la nullità ritorsiva del licenziamento, dal momento che la conflittualità esistente tra le parti, per ragioni di carattere meramente sentimentale, seppur poteva essere stata concausa del contegno assunto dalle parti e della conseguente
cessazione del rapporto di lavoro, non aveva costituito il motivo unico determinante del licenziamento, essendosi per contro venuto a creare in ambito lavorativo una situazione insostenibile.
Il Tribunale ha affermato, comunque, l’illegittimità del licenziamento sotto il profilo della proporzionalità, anche alla luce delle pregresse modalità di svolgimento della prestazione.
La Corte d’Appello, adita in sede di reclamo, ha accolto l’impugnazione incidentale proposta dalla Società nei confronti del lavoratore e ha dichiarato la legittimità del licenziamento irrogato allo stesso.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore, resiste con controricorso la Società. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta con cui ha chiesto rigettarsi il ricorso.
Il Tribunale ha affermato con esplicita statuizione che la conflittualità esistente tra le parti, per ragioni di carattere meramente sentimentale, seppur possa essere stata concausa del contegno assunto dalle parti e della conseguente cessazione del rapporto di lavoro, non ha costituito il motivo unico determinante del licenziamento, così peraltro escludendo il motivo ritorsivo.
Tale statuizione non risulta dalla sentenza di appello aver formato oggetto del reclamo principale proposto dal lavoratore, nè ciò è dedotto nell’odierno motivo di ricorso. Pertanto, sulla mancanza di motivo ritorsivo del si è formato giudicato interno.
La doglianza dell’imputabilità del licenziamento  alla relazione affettiva che sarebbe intercorsa tra il lavoratore e la Presidente del datore di lavoro già disattesa dal Tribunale, è inammissibile per il formarsi del giudicato interno e per il difetto di rilevanza.
È contestata poi la proporzionalità della sanzione espulsiva, atteso che la proporzionalità deve essere valutata avendo riguardo all’entità dell’inadempimento e della colpa, nonchè della grave incidenza di essi sull’elemento della fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre sul lavoratore ai fini della prosecuzione del rapporto.
Questa Corte ha più volte affermato (si v.,  Cass., n. 12789 del 2022) che l’art. 2119. c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto, precisando che l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass., nn. 1351 del 2016, 12069 del 2015, 6501 del 2013), poichè l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento.
La relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass., nn. 1977 del 2016, 1351 del 2016, 12059 del 2015).
I fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario e spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva,  ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente e dalla qualifica rivestita, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua particolare natura e tipologia (v. ad es. Cass. nn. 2013 del 2012).
Nella specie la Corte d’Appello, pur richiamando modalità di comportamento del lavoratore riguardanti le attività fissate per il mese di agosto, ha incentrato la sussistenza della giusta causa nella violazione dell’ordine di servizio del 24 luglio 2017, allorchè in data 31 luglio 2017, il lavoratore senza richiedere alcuna autorizzazione abbandona in via anticipata il posto di lavoro, nonostante fosse stato chiarito nella riunione di metà mese l’assoggettamento senza deroghe agli orari di entrata e di uscita indicati in contratto. Atteso che la Corte d’Appello ha dato atto che una modifica dell’orario di lavoro del ricorrente era intervenuta in modo chiaro e definitivo solo il 24 luglio, ne discende che la legittimità del recesso è stata affermato con riguardo al mancato rispetto dell’orario di lavoro in un limitato arco temporale di pochi giorni. Tale statuizione non ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati, che richiedono un più ampio vaglio di contesto oggettivo e soggettivo, ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di recesso.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo motivo nei sensi di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione.


Appalto di manodopera: quando è genuino e quando invece è illecito

Cass., sez. Lavoro, 16 febbraio 2023, n. 4828

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha confermato che, in tema di appalto avente ad oggetto la prestazione di servizi,  è fondamentale il requisito dell’autonomia di gestione e di organizzazione dell’appaltatore.
Il caso portato all’attenzione della Suprema Corte riguarda la valutazione dell’esistenza di una interposizione fittizia di manodopera tra una società appaltatrice del servizio di call center e l’appaltante con conseguente accertamento, per i dipendenti della società appaltatrice, dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della società appaltante.
Il Tribunale di Roma aveva rigettato la domanda mentre la Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto che tra le parti fosse esistente un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con le decorrenze e gli inquadramenti specificati per ciascun lavoratore.
Il Giudice di Appello aveva ritenuto che, dall’istruttoria espletata, fosse emerso che il servizio reso dai dipendenti della società appaltatrice era stato a beneficio esclusivo della società appaltante. La stessa società appaltante aveva conferito nell’appalto beni di rilevanza tutt’altro che marginale e dai quali non si poteva prescindere per il raggiungimento dello scopo dell’appalto. Inoltre, il compenso era stato parametrato alle giornate di lavoro effettuate, azzerando così il rischio economico per l’appaltatrice. I dipendenti poi, con accertamenti testimoniali, avevano confermato che il rapporto con la società appaltante aveva superato la mera collaborazione con gestione diretta da parte dell’appaltante di turni ed orari; il controllo era superiore al solo coordinamento.
Per la Suprema Corte la sentenza impugnata ha correttamente applicato i principi già affermati: l’appalto di manodopera vietato dall’art. 1 della Legge n. 1369 del 1960, va ricavato tenendo conto della previsione dell’art. 3 della stessa legge concernente l’appalto (lecito) di opere e servizi all’interno dell’azienda con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore.
L’appalto di manodopera è configurabile sia in presenza degli elementi presuntivi considerati dal terzo comma del citato art. 1 (impiego di capitale, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante), sia quando il soggetto interposto manchi di una gestione di impresa a proprio rischio e di un’autonoma organizzazione (da verificarsi con riguardo alle prestazioni affidategli) in particolare nel caso di attività esplicate all’interno dell’azienda appaltante, sempre che il presunto appaltatore non dia vita, in tale ambito, ad un’organizzazione lavorativa autonoma e non assuma, con la gestione dell’esecuzione e la responsabilità del risultato, il rischio di impresa relativo al servizio fornito. Peraltro, con riferimento agli appalti cosiddetti “endoaziendali”, che sono caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, è precisato che il richiamato divieto di cui all’art. 1 della Legge n. 1369 del 1960 opera tutte le volte in cui l’appaltatore mette a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore stesso i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa.
Ancora, la valorizzazione, al fine dell’esclusione della genuinità dell’appalto, dell’assenza di una organizzazione di impresa impiegata nello stesso e della riferibilità alla committente del concreto esercizio del potere direttivo sui lavoratori formalmente dipendenti dalla appaltatrice si pone in linea con l’insegnamento della Suprema Corte secondo il quale il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro previsto dall’art. 1 della  Legge 1369 del 1960 opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo (Cass. n. 7820 del 2013, n. 6343 del 2013, n. 19920 del 2011, n. 7898 del 2011, n. 11720 del 2009, n. 16788 del 2006).
In conclusione, il ricorso è rigettato.


È illegittimo il licenziamento del dipendente che durante i permessi ex L. 104 svolge attività a favore dei disabili, anche se non in modalità continuativa: licenziamento illegittimo 

Cass., sez. Lavoro, 13 marzo 2023, n. 7306

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La fruizione di permessi ex Legge n. 104 per l’assistenza a un familiare disabile riveste nell’ordinamento italiano una finalità ultima di rilievo costituzionale, basata sugli articoli 2 e 32 Cost. nonché sui principi di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.
Pertanto, nell’indicare che il diritto ai permessi retribuiti è riconosciuto al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, il nesso che il testo normativo pone non è di tipo strettamente temporale, cioè tra la fruizione del permesso e la prestazione di assistenza in precisa coincidenza con l’orario di lavoro, bensì funzionale, tra il godimento del permesso e le necessità, gli oneri, le incombenze che connotano l’attività di assistenza delle persone disabili in condizioni di gravità. Il contenuto dell’assistenza che legittima l’assenza dal lavoro (il permesso retribuito), quindi i tempi e i modi attraverso cui la stessa viene realizzata, devono individuarsi in ragione della finalità per cui i permessi sono riconosciuti, cioè la tutela delle persone disabili, il cui bisogno di ricevere assistenza giustifica il sacrificio organizzativo richiesto al datore di lavoro.
È a questo ultimo assunto a cui pervengono gli Ermellini investiti nel giudizio di merito sul caso di un dipendente, licenziato per avere fruito, a detta del datore di lavoro, indebitamente, dei giorni di permesso ex Legge n. 104 per assistere entrambi i genitori disabili.
La corte territoriale ha accertato durante il primo grado che il lavoratore aveva trasferito il padre presso la propria abitazione, stante l’aggravarsi delle condizioni della madre e che aveva usufruito dei giorni di permesso coordinandosi con la sorella, con cui condivideva l’onere della cura dei genitori, svolgendo si delle attività inerenti tale cura ma anche delle attività di svago personali, come la lettura di un libro per due ore, presso i giardini pubblici in orario considerato lavorativo (dalle ore 9 alle ore 17). Proprio a fronte di questi intervalli di svago si era mossa l’azienda procedendo con il licenziamento del lavoratore per giusta causa, per avere il dipendente usufruito dei permessi di cui all’articolo 33, comma 3, della Legge n. 104 del 1992, per finalità estranee all’assistenza dei genitori disabili.
Il giudice aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, sia in primo che in secondo grado, e tale interpretazione viene coerentemente confermata anche dalla Suprema corte.
La valutazione del giudice di appello ha confermato che fosse sostanzialmente garantita dal lavoratore l’assistenza ai genitori, nei sette giorni oggetto di investigazione, ed ha sottolineato come tale onere di assistenza dovesse valutarsi con la necessaria flessibilità, in modo da poter considerare anche i bisogni personali del dipendente e l’integrità del suo equilibrio psicofisico, sottoposto ad una gravosa prova per le incombenze legate alla cura dei familiari in difficili condizioni di salute; ciò secondo una interpretazione che tenga  conto dei principi costituzionali di tutela della salute e della solidarietà familiare.
Sulla base di tali premesse, escluso un utilizzo dei permessi in funzione “meramente compensativa” delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza fornita in orario extralavorativo, spetta al giudice di merito valutare se la fruizione dei permessi possa dirsi in concreto realizzata in funzione della preminente esigenza di tutela delle persone affette da disabilità grave, e nella salvaguardia di una residua conciliazione con le altre incombenze personali e familiari che caratterizzano la vita quotidiana di ogni individuo.
Nei casi in cui il lavoratore in permesso ex articolo 33, comma 3 cit., svolga l’attività di assistenza in tempi e modi tali da soddisfare in via preminente le esigenze ed i bisogni dei congiunti in condizione di handicap grave, pur senza abdicare del tutto alle esigenze personali e familiari altre rispetto a quelle proprie dei congiunti disabili e pure a prescindere dall’esatta collocazione temporale di detta assistenza nell’orario liberato dall’obbligo della prestazione lavorativa, non potrà ravvisarsi alcun abuso del diritto o lesione degli obblighi di correttezza e buona fede, quindi alcun inadempimento.


Comporto “secco” o “per sommatoria”, le differenti interpretazioni giudiziali

Cass., sez. Lavoro, 20 febbraio 2023, n. 5288

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Il tema del comporto “secco” o “per sommatoria” è stato più volte affrontato in sede giudiziale.
Il caso in esame aveva determinato la condanna alla reintegra nel posto di lavoro di un dipendente che – secondo l’interpretazione dei giudici del merito – non aveva superato nell’anno solare il periodo di comporto.
Il licenziamento veniva quindi dichiarato illegittimo e la società condannata al risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 18, Legge 20 maggio 1970, n. 300.
La Corte d’Appello era giunta alla suddetta conclusione applicando al caso di specie il concetto di “comporto secco” sulla base del combinato disposto degli articoli 175 e 177 del Ccnl Commercio del 18 luglio 2008 e giungendo alla conclusione che se ad un periodo di malattia, nello stesso anno, segue un’interruzione, comincia a decorrere un nuovo periodo di comporto.
Nello specifico, il lavoratore si era assentato per due periodi di malattia nell’arco del 2007, con soluzione di continuità tra i due eventi morbosi, e per nessuno dei due periodi si era verificato il superamento dei 180 giorni consecutivi. Per tale ragione la corte concludeva per l’illegittimità del licenziamento non essendosi determinato in nessuno dei due casi il superamento del comporto tale da giustificare il recesso dal rapporto lavorativo.
La società ricorre per cassazione ritenendo il ragionamento alla base dei giudici di merito non allineato con i criteri ermeneutici che  devono sottendere non solo alle norme di diritto, ma anche alle previsioni contrattuali contenute nei Ccnl, in particolare nel contratto collettivo citato.
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della società, afferma infatti che l’interpretazione operata dalla corte distrettuale, “ogni periodo di comporto ha durata di 180 giorni”, è una lettura isolata dal contesto delle previsioni contrattuali in cui è stata inserita.
In particolare tale previsione va ricollegata all’articolo 177 in cui si afferma che per malattia e infortunio valgono distinti ed autonomi periodi di comporto, ciascuno di 180 giorni cadauno. Ciò premesso, il concetto espresso non era certamente assimilabile al caso oggetto d’esame, in quanto nella specifica
fattispecie al lavoratore erano riferibili unicamente due periodi di assenza per malattia.
Ma la Corte di Cassazione fa ulteriori precisazioni.
In primo luogo, dall’analisi del Ccnl citato, non vi sono elementi a supporto per desumere in modo chiaro che in caso di interruzione della malattia decorra automaticamente un nuovo periodo di comporto, ed inoltre, non vi è neppure lo specifico riferimento contrattuale al carattere consecutivo, e quindi ininterrotto delle assenze per malattia.
Si aggiunga a questo che l’utilizzo del termine “periodo” in forma singolare non depone certo a favore di un’interpretazione che permetta la conservazione del posto di lavoro a fronte di più periodi di assenza per malattia che per sommatoria determino il superamento dei 180 giorni.
Per il caso in esame la Corte di Cassazione ha quindi concluso per il rinvio alla medesima Corte d’Appello in diversa composizione per una nuova pronuncia giudiziale.

 

 


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Sentenze

Onere della prova in caso di repêchage

Cass., sez. Lavoro, 12 gennaio 2023 n. 749

Clara Rampollo, Consulente del Lavoro in Pavia

La vicenda riguarda un lavoratore licenziato a causa della soppressione del magazzino, al quale era adibito, il quale impugna il licenziamento intimato dall’Istituto sanitario. Si riassume, brevemente, che la Corte d’Appello di Salerno, in sede di reclamo ed in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato il 14.11.2014 in considerazione della sussistenza della ragione organizzativa e della mancanza di residue mansioni ove adibire il lavoratore.

La Corte territoriale – pacifica la soppressione del magazzino – ha ritenuto che il concorso di diversi elementi deponeva per l’insussistenza di posti ove adibire il lavoratore posto che il datore di lavoro aveva dimostrato l’assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato, etc. etc. Il lavoratore propone, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a un motivo; l’Istituto ha depositato controricorso. In particolare, con l’unico motivo il ricorrente denuncia (per violazione degli artt. 3 e 5 della Legge n. 604 del 1966 e 2697 cod.civ. (ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.), che la Corte distrettuale ha erroneamente applicato il criterio della distribuzione dell’onere della prova, addossando al lavoratore la prova inerente all’impossibilità di reimpiego in azienda.      

Il ricorso non è fondato.

Infatti, così quanto riportano gli Ermellini – secondo orientamento oramai consolidato della Corte di Cassazione, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (a seguire GMO), incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del GMO, che include anche l’impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore; incombe sul datore di lavoro l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione o al funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte;

  • la impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse costituisce elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore (Cass., n. 24882 del 2017);
  • circa l’onere di allegazione di posti disponibili per una utile ricollocazione, è stato osservato che esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all’interno dell’azienda significa, se non invertire sostanzialmente l’onere della prova (che – invece – la legge n. 604 del 1966, art. 5, pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio; invece, alla luce dei principi di diritto processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte. Infatti, chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione; – si aggiunge che, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai fini del repêchage, ove il lavoratore medesimo non indichi posizioni lavorative alternative oppure indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili ma queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repêchage; si noti che tali principi operano sul diverso piano della ricostruzione del quadro probatorio.

Tanto premesso, gli Ermellini precisano che il passaggio argomentativo contenuto nella sentenza impugnata in cui si è affermato che spetta al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’esistenza di posti di lavoro effettivamente disponibili in cui poter utilmente inserire il lavoratore si colloca nell’alveo del suddetto orientamento interpretativo. Inoltre, così ancora si legge nella sentenza, la Corte territoriale ha ritenuto provata la carenza di posti residuali nei quali adibire il lavoratore, in forza di molteplici elementi probatori (l’Istituto aveva dimostrato, depositando il L.U.L., l’assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato; etc…): l’allegazione del lavoratore è valsa, quindi, a integrare il quadro della prova presuntiva nel quadro complessivo degli elementi acquisiti al processo che la sentenza impugnata, secondo l’accertamento di merito che le era demandato, ha ritenuto utilizzabili per giungere ad escludere, nel giudizio finale e complessivo, la possibilità di ricollocazione del ricorrente in azienda, accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità. In conclusione, il giudizio espresso dal giudice di merito deve essere ritenuto conforme a diritto in quanto condotto nell’ambito della prova presuntiva del fatto negativo acquisibile anche attraverso fatti positivi, tra i quali ben possono essere inclusi i fatti indicati dal lavoratore ed acquisiti al processo. Attenzione: il principio non vale invece ad invertire l’onere della prova di cui ai principi sopra indicati, peraltro espressamente richiamati anche dalla sentenza impugnata.

 


Licenziamento ritorsivo: onere della prova

Cass., sez. Lavoro, 24 gennaio 2023, n. 2117

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

 

Con questa sentenza la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sul tema del licenziamento ritorsivo ribadendo il principio, già affermato da numerose pronunce della stessa Corte e della giurisprudenza di merito, per il quale nel caso in cui il lavoratore licenziato, per motivi disciplinari od oggettivi, alleghi la nullità del licenziamento perché ritorsivo, grava sul lavoratore l’onere della prova che l’intento ritorsivo del datore di lavoro sia determinante, cioè tale da costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale. La peculiarità della sentenza in commento deriva dal fatto che nel caso sottoposto all’esame della Corte il licenziamento impugnato dal lavoratore era stato intimato dalla società per giustificato motivo oggettivo all’esito della procedura prevista dall’art. 7 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall’art. 1, co. 40, della L. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. legge Fornero) e il lavoratore aveva addotto, tra l’altro, la ritorsività del recesso proprio per il suo rifiuto di trovare un accordo nell’ambito di tale procedura (oltre che come reazione ad una causa avviata dal lavoratore per il pagamento di differenze retributive). Il Tribunale, in sede sommaria e all’esito dell’opposizione, aveva escluso il carattere ritorsivo del licenziamento e ritenuto sussistente il giustificato motivo oggettivo posto a base dello stesso rappresentato da difficoltà economiche della società. La Corte d’appello, invece, aveva accolto il reclamo del lavoratore, ritenendo il licenziamento ritorsivo in quanto surrettiziamente giustificato da difficoltà economiche che la società non era stata in grado di dimostrare ma, secondo la Corte d’Appello, intimato come reazione al contenzioso avviato dal lavoratore. La società ha impugnato la sentenza evidenziando che il Giudice del reclamo avrebbe erroneamente valorizzato i tempi di avvio della procedura ex art. 7, L. n. 604/66 e quelli di promozione dell’azione giudiziaria da parte del lavoratore, senza considerare che il ricorso del lavoratore era stato notificato alla società solo a procedura di licenziamento già avviata. La Suprema Corte ha cassato la sentenza d’appello evidenziando che “il procedimento per l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inizia … con quella manifestazione di volontà, già delineata nei suoi contorni, che è oggetto della comunicazione che deve essere inoltrata alla commissione territoriale per attivare la preventiva procedura di conciliazione ed è a quel momento che deve in primo luogo aversi riferimento per valutare se la scelta datoriale sia improntata o meno ad un intento ritrosivo”. Nel caso in esame, invece la Corte d’Appello non aveva esaminato il contenuto e i tempi della comunicazione di avvio della procedura di conciliazione ex art. 7, L. n. 604/66, ancorché depositata dalla società, comunicazione che, secondo la Corte, può essere decisiva per stabilire “se sussista o meno un nesso di consequenzialità tra la scelta datoriale di procedere al licenziamento – manifestata proprio con tale comunicazione e perfezionatasi con il licenziamento intimato per effetto della mancata conciliazione stragiudiziale – e la successiva e in parte parallela azione giudiziaria intrapresa dal lavoratore”.

In sede di giudizio di rinvio la Corte d’Appello dovrà, dunque, riesaminare la controversia tenendo conto del dato di fatto rappresentato dalla comunicazione di avvio della procedura di licenziamento e della sua incidenza ritrosiva o meno sulla scelta del datore di lavoro verificando, in ogni caso, l’effettività delle ragioni economiche poste a base del recesso che, se dimostrate, escluderebbero il carattere ritorsivo del recesso atteso che, come già evidenziato, l’intento ritorsivo del datore di lavoro – che può essere provato anche mediante presunzioni semplici – deve essere il motivo unico e determinante del recesso.


 L’assoluzione nel procedimento penale non pregiudica il procedimento disciplinare

Cass., sez. Lavoro, 10 gennaio 2023, n. 398

Clarissa Muratori, Consulente del lavoro in Milano

La sentenza in commento si allinea a diverse altre pronunce giudiziali in cui la Corte di Cassazione ribadisce che, in caso di assoluzione del lavoratore in sede penale, il procedimento disciplinare non necessariamente ne subirà pregiudizio.

Se un fatto può non costituire reato in un giudizio penale, questo stesso può ben rappresentare una fattispecie idonea ad integrare un inadempimento sotto il profilo disciplinare, pertanto l’assoluzione del lavoratore in sede penale non determina ipso facto l’annullamento della sanzione disciplinare.

Nel caso specifico un dirigente impugnava il  licenziamento per giusta causa, comminatogli per aver intrattenuto rapporti con persone condannate per reati ai danni della società, ed in particolare chiedeva la condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità di mancato preavviso e al risarcimento del danno patito, in virtù della sua assoluzione in sede penale.
Risultato soccombente sia in primo che in secondo grado, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione sulla base del fatto che penalmente era stato assolto.
La Cassazione nell’avallare la corretta condotta tenuta dai giudici di merito durante i due procedimenti civili che vedevano confermata la sanzione del licenziamento per giusta causa con rigetto delle richieste del dirigente, torna su un aspetto molto rilevante:
in primo luogo i procedimenti penale e civile godono di reciproca autonomia, ma soprattutto è ben possibile che una fattispecie non sia idonea ad integrare un fatto di reato, ma ciononostante rappresenti un fatto perseguibile disciplinarmente.
Secondo la Cassazione il caso era stato correttamente ricostruito ed analizzato dai giudici, anche alla luce di un ulteriore e imprescindibile aspetto in tema di procedimento disciplinare: il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
Laddove, a fronte di fatti concretamente accertabili e idonei a costituire un illecito disciplinare, si spezzi l’indispensabile vincolo fiduciario tra i soggetti in causa, la circostanza non può certamente essere sottovalutata, potendo portare ad irrogare quella più grave tra le sanzioni previste dal codice disciplinare.
Nel caso oggetto di analisi quindi la sanzione espulsiva deve essere ritenuta legittima.


Licenziamento per GMO con soppressione della posizione lavorativa: tutela reintegratoria 

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2022, n. 37949

Margherita Bottino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte d’Appello di Bologna, in conformità a quanto sancito dal Tribunale della medesima città, ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato al lavoratore a seguito di un calo di fatturato nel settore delle vendite.

Contrariamente ai Giudici di prime cure ha però, in parziale accoglimento del reclamo proposto dalla società datrice di lavoro, accordato il rimedio indennitario in luogo della reintegrazione disposta in prima istanza. Secondo la Corte d’Appello, infatti, considerati i margini di equivocità delle risultanze probatorie e la parziale dimostrazione del calo di fatturato, non ricorrendo una ipotesi di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, ha ritenuto non fosse corretto il riconoscimento della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, co. 7 e 4 dello Statuto dei lavoratori, in luogo di quella indennitaria prevista dai commi 7 e 5.

Il lavoratore, ritenendo erronea l’interpretazione dell’art.18 ad opera della Corte di merito, in quanto non in linea con i precedenti interventi dalla Corte Costituzionale, decideva di adire il giudizio della Corte Suprema. La Corte di Cassazione riprendendo l’apparato sanzionatorio delineato dall’art. 18 da applicare in caso di accertamento dell’illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, così come inciso dalle precedenti sentenze della Corte Costituzionale (cfr., C. Cost. n. 59/2021 e n. 125/2022), ha ribadito quanto segue: il giudice, una volta accertata l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina – in simmetria col regime dei licenziamenti soggettivi – la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica.

Pertanto, in parziale accoglimento del ricorso promosso dalla lavoratrice cassa la sentenza e rimettendo la causa alla Corte d’Appello di Bologna.


La declaratoria di nullità del licenziamento è un fatto autonomo

Cass., sez. Lavoro, 10 gennaio 2023, n. 404

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La Cassazione si è espressa riguardo al ricorso presentato dal lavoratore licenziato prima del trasferimento dell’azienda. La sentenza impugnata aveva ritenuto che il lavoratore -licenziato dalla società cedente- che aveva contestato il licenziamento nei confronti della stessa società entro il primo termine di 60 giorni, avrebbe dovuto entro il successivo termine di 180 giorni, alternativamente depositare il ricorso oppure promuovere il tentativo di conciliazione nei confronti della stessa società cedente e non nei confronti della società già subentrata nell’azienda e in tutti i rapporti giuridici ex art. 2112 c.c..

I giudici specificano che il licenziamento, quale atto unilaterale recettizio, produce i suoi effetti estintivi nel momento in cui perviene al destinatario. La risoluzione del rapporto di lavoro, se realizzata prima della cessione dell’azienda o di un suo ramo, impedisce di ritenere immediatamente operante il principio di continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario, di cui al primo comma dell’art.2112 c.c., che presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento della cessione d’azienda. La società cedente conserva pertanto il potere di recesso e il trasferimento della società non impedisce il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In caso di licenziamento ante cessione di azienda, la garanzia offerta dall’art. 2122 c.c. opera nei riguardi di una sentenza di illegittimità del recesso con tutela ripristinatoria. In sintesi, nel caso di un licenziamento intimato anteriormente al trasferimento dell’azienda, la garanzia dell’art. 2112 c.c. opera solo a condizione che vi sia la dichiarazione di nullità o illegittimità del licenziamento, con la conseguenza di ripristino del rapporto di lavoro alle dipendenze della società cedente pertanto, “la declaratoria di nullità del licenziamento o il suo annullamento costituiscono dunque un dato pregiudizievole ed autonomo – sul piano logico e sul piano giuridico – rispetto all’accertamento del trasferimento d’azienda e dei suoi effetti”, con la conseguenza che la contestazione del licenziamento resta sottoposta alle sue proprie regole.

Il ricorso è respinto.


Lavoro ed occupazione: il fenomeno del mobbing

Cass., sez. Lavoro, 3 febbraio 2023, n. 3361

Stefano Gugliemi, Consulente del lavoro in Milano

La lavoratrice ricorreva ai sensi del Decreto Legislativo n. 198 del 2006, articolo 38,
comma 3, chiedendo l’accertamento e la repressione del comportamento asseritamente
discriminatorio tenuto dalla parte datoriale connesso alla disdetta dal contratto di apprendistato professionalizzante intimata dal datore a fronte di circa duecento apprendisti assunti a tempo indeterminato ed alle modalità di svolgimento del periodo di apprendistato-formazione; il fattore di discriminazione era individuato con riferimento alle due gravidanze portate a termine dalla lavoratrice nel corso del rapporto di apprendistato.
Il giudice di primo grado ordinava al datore di cessare il comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti reintegrando la lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato.
La Corte di Appello ha respinto la originaria domanda per essere gli elementi addotti dalla lavoratrice a sostegno del carattere discriminatorio della condotta del datore privi dei necessari caratteri di precisione e concordanza tali da fondare una presunzione di comportamento discriminatorio superabile solo in presenza di prova negativa offerta dalla parte datoriale.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la lavoratrice.
Occorre muovere dai principi che regolano la materia come ricostruiti dalla giurisprudenza della Corte ed in particolare da Cass. n. 5476/2021, secondo la quale “in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, il Decreto legislativo n. 198 del 2006, articolo 40 stabilisce un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta
solo a dimostrare una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta”.
Alla luce di tali indicazioni la lavoratrice era onerata della sola dimostrazione di essere portatrice di un fattore di discriminazione e di avere subito un trattamento svantaggioso in connessione con detto fattore.
In corrispondenza con le richiamate coordinate ermeneutiche la Corte territoriale era quindi tenuta in primo luogo a verificare sulla base di un ragionamento presuntivo la esistenza di un possibile fattore di discriminazione in relazione alla disdetta dal solo contratto di apprendistato (atteso che la Corte di merito ha logicamente congruamente motivato circa la non ravvisabilità di un fattore di discriminazione con riferimento alle ripetute proroghe del periodo di formazione)
ed, in caso di esito positivo, se la parte datoriale avesse assolto al proprio onere di allegare e dimostrare circostanze destinate a superare la presunzione di discriminazione.
Tanto non è in concreto avvenuto.
In base alle considerazioni che precedono, assorbita ogni altra censura, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio per il riesame della concreta fattispecie alla luce delle indicazioni sopra formulate.


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PARITÀ DI TRATTAMENTO IN MATERIA DI OCCUPAZIONE e condizioni di lavoro, così evoluti eppure così primitivi

Clarissa Muratori, Consulente del lavoro in Milano

 

Sembra del tutto superfluo il concetto espresso nella prima parte dell’oggetto, eppure è frutto di una specifica direttiva europea 2000/78/CE che il 27 novembre del 2000 ha sancito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro in tutti gli Stati membri1. Viviamo in un mondo tecnologicamente evoluto eppure, in taluni casi, siamo ancora dei primitivi. I nostri peggiori istinti avanzano inesorabilmente ed i numerosi casi di cronaca ne sono la diretta testimonianza. La violenza, soprattutto tra i giovanissimi, è ormai una condizione all’ordine del giorno ed i valori del rispetto del prossimo e della civiltà sembrano dei “vecchi” concetti inutili e del tutto superati o superabili. Tutto è scusabile, tutto si giustifica, e così ogni individuo è deresponsabilizzato. Nonostante ciò esistono ancora, almeno formalmente, strutture nazionali ed internazionali che garantiscono il rispetto dei diritti umani. Pensiamo alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) o alla Corte di giustizia europea (CGUE), organo dell’Unione europea la cui principale funzione è quella di assicurare l’osservanza ed il rispetto del diritto comunitario tra gli Stati membri dell’Unione stessa.

IL CASO

Proprio la Corte di giustizia europea è stata chiamata ad intervenire su un caso di discriminazione lavorativa che coinvolgeva un lavoratore autonomo.

Nel ribadire i concetti generali della citata direttiva la CGUE ha ricordato che la discriminazione lavorativa può riguardare non soltanto il lavoro subordinato, ma anche il lavoro autonomo (art. 3, co. 1, lett. a) e che ogni Stato membro deve adeguare la propria legislazione interna a tale disposizione.

Il caso2 riguardava un lavoratore autonomo polacco che, in seguito alla pubblicazione su YouTube di un video dove si promuoveva la tolleranza verso le coppie dello stesso sesso, si vedeva cancellati tutti i futuri incarichi assunti con la società con la quale collaborava da anni. Ricorrendo in giudizio presso il Tribunale nazionale, il lavoratore chiedeva il riconoscimento del risarcimento del danno in quanto vittima di una discriminazione diretta fondata sul suo orientamento sessuale. La Corte nazionale, data la carenza del diritto interno e nutrendo dei dubbi sull’applicabilità della direttiva ad un lavoratore autonomo, si era trovata costretta ad adire la Corte di giustizia europea.

La CGUE nel pronunciarsi sul tema ha riaffermato due concetti di notevole importanza: in primo luogo il campo di applicazione della presente direttiva si estende a tutti i lavoratori, sia pubblici che privati, sia essi autonomi che subordinati, ma soprattutto ogni Stato membro dell’UE deve adeguare la propria normativa in tal senso, non essendo negoziabile la tutela dei diritti civili.

Nello specifico il fatto che l’ordinamento polacco non includesse tra le discriminazioni in campo lavorativo quella inerente l’orientamento sessuale del lavoratore autonomo poneva il diritto interno in netto contrasto col diritto comunitario, determinando una concreta violazione cui porre rimedio.

IL NOSTRO ORDINAMENTO

In tema di parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro il nostro ordinamento si è adeguato nel 2003 attraverso il D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 includendovi anche la condizione di lavoro autonomo tra le condizioni tutelabili, ma chiarito ciò basta consultare brevemente il web per capire che nel nostro Paese le cose non appaiono certo incoraggianti.

È del marzo 2022 un’indagine Istat3 che ci offre una fotografia davvero deprimente di quella che è o è stata la condizione lavorativa di tanti uomini e donne che per il differente orientamento sessuale hanno subito violenze, minacce o aggressioni.

Oltre all’aspetto dell’avanzamento di carriera, messo in taluni casi a dura prova da una cultura ancora evidentemente elementare e retrograda, nel comunicato stampa colpisce quanto siano alte le percentuali di coloro che temono per la propria incolumità fisica e psichica e che preferiscano non frequentare i colleghi nel tempo libero per evitare di rivelare il loro orientamento sessuale.

Forse l’unica riflessione possibile è proprio legata alla nostra coscienza sociale: educare al rispetto delle diversità probabilmente non è operazione né banale né immediata. Quello che il nostro ordinamento giuridico si trova a disciplinare è un processo ben più ampio, ed ormai anche ben avviato, che fonda le sue radici in una cultura che tutto sommato non riesce a prendere posizione di fronte alle varie forme di violenza e che continua a deresponsabilizzare l’individuo.

 

  1. Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000.
  2. Causa 356/21 del 12 gennaio 2023.
  3. Comunicato Istat 24 marzo 2022 – Discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+.

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CONGUAGLIO 2022: cosa è cambiato? Mettetevi comodi!

Clarissa Muratori, Consulente del lavoro in Milano

Anche quest’anno fanno ingresso nella già complessa materia contributiva e fiscale una serie di novità che richiederanno la nostra attenzione.

Seppure le operazioni in esame siano ormai consolidate, la normativa di bilancio può innescare variabili significative in tema di diritto del lavoro, oltreché in ambito tributario e previdenziale, ed in genere, il conguaglio di fine anno ne è sempre coinvolto. Anche per il 2022 si sono registrate diverse riforme, alcune riferibili esclusivamente a questo specifico anno d’imposta, altre decorrenti dal 1° gennaio, altre ancora addirittura dal 1° marzo 2022.

Di seguito analizzeremo le modifiche più rilevanti, ripercorrendole anche alla luce dei chiarimenti forniti dall’Amministrazione pubblica, che sempre più spesso è chiamata in causa per fare chiarezza su norme talvolta troppo generiche e che lasciano spazio a differenti interpretazioni.

A tal proposito, a dirimere i dubbi sulla corretta applicazione della norma1 che ha innalzato il tetto del welfare aziendale da 258,23 a 600 euro, oltre che ampliarne le tipologie ammissibili, è proprio la recente circolare dell’Agenzia delle entrate, pubblicata il 4 novembre 2022, n. 35/E2.

Tale misura, in deroga all’art. 51, comma 3 del Tuir, riconosce, per il solo anno 2022, che il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale sia esente fino al limite complessivo di 600 euro.

Alla pubblicazione della norma molti operatori del settore, compresa la sottoscritta, avevano immaginato – dato la ratio alla base del decreto – che i 600 euro rappresentassero una sorta di franchigia, un limite in ogni caso invalicabile da imposizione contributiva e fiscale, tassabile solo al superamento della soglia e solo per la parte eccedente.

L’espressione “in deroga all’art. 51, comma 3”, aveva indotto a pensare che l’eccezione fosse estesa proprio al concetto contenuto nell’articolo stesso, ma le Entrate sono intervenute sul punto affermando con chiarezza che l’intento del Legislatore non era quello di pregiudicare la tassazione qualora il valore di 600 euro fosse superato, ma esclusivamente quello di innalzare la soglia di esenzione e di includere all’interno dei fringe benefit ammissibili – per il solo anno 2022 – anche somme di denaro o rimborsi di spese sostenute per le utenze domestiche.

Al momento in cui si scrive risulta pubblicato anche il decreto legge 18 novembre 2022, n. 176, decreto Aiuti-quater, che innalza ulteriormente la soglia, sempre per il solo anno 2022, da 600 a 3.000 euro dei fringe benefit esenti, e si suppone che quanto le Entrate hanno chiarito con la citata circolare n. 35E/2022 resti confermato anche in questo caso, dato che non viene modificato il testo del disposto normativo, ma solo il valore in esso contenuto. Ad ogni modo resta un punto aperto che occorrerà monitorare.

Premesso tutto ciò, come anticipato, le novità non mancano: dalla riforma delle aliquote fiscali Irpef all’assegno unico universale (AUU), dalla modifica della normativa sul trattamento integrativo ai nuovi bonus collegati all’imponibile previdenziale, dalla riforma delle aliquote contributive sugli ammortizzatori sociali all’esonero contributivo a  favore dei lavoratori dipendenti in caso di imponibili entro determinate soglie retributive mensili, dall’esonero contributivo riconosciuto alle lavoratrici madri rientrate in servizio dopo la maternità, agli interventi in tema di sgravi contributivi riservati alle assunzioni di giovani e donne, ed infine, come indicato in premessa, al recente intervento del decreto Aiuti-quater con cui è stato approvato l’innalzamento della soglia di fringe benefit esenti fino al limite complessivo di 3000 euro.

MODIFICHE DI NATURA FISCALE

1. La rideterminazione delle aliquote e delle detrazioni fiscali

Al fine di ridurre la pressione fiscale la Legge di Bilancio 20223 ha modificato il sistema di tassazione delle persone fisiche. Il passaggio da cinque a quattro scaglioni d’imposta, attraverso una graduale riduzione delle aliquote fiscali, ha avuto come scopo quello di mantenere saldo il principio di progressività cui il nostro ordinamento tributario è informato. Dal 1° gennaio 2022 il nuovo schema delle aliquote Irpef risulta pertanto il seguente:

Fascia di reddito annuo Aliquote
fino a 15.000 23%
superiore a 15.000 e fino a 28.000 25%
superiore a 28.000 e fino a 50.000 35%
oltre 50.000 43%

Con una dettagliata circolare4 l’Agenzia delle entrate affronta tutta la tematica sulla riforma fiscale, riforma che ha inevitabilmente portato con sé anche la variazione delle formule legate alle detrazioni fiscali per lavoro dipendente, che hanno generato, per molti lavoratori, un innalzamento delle detrazioni stesse. In aggiunta alle suddette variazioni si aggiunge, per i soli redditi appartenenti alla fascia 25.000 – 35.000 euro, un’ulteriore detrazione di importo fisso, non riproporzionata al rapporto di lavoro, pari a 65 euro annui, spettante in forma piena indipendentemente dal periodo lavorato.

Con l’introduzione poi dell’ulteriore misura dell’assegno unico universale, che dal 1° marzo 2022, sostituisce l’assegno per il nucleo familiare, le detrazioni fiscali per figli a carico fino ai 21 anni di età, compresa la maggiorazione per figli inferiori a tre anni, nonché le detrazioni per famiglie numerose, prende avvio una nuova forma di sostegno al reddito per le famiglie con figli erogata direttamente dall’Inps su richiesta degli interessati. Su tale aspetto una precisazione: le detrazioni per figli a carico di cui all’articolo 12 del Tuir resteranno chiaramente valide per tutti i figli di età superiore a 21 anni compresi i figli disabili, per questi ultimi infatti, al superamento dei 21 anni le detrazioni per figli a carico si sommeranno alla quota di Assegno Unico Universale che continuerà ad essere riconosciuta, salvo la permanenza delle condizioni di spettanza, senza limite temporale5. Resta inteso che, per il solo anno 2022, ed esclusivamente per le detrazioni per figli a carico verranno adottati due regimi: fino al 28 febbraio 2022 si applicheranno le detrazioni per figli a carico vigenti fino a tale data, dal 1° marzo 2022 il combinato tra le nuove detrazioni e l’AUU.

2. Le addizionali

La riforma fiscale si estende anche alle addizionali regionali e comunali, con la conseguenza che l’eventuale aliquota già determinata da Regioni e Comuni su cinque scaglioni venga rielaborata secondo l’attuale impianto a quattro fasce reddituali, questo per coerenza con le nuove aliquote Irpef vigenti ed al fine di non pregiudicare l’effetto progressivo del sistema tributario.

3. Trattamento integrativo

La Legge di Bilancio 2022 interviene anche sul decreto 5 febbraio 2020, n. 3 che aveva introdotto per la prima volta la misura del trattamento integrativo e dell’ulteriore detrazione. Con tale modifica svanisce la misura dell’ulteriore detrazione e viene abbassato il limite di reddito annuo per cui si ha diritto al beneficio. La nuova formulazione prevede che il trattamento integrativo, pari a 1200 euro annui, venga erogato automaticamente, salva rinuncia espressa del sostituito, a tutti i lavoratori dipendenti con reddito non superiore a 15.000 euro, nonché a tutti quei lavoratori il cui reddito superi i 15.000 euro ma non i 28.000 seppure a specifiche condizioni. Per redditi fino a 15.000 euro il trattamento è erogato in seguito alla sola verifica della soglia reddituale, per fasce di reddito sopra i 15.000 euro e fino ai 28.000 euro, il sostituto d’imposta deve tener conto di tutta una serie di detrazioni fiscali spettanti che nella maggior parte dei casi non risultano conosciute. Nella già citata circolare n. 4E/2022 l’Agenzia offre tuttavia un chiarimento sul punto ammettendo la possibilità per il sostituto di procedere al conguaglio con le sole informazioni a lui note. Qualora la somma delle detrazioni conosciute (a titolo di esempio per lavoro dipendente e/o per familiari a carico) risulti superiore all’imposta lorda, si potrà procedere all’erogazione del trattamento integrativo per un importo pari alla differenza tra la somma delle detrazioni e l’imposta stessa, pur sempre nel limite di 1200 euro annuali.

Tuttavia, dato che nel novero delle detrazioni da considerare rientra anche un ulteriore elenco di ipotesi di cui, ribadiamo, il sostituto d’imposta non ne ha contezza, il trattamento integrativo potrà essere oggetto di nuovo conguaglio in fase di dichiarazione dei redditi, occasione in cui ne verrà riconosciuto l’ammontare effettivamente dovuto. Resta invece confermata la modalità di recupero del trattamento integrativo non spettante. Qualora la somma da restituire risulti superiore a 60 euro si procederà ad una trattenuta di 8 rate, la prima delle quali a partire dalla retribuzione che sconta gli effetti del conguaglio. Opportuno ricordare che, in caso di cessazione, il recupero dovrà avvenire in un’unica soluzione e che qualora non vi fosse capienza per la totale restituzione dell’importo, il residuo debito dovrà essere comunicato al lavoratore che provvederà autonomamente al versamento entro il 15 gennaio dell’anno successivo (art. 23, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600).

4. Assegno unico universale

Introdotto dal Decreto legislativo 29 dicembre 2021, n. 230 l’assegno unico universale è entrato a regime il 1° marzo 2022. È erogato mensilmente dall’Inps su richiesta dell’interessato e per tutti i figli inferiori a 21 anni, nessun limite temporale all’erogazione in caso di figli disabili. La decorrenza della misura (marzo dell’anno in corso – febbraio dell’anno successivo) determina il riconoscimento per i primi due mesi dell’anno delle detrazioni per figli a carico, degli assegni per il nucleo familiare e delle detrazioni per famiglie numerose, misure che con l’avvento dell’AUU vengono da questo sostituite, restando in vigore, solo gli assegni familiari, per una ristretta categoria di beneficiari. La determinazione dell’AUU in termini di importo tiene conto, in primo luogo, dell’indicatore della situazione economica equivalente del nucleo familiare (ISEE), ma qualora la dichiarazione non sia presente negli archivi della pubblica amministrazione o non venga aggiornata è ben possibile accedere all’assegno dato che è indipendente dal reddito posseduto dal nucleo familiare. In tal caso verrà erogato nella misura minima. È possibile richiederlo già dal settimo mese di gravidanza della madre e, per i figli maggiorenni, spetta purché gli stessi siano studenti, stagisti, lavoratori con un reddito complessivo inferiore a 8.000 euro o ancora disoccupati registrati al centro per l’impiego ed in cerca di occupazione. La misura in parola potrebbe intersecarsi col sistema delle detrazioni per figli a carico, pertanto, l’Agenzia con la circolare n. 4E/2022 ci offre due esempi concreti per gestire correttamente casi limite secondo il principio da sempre applicato alle detrazioni fiscali e replicabile anche in caso di AUU, ovvero che le due misure sono rapportate a mese e competono dal mese in cui si sono verificate le condizioni di spettanza a quello in cui sono cessate. Pertanto, ben potranno verificarsi mesi in cui spetteranno cumulativamente sia la detrazione che l’AUU.

Qualora si passi dall’AUU alle detrazioni fiscali per figli a carico, le detrazioni cominceranno a decorrere dal mese di compimento dei 21 anni del figlio. Questo sarà anche l’ultimo mese in cui spetterà l’AUU. E ancora in caso di famiglie con più di tre figli, e per il solo anno 2022, qualora il quarto figlio dovesse nascere dopo il 28 febbraio ma entro il 31 dicembre 2022, le detrazioni per famiglie numerose dell’ormai abrogato articolo 12, co. 1-bis del Tuir spetteranno in ogni caso per i primi due mesi dell’anno, perché la norma nasceva proprio come ulteriore detrazione complessiva per il nucleo familiare attivabile in occasione dell’evento nascita. Per tale ragione tale circostanza potrà ben verificarsi anche in un periodo di non vigenza dell’articolo 12, comma 1-bis.

 

MISURE DI WELFARE  AZIENDALE

1. Bonus carburante

Allo scopo di contenere gli impatti economici dovuti all’aumento del prezzo del carburante, l’articolo 2, Decreto legge 21 marzo 2022, n. 21 ha previsto la possibilità per i datori di lavoro privati, per il solo anno 2022, di erogare buoni benzina o titoli analoghi del valore di 200 euro per lavoratore ed esenti da imposizione fiscale.

Riferita inizialmente alle sole aziende private, in sede di conversione in legge la platea dei datori di lavoro coinvolti è stata ampliata a tutti i “datori di lavoro privato”, includendo quindi anche soggetti che non svolgano un’attività commerciale oltreché i lavoratori autonomi. La misura è stata analizzata con circolare n. 27E/20226 dall’Amministrazione finanziaria chiarendo che i buoni carburante o titoli analoghi non sono legati alla situazione reddituale del lavoratore e che è possibile corrisponderli anche ad personam, senza quindi la necessità di preventivi accordi contrattuali. L’Agenzia ha poi specificato, per evitare ingiustificate disparità di trattamento rispetto alla tipologia di veicolo posseduto, che rientrano nel beneficio sia i buoni carburante che i titoli analoghi per la ricarica delle auto elettriche. Inoltre, sempre da un punto di vista oggettivo, è stato anche chiarito che l’esenzione è ammessa fino ad un valore massimo di 200 euro e che i buoni dovranno essere corrisposti entro il periodo d’imposta 2022 (ed entro il 12 gennaio 2023, periodo di cassa allargato), indipendentemente dal momento della loro effettiva fruizione. A tal proposito il fisco ci ricorda che i benefit erogati mediante voucher si considerano percepiti, e quindi assumono rilevanza reddituale, nel momento in cui tale utilità entra nella disponibilità del dipendente a prescindere dal fatto che il bene venga fruito in un momento successivo.

I buoni carburante si affiancano ad un “paniere” già esistente che resta confermato e che è quello dei 258,23 euro (ampliato dapprima a 600 e dal 19/11/22 a 3000 euro) cui potranno confluire – se capiente – anche ulteriori buoni benzina rispetto ai 200 erogati nell’anno.

Con la conseguenza che far confluire 50 euro di buoni benzina nel paniere dei 258,23 è possibile se vi è capienza, ma non il contrario, se il contatore del paniere buoni carburanti ha già raggiunto la soglia di 200 euro. Anche per tale ragione le due misure devono essere contabilizzate separatamente e qualora si superasse il limite soglia tutta la somma sarebbe soggetta a imposizione fiscale e contributiva. L’Agenzia ha poi aggiunto che i buoni carburante possono anche essere erogati in sostituzione dei premi di risultato, tuttavia, qualora si superasse il limite soglia di 200 euro, analogamente al valore dei 258,23 euro, tutto l’ammontare dovrebbe essere soggetto a tassazione.

2. Fringe benefit fino a tremila euro

Come noto il Decreto legge 9 agosto 2022, n. 115, decreto Aiuti-bis, all’articolo 12 ha apportato per il solo anno d’imposta 2022 una deroga all’articolo 51, comma 3 del Tuir innalzando il valore di esenzione fiscale di beni e servizi prestati da 258,23 a 600 euro, ed introducendo tra le tipologie di fringe benefit ammessi in esenzione anche somme in denaro o rimborsi esclusivamente per le spese sostenute per le utenze ad uso domestico di acqua, luce e gas. Tale disposto normativo, come anticipato in premessa, aveva innescato tra gli addetti ai lavori alcune perplessità; intanto si citavano espressamente solo i lavoratori dipendenti e non le figure ad essi assimilate, nonostante il reddito si determini con le stesse modalità per entrambe le tipologie di lavoratori, ma poi il maggior limite di 600 euro faceva pensare ad un valore “blindato” da tassazione. Le riflessioni in tal senso nascevano un po’ dall’ingente valore dei fondi stanziati per la misura, ma anche e soprattutto dal fatto che la norma era stata probabilmente introdotta come un sostegno ai lavoratori in una situazione economicamente complicata. Non così repentinamente, ma con una prima circolare7 dello scorso novembre, l’Agenzia delle entrate ha dissipato ogni dubbio. Il 4 novembre 2022 ha chiarito che l’innalzamento della soglia da euro 258,23 a euro 600 comma, “riguarda esclusivamente il limite massimo di esenzione e le tipologie di fringe benefit concessi al lavoratore, senza comportare, con ciò, alcuna modifica al funzionamento del regime di tassazione 8”.

Vale a dire quindi che, se in fase di conguaglio, il valore dei beni e dei servizi prestati o delle somme erogate o rimborsate per le utenze domestiche di acqua luce e gas risulteranno di ammontare superiore a 600 euro il sostituto dovrà assoggettare a tassazione l’intero importo, non solo la parte eccedente. Dal punto di vista soggettivo si apre anche ad un altro chiarimento: vengono inclusi quali beneficiari della misura in parola anche i titolari di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente per i quali il reddito è determinato secondo l’articolo 51 del Tuir.

Circa il criterio temporale, l’Agenzia ricorda che rientrano nel beneficio dell’esenzione tutti i beni o le somme ed i rimborsi percepiti entro il 12 gennaio 2023 (principio di cassa allargato). In caso di benefit erogati mediante voucher, analogamente a quanto disposto per i buoni carburante, si ricorda che gli stessi vanno considerati percepiti dal lavoratore – ed assumono quindi rilevanza reddituale – nel momento in cui entrano nella disponibilità del dipendente a prescindere dal fatto che il servizio venga fruito successivamente, mentre per quanto attiene al rimborso di somme o erogazione di denaro per le utenze domestiche, fatto salvo il principio di cassa allargato, vi rientrano anche tutte le spese sostenute per quelle fatture che, pur emesse nel 2023, si riferiscano a consumi effettuati nel 2022. Tali regole sono applicabili anche nell’ambito di conversione dei premi di risultato, determinando quindi in caso di superamento delle soglie suddette, l’applicazione della tassazione ordinaria.

Al momento in cui si scrive è già entrato

in vigore il nuovo decreto Aiuti-quater, decreto legge 18 novembre 2022, n. 176, che sostanzialmente modifica quasi unicamente il limite dei fringe benefit di cui all’art. 51, comma 3 del Tuir dagli attuali 600 euro a 3000 euro, che ad una prima lettura pare aprire a nuove prospettive concedendo alle imprese un ulteriore margine di manovra, dato che, ricordiamolo, la misura è assegnabile ad personam. Tuttavia, a parere di chi scrive, estendere massivamente un beneficio di tale portata senza porvi, ad esempio, dei limiti di reddito rispetto ai destinatari della misura, appare quasi un paradosso. Se è possibile ritenere che la ratio della norma abbia anche una finalità di ausilio ai lavoratori, vista la particolare situazione economica che stiamo attraversando, cionondimeno rischia di servire soltanto a rideterminare – escludendoli da tassazione – benefit collegati a redditi medio alti, riconosciuti per ruoli e mansioni del tutto indipendenti dall’attuale contesto economico, generando quindi come unica ed effettiva conseguenza un vantaggio fiscale solo per pochi.

INDENNITÀ UNA TANTUM LAVORATORI DIPENDENTI

Interventi sulle fasce reddituali più deboli si possono osservare in relazione a due separati disposti normativi con i quali il Legislatore ha previsto per il solo anno 2022 l’erogazione di indennità che coinvolgono lavoratori con retribuzione imponibile non superiore a determinate soglie mensili. Lasciando da parte ogni considerazione sull’aspetto operativo legato alla concessione dei due bonus in parola, si analizzano di seguito solo i principali aspetti delle misure.

La prima, “bonus 200 euro”, introdotta all’articolo 31 dal Decreto legge 17 maggio 2022 n. 50, ne aveva legato l’erogazione alla percezione dell’esonero dell’0,80% di cui all’articolo 1, comma 121, della Legge 30 dicembre 2021, n. 234.

L’indennità9 avrebbe dovuto essere riconosciuta nel mese di luglio 2022, ma è stato possibile procedere al versamento dell’importo anche nel mese di ottobre 2022, grazie ad un intervento Inps che includeva tra i beneficiari anche tutti quei lavoratori dipendenti che, pur non avendo beneficiato dell’esonero dello 0,80%, erano coperti da contribuzione figurativa integrale da parte dell’Inps10.

Come noto l’indennità, spetta una sola volta anche in presenza di più rapporti di lavoro e può essere erogata solo previa dichiarazione del lavoratore di averne diritto. Della stessa natura anche la successiva una tantum, pari a 150 euro, introdotta all’articolo 18 dal Decreto legge 23 settembre 2022, n. 144 e che invece si rivolge a retribuzioni più contenute, percepite nello specifico mese di novembre e solo se l’imponibile contributivo non superi i 1538 euro. L’indennità verrà erogata proprio nel mese di novembre a condizione che il rapporto di lavoro risulti in essere nel mese, e sempre previa dichiarazione del lavoratore di averne diritto.

Qui il Legislatore è stato più accorto perché ha fin da subito dichiarato che l’indennità sarebbe spettata anche in presenza di eventi che prevedessero copertura figurativa integrale da parte dell’Inps. In tal senso infatti si è espressa la circolare dell’istituto che ne ha definito la modalità applicative11.

Ciononostante non sono mancati dubbi interpretativi, legati al fatto che la norma indicava come parametro di riferimento ai fini della verifica dei 1538 euro la retribuzione imponibile percepita nel mese di novembre, senza tenere conto del fatto che in molte aziende la retribuzione imponibile in tale periodo è determinata non solo dalla retribuzione mensile, ma anche dalla tredicesima mensilità. Con il recente intervento Inps12 è stato chiarito che la retribuzione del mese di novembre deve intendersi al netto della tredicesima evitando così un infelice epilogo rispetto a quella che era la reale finalità della norma.

Si ritiene utile citare le due misure anche in tale contesto in quanto si tratta di benefici esenti da qualunque prelievo di natura contributiva e fiscale, non cedibili, né sequestrabili, né pignorabili, quindi occorre procedere con attenzione alla verifica di tale aspetto soprattutto in caso di cedolini paga gravati già da debiti preesistenti, dove tali somme potrebbero essere pregiudicate dalle ordinarie operazioni di conguaglio.

 

MODIFICHE DI NATURA PREVIDENZIALE

Tra le principali novità in ambito  previdenziale introdotte dalla Legge di bilancio 2022  ricordiamo tre modifiche significative: la prima, quella sulle aliquote contributive legate agli ammortizzatori sociali con decorrenza 1° gennaio 202213, mentre, per il solo anno corrente, il riconoscimento in busta paga di una riduzione sull’aliquota contributiva14 posta a carico dei lavoratori dipendenti dello 0,80 punti percentuali, poi innalzata, a decorrere dal 1° luglio e fino al 31 dicembre, fino a 2 punti percentuali a condizione che la retribuzione imponibile mensile riparametrata su tredici mensilità non superi l’importo di 2692 euro al mese, ed infine, sempre con decorrenza 1° gennaio, una riduzione di 0,5 punti percentuali sull’aliquota contributiva15 posta a carico delle lavoratrici madri che rientrino in servizio dopo il congedo di maternità. Tale riduzione opererà per 12 mesi dalla data di rientro al lavoro, purché ciò avvenga entro il 31 dicembre 2022.

1. Variazione delle aliquote sugli ammortizzatori sociali

La Legge di bilancio ridetermina tutte le aliquote legate agli ammortizzatori sociali e riconosce, anche se non in tutti i casi, uno sconto per il solo anno 2022 sulle nuove aliquote in vigore dal 1° gennaio. Tale riforma tocca tutti i Fondi ad oggi esistenti: Cigo, Cigs, Fis e Fondi di solidarietà. Con apposita circolare16 l’Inps ha fornito nel dettaglio le istruzioni per la gestione non solo degli arretrati, ma anche del corrente, introducendo specifici codici Uniemens per tutte le differenti casistiche. Ricordiamo infatti che, anche se non per tutti, la nuova riforma comporta per il primo anno di vigenza il rimborso di una quota contributiva in parte per il lavoratore ed in parte per il datore di lavoro, determinando quindi una variazione, seppure di minimo impatto, sull’imponibile fiscale complessivo.

2. Riduzione contributiva lavoratori dipendenti

Come anticipato la modifica ha interessato tutti i rapporti di lavoro dipendente ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico. Riguarderà il solo anno 2022 e consiste in una riduzione di 0,8 punti percentuali dell’aliquota IVS posta a carico dei lavoratori la cui retribuzione imponibile, riparametrata per 13 mensilità non superi l’importo mensile di 2692 euro.

L’Inps è intervenuto con una circolare17 di dettaglio dove come di consueto ha indicato le istruzioni per la corretta gestione dell’esonero e dei relativi arretrati. Si ricorda poi che per effetto del decreto Aiuti-bis18, a decorrere dal 1° luglio tale riduzione viene incrementata di 1,2 punti percentuali, portando l’esonero a quota 2%. Anche per tale modifica l’istituto di previdenza sociale è uscito con un messaggio19 confermando, con decorrenza dal mese di ottobre, l’utilizzo dei codici già istituiti nella circolare relativa allo 0,80%. Con un nuovo messaggio20 sono state poi fornite ulteriori istruzioni operative per quelle aziende che, senza attendere indicazioni, avevano già aggiornato il valore del 2% nel cedolino paga di settembre ed inviato l’Uniemens. Anche tale misura, seppure non abbia alcun impatto sul conguaglio contributivo, ridetermina tuttavia l’imponibile fiscale del lavoratore che si vedrà restituire, sotto

forma di arretrato, retribuzione che confluirà nel reddito fiscale annuo.

3. Lavoratrici madri

Il beneficio in parola interessa solo il corrente anno e riguarderà tutte le lavoratrici madri che rientreranno in servizio dal 1° gennaio al 31 dicembre 2022.

La riduzione dell’aliquota a carico della lavoratrice prevede un abbattimento di 0,50 punti percentuali a suo favore, cumulabile con la ➤

riduzione di cui all’art. 1, comma 121 della Legge n. 234/2021 e dell’art. 20 del Decreto legge n. 115/2022. È rivolta alle sole lavoratrici madri del settore privato ed è garantita per un anno dalla data di rientro in servizio dopo il congedo di maternità.

Anche in questo caso sono stati necessari due interventi dell’Inps per chiarire l’effettiva portata della misura, e sono stati espressi due aspetti di non poco conto.

Il primo21 ha riguardato l’estensione ammessa dall’Inps rispetto al comma 137 inserito nella Legge di bilancio 2022: beneficeranno dello sconto non solo le lavoratrici rientrate dal congedo obbligatorio (ivi compresa l’interdizione post partum di cui all’art. 17 del D.lgs. 151/2001) ma anche tutte le lavoratrici che rientreranno dal congedo facoltativo. Questa apertura ha probabilmente ingenerato molti dubbi tant’è che con un successivo messaggio22 l’Inps ha spiegato nel dettaglio, anche con l’aiuto di alcuni esempi, come vada intesa l’estensione ammessa. In primo luogo, scrive l’Inps, l’agevolazione trova applicazione in caso di rientro in servizio effettivo tra il 1° gennaio ed il 31 dicembre. Personalmente ritengo quindi che possano rientrare nel beneficio in esame tutte le maternità obbligatorie conclusesi proprio il 31 dicembre 2021, e che vedano la lavoratrice rientrare dal 1° gennaio in avanti ma sempre entro il 31 dicembre 2022.

In secondo luogo, spiega l’Inps, l’eventuale congedo facoltativo o post partum, per aver diritto allo sgravio devono avvenire rispetto al congedo obbligatorio, senza soluzione di continuità. Inoltre si aggiunge che dopo il rientro effettivo al lavoro, qualsiasi altra fruizione di periodi di congedo facoltativo risulteranno ininfluenti rispetto alla decorrenza dell’anno di sgravio.

Si ricorda che per gestire correttamente la disposizione in esame occorre richiedere, prima della presentazione della prima denuncia Uniemens in cui sia presente l’esonero dello 0,50, il codice di autorizzazione “0U” attraverso il cassetto bidirezionale indicando nell’oggetto “Esonero art. 1, c. 137 L. 234/2021”. All’interno della richiesta oltre ai dati anagrafici della lavoratrice andrà indicata la data di effettivo rientro.

 

TERMINI PER EFFETTUARE IL CONGUAGLIO

Non mutano i termini per effettuare il conguaglio che, anche per il 2022, si differenziano a seconda che si tratti di un conguaglio fiscale o contributivo.

1. Fiscale

Determinato il reddito tassabile ai sensi dell’articolo 51 del Tuir, ivi inclusi tutte le somme e i valori corrisposti entro il 12 gennaio 2023, il conguaglio si conferma eseguibile sino al 28 febbraio 2023.

Non muta quindi rispetto al passato la possibilità di chiudere le operazioni del conguaglio fiscale anche nei due mesi successivi all’attuale anno d’imposta, fermo restando che potranno essere conguagliati solo gli emolumenti ricevuti entro e non oltre il 12 gennaio 2023.

2. Contributivo

Fatte salve le regole ammesse per la competenza di dicembre 2022 e di gennaio 2023, la competenza di febbraio 2023 potrà essere utilizzabile per le sole operazioni riguardanti il Tfr al Fondo di Tesoreria e le misure compensative.

 

 

1. Decreto legge 9 agosto 2022, n. 115, art. 12.
2. Circ. Ag. Entrate 4 novembre 2022, n. 35/E.

3. Legge 30 dicembre 2021, n. 234, all’articolo 1, commi da 2 a 8.
4. Circ. Ag. Entrate 18 febbraio 2022, n. 4/E.
5. Circ. Inps 9 febbraio 2022, n. 23.

6. Circ. Ag. Entrate 14 luglio 2022, n. 27/E

7. Circ. Ag. Entrate 4 novembre 2022, n. 35/E.
8. Circ. Ag. Entrate 4 novembre 2022, n. 35/E.

9. Circ. Inps 24 giugno 2022, n. 73.
10. Circ. Inps 7 ottobre 2022, n. 111.
11. Circ. Inps 17 ottobre 2022, n. 116.
12. Mess. Inps 17 novembre 2022, n. 4159.

13. Art. 1, commi 191 e ss., Legge 30 dicembre 2021, n. 234.
14. Art. 1, comma 121, Legge 30 dicembre 2021, n. 234.
15. Art. 1, comma 137, Legge 30 dicembre 2021, n. 234.
16. Circ. Inps 30 giugno 2022, n. 76.
17. Circ. Inps 22 marzo 2022, n. 43.
18. Decreto legge 9 agosto 2022, n. 115, art. 20.
19. Mess. Inps 26 settembre 2022, n. 3499.
20. Mess. Inps 7 novembre 2022, n. 4009.

21. Circ. Inps 19 settembre 2022, n. 102.
22. Mess. Inps 9 novembre 2022, n. 4042

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Sentenze

Lavoratore privo del permesso di soggiorno e infortunio sul lavoro: reato di lesioni personali e responsabilità per colpa del datore

Cass., sez. Penale, 30 agosto 2022, n. 31879

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Con sentenza emessa il Tribunale di Crema, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato l’imputato responsabile dei reati di cui agli artt. 22, comma 12, D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (capo A), e 590, secondo e terzo comma, c.p. (capo B), per avere, in qualità di legale rappresentante della E.A.C. Srl, occupato alle proprie dipendenze un cittadino
indiano privo di permesso di soggiorno e per avere cagionato allo stesso, per colpa consistita nella violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, lesioni personali dalle quali derivava una malattia
di durata superiore ai 40 giorni e l’indebolimento permanente della mano destra. C., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle circostanze aggravanti di cui all’art. 590 c.p., era
stato condannato alla pena – condizionalmente sospesa – di mesi tre, giorni dieci di reclusione ed euro 2.800,00 di multa per il reato di cui al capo A) e alla pena di mesi due di reclusione per il reato di cui al capo B), nonché al risarcimento dei danni patiti dall’Inail, parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio. Il Tribunale aveva individuato quale profilo di colpa specifica la violazione da parte dell’imputato  dell’art. 18, D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, norma che pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di formazione e informazione del dipendente, obbligo considerato non adempiuto nella specie, posto che il lavoratore era risultato impiegato in nero presso l’azienda da circa un mese, senza essere stato istruito in ordine ai rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa e, segnatamente, circa l’uso della macchina spaccalegna, la cui lama aveva cagionato  una grave lesione al braccio del lavoratore.
Dopo il verificarsi del fatto, il lavoratore era stato accompagnato presso il Pronto soccorso dell’Ospedale di Crema da un pick-up di colore nero, immediatamente dileguatosi. Il cittadino indiano presentava una significativa ferita al braccio e i suoi indumenti erano intrisi di “residui di materiale legnoso”.
All’esito della visione dei filmati delle telecamere del presidio medico, i Carabinieri risalivano al proprietario del pick-up, risultato appartenente alla E.A.C. Srl, il cui titolare aveva  poi ammesso di avere accompagnato la persona
offesa, la quale, secondo quanto dichiarato dall’imputato, sarebbe apparsa nel piazzale della ditta provenendo dai terreni dello zio dell’imputato. Quest’ultimo, tuttavia, aveva negato di conoscere il lavoratore infortunato,
aggiungendo che il nipote era solito assumere saltuariamente qualche indiano. A sua volta, la persona offesa aveva dichiarato di essere stato reclutato a lavorare presso l’azienda dell’imputato da circa un mese e che,
il giorno del fatto, egli stava tagliando un  pezzo di legno di grandi dimensioni avvalendosi dell’apposito macchinario ma, nel procedere alla sistemazione del pezzo, aveva premuto inavvertitamente il pedale della macchina,
provocando la discesa della lama, che gli aveva procurato lo schiacciamento della mano destra e l’amputazione di un dito.
La sentenza di primo grado era stata appellata dalla difesa dell’imputato, che aveva evidenziato la contraddittorietà delle dichiarazioni della persona offesa, la quale, al momento dell’ingresso in Pronto soccorso, era risultata
odorare di alcool, l’assenza di testimoni a riscontro della dinamica dell’infortunio, l’inverosimiglianza
della ricostruzione fornita dal lavoratore, nonché la mancanza di una prova certa circa il rapporto di lavoro intercorso tra quest’ultimo e la E.A.C. Srl. All’esito del giudizio di impugnazione, la Corte di Appello di Brescia, con la sentenza in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del datore di lavoro in ordine a entrambi i reati, per essersi i medesimi estinti per la sopravvenuta prescrizione, non accogliendo l’istanza di proscioglimento nel merito formulata dall’appellante,  ha confermato le statuizioni civili e ha condannato l’imputato al pagamento delle ulteriori spese in favore della parte civile.
Quanto all’evenienza degli elementi costitutivi del primo reato, nel respingere le doglianze difensive relative alla mancata prova del rapporto di lavoro, la Corte territoriale ha affermato che la sussistenza del suddetto rapporto poteva desumersi da plurimi elementi, primo fra tutti l’essersi verificato l’infortunio all’interno dello stabilimento dell’azienda. Inoltre, sono stati evidenziati la presenza di materiale legnoso sugli  indumenti del lavoratore al momento del suo arrivo in ospedale e il rilievo che, se la persona offesa fosse veramente sbucata improvvisamente
dai terreni dello zio dell’imputato, non ci sarebbero state ragioni per giustificare la fretta dell’imputato nell’abbandonare il lavoratore davanti al pronto soccorso. Inoltre, i giudici di appello hanno aggiunto
che, una volta assodata l’assenza della somministrazione della previa formazione al lavoratore, anche un’ipotetica disattenzione o imprudenza del lavoratore non avrebbe potuto comunque escludere la responsabilità del datore di lavoro, in questo caso del legale rappresentante della società datrice di lavoro. Avverso la suddetta pronuncia ricorre per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando due motivi.
Per ciò che concerne l’asserita insussistenza del rapporto di lavoro tra l’impresa societaria amministrata dall’imputato e la persona offesa, la Corte di Appello ha fatto riferimento – oltre che ai residui di “materiale legnoso” sugli indumenti del lavoratore – anche alle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo e al contributo dichiarativo del teste, dipendente dell’E.A.C. Srl. I giudici di appello – lungi dall’appiattirsi acriticamente sulle dichiarazioni della persona offesa – ne hanno operato un’accurata valutazione, motivando le ragioni di apparente contraddittorietà
nella successione delle sue affermazioni, segnalando il ragionevole timore che avvinceva il lavoratore, riconnesso alla sua condizione di immigrato privo di permesso di soggiorno, e traendo dalle medesime l’essenza genuina del relativo narrato con argomentazioni esenti da vizi logici. Sul tema, si ricorda che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da
sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni
di qualsiasi testimone, con la specificazione che, laddove la persona offesa si sia costituita
parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U., n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214 – 01; fra le successive, Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 – 01).
Nel caso di specie, la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società amministrata dall’imputato (e non con lo zio) è stata accertata anche in virtù delle convergenti dichiarazioni rilasciate dal teste, il quale ha riferito
di aver notato il lavoratore infortunato in azienda – non solo nel giorno dell’infortunio, ma – anche in precedenti occasioni, precisando, altresì, che il suddetto si trovava nei pressi della macchina spaccalegna proprio qualche istante prima del sinistro.  A conclusioni non dissimili deve pervenirsi per quel che concerne il profilo della colpa specifica dell’imputato e dell’eventuale interruzione del nesso di causalità conseguente a un asserito
comportamento abnorme del lavoratore. Sull’argomento, è, del resto, fondata l’osservazione svolta nella memoria della parte civile, laddove si osserva che la ritenuta configurazione della colpa specifica in capo all’imputato
espressa nella sentenza impugnata non presta il fianco a critiche, nel senso che, pur ipotizzando – per assurdo – che l’imputato non avesse occupato il lavoratore infortunato in qualità di lavoratore subordinato, l’averlo comunque
addetto a qualsiasi diverso titolo alla mansione del taglio del legname, senza fornirgli alcuna formazione e/o istruzione in merito ai lavori da eseguire con l’uso della macchina “sega spaccalegna”, che fossero volti a
salvaguardarne l’incolumità e la salute, determina in ogni caso la responsabilità del datore, atteso che il sistema prevenzionale tutela tutti  i lavoratori, a prescindere dalla tipologia contrattuale che li lega al datore stesso, ai sensi
dell’art. 3, D.lgs. n. 81 del 2008.
In concreto, quindi, il legale rappresentante della società datrice di lavoro è stato, secondo la motivata conclusione dei giudici di merito, raggiunto rettamente dall’accertamento di responsabilità, nulla avendo il medesimo predisposto a protezione del lavoratore, d’altronde assunto contra legem. Secondo il corretto riferimento operato nella contestazione, invero, l’art. 18, D.lgs. n. 81 del 2008 contempla fra gli obblighi del datore di lavoro quello, nell’affidare i compiti ai lavoratori, di tener conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro
salute e alla sicurezza, quello di prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico,
nonché quello di adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37 dello stesso D.lgs. (obblighi finalizzati ad assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente
ed adeguata in materia di salute e sicurezza). Per il resto, il datore di lavoro che non adempie gli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell’espletamento delle proprie mansioni, ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, né l’adempimento di tali obblighi è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore.
Per quanto attiene, poi, alla denunciata abnormità  della condotta della persona offesa, i giudici del merito hanno escluso tale evenienza formulando uno scrutinio adeguato e non illogico degli elementi di prova acquisiti
in merito alla mancata dimostrazione dello stato di alterazione alcolica del lavoratore. In conclusione, l’impugnazione deve essere, nel suo complesso, rigettata, restando intatta l’accertata responsabilità civile dell’imputato. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali.


Lavoro durante il congedo straordinario: è legittimo il licenziamento

Cass., sez. Lavoro,8 luglio 2022, n. 21773

Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con la sentenza n. 21773 dell’8 luglio 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente sorpresa, durante il periodo di congedo straordinario
concessole (per assistere la figlia portatrice di handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’art. 42, comma 5, D.lgs. n. 151/2001), a lavorare presso il negozio di cui era titolare il compagno, anch’egli dipendente della società.
In particolare, la Corte d’Appello di Bologna aveva respinto, in secondo grado, il reclamo proposto dalla lavoratrice, confermando la sentenza di primo grado con cui la donna si era vista rigettare l’impugnativa del licenziamento
per giusta causa intimato dal datore di lavoro per il motivo di cui sopra. La dipendente era stata colta sul fatto da parte di un investigatore privato, incaricato dalla società datrice di lavoro di pedinare il compagno della stessa, anch’egli proprio dipendente. Quest’ultimo, in particolare, era stato sorpreso a lavorare presso il medesimo negozio
– di cui era titolare – nel corso di un’assenza per malattia. A seguito del licenziamento e avverso le pronunce
dei primi due gradi di giudizio, dunque, la lavoratrice ricorreva in Cassazione con diversi motivi di doglianza.
Nel dettaglio, la dipendente riteneva che non fosse stato effettivamente individuato l’oggetto dell’onere probatorio in merito alla giusta causa di licenziamento, che la sentenza impugnata ha ritenuto essere stato assolto dal datore
di lavoro. Inoltre, la lavoratrice lamentava lo scarso approccio critico della Corte d’appello ai vari elementi di prova raccolti dal datore di lavoro: a dire della donna, infatti, la Corte d’appello avrebbe recepito “senza il necessario apprezzamento critico le relazioni investigative, le foto e i filmati alle stesse allegati, nonché le dichiarazioni
rese dagli investigatori escussi come testimoni, senza neppure rilevare le contraddizioni in cui questi ultimi sarebbero incorsi”.
Nell’ambito del terzo grado di giudizio, la Suprema Corte ha ritenuto inammissibili i motivi avanzati dalla lavoratrice e ha rigettato il ricorso. Nel dettaglio, i giudici hanno ritenuto che, in secondo grado, i giudici di merito non abbiano considerato gli elementi suddetti come facenti piena prova, bensì abbiano valutato gli stessi “unitariamente agli
altri dati probatori acquisiti”, ritenendo che fossero, nel complesso, adatti a dare dimostrazione della condotta contestata alla lavoratrice mediante il licenziamento.


Legittimo il licenziamento del dipendente che si rifiuta di effettuare le visite mediche obbligatorie

Cass., sez. Lavoro, 13 luglio 2022, n. 22094

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione di Bologna conferma la legittimità del licenziamento comminato ad una dipendente che si è rifiutata di sottoporsi alle visite mediche obbligatorie. La vicenda prende il via dal primo esame della Corte di Appello di Bologna, che confermava la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede.
L’azienda datrice di lavoro licenziava la lavoratrice dipendente, in forza presso la società dal 10.11.2000 con mansioni di impiegata amministrativa livello 4°.
Il recesso era stato adottato, con missiva dell’11.10.2007, per giusta causa con riferimento alla lettera di contestazione disciplinare del 20.9.2017 in cui le era stato ascritto di essersi rifiutata di effettuare la visita medica
nelle giornate del 12.9.2017 e del 19.9.2017, nella prima circostanza adducendo l’inidoneità del luogo di svolgimento del controllo e, nel secondo caso, omettendo di presentarsi nel luogo ed orario del previsto espletamento. La lavoratrice impugna il licenziamento e si rivolge agli Ermellini, denunciando in primis la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 20 e 41 del D.lgs. n. 81/2008, in relazione all’art. 32 Cost., all’art. 2103 c.c. e all’art. 1460
c.c., ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3, c.p.c., per avere la Corte distrettuale erroneamente interpretato le suddette disposizioni che impongono al datore di lavoro di sottoporre il dipendente ad accertamenti sanitari in ipotesi di
cambio di mansioni e al lavoratore di sottoporvisi.
Sostiene, in primo luogo, che la visita medica disposta dall’azienda aveva la sola finalità di accertare l’idoneità della lavoratrice non allo svolgimento delle mansioni già assegnate e in corso di svolgimento, come previsto dall’art. 5 della Legge n. 300/70, bensì l’idoneità a svolgere le nuove mansioni di addetta alle pulizie assegnatele illegittimamente.
In secundo, la lavoratrice adduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per non avere considerato la Corte di merito,
ai fini dell’accertamento della sussistenza della giusta causa, da un lato, l’elemento soggettivo del comportamento connotato da buona fede e, dall’altro, la sproporzione della sanzione inflitta rispetto alla condotta contestata.
La Suprema Corte, nell’analisi delle motivazioni portate dalla lavoratrice, ritiene il primo infondato, in quanto la sorveglianza sanitaria comprende l’obbligo, per il datore di lavoro e per il lavoratore, di visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l’idoneità alla mansione specifica.
Essendo quindi la visita medica di idoneità in ipotesi di cambio delle mansioni prescritta per legge, la richiesta di sottoposizione a visita, da parte del datore di lavoro, prima della assegnazione alle nuove mansioni, come correttamente sottolineato dalla Corte distrettuale, non è censurabile e, anzi un adempimento dovuto.
Pertanto, il rifiuto della lavoratrice a non sottoporvisi, perché rivolto a contrastare un illegittimo demansionamento, è stato illegittimo. Nel ragionamento esposto dagli Ermellini, viene infatti sottolineato che la visita medica disposta era preventiva e prodromica all’assegnazione delle nuove mansioni; l’omissione di detta visita avrebbe costituito un colposo e grave inadempimento di parte datoriale. La reazione della lavoratrice non è giustificabile ai sensi dell’art. 1460 c.c. perché, da un lato, il datore di lavoro si era limitato ad adeguare la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell’espletamento delle mansioni
loro assegnate e, dall’altro, la dipendente avrebbe ben potuto impugnare un eventuale esito della visita, qualora non condiviso, ovvero l’asserito illegittimo demansionamento, innanzi agli organi competenti.
Il secondo motivo è altresì giudicato inammissibile, in quanto la giusta causa di licenziamento, integra una clausola generale che richiede che l’interprete la renda concreta tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi
alla coscienza generale. La buona fede, nel rifiuto a sottoporsi a tali visite mediche, non è stata rilevata dalla ricostruzione dei fatti documentale, e soprattutto dall’illegittimità del comportamento omissivo della dipendente,
punito anche con sanzioni penali, e lo scopo della condotta del datore di lavoro, finalizzata alla prevenzione rispetto alla sicurezza e salubrità nei luoghi di lavoro.Pertanto, il licenziamento viene confermato.


Obbligo di repêchage e dichiarazione di illegittimità in ordine alla tutela reintegratoria

Cass., sez. Lavoro, 6 luglio 2022, n. 21470

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Brescia, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra la società M.A.s.r.l. ed il lavoratore S.M. . Secondo i giudici di appello il licenziamento, derivando dalla perdita di un appalto di servizi e dalla necessità quindi di un’operazione di riorganizzazione del personale in forza da parte dell’azienda, era stato correttamente intimato per giustificato motivo oggettivo. Tuttavia, sempre secondo i giudici del merito, la società non aveva utilmente adempiuto all’obbligo di repêchage del lavoratore.
Come noto la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo comporta per il datore di lavoro la necessità di provare la sussistenza delle ragioni che portano alla risoluzione del rapporto di lavoro e l’inutilizzabilità
del lavoratore in altre mansioni analoghe a quelle precedentemente svolte.
Se sul primo aspetto i giudici ammettevano la sussistenza dei motivi di licenziamento (perdita dell’appalto), sul secondo, l’obbligo del repêchage, ritenevano che la società non avesse tenuto una condotta sufficientemente adeguata. In primo luogo, vi erano state nuove assunzioni di personale ad un livello di inquadramento e di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte dal lavoratore, senza che al dipendente fosse stata fatta alcuna proposta di demansionamento  al fine di evitare il licenziamento, ma oltre tutto S.M., all’epoca del recesso, svolgeva mansioni
non soppresse dalla cessazione dell’appalto. Sulla base di analoghi precedenti di legittimità ed in conformità alla reale sussistenza della perdita dell’appalto veniva dichiarato legittimo il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, ma con la condanna della società al pagamento di 16 mensilità della retribuzione globale di fatto.
Propone ricorso il lavoratore per la cassazione della sentenza, ricorso che viene accolto con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in diversa composizione. L’accoglimento del ricorso deriva dal fatto che “con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo
comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42,  lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente  alla parola «manifesta»;”.
Nel giudizio di cassazione, la dichiarazione di illegittimità di una norma di legge deve essere tenuta in conto qualora il giudizio di cassazione si fondi su norme modificate o addirittura espunte dall’ordinamento nel periodo
temporale tra la deliberazione della decisione e la pubblicazione della sentenza.In ragione di ciò il capo della sentenza impugnata che aveva negato la tutela reintegratoria deve essere cassato, onde permettere al giudice
del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il nuovo quadro normativo.


Anche se manca il verbale di accertamento contributivo la cartella esattoriale per omissioni contributive e lavoro in nero è valida

Cass., sez. Lavoro, 30 giugno 2022, n. 20825

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Si tratta del ricorso proposto da una impresa individuale avverso il giudizio di opposizione alla cartella esattoriale per omissioni contributive, in riferimento ad un maggior numero di lavoratori rispetto a quanto intimato, ritenendo
sussistente l’obbligazione contributiva per le ore di straordinario retribuite in nero. La parte ricorrente richiede la nullità della sentenza sostenendo che la Corte di merito avrebbe erroneamente ammesso dall’opponente l’identificazione di alcuni lavoratori non accorgendosi che gli stralci del ricorso recavano in realtà riferimenti a soggetti diversi. La Corte di merito aveva ritenuto identificati i lavoratori sulla scorta di atti e attività ispettive,
omettendo tuttavia di esaminare le puntuali allegazioni, fin dall’atto introduttivo, dimostrative che mai i predetti lavoratori sarebbero stati sentiti e individuati. Ancora, la parte ricorrente deduce l’omesso esame di un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, avendo la Corte di merito ritenuto la pretesa contributiva pari a 21 ore straordinarie effettuate nell’aprile 2006, omettendo di esaminare le censure incentrate sulla deduzione che il
predetto lavoratore non avesse mai ricevuto somme in nero. Pertanto è da ritenersi nulla la sentenza, in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare il motivo principale del gravame, incentrato sulla contestazione in
toto dello svolgimento del lavoro in nero. Ciò premesso, la pronuncia della Cassazione, concentrata in modo spiccato su questioni processuali, si annota in quanto mette in evidenza che i Giudici di merito avevano (invece)
tenuto in debita considerazione gli atti compiuti da tutti gli operatori in fase di accertamento ispettivo. Infatti, così si legge nell’ordinanza, “in ogni caso, la Corte di merito ha dato atto della dichiarazione del finanziere che aveva
proceduto agli accertamenti ispettivi unitamente agli ispettori degli enti previdenziali e valorizzato, altresì, la documentazione da questi, per relationem, richiamata, contabile ed extracontablie, quale il registro presenze con solo nome e storico dei dipendenti richiesti ai centro per l’impiego,  dando forma, pertanto, all’apprezzamento proprio del giudice del merito e al relativo convincimento formatosi sul compendio probatorio, insindacabile
in questa sede di legittimità”. La corte pertanto rigetta il ricorso.

 

 

 

 

 

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Sentenze

Il licenziamento ritorsivo di un giornalista: aspetti presuntivi

Cass., sez. Lavoro, 27 giugno 2022, n. 20530

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Il fatto riguarda un giornalista professionista che ha rivendicato, in via stragiudiziale, la natura effettivamente subordinata del rapporto per tutta la sua durata e il proprio diritto all’inquadramento come redattore. Inoltre, dopo
aver ricevuto dalla società comunicazione di recesso dal contratto di collaborazione, senza alcuna motivazione, impugnava il recesso, qualificato come licenziamento, chiedendo che fosse dichiarata la natura ritorsiva del provvedimento espulsivo, con le conseguenze di legge.
Il Tribunale di Firenze ha riconosciuto la natura subordinata del rapporto ritenendo il licenziamento illegittimo, formalmente per difetto di motivazione. Ha condannato di conseguenza l’editore a corrispondere al giornalista il risarcimento dei danni nella misura di 12 mensilità, riconoscendogli anche l’indennità sostitutiva del preavviso nella misura di 8 mensilità. La Corte di Appello di Firenze, con la sentenza impugnata, ha qualificato il recesso intimato
dalla società come ritorsivo, oltre che illegittimo per mancanza delle dovute formalità, costituito dalla reazione della società all’affermazione da parte del giornalista del proprio diritto alla regolarizzazione del rapporto di lavoro. Ha condannato la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirlo del danno derivante dal recesso
nella misura di tante mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, dovuta al lavoratore quante ne saranno decorse tra la data del recesso e l’effettiva reintegrazione, detratto l’aliunde perceptum. La retribuzione, nella
misura di euro 2.057,38, viene quantificata considerando la maggiorazione per 13^ e le altre maggiorazioni previste e tenuto conto della media di 30 articoli al mese redatti, secondo il minimo tabellare previsto dal Ccnl.
Sia il giornalista che la società propongono ricorso per cassazione.
Il giornalista rivendica il riconoscimento della qualifica di redattore e la quantificazione della retribuzione dovuta ai fini reintegratori; la società rivendica l’inesistenza di una prestazione di lavoro subordinato al momento
della risoluzione.
Per la Cassazione i motivi, trattati congiuntamente in ragione dell’intima connessione, sono tutti infondati: l’inquadramento da attribuire al giornalista rimane quello del collaboratore fisso secondo criteri coerenti e logici. Nel procedere all’inquadramento hanno esaminato e accertato che le disposizioni del Ccnl di settore, i caratteri del collaboratore fisso nella continuità della prestazione non occasionale, il vincolo della dipendenza e la responsabilità di un servizio con riferimento all’impegno di redigere articoli su specifici argomenti, fanno inquadrare il lavoratore come collaboratore fisso. Quanto poi alla contestazione della presunzione del licenziamento ritorsivo in base al
solo elemento della sequenza temporale tra la rivendicazione della prestazione di lavoro dipendente e la risoluzione del rapporto di collaborazione, spetta al giudice di merito  valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni
semplici e nel caso in esame il ragionamento presuntivo si fonda sulla reazione della società avvenuta a soli 6 giorni di distanza dalla ricezione della lettera di rivendicazione della natura subordinata del rapporto.
Entrambi i ricorsi sono rigettati con compensazione delle spese.


Esposizione all’amianto e risarcimento ai familiari: rileva anche il danno morale subito dal lavoratore

Cass., sez. Lavoro, 17 giugno 2022, n. 19623

Andrea di Nino, Consulente del lavoro in Milano

Con la sentenza n. 19623 del 17 giugno 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di risarcimento del danno biologico e morale dovuto alla prolungata esposizione di un lavoratore all’amianto. Gli eredi del lavoratore – deceduto a causa di una patologia collegata all’esposizione al materiale tossico – hanno lamentato la responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro per non aver attuato le dovute misure di prevenzione e tutela sul luogo di lavoro.
Nel caso di specie, è stato rilevato che il lavoratore fosse soggetto a due agenti cancerogeni differenti: il tabagismo, in quanto fumatore abituale che per anni avrebbe fumato 15-20 sigarette al giorno, e l’esposizione all’amianto,
in quanto lo stesso prestava attività lavorativa di saldatura. Ai fini della determinazione del danno patrimoniale,
la Cassazione ha corroborato l’interpretazione della Corte d’Appello che, in seconda istanza, ha evidenziato come esistesse un concorso di cause lesive che ha cagionato un evento unico e indivisibile. Alla luce della presenza
di un duplice fattore scaturente, i giudici hanno ritenuto di dover applicare il principio dell’equivalenza delle concause ex artt. 40 e 41 c.p., in quanto non risultasse possibile “effettuare una ripartizione causale tra i due fattori
cancerogeni, entrambi egualmente responsabili della causazione dell’evento dannoso”. Pertanto, risultando impossibile effettuare una corretta ripartizione causale tra i due fattori cancerogeni, gli stessi devono essere ritenuti
egualmente responsabili dell’aver cagionato l’evento morboso, conseguendone che non venga intaccata la ripartizione della responsabilità tra le parti, ma che questo impatti in modo considerevole nella definizione
dell’entità del danno, notevolmente ridotta rispetto alle richieste della famiglia.
Quale secondo motivo di ricorso, gli eredi hanno insistito per il riconoscimento del risarcimento da danno morale, deducendo come il lavoratore fosse consapevole di essere esposto ad agenti morbigeni e come il rilevare che molti
colleghi continuassero a contrarre gravi patologie di natura oncologica di entità tale da causarne sovente la morte avesse ingenerato in lui un’incertezza sul proprio vivere, modificando in peius la sua vita quotidiana e inducendolo a
sottoporsi a numerosi e periodici controlli medici.
Ciò aveva originato, nella mente del lavoratore, un assiduo ripensare alla possibilità di ammalarsi e poi,  probabilmente, morire. In secondo grado, però, la Corte d’Appello ha negato agli eredi il riconoscimento del danno
non patrimoniale a fronte di una mancata sussistenza del danno morale e/o esistenziale, ritenendo inapplicabile il ricorso alle presunzioni anche semplici e ritenendo che, al fine di delineare il danno non patrimoniale, questo
dovesse essere debitamente provato. La Cassazione, tuttavia, come già chiarito dalla sezione Lavoro con la sentenza n. 24217 del 2017, ha cassato la decisione di secondo grado, ritendendo che “il danno derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita e del diritto alla libera e
piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, rafforzati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 8, sottolineando, ancora, che la prova del pregiudizio
subito può essere fornita anche mediante presunzioni”. Da tale orientamento deriva che il danno biologico
dovuto ad uno sconvolgimento della normale vita privata e costituendo “un sofferenza interna del soggetto” si concretizza come “lesione di diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale”: pertanto, se presente e dimostrato anche attraverso l’uso di presunzioni, costituisce oggetto di risarcimento del danno.


Azione di regresso dell’Inail per commistione degli spazi di lavoro tra azienda committente e ditta appaltatrice

Cass., sez. Lavoro, 21 giugno 2022, n. 20043

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in  Milano

Corte d’Appello di Catanzaro ha accolto l’appello dell’Inail e, in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato in solido il datore di lavoro e l’appaltatore dei lavori, a versare all’Istituto la medesima somma che l’Istituto aveva erogato in relazione all’infortunio accaduto. La Corte territoriale ha accertato: che la società
datrice si occupava dell’estrazione e distillazione dell’olio di sansa ed essiccazione; che nei luoghi di lavoro insistevano due capannoni con struttura in cemento armato e metallo e che su uno di essi la società aveva
commissionato ad altra ditta l’esecuzione di opere di carpenteria metallica; che, al momento dell’incidente, gli operai dipendenti della appaltatrice stavano ultimando il montaggio delle lamiere di copertura su una torretta montata a ridosso del capannone, quando accidentalmente il lavoratore sottostante veniva colpito da un’asse di legno della lunghezza di circa 2 metri e mezzo. Il lavoratore infortunatosi, dipendente della società committente, si trovava a transitare nella zona sottostante la struttura in oggetto; che nel sansificio non erano presenti cartelli atti a segnalare
i lavori in corso, né il cantiere era transennato, in modo da impedire che persone non addette ai lavori potessero introdursi nello stesso, e neppure vi era una rete metallica di protezione intorno alla struttura ove gli operai stavano lavorando.
La mancata adozione delle necessarie misure di sicurezza (reti protettive attorno alla torretta, transenne o  segnalazioni del cantiere), nonché la evidente commistione degli spazi di lavoro tra l’azienda committente e la ditta
appaltatrice fondavano, secondo i Giudici di appello, la responsabilità di entrambe le società per l’infortunio verificatosi. Dal che derivava l’accoglimento della domanda di regresso sanzionata dall’Istituto. Avverso tale sentenza
il datore di lavoro ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. Con il primo motivo di ricorso viene dedotto che la fattispecie non sarebbe disciplinata dal D.lgs. n. 626 del 1994, art. 7, in quanto entrato
in vigore il 27.11.1994, mentre l’infortunio per cui è stata esercitata l’azione di regresso risale ad epoca anteriore (21.3.1994).
Quindi, in base alla disciplina applicabile ratione temporis, cioè il D.p.r. n. 547 del 1955, art. 5, non sarebbe configurabile un obbligo della committente di incidere sull’attuazione delle misure di prevenzione dei rischi connessi
all’attività della appaltatrice, dovendosi affermare la responsabilità esclusiva di quest’ultima nella causazione dell’infortunio in oggetto. Il motivo risulta fondato. La Corte d’Appello  ha errato nell’individuare la norma regolatrice del caso concreto, avendo affermato la responsabilità  degli appellati per l’infortunio occorso
al lavoratore colpito dall’asse di legno caduto dalla copertura, ai fini dell’azione di regresso dell’Inail, in base al D.lgs. n. 626 del 1994, art. 7, non in vigore all’epoca dell’infortunio, risultando applicabili, ratione temporis, le disposizioni
di cui al D.p.r. n. 547 del 1955. In tali disposizioni, come costantemente interpretate, come quelle in cui siano presenti più imprese, ciascuna con propri dipendenti, ed in cui i rischi lavorativi interferiscono con l’opera di altri soggetti, dovrà essere valutata la responsabilità delle parti private ai fini dell’azione di regresso dell’Inail.
Per tale ragione, accolto il primo motivo di ricorso e dichiarato assorbito il secondo, la sentenza impugnata viene cassata, con rinvio alla medesima Corte d’Appello, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio.


Devono essere retribuite le ferie non godute che il datore di lavoro non mette in condizioni di godere

Cass., sez. Lavoro, 6 giugno 2022, n. 18140

Elena Pellegatta,  Consulente del Lavoro in Milano 

Al termine del rapporto di lavoro, un dirigente medico ha agito nei confronti dell’Azienda Sanitaria Provinciale presso cui lavorava rivendicando il diritto all’indennità per ferie non godute all’atto della cessazione del
rapporto, in misura di 258 giornate, dell’indennità per 152 turni notturni di effettivo servizio svolti in rianimazione, nonché per dieci turni mensili di pronta disponibilità/reperibilità dal 2005 al 2009, ed un indennizzo per lo
svolgimento dell’attività di gestore dell’elisuperficie. La sua domanda, parzialmente accolta in primo grado di giudizio relativamente a ferie e reperibilità, veniva invece rigettata dalla Corte di Appello con la motivazione che, rivestendo la qualifica di dirigente, il lavoratore poteva organizzare autonomamente le proprie ferie, organizzare la turnistica di reperibilità da cui in quanto dirigente sarebbe stato escluso.
Ricorre alla Suprema Corte il dirigente medico. Con il primo motivo, in relazione alle ferie non liquidate, gli Ermellini considerano accolto il motivo di ricorso e riconoscono il diritto al pagamento delle ferie non godute. Riprendendo una recente cassazione (Cass., 2 luglio 2020, n. 13613) che argomentava come il dirigente, il
quale al momento della cessazione del rapporto di lavoro non abbia fruito delle ferie, ha diritto a un’indennità sostitutiva, a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo messo nelle condizioni di esercitare il diritto in questione prima di tale cessazione, mediante un’adeguata informazione nonché, se del caso, invitandolo formalmente a farlo. La Suprema Corte argomenta come anche in questo caso il lavoratore debba essere stato messo effettivamente nelle condizioni di esercitare il proprio diritto alle ferie e quindi sta in capo al datore di lavoro
l’invito formale a fruirne, in modo da evitare che l’esercizio del diritto sia interamente posto in capo al lavoratore, e che sempre il datore debba poi dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore
le potesse fruire.
La Suprema Corte ritiene fondato anche il secondo motivo del ricorso, ossia l’avere erroneamente escluso il diritto del dirigente di struttura complessa ad essere remunerato rispetto ai turni di pronta disponibilità svolti presso la rianimazione, trattandosi di turni dai quali tale figura non era esclusa dal Ccnl. applicato e che erano stati da lui concretamente svolti con riferimento al servizio di camera iperbarica. Infatti, la norma collettiva, rispetto ai soli servizi di reperibilità “integrativa” ne prevede lo svolgimento anche da parte dei dirigenti preposti alle
strutture complesse, evidentemente per assicurare una maggiore platea di personale rispetto a situazioni che, proprio per necessitare di quella tipologia di servizio, manifestano a priori la possibilità concreta di un più corposo e
rapido intervento medico. Non sarebbe dunque vero quanto affermato dalla Corte territoriale, ovvero che al dirigente non potesse spettare il diritto alla remunerazione, entro i limiti massimi previsti dal Ccnl e nella misura in cui
vi sia prova o non sia stata contestata la prestazione del corrispondente servizio. Gli Ermellini ritengono invece infondato il terzo motivo di ricorso, con riferimento a disimpegno  di turni notturni di guardia attiva e del
compenso per la gestione dell’elisuperficie, in quanto i dirigenti sono espressamente esclusi  da tale servizio in base al Ccnl, ed inoltre il servizio è ricompreso nell’orario di servizio, ordinario o straordinario, dei dirigenti medici.

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CESSIONE DEL QUINTO e pignoramento dello stipendio

 

Clarissa Muratori, Consulente del lavoro in Milano

Chi è il vero protagonista della scena? A proposito di protagonisti qualche mese fa ho sentito pronunciare la seguente
frase: “Ma come, tu scateni un alveare e ad essere punto sono io???”. È un’espressione che si presterebbe bene in
tante occasioni e una di queste mi pare proprio quella che ci accingiamo a trattare: il pignoramento dello stipendio.
Perché? Perché a causa di un altro soggetto, il debitore principale, il lavoratore dipendente appunto, un terzo, totalmente estraneo ai fatti, il datore di lavoro, si troverà gravato di una serie di obblighi che nulla hanno a che
vedere con la sua condotta. I motivi che ci impediscono di onorare i nostri debiti possono essere svariati e l’intento
non è certamente quello di dare giudizi in tal senso, no, qui l’intenzione è quella di evidenziare solo i fatti oggettivi: gli effetti del mancato assolvimento di un debito da parte di un soggetto determina, a carico di un altro, il datore di lavoro, una serie di adempimenti aggiuntivi e obbligatori il cui mancato rispetto è soggetto a sanzioni di non poco conto. E questo – senza ombra di dubbio – è un dato di fatto oggettivo.
Il diritto di credito, così come ogni altro diritto previsto dal nostro ordinamento, deve necessariamente essere tutelato attraverso strumenti seri ed efficaci, tuttavia che a garantirlo debba essere un terzo estraneo alla
generazione dei fatti stessi, probabilmente, è una condizione un po’ distante dal concetto di giustizia e di equità, ma tant’è.

ADEMPIMENTI MENSILI
Partiamo dall’inizio. Non appena ci viene notificato l’atto di pignoramento la prima operazione da compiere
è la dichiarazione giudiziale del terzo pignorato secondo quanto disposto dall’articolo 547 c.p.c., nulla di complicato per carità, salvo forse l’individuazione del netto medio mensile dello stipendio. A determinare tale valore concorrono anche somme che nulla hanno a che fare con la prestazione lavorativa, alcune addirittura per espressa previsione di legge impignorabili e incedibili, quindi nel  redigere la dichiarazione occorrerà tener presente questo aspetto. La dichiarazione dovrà poi essere inviata via PEC al legale del creditore e farà parte del fascicolo dell’esecuzione.
Non è l’unica dichiarazione che il datore di lavoro potrebbe trovarsi a redigere. Un’altra è la dichiarazione stragiudiziale proveniente dall’Agenzia della riscossione di cui all’art. 75-bis del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 602.
Si tratta di format già precompilati che occorre soltanto completare con una serie di dati, a volte minimi, talvolta un po’ più dettagliati. Ma non è tanto questo l’interessante, ciò che colpisce davvero è l’avviso riportato al loro interno:
in mancanza di risposta entro il termine di 30 giorni dalla notifica della richiesta, l’Amministrazione finanziaria procederà all’irrogazione di una sanzione da 2.000 a 21.000 euro circa, centesimo più centesimo meno.
Emessa la dichiarazione occorre procedere alla custodia e trattenuta delle somme pignorabili.
Di norma la quota pignorabile non può eccedere il limite del quinto dello stipendio netto che, come sappiamo, varia ogni mese.
Se devo gestire un solo pignoramento può essere seccante, ma fattibile, se mi trovo a gestirne un centinaio, già solo la variazione della quota mensile in ogni singolo cedolino paga di ogni singolo mese dell’anno per un significativo numero di anni è, solo essa stessa, un’operazione davvero gravosa. Ma non basta, se vi sono in corso ulteriori
pignoramenti di differente natura o cessioni del quinto dello stipendio precedentemente notificate, occorrerà fare riferimento all’art. 68 del D.p.r. 5 gennaio 1950, n. 180. Qui vengono trattate le differenti ipotesi di simultaneità
di debiti che prevedono un calcolo specifico a seconda dell’ordine cronologico con cui sono stati notificati gli atti.
In linea di massima è opportuno tenere presente che non è possibile aggredire più della metà dello stipendio netto.
La trattenuta della quota netta non esaurisce i compiti del datore di lavoro che, per fortuna in questo caso, senza essere obbligato ad effettuare alcuna indagine, dovrà applicare la ritenuta fiscale Irpef del 20 per cento a titolo
d’acconto sulla quota trattenuta, quest’ultima  infatti rappresenta reddito per il creditore salvo non dichiari espressamente di non procedere  all’applicazione dell’imposta.
La circolare dell’Agenzia delle entrate n. 8/E del 2 marzo 2011 ripercorre, tra i vari aspetti della materia, anche questo specifico obbligo. Tutte le volte in cui il datore di lavoro rivesta la qualifica di sostituto d’imposta e proceda
al versamento di somme costituenti reddito per il beneficiario, dovrà applicare la ritenuta d’acconto sulle stesse.
Seppure come anticipato il datore di lavoro non debba fare indagini di sorta circa le quote assoggettate a ritenuta d’acconto è pur vero che il prelievo fiscale dovrà avvenire solo nel caso in cui il creditore pignoratizio sia una
persona fisica soggetta ad Irpef. Nel caso di persona giuridica, oppure nel  caso di pignoramento promosso dall’Agente della riscossione alcuna ritenuta Ipef dovrà essere applicata, dato che nel primo caso il
creditore è soggetto a Ires e nel secondo caso, essendo i pignoramenti promossi dall’Agente della riscossione per la maggior debiti tributari, non è applicabile un ulteriore prelievo fiscale ai recuperi di imposta. Gli adempimenti mensili si concludono infine  versando al creditore la somma a lui spettante e col pagamento tramite modello F24,
secondo le scadenze di legge e in ossequio al principio di cassa, della ritenuta applicata sulla quota trattenuta a titolo di pignoramento.
In ultimo, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, è importante verificare la corretta gestione  della liquidazione degli emolumenti finali.
In linea teorica, prima di liquidare l’ultimo stipendio netto al lavoratore, si provvederà a trattenere la quota di un quinto dalle competenze finali e dal trattamento di fine rapporto a favore del creditore pignoratizio, salvo alcune
eccezione che verranno trattate più avanti.

ADEMPIMENTI ANNUALI
Gli adempimenti annuali sono più snelli, se così si può dire. Il datore di lavoro ha obblighi di carattere
certificativo e dichiarativo. Per le persone fisiche sarà necessario emettere una certificazione di lavoro autonomo intestata al creditore, sezione Somme liquidate a seguito di pignoramento presso terzi, in cui verranno
riportati il codice fiscale del debitore principale e le somme lorde che sono state trattenute. Se
fosse stata applicata anche la ritenuta d’acconto del 20 per cento occorrerà verificare la corretta
indicazione anche di tale dato. Per le persone giuridiche, posto che anche per tali soggetti sarà possibile emettere Cu in carta libera contenente gli stessi dati presenti nelle Cu di lavoro autonomo per i creditori persone fisiche, i dati relativi ai pignoramenti gestiti nel corso dell’anno saranno riportati nel modello 770, quadro SY.
Compiuto tutto ciò il datore di lavoro può dirsi liberato da ogni obbligo, salvo ripetere  tutte le operazioni descritte per un significativo numero di anni.

CONCETTO DI RETRIBUZIONE NETTA
Quando affrontiamo il tema della cessione del quinto o del pignoramento dello stipendio ci riferiamo automaticamente ad un valore di retribuzione netta, il cui importo è semplicisticamente determinato dalla retribuzione lorda meno le trattenute previdenziali e fiscali.
Ma quale è la retribuzione netta che può essere aggredita da tali debiti? Senza dubbio la retribuzione che il datore di
lavoro riconosce al lavoratore per la messa a  disposizione della sua opera manuale e intellettuale.
È pur vero però che ci sono degli elementi che transitano dalla busta paga, che determinano un netto a pagare, ma che non sono collegati alla prestazione lavorativa: ad esempio le somme riconosciute a titolo di trattamento
integrativo di cui al Decreto legge 5  febbraio 2020, n. 3, i risultati derivanti dalla presentazione del modello 730, oppure ancora  gli importi riconosciuti a titolo di assegni familiari, seppure ormai residuali rispetto all’avvento
dell’assegno unico, oppure, di recente istituzione, l’indennità una tantum di 200 euro introdotta dal Legislatore con il Decreto legge 17 maggio 2022, n. 50. Ebbene quando ci si appresta ad effettuare dichiarazioni o ad applicare
la trattenuta su di uno stipendio netto occorre neutralizzare elementi come questi.
Ecco quindi che un conteggio che apparentemente potrebbe sembrare scontato appare tutt’altro che banale, quasi insidioso.

CASI NON ORDINARI
A fianco a tutta questa pletora di adempimenti, obblighi e incombenze di cui deve farsi carico unicamente il datore di lavoro, in quanto il soggetto che ha generato il tutto nulla avrà da compiere, vi sono casi non ordinari che non seguono le regole predette e che quindi devono essere vagliati qualora ci si trovi, soprattutto in fase di liquidazione finale, e trattarne i relativi aspetti.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO ALL’EX CONIUGE ED AI FIGLI
Come noto l’Agenzia delle entrate ha affrontato il tema nella circolare 8/E del 2011 dove ha distinto la differente modalità di gestione a seconda che si conosca o meno la natura delle somme oggetto di pignoramento.
Qualora sia determinata la differente assegnazione delle somme oggetto di assegno di mantenimento, in parte per il coniuge ed in parte per i figli, sarà necessario sottoporre a tassazione la quota per l’ex coniuge, ma non
quella per i figli.
In termini di obblighi certificativi, le somme versate all’ex coniuge seguiranno le regole della Cu per lavoro dipendente in quanto assimilate a tale tipologia di reddito, con l’applicazione delle relative ritenute previste per legge, mentre per le trattenute operate a favore dei figli sarà sufficiente emettere una Cu di lavoro autonomo
sezione – somme liquidate a seguito di pignoramento presso terzi – evidenziando che le somme trattenute non sono state oggetto di ritenuta, in quanto tali somme non rappresentano un reddito per il beneficiario.
Qualora non si conosca la natura delle somme in termini di quota assegnata al coniuge o ai figli verrà attribuito il 50 per cento ad ognuno, seguendo le medesime regole appena descritte. Deroga: differente gestione in termini di ritenuta fiscale, impatti sulla determinazione del reddito fiscale del reddito del debitore, emissione
di due distinte CU.

AMMINISTRATORE DI SOCIETÀ PER AZIONI
Nel 2017 con una sentenza a sezioni unite la Cassazione (sent. n. 1545/2017) ha fatto chiarezza sulla qualifica da attribuire al rapporto giuridico tra amministratore e società. Nella sentenza si afferma che il rapporto di lavoro che
lega i due soggetti non può essere assimilato a quello di lavoro parasubordinato, ma deve necessariamente
essere ricondotto al rapporto societario, per tale ragione nessun limite tra quelli previsti all’articolo 545 c.p.c., norma riferibile ai soli rapporti di lavoro subordinato o ad essi equiparabili, può essere applicato al prelievo sul compenso dell’amministratore, compenso che risulta quindi totalmente pignorabile.
Deroga: nessun limite all’entità ammissibile di prelievo, il compenso di un amministratore diventa interamente pignorabile.

DECESSO DEL LAVORATORE PIGNORATO
In seguito al decesso di un lavoratore pignorato le somme quali Tfr e indennità sostitutiva del preavviso competono agli eredi ex articolo 2122 c.c. iure proprio. Tale norma rende gli eredi dei creditori ab origine ed in quanto tali avranno diritto a ricevere gli specifici emolumenti senza che vi  sia alcun prelievo a titolo di pignoramento. È
la norma infatti che in questo caso limita il diritto di credito.
Restano ovviamente soggette all’ordinario prelievo tutte le ulteriori somme maturate e non ancora versate a causa del decesso. Deroga: il trattamento di fine rapporto non rappresenta sempre una garanzia assoluta per
il creditore.

STATO CIVILE DEL LAVORATORE PIGNORATO
L’art. 12-bis della Legge 1° dicembre 1970, n. 898 prevede che il coniuge titolare dell’assegno di mantenimento, che non sia passato a nuove nozze, abbia diritto al 40 per cento del trattamento di fine rapporto maturato dall’ex
coniuge con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso col matrimonio.
Anche in questo caso è come se l’ex coniuge assumesse la qualifica di creditore ab origine e in quanto tale, qualora ne ricorrano i presupposti, verrà tutelato in fase di liquidazione del trattamento di fine rapporto, senza che l’atto di pignoramento possa avere alcun effetto rispetto al diritto vantato. Deroga: il trattamento di fine rapporto non
rappresenta sempre una garanzia assoluta per il creditore.

CONCLUSIONI
In conclusione qualora vi fossero ancora dubbi sull’imponente mole di lavoro aggiuntivo che anche un solo atto di pignoramento può portarsi dietro, la materia in generale appare, oltreché complessa nella sua gestione, disciplinata
da norme che coinvolgono figure assolutamente estranee ai fatti, i datori di lavoro. La ragione che sta alla base di tale scelta legislativa è la maggiore affidabilità in termini di recupero del credito che può garantire la figura del datore di lavoro rispetto al debitore  ed alla sua mera volontà di adempiere.  Che tuttavia ciò rappresenti, in termini di
equità, una corretta attribuzione dei carichi di lavoro è certamente tutto da dimostrare.

 

 

 

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Sentenze

Danno biologico differenziale, onere della prova e responsabilità oggettiva

Cass., sez. Lavoro, 30 giugno 2022, n. 20823

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda del lavoratore, condannava la datrice di lavoro al pagamento del danno biologico differenziale derivato dall’espletamento delle attività di lavoro svolte. La Corte di appello, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto le domande del lavoratore che ha condannato alla restituzione di quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado. La statuizione di rigetto è stata fondata sulle seguenti considerazioni:
a) la qualificazione della domanda sia in termini di responsabilità contrattuale che in termini di responsabilità  extracontrattuale comporta l’onere per il lavoratore della prova del danno alla salute, della nocività dell’ambiente
di lavoro, e della relativa connessione causale mentre sul datore di lavoro grava l’onere della prova dell’adozione delle cautele necessarie ad impedire il verificarsi del pregiudizio subito;
b) la verificazione del danno non è sufficiente a determinare l’insorgere dell’onere probatorio a carico del datore di lavoro in quanto la prova liberatoria a suo carico presuppone sempre che vi sia stata omissione da parte di questi nella predisposizione di misure di sicurezza suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno mentre non può essere estesa ad ogni ipotetica misura di prevenzione configurandosi in tal caso una responsabilità oggettiva;
c) i lavoratori, sui quali ricadeva il relativo onere, non avevano offerto prova di una specifica omissione datoriale nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza
e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il lavoratore, ha resistito con controricorso il datore e richiamato la domanda di manleva nei confronti della Compagnia assicuratrice la quale ha resistito con  controricorso. Tutte le parti hanno depositato memoria. Il lavoratore non aveva fornito sufficiente prova, della quale era onerato, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica necessarie ad evitare il danno oggetto della pretesa risarcitoria  azionata. In tale contesto, il riferimento alla estrema difficoltà per il datore di lavoro in ragione del lungo tempo trascorso di dimostrare il corretto adempimento degli obblighi di
prevenzione e sicurezza si configura quale argomentazione aggiuntiva ed ulteriore che non interferisce con il nucleo centrale del ragionamento decisorio fondato, in estrema sintesi, sul mancato assolvimento dell’onere probatorio asseritamente gravante sui lavoratori.

La Corte di appello, richiamati i principi in tecnica necessaria ad evitare il danno. Solo ove tale prova fosse stata offerta sorgeva per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato le cautele necessarie ad impedire il
verificarsi del pregiudizio subito; tale onere non era stato in concreto assolto.
Secondo la condivisibile e consolidata giurisprudenza di questa Corte infatti l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va
collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a
causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova
sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (ex plurimis: Cass. n. 15112 del 2020, Cass. n. 26495 del 2018, Cass. n. 12808 del 2018,
Cass. n. 14865 del 2017, Cass. n. 2038 del 2013, Cass. 12467 del 2003).
La Corte accoglie il terzo motivo, dichiara inammissibile il primo e rigetta il secondo assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello in diversa composizione cui
demanda di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.


Danneggiamento dei beni aziendali: il datore deve provare la condotta colposa del lavoratore e il lavoratore deve provare la sua non imputabilità

Cass., sez. Lavoro, 31 maggio 2022, n. 17711

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La vicenda prende avvio a seguito di un sinistro stradale che ha coinvolto un lavoratore, inquadrato nel 1° livello con mansioni di operatore ecologico anche con l’ausilio di veicoli, mentre si trovava alla guida di un mezzo aziendale lava-strade che, nei pressi di incrocio semaforizzato, perdeva il controllo del mezzo, che si ribaltava sul fianco destro. La Polizia Locale accertava l’assenza di fattori esterni che avessero potuto determinare il sinistro; il lavoratore riportava trauma cranico minore e poli-contusione con prognosi di 20 giorni e dichiarava di non ricordare nulla dell’incidente. L’azienda datrice di lavoro, dal momento che il preventivo di spesa per la riparazione dei danni era superiore al valore residuo del veicolo, rendendo così non conveniente la riparazione, poneva la macchina lava-strade definitivamente fuori servizio, irrogava al lavoratore la sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per 10 giorni e agiva in giudizio per il risarcimento dei danni sulla base di un rapporto dei propri uffici interni. In primo grado, il giudice rigetta la richiesta  dell’azienda datrice di lavoro, per difetto di prova del danno, in quanto il veicolo incidentato era stato messo definitivamente fuori servizio prima del giudizio e non erano stati chiariti i criteri in base ai quali gli uffici interni della società avevano quantificato il danno.
Di diverso avviso invece la Corte di Appello, secondo cui che la responsabilità del sinistro era da ricondurre a violazione dell’obbligo di diligenza di cui all’art. 2104 c.c.. La dinamica dell’evento, ossia la perdita di controllo del
mezzo da parte dell’autista, non era stata da questi contestata, e dal rapporto della polizia locale erano stati esclusi fattori esterni nella causazione del sinistro. Il sinistro doveva percio’  ritenersi avvenuto per imperizia del  lavoratore, che doveva pertanto risarcire l’azienda. Ricorre il lavoratore, ai sensi dell’art. 360, n. 3,
c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2104 c.c., adducendo che la perdita del controllo del mezzo è unicamente un dato oggettivo, non gli era stata elevata alcuna contravvenzione, era risultato negativo alla  presenza di alcool nel sangue e la rottamazione del mezzo incidentato prima del giudizio aveva impedito la possibilità di provare eventuali difetti meccanici o di manutenzione del veicolo.
Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729 c.c., 115 c.p.c., anche in relazione agli artt. 24, 111 Cost. per l’affermazione della sua responsabilità nella causazione
dell’incidente, sebbene la colpa non risultasse provata e con una motivazione generica. Il dato oggettivo della perdita di controllo del mezzo non avrebbe caratteristiche di prova presuntiva, essendo in contrasto con la mancanza di contravvenzioni elevate a carico del lavoratore. La suprema corte ritiene non fondati entrambi i motivi, e condanna il lavoratore a risarcire l’azienda.
La Corte di legittimità ha ribadito che, ai fini dell’affermazione della responsabilità del lavoratore verso il datore di lavoro per un evento dannoso, verificatosi nel corso dell’espletamento delle mansioni affidategli, il datore di
lavoro è tenuto a fornire la prova che tale evento sia riconducibile ad una condotta colposa del lavoratore per violazione degli obblighi di diligenza, mentre il lavoratore, a sua volta, è tenuto a provare la non imputabilità
a sé dell’inadempimento. Alla luce di tale  principio, i giudici di legittimità hanno, dunque, ritenuto condivisibile il ragionamento operato dalla Corte di merito, basato sulla valutazione delle prove raccolte, sull’apprezzamento degli elementi di fatto acquisiti agli atti, inclusi gli elementi presuntivi, valorizzando, nel caso in argomento, gli accertamenti della polizia locale.
In proposito la Corte non ha mancato di evidenziare che tra i compiti del giudice di merito rientra anche quello di valutare l’opportunità di fare ricorso a presunzioni, individuando i fatti da porre a fondamento della decisione,
una volta valutata la loro rispondenza ai requisiti di legge.
Quando il ragionamento decisorio, come nel caso di specie, non presenti assoluta illogicità e contraddittorietà, non occorre, quindi, che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile.

 


Dimissioni per fatti concludenti: il rapporto di lavoro si estingue anche in assenza della procedura telematica

Tribunale di Udine, 26 maggio 2022, n. 20

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Il Tribunale di Udine, con sentenza depositata il 26 maggio 2022, si è espresso in merito alla fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti e alla procedura di “dimissioni telematiche” di cui all’articolo 26 del
D.lgs. n. 151/2015.
In particolare, i fatti oggetto del contendere hanno visto una lavoratrice assentarsi dal lavoro per un periodo prolungato, in particolare dal 14 dicembre 2019 e per oltre i sei mesi successivi, senza alcuna giustificazione. A
fronte di tale circostanza, il datore di lavoro recapitava alla lavoratrice, tramite una lettera inviata il 12 giugno 2020, un invito formale a dimettersi. Dato il mancato riscontro della lavoratrice, l’8 luglio successivo veniva inviata al Centro per l’Impiego la comunicazione obbligatoria “Unilav” di cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni.
Detta risoluzione del rapporto di lavoro veniva però impugnata da parte della lavoratrice, in quanto mai erano state da lei rassegnate dimissioni, né comunque presentata la convalida in via telematica prevista dalla legge.
La stessa, inoltre, si dichiarava al contempo disponibile a riprendere l’attività lavorativa, previo risarcimento delle retribuzioni maturate e dei relativi contributi previdenziali dovuti per i mesi trascorsi dal momento dell’assenza fino al ripristino del rapporto di lavoro. L’assenza prolungata, in particolare, veniva motivata dallo stato di “prostrazione psicofisica” dovuto all’essere stata destinata alla “gravosa” attività di consegna delle vivande in determinati comuni, coerentemente all’attività economica svolta dal datore di lavoro. Dal canto suo, il datore di lavoro eccepiva come il rapporto di lavoro si fosse, in realtà, risolto per esclusiva volontà della lavoratrice, per evidenti fatti concludenti costituiti dall’assenza ingiustificata protrattasi per oltre sei mesi. Tale circostanza era avvalorata dalle confidenze esternate dalla stessa lavoratrice alla propria responsabile di unità, consistenti nell’intenzione di non rientrare più in servizio a seguito delle ferie, iniziate il 9 dicembre 2020, a causa
dell’insoddisfazione per il proprio lavoro. A dire del datore di lavoro, il dichiarato intento della dipendente era, dunque, quello di provocare il recesso datoriale e ottenere, di conseguenza, la Naspi.

In generale, ai giudici del tribunale è risultato innanzitutto incontroverso, nella vicenda in esame, il fatto che la lavoratrice si sia volontariamente assentata in via continuativa dal lavoro a decorrere dal 14 dicembre 2019, senza mai fornire, a riguardo, alcuna giustificazione e senza riscontrare, per un periodo di oltre sei mesi, le missive del datore di lavoro.
Difatti, nonostante la contestazione disciplinare del 31 dicembre 2019 – in cui alla dipendente veniva contestata l’assenza ingiustificata in essere dal 14 dicembre precedente – e la lettera del 12 giugno 2020 – in cui si prendeva atto della risoluzione in “in via di fatto” del rapporto di lavoro e si invitava la lavoratrice a “comunicare le sue dimissioni secondo la modalità telematica vigente” – la dipendente restava silente, confermando di non aver volontariamente dato riscontro a tali comunicazioni per dichiarata assenza di interesse.
La dipendente stessa aveva anche invitato la propria responsabile di unità a non metterla in turno nel periodo natalizio, poiché “non credeva di rientrare” e si aspettava che sarebbe stata la società, eventualmente, a “doverla licenziare”. Su queste basi, al giudice è apparso quindi evidente che la lavoratrice “abbia voluto porre fine al rapporto di lavoro con la società […] di sua iniziativa, avendo palesato tale intento […] alla propria responsabile e non essendo più rientrata a lavoro dopo le ferie”. Al di là della fondatezza delle motivazioni della lavoratrice, definite come “postume e piuttosto generiche”, il tribunale ha osservato “come proprio tali motivazioni siano un chiaro ed ulteriore indice dell’intenzione attorea […] di porre termine alla sua esperienza lavorativa”.

Il giudice osserva, inoltre, come, nonostante la modifica legislativa sopraggiunta nel 2015 in tema di dimissioni e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, lo scioglimento del contratto di lavoro per mutuo dissenso – e per
dimissioni in particolare – sia anzitutto fondato sugli artt. 2118 e 2119 c.c., i quali sanciscono la regola generale della “libera recedibilità” da parte del lavoratore, fatto salvo il periodo di preavviso. Tale libertà di recesso è rimasta immutata, pertanto la sentenza illustra che “le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015”.

Inoltre, il giudice evidenzia come la legge delega n. 183/2014 aveva previsto “modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore […]”.
Tale inciso – viene osservato – è rimasto totalmente inattuato nel D.lgs. n. 151/2015, il contenuto del quale, dunque, sembra poter essere disapplicato di fronte alla fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti

In definitiva, viene ritenuto irragionevole ritenere che, in caso di inerzia del lavoratore nel dimettersi, possa porsi fine al rapporto di lavoro soltanto mediante l’adozione di un licenziamento per giusta causa. In questo caso, infatti, verrebbe intaccata la “libera esplicazione dell’autonomia imprenditoriale” ex art. 41 della Costituzione, sia in termini di rischi (la giustificazione in un ipotetico giudizio) che di costi (c.d. ticket Naspi) e, non da ultimo, si
materializzerebbe una “ingiusta sottrazione di risorse” da destinarsi solo a vantaggio di quei lavoratori con effettivo diritto alla Naspi poiché disoccupati involontariamente. Sulla base di tutte le considerazioni commentate, il ricorso della lavoratrice veniva respinto e il rapporto di lavoro ritenuto cessato definitivamente.


 

Principio di effettività in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro: assume la posizione di garante colui che di fatto assume e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, se pur sprovvisto di regolare investitura

Cass., sez. Penale, 24 maggio 2022, n. 20127

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Il procedimento trae origine dall’infortunio occorso al lavoratore che formalmente era dipendente di una società cooperativa ma di fatto era impiegato presso un’altra società, in base ad un contratto di appalto stipulato tra le due società, con mansioni di facchinaggio e stoccaggio. Il lavoratore, azionando una macchina con grossi cilindri accoppiati (denominata masticatrice) che serviva per formare lastre sottili di para destinata alla produzione di mastice, rimaneva con la mano schiacciata tra i due organi in movimento, subendo di conseguenza l’amputazione del primo e del secondo dito della mano destra. Al lavoratore veniva riconosciuta una invalidità del 21% ed una
pensione di circa 330 euro mensili.
La sentenza aveva condannato il Presidente del CdA, il consigliere delegato alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e il responsabile della produzione, alla pena di reclusione (6 e 4 mesi) oltre al risarcimento dei
danni da liquidarsi in separato giudizio civile. La condanna degli imputati si è basata sui seguenti elementi:
1) il lavoratore aveva azionato il macchinario avente un quadro comandi distante 4 metri e arrestandolo con un dispositivo di sicurezza dal funzionamento non intuitivo per averlo imparato da altri, risultando impossibile che
lo stesso lo avesse appreso casualmente per averlo visto fare da altri;
2) da escludere una manovra abnorme in quanto non è noto il motivo per cui il lavoratore avrebbe dovuto mettere in moto la macchina per inserirvi la para;
3) il macchinario era vecchio e non conforme alla normativa vigente e si trovava all’esterno
ed il quadro comandi era posto a circa 4 metri di distanza;
4) il dispositivo di sicurezza di cui era dotato il macchinario era una corda a strappo azionabile solo con un movimento volontario, inoltre al momento del controllo il cordino era anche allentato.
Gli imputati propongo ricorsi separati.
La Suprema Corte, valutando complessivamente le motivazioni delle sentenze di merito, che costituiscono un unico apparato motivatorio, conferma che le posizioni sono state compiutamente analizzate e delineate nei ruoli. Il Presidente del CdA, con delega al compimento degli atti di ordinaria amministrazione aveva sottoscritto il contratto di appalto nonché il documento unico di valutazione dei rischi da interferenza e quindi aveva messo a
disposizione i lavoratori della società appaltatrice presso la società committente, impiegati peraltro per mansioni diverse da quelle previste ed in assenza di coordinamento da parte del personale della società appaltante.
La Suprema Corte ricorda che la giurisprudenza di legittimità è costante nell’interpretare l’art. 299 del D.lgs. n. 81/2008 nel senso che l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, deve fondarsi non  già sulla qualifica rivestita ma bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale.
Con riguardo alla condotta del lavoratore, che in base al contratto di appalto doveva essere adibito a mansioni di facchinaggio o al più di pulizia dei macchinari, è stata oggetto di discussione da parte dei difensori degli imputati: da considerare se la condotta del lavoratore potesse essere ritenuta, se non una condotta abnorme, quantomeno una condotta esorbitante, ovvero al di fuori dall’ambito delle proprie mansioni e delle disposizioni impartite nel contesto lavorativo del momento. La sentenza di appello, confermando le conclusioni del giudice di primo grado, aveva ritenuto che il lavoratore fosse stato di fatto adibito all’utilizzo del macchinario e che proprio per le caratteristiche dello stesso, dispositivo di sicurezza dal funzionamento non intuitivo (un cordino posto in alto non attivabile con movimento involontario) ed un quadro comandi distante 4 metri non fosse possibile ipotizzare che si trattasse del primo approccio al macchinario.
In conclusione, i ricorsi sono rigettati con condanna al pagamento delle spese processuali.

 

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