LA MODIFICA DEL CCNL APPLICATO non necessita della sede protetta

Michele Siliato, Consulente del lavoro in Messina e Roma

 

La modifica del Ccnl applicato al rapporto di lavoro rientra legittimamente nella libera ed autonoma determinazione delle parti, senza che vi sia la necessità che l’accordo venga raggiunto in sede protetta.

Il caso è stato affrontato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 21 ottobre 2022, n. 31148, a seguito della sentenza della Corte d’Appello di Roma che, in riforma al giudice di prime cure, ha respinto la domanda di un giornalista pubblicista dipendente, relativa alla restituzione delle differenze retributive lorde percepite in esecuzione alla sentenza di primo grado derivanti dalla illiceità della modifica del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro. Innanzi agli Ermellini, il ricorrente deduceva:

  1. la violazione e la falsa applicazione dell’art. 27, comma 4, del Ccnl Radiotelevisioni private del 9 aprile 1994 e degli artt. 1362, 1363 e 2077, c.c., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la variazione di inquadramento contrattuale frutto di un accordo negoziale intervenuto tra il di- pendente e la società datrice di lavoro;
  2. la violazione degli 2077, 2103 e 2113, c.c., e dell’art. 12, comma 1, sulla legge in generale, relativamente alla violazione del principio di irriducibilità della retribuzione e per aver escluso, il giudice di seconde cure, l’applicabilità delle tutele contemplate dal citato articolo 2113;
  3. la violazione dell’art. 2033, codice civile, e dell’art. 38, P.R. 29 settembre 1973, n. 602, per aver, la sentenza di riforma, condannato il lavoratore alla restituzione delle differenze retributive al lordo e non al netto delle ritenute fiscali.

Quanto alle prime due doglianze, trattate congiuntamente dai giudici di Piazza Cavour, la Corte ribadisce, mantenendo la linea delle precedenti sentenze n. 3982/2014 e n. 21234/2007, che il contratto collettivo costituisce fonte eteronoma di integrazione al contratto individuale e che la sostituzione in via negoziale di una fonte collettiva ad un’altra si colloca al di fuori dell’ambito regolato dall’art. 2077 cod. civ. in tema di efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale.

Si noti, infatti, che il secondo comma, art. 2077, codice civile, prevede una sostituzione e – più genericamente – una relazione tra clausole difformi dei contratti individuali rispetto a quelle del contratto collettivo (sempreché più favorevoli), non potendo la sostituzione del Ccnl applicabile trovare i limiti posti dal richiamato articolo.

Il contratto collettivo – spesso solo richiamato nella lettera di assunzione con effetto di rinvio- agisce dall’esterno nel rapporto di lavoro quale fonte eteronoma di un regolamento concorrente con la fonte individuale rispetto al criterio del trattamento più favorevole ma che non si incorpora nel contenuto dei contratti individuali. Se ne deduce che la scelta della modifica della disciplina di negoziazione collettiva applicabile al rapporto di lavoro rientra nella libera negoziabilità delle parti e che – conseguentemente – decadono tutte quelle tutele che normalmente vengo- no protette dalla disciplina giuslavoristica.

Appare il caso di evidenziare un ulteriore d terminante passaggio della vicenda.

A nulla rileva, secondo i giudici, anche la disposizione del contratto collettivo richiamata tra i motivi del ricorso (dichiarazione a verbale art. 27, accordo del Ccnl Radiotelevisioni private del 9 luglio 1994) relativa all’esclusione dell’attribuzione di nuovi inquadramenti ai dipendenti in forza alla data di stipulazione del presente che godano, come condizione personale, della applicazione di altri contratti, valutata, dal ricorrente, alla stregua di una vera e pro- pria clausola di salvaguardia volta ad evitare mutamenti peggiorativi delle condizioni lavorative del comparto. Tale nota esplicativa delle parti sociali trovava ragione nella disciplina della emittenza che imponeva l’obbligo di una quota di informazione e del radiogiornale, con conseguente individuazione di nuove figure dedicate a detta attività, che hanno portato le parti sociali a rinviare a successivo accordo l’armonizzazione di tali nuovi inquadramenti nella relazione tra il nuovo ed il precedente contratto. Sul piano giuridico la disposizione del Ccnl non avrebbe potuto agire né avrebbe potuto limitare la possibilità di intervenuti nuovi accordi individuali, anche se relativi ad un assoggettamento volontario ad un determinato assetto contrattuale, in quanto – fatte salve specifiche disposizioni di legge – le parti collettive non possono interferire con la libera esplicazione dell’autonomia privata garantita dall’art. 1322 cod. civile.

Quanto alle tutele di cui all’art. 2113, codice civile, concernenti la necessità d’individuazione di una sede protetta, la norma fa salvi esclusivamente i diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi, sicché l’opzione negoziale del lavoratore di optare in favore di questo o di quell’ambito di contrattazione non può qualificarsi come un negozio abdicativo, non avendo, tale scelta, la possibilità di incidere su pregresse e specifiche situazioni di vantaggio già entrate nella disponibilità del lavoratore.

Appare il caso di rammentare che le modificazioni in peius per il lavoratore sono sempre ammissibili nelle ipotesi di successione di contratti collettivi con il solo limite – appunto – dei soli diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente. Anche nella pattuizione negoziale di sostituzione di una fonte collettiva in favore di un’altra, il lavoratore non può pretendere il trattamento retributivo tempo per tempo previsto dal Ccnl sostituito ma, al più, potrà cristallizzare la retribuzione percepita all’atto della modifica contrattuale intervenuta.

Diversamente, l’unico motivo meritevole di accoglimento – nel caso prospettato – è il terzo ovverosia quello concernente la restituzione di somme totali o parziali a seguito di riforma di una precedente sentenza adempiuta dal datore di lavoro. Nel caso di specie – come noto – il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore ha effettivamente percepito, non potendo pretendere la restituzione delle somme al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del lavoratore.

La pronuncia permette alcuni spunti di riflessione in merito all’avvicendamento tra contratti collettivi applicati al rapporto di lavoro e alla relazione che questi hanno rispetto al contratto individuale, affermando – preliminarmente – che i diritti derivanti da accordi individuali seguono senza soluzione di continuità il loro percorso.

In primis appare necessario distinguere le ipotesi in cui la variazione del Ccnl applicabile al rapporto di lavoro è disciplinata ex lege (si pensi alle ipotesi di operazioni societarie in genere) o sia il frutto di una valutazione delle parti stesse del rapporto, spesso riconducibile ad esigenze organizzative dell’impresa.

Nei casi di trasferimento d’azienda, la successione del Ccnl applicabile è regolamentata dal terzo comma, art. 2112, codice civile, a mente del quale il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti normativi ed economici previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali vigenti alla data del trasferimento e sino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. Sostituzione che avviene esclusivamente tra contratti collettivi del medesimo livello. Possiamo, dunque, affermare che, in dette ipotesi:

  • laddove il cessionario non applichi alcun contratto collettivo, lo stesso darà corso al Ccnl applicato dal cedente fino a scadenza;
  • laddove il cedente non applichi nessun contratto collettivo, il cessionario applicherà il proprio Ccnl;
  • nel caso in cui il cedente abbia applicato un Ccnl diverso da quello del cessionario, il rapporto proseguirà con il Ccnl del cessionario;
  • qualora il cedente applichi un Ccnl in convivenza con un contratto collettivo aziendale, mentre il cessionario non è dotato di alcuna contrattazione aziendale, si applicherà il Ccnl del cessionario ed il contratto collettivo aziendale del cedente fino a scadenza;
  • laddove entrambi, cedente e cessionario, applichino un Ccnl e siano dotati di contrattazione collettiva aziendale, dovrà essere applicato il Ccnl del cessionario ed il contratto collettivo aziendale complessivamente più favorevole per il lavoratore;
  • qualora vi siano, invece, particolari operazioni societarie – come l’ipotesi della fusione per incorporazione di più società in una NewCo – sarà fondamentale concordare con le oo.ss. la disciplina applicabile ai rapporti di lavoro individuando un unico contratto collettivo

La questione, invece, appare più complessa – come nel caso affrontato dalla Corte – nella fattispecie in cui la modifica del Ccnl applica- to al rapporto di lavoro sia riconducibile ad una scelta organizzativa-gestionale del datore di lavoro, dovendo distinguere – opportunamente – le ipotesi in cui il datore di lavoro sia o meno iscritto ad una associazione datoriale. Qualora il datore di lavoro non abbia conferito mandato a taluna organizzazione sindacale ed abbia espressamente specificato nella lettera di assunzione l’applicazione o il rimando ad una specifica contrattazione nazionale, troveranno applicazione le tutele di disciplina generale riconducibili al sopracitato comma 2, art. 2077, sicché eventuali modifiche unilaterali apposte dal datore di lavoro – anche supportate dall’ausilio delle rappresentanze sindacali – non potranno incidere negativamente sul trattamento del lavoratore. Invero, seppur è spesso necessario l’intervento del fatidico e complesso accordo di armonizzazione tra due discipline di derivazione collettiva che regoli le modalità di transito verso il definitivo passaggio al nuovo contratto collettivo, appare opportuno che singolarmente le parti coinvolte nel rapporto di lavoro addivengano ad un nuovo accordo negoziale di transito alla nuova regolamentazione collettiva. D’altronde, la modifica del regime economico-normativo che opera dall’esterno rispetto ad un rapporto di tipo civilistico – prescelto in fase di assunzione – e che stabilisce la soglia minima generalmente applicabile al rapporto stesso, non può che essere oggetto di appositi accordi negoziali di variazione del rapporto di lavoro che vedano coinvolte le originarie parti contraenti, senza che, la parte sindacale, possa sostituire clausole contrattuali di cui essa stessa – sostanzialmente – non è parte. Accordo che, come ricordato dagli Ermellini, non necessita della sede protetta per i motivi di cui sopra. Resta ovviamente fermo lo zoccolo duro dei c.d. diritti quesiti ovverosia quei trattamenti definitivamente entrati nella sfera patrimoniale del lavoratore ed insensibili a vicende successorie esterne.

Diversamente, laddove il datore di lavoro abbia aderito ad una specifica organizzazione datoriale sarà necessario che lo stesso comuni- chi formale disdetta all’associazione, prima della scadenza del Ccnl applicato, per poi informare di detto recesso i lavoratori e le eventuali rappresentanze sindacali aziendali. In tal caso, infatti, la parte sociale datoriale ha operato in qualità di mandante ai sensi dell’art. 1704, codice civile, obbligando il datore di lavoro mandatario ad applicare il Ccnl di categoria sottoscritto. Si rammenta che, da conforme ed unanime giurisprudenza, la cessazione di applicazione di un contratto collettivo per mandato può realizzarsi solo a seguito di disdetta da parte dell’associazione datoriale stessa ovvero per sopraggiunta naturale scadenza della parte economico-normativa. Appare, infine, necessario evidenziare che, in tale ultima ipotesi, non si dovrà tener conto di eventuali clausole di ultra-vigenza contenute nel Ccnl. La contestazione del mancato rispetto della procedura di disdetta anzidetta comporterà la possibile rivendicazione da parte dei lavoratori dei trattamenti di miglior favore contemplati dalle clausole rinvenibili nel Ccnl sottoscritto dall’organizzazione sindacale alla quale il datore di lavoro aveva conferito mandato.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

L’ULTIMA TENTAZIONE DELL’INPS*

di Mauro Paris, Avvocato in Belluno e Milano  

Alle note campagne ispettive di contestazione degli applicati Ccnl “pirata”, in luogo di quelli c.d. “leader”, e di loro sostituzione d’ufficio, si aggiunge adesso la pretesa dell’Istituto di disapplicare i Ccnl “leader” meno favorevoli -tra più Ccnl ammessi-, scambiandoli con quelli di migliore trattamento per i lavoratori. Una pretesa che non trova fondamento nella legge e riconoscimento nella giurisprudenza, ma che deve allertare gli operatori a un’attenta vigilanza e a pronte risposte difensive.

 

Era già nota l’idiosincrasia dell’Inps per i contratti collettivi cosiddetti “pirata”, quelli sottoscritti da organizzazioni e associazioni ritenute meno rappresentative delle categorie di riferimento, per cui l’Istituto è solito operare sostituzioni d’ufficio del Ccnl “meno rappresentativo” con quello “più rappresentativo” (il c.d. contratto “ leader”).

La circostanza che non venga quasi mai fornita effettiva prova (in effetti diabolica, allo stato) della minore o maggiore rappresentatività di coloro che hanno sottoscritto il Ccnl, in genere, con diverse argomentazioni, non viene ritenuto neppure rilevante (come indubbiamente, altrimenti, dovrebbe essere) dai Tribunali. Spesso l’Inps non è neppure in grado di garantire prova univoca e compiuta del minore trattamento retributivo (e, si sa, è questo il nocciolo sostanziale della faccenda) che consegue dall’applicazione del Ccnl “pirata”. Lo si disapplica di principio e basta.

La ragione giuridica dell’imposta compressione delle libertà sindacali -intese sotto forma di sostanziale limite alla discrezionale eleggibilità di contratti collettivi alternativi-, viene giustificata dai funzionari con la previsione di legge relativa al rispetto del “minimale” di garanzia, come stabilito dall’art. 1, Legge 389/1989. Quella per cui “la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’ importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale”. Cosa c’entra tale disposizione rispetto all’applicazione d’ufficio di un diverso Ccnl? Nulla, riguardando solo i trattamenti economici dei lavoratori.

Come è dato osservarsi, il precetto precitato, contrariamente a quanto reputa l’Inps, non ammette affatto la sostituzione d’emblée di un Ccnl, poiché inviso, con un altro più gradito, né tale sostituzione costituisce un’operazione che l’ordinamento ammette (tantomeno la Corte Costituzionale: cfr. sentenza n. 51/2015). In astratto, perciò, dovrebbe essere solamente offerta la garanzia di un trattamento economico non inferiore a quello stabilito dal con- tratto collettivo concluso da parti maggiormente rappresentative.

Quale sia il Ccnl firmato da OO.SS caratterizzate da maggiore rappresentatività nel settore, costituisce, beninteso, come detto, un’operazione ermeneutica meno piana di quanto solita- mente si vorrebbe fare intendere. Non solo per la difficoltà di provare chi sia più “popolare”. Ma pure per quella di rendere con correttezza i calcoli della misura del trattamento retributivo eventualmente deteriore, come pure per l’esigenza di assicurare una valutazione complessiva di quanto sia da considerare economicamente rilevante nella comparazione.

Come non bastasse, al già complicato rapporto tra contratti collettivi “pirata” e “leader”, si aggiunge oggi un’ulteriore “tentazione” da parte dell’Istituto. Quella di volere scegliere e applicare, tra più contratti “leader” egualmente validi ed applicabili nel settore, il “migliore”.

Vale a dire quello dal trattamento retributivo più favorevole per il lavoratore, ove l’inteso magiore favore atterrebbe solo alla retribuzione. Quale sia il trattamento complessivamente più vantaggioso per il lavoratore, va detto, è faccenda di tutt’altro che immediata comprensione, come conferma attenta giurisprudenza, interessando svariati aspetti, non inerenti solo alla retribuzione minima in sé, ma  alla valutazione comparativa di elementi e istituti ulteriori rispetto a quelli che costituiscono il cosiddetto minimo costituzionale.

Per l’Inps, i suoi funzionari e ispettori, pertanto, poco conta che il Ccnl sia stato sottoscritto indubitabilmente da associazioni e organizza- zioni comparativamente più rappresentative (come, anzi, viene spesso pacificamente riconosciuto). Accade, infatti, che nel corso di con- trolli sul lavoro, pure ammettendosi espressa- mente la natura “leader” del Ccnl già applicato dal datore di lavoro, si preferisca comunque sostituirlo con un altro Ccnl “ leader”, al fine di garantire un trattamento migliorativo di natura retributiva ai lavoratori.

In casi recenti, per esempio, la scelta ispettiva è caduta sul Ccnl Terziario, distribuzione e servi- zi in luogo del Ccnl per il personale dipendente da imprese esercenti servizi ausiliari, fiduciari e integrati resi alle imprese pubbliche e private (c.d. Ccnl Safi), da anni applicato da aziende. Stesso ambito di attività e coincidenza di da- tori di lavoro che possono naturalmente fare ricorso ai due Ccnl, in quanto conclusi e sottoscritti da parte di organizzazioni “più rap- presentative su base nazionale”, sebbene i trattamenti retributivi siano valutati inferiori nel secondo caso. Per cui, l’Inps, con proprio atto impositivo, in tali casi ha deciso di garantire il migliore trattamento possibile ai lavoratori, operando, come è ovvio, i recuperi di contribuzione sui maggiori imponibili individuati. Il principio di migliore trattamento retributivo del dipendente -diversamente dai principi di sufficienza e adeguatezza della retribuzione-, tuttavia, è frutto di un palese fraintendimento e risulta sconosciuto al nostro ordinamento. Vale a dire che ben possono esistere situazioni in cui le medesime mansioni e attività siano retribuite con compensi differenti.

Al riguardo, malgrado le pretese dell’Istituto, già esiste univoca giurisprudenza di segno opposto. Per esempio, in modo esemplare, il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 2625/2021, ha rammentato come

non esista nel nostro ordinamento un principio che imponga al datore di lavoro, nell’ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, posto che l’art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza e adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l’art. 3 Cost. impone l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non anche nei rapporti interprivati. (cfr.: Cass. 17 luglio 2007 n. 16015).

In generale, lungi da determinarsi automatismi in ordine all’applicazione necessaria del Ccnl “migliore”, è la stessa Suprema Corte che ribadisce come, nel rapporto tra contrattazione collettiva e articolo 36 della Costituzione, il legislatore tende a considerare, in linea generale, la retribuzione prevista dalla norma collettiva come il parametro comunque più idoneo a specificare quella garantita dalla disposizione costituzionale. Ciò avviene attraverso l’adeguamento di questo principio alle contingenze reali, non solo temporali (con una norma che mano a mano si rinnova), bensì spaziali (con il rilievo dato anche ai contratti territoriali). Ragione per cui la retribuzione prevista da una norma collettiva “valida” costituisce “presunzione” di adeguatezza ai principi di proporzionalità e di sufficienza.

In definitiva, i Ccnl “ leader” sono in ogni caso adeguati a regolare i rapporti di lavoro tra le parti.

E a conferma di ciò, e della non correttezza del- le denunciate azioni degli Istituti, anche di recente la Suprema Corte ha ribadito che sussiste la possibilità di applicare retribuzioni tabellari pure inferiori rispetto a quelle praticate in settori e ambiti affini (cfr. sentenza n. 1107/2022).

 

 

 

* L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

 

 

Preleva l’articolo completo in pdf

Maggiore rappresentatività oo.ss. PROVA ALL’INPS SOLO SE L’ECCEZIONE È SPECIFICA

Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano

 

La questione del riconoscimento di quali siano i Ccnl di sigle maggiormente rappresentative, conosce un nuovo capitolo con la significativa sentenza della Corte d’Appello di Bologna n. 759/2021. La quale, da un lato opera un revirement di proprie precedenti posizioni -imponendo l’onere della prova agli Istituti di previdenza creditori-, mentre dall’altro richiede che l’eccezione del debitore sia specifica e puntuale. Pena il ribaltamento dell’onere probatorio.

 

Il dibattito operativo, dottrinale e giurisprudenziale su quali organizzazioni sindacali  possano definirsi comparativamente più rappresentative nelle rispettive categorie sul piano nazionale appare oggi quanto mai aperto.
In difetto di interventi legislativi finalmente risolutivi e in grado di fornire parametri certi, con cui “misurare” la superiore rappresentatività di talune oo.ss. su altre, le questioni pratiche che ne discendono (su tutte quella relativa al rispetto dei minimali di retribuzione imponibile da riconoscere ai lavoratori, ex art. 1, D.l .n. 338/1989) appaiono ancora irrisolte. Che nel nostro ordinamento non sussistano, allo stato, Ccnl erga omnes (cfr. Corte Cost.,
sentenza n. 51/2015), dovrebbe essere per tutti una nozione chiara e  insuperabile. Tuttavia, la semplificata interpretazione e l’applicazione effettiva e omnibus che ancora oggi (soprattutto da parte degli Istituti di previdenza) si danno dei Ccnl c.d. leader, o presunti tali, dimostra come il tema non sia stato ben inteso.
Specialmente nelle sue reali problematicità e implicazioni e quantomeno non da tutti. La stessa giurisprudenza appare muoversi in modo ondivago nella materia, oscillando tra il ritenere sufficienti presunzioni e tradizioni storiche sulla conferenza sindacale di talune organizzazioni, all’ammettere che la maggiore rappresentatività su base nazionale delle oo.ss. stipulanti il contratto collettivo non è “un fatto notorio ex art. 115 c.p.c., trattandosi, tra l’altro, di un dato che può variare nel corso del tempo” (cfr. Tribunale di Pavia, sentenza del 26.2.2019, n. 80).
La “percezione” diffusa della maggiore rappresentatività -nella realtà dei fatti pressoché mai dimostrata dai soggetti che ne pretendono il riconoscimento- rende assolutamente incerte le scelte e posizioni delle aziende e
dei professionisti che le assistono, quanto alla scelta dei Ccnl da applicare e agli effetti che ne derivano.
Un’incertezza che si fa ancora maggiore alla luce della considerazione evidente che più potrebbero essere i Ccnl di organizzazioni maggiormente più rappresentative, e non uno solo, come comunemente si ritiene.
La giurisprudenza ha spesso inteso contribuire a offrire una certa stabilità alle vertenze, “surrogandosi” alla norma mancante e garantendo, di fatto, una sorta di status quo. Tuttavia, non sono poche le sedi giudiziarie che nel tempo hanno operato una revisione dei propri originari convincimenti e percorsi argomentativi sulla maggiore rappresentatività delle organizzazioni sindacali. Per cui, a fronte di passate sentenze “certe”, quanto alla
storica prevalenza di taluni soggetti e sigle sindacali, nel tempo -e soprattutto di recente-, come si potrebbe dire, si è “modificato il tiro” a favore di concezioni giurisprudenziali più possibiliste e pure più consone all’attuale (scarno) dettato legislativo e ai  responsi costituzionali.
Per esempio, è recente il caso del sostanziale revirement della Corte d’Appello di Bologna (sentenza n. 759/2021, pubblicata il 5.9.2022), la quale a fronte di precedenti e note decisioni in cui si negava di principio la maggiore rappresentatività di talune sigle, inerendone piuttosto la riferibilità alle restanti altre, ora riconosce (sia pure con le dovute “accortezze” che diremo) come sia chi pretende di applicare un diverso Ccnl che ne deve dimostrare il titolo.
Per esempio, con la sentenza n. 26/2015, la Corte d’Appello di Bologna confermava la posizione del Tribunale del medesimo capoluogo. Il quale, con le sentenze nn. 29/2011 e 228/2012, aveva stabilito che “poiché la finalità della legge è quella di assicurare che lavoratori del medesimo settore economico e produttivo non subiscano disparità di trattamento ai fini previdenziali, la retribuzione contributiva va determinata sulla base della maggiore  rappresentatività delle organizzazioni sindacali che hanno stipulato i contratti collettivi del settore in considerazione e, con la conseguenza che la circostanza che l’UNCI disponga di una rappresentatività all’interno del movimento cooperativistico non può essere considerato un indice di maggiore rappresentatività nell’ambito del settore economico e produttivo nel quale viene svolta l’attività produttiva del datore di lavoro.
Dunque, considerando che il contratto collettivo cui ha fatto riferimento l’INPS interessa un maggior numero di sigle sindacali tutte qualificabili cine maggiormente rappresentative, al pari dell’UNCI e della CONFASL, non vi è dubbio che la contribuzione previdenziale deve essere calcolata avendo come parametro di riferimento il trattamento retributivo previso dal C.C.N.L. multiservizi stipulato il 19 dicembre 2007, restando a tal
fine irrilevante che la cooperativa opponente fosse tenuta a retribuire i propri soci dipendenti con lo stipendio previsto dal contratto collettivo applicato in azienda”.

Una posizione netta che permetteva tra gli altri agli Istituti di previdenza di non dovere  neppure sforzarsi di giustificare l’operata indicazione d’ufficio di Ccnl, a dispetto di altri diversi applicati dal datore di lavoro. Eppure,
come noto, per legge l’onere della prova spetta pacificamente a chi si pretende creditore.
Tuttavia, oggi, intraprendendo una meritoria evoluzione pretoria, anche la Corte di Appello bolognese viene infine a confermare l’anzidetto principio, ammettendo che “è certo che sulla base dei criteri di ripartizione dell’onere della prova gravi sugli Istituti la dimostrazione che il contratto applicato dalla società opponente non sia quello
da considerare “leader” del settore in cui l’impresa datrice di lavoro opera quale condizione dimostrativa della sussistenza del credito contributivo vantato e agito a mezzo dell’emissione della carte… secondo i noti principi infatti anche nelle cause di accertamento negativo, l’onere probatorio della sussistenza del credito agito grava sul
creditore che è onerato dalla dimostrazione della sussistenza del credito sotto il profilo oggettivo e soggettivo”.
Tutto sembrerebbe chiarirsi, pertanto. Il creditore che intenda disconoscere un Ccnl di una organizzazione dotata di riconoscimento ministeriale di rappresentatività -come nel caso esaminato dalla sentenza n. 759/2021-, in effetti sarà chiamato a provare in positivo la maggiore rappresentatività di coloro che hanno siglato il Ccnl che altrimenti si intende applicare.
Dunque, per chi dovesse contrastare le posizioni degli Istituti sembrerebbe sufficiente potere “stare alla finestra” ad attendere che essi provino le proprie pretese. Una dimostrazione non certo facile, se non diabolica, come noto.
Ma al riguardo, proprio la predetta pronuncia prospetta una nuova e inaspettata visione del riparto probatorio, osservando come “Il punto di diritto di rilievo nella controversia non è, come detto, l’individuazione della parte su cui ricade l’onere della prova della maggiore rappresentatività delle oo.ss. stipulanti i contratti collettivi di settore, cioè sul deducente Inps, ma la sua declinazione in concreto”. Cosa significa?
A parere della Corte d’Appello di Bologna l’onere della prova si delineerebbe in concreto,
tenendo conto del grado di specificità dell’eccezione mosse, per cui nel ricorso introduttivo già si dovrebbe evincere “una contestazione diretta e specifica della maggiore rappresentatività delle oo.ss. dei cui contratti collettivi”. Per cui cosa dovrebbe affermare un ricorrente?
Per la sentenza, nella declinazione in concreto dell’onere della prova, assume rilievo l’indicazione di elementi presuntivi (quali quelli riferiti sempre, ex professo, dagli Istituti sull’apparente maggiormente rappresentatività delle parti firmatarie) cui si correla, come definito in giurisprudenza e dottrina, una sorta di ribaltamento dell’onere della prova: “di fronte all’elemento presuntivo sorge l’interesse pratico alla  smentita da parte dell’opponente”.
Cosa fa presumere che la “presunzione” semplice di maggiore rappresentatività basti a ribaltare l’onere della prova, non è dato sapere, anche nel caso in questione. A maggiore ragione, va osservato che di “fatti notori” in materia, pare proprio non ce ne siano poi molti.
L’effetto finale, malgrado il revirement giurisprudenziale e il riconoscimento dell’esigenza che sia il creditore a dovere provare la maggiore rappresentatività del Ccnl, rischia di essere che nei fatti si torni punto e a capo. Con
il presunto debitore chiamato ad “eccepire” in una forma tanto specifica e puntuale da costituire, tutto sommato, un vero e proprio indizio di “minore rappresentatività” del preteso Ccnl Leader.
Se riuscirà a tanto, però, come riconosce la Corte d’Appello di Bologna, il contribuente avrà costituito una “pista probatoria” che il Giudice non potrà eludere e dovrà indagare anche mediante i propri poteri ufficiosi.
“Ove la formulazione dell’eccezione dell’opponente non fosse apodittica ovvero il quadro probatorio non si fosse ricomposto, in senso favorevole all’allegazione fornita dagli Istituti sulla base del ragionamento presuntivo –che,
va rammentato, assume forza di piena prova dei fatti ove non idoneamente contestato– l’allegazione avrebbe di per sé costituito “pista probatoria”, cui dare seguito mediante l’esercizio dei poteri istruttori ufficiosi previsti in
primo grado dall’art. 421 c.p.c. e in sede d’appello dall’art. 437 c.p.c.

 

 

(*) L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

La difficile scelta del Ccnl da applicare in azienda: un percorso a ostacoli con poche certezze

di Gabriele Zelioli – Consulente del lavoro in Milano

Tutti noi Consulenti del lavoro ci siamo trovati almeno una volta ad affrontare la questione relativa al Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (Ccnl) da applicare in azienda. Normalmente il problema sorge all’atto dell’acquisizione di un nuovo cliente che deve procedere con le prime assunzioni, ma ultimamente questa valutazione emerge anche quando dei clienti “storici” si rivolgono a noi con un quesito e osservazioni quali ad esempio: “Ma io posso cambiare contratto collettivo?” oppure “Un mio amico che ha la stessa attività ha scelto di applicare il Ccnl tal dei tali che mi dice essere più conveniente”. Il tema è sicuramente causato dal recente  proliferare di Contratti Collettivi Nazionali. Come riportato da un recente reportpubblicato dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) i contratti collettivi depositati sono più di ottocento. Per capire maggiormente questa frammentazione osserviamo come esempio il settore metalmeccanico. In questo specifico settore vi sono più di trenta contratti collettivi depositati.

Ma perché si è arrivati a questa situazione? Come muoversi e come comportarsi davanti alle richieste del cliente e alla complessità normativa? Vedremo che la situazione non è affatto semplice.

Sicuramente ci sarà sorto un dubbio simile: “Ma io sono obbligato ad applicare un Ccnl? Quale convenienza ho nel farlo?” Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

Innanzitutto il Ccnl è quel contratto che viene sottoscritto dalle organizzazioni che rappresentano i datori di lavoro e dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Esso disciplina i rapporti di lavoro per tutti quegli aspetti demandati dal Legislatore o da esso non previsti. Solitamente i Ccnl sono composti da tre parti: parte economica, parte normativa e parte obbligatoria. Quest’ultima contiene le disposizioni che regolano i rapporti tra le associazioni che sottoscrivono il contratto. Sono contratti di diritto comune in virtù  della mancata attuazione dell’articolo 39  della nostra Costituzione[1].  Questo articolo disciplina la libertà sindacale, prevedendo anche la possibilità di ottenimento della personalità giuridica da parte dell’associazione sindacale a seguito di una particolare procedura di registrazione.

La mancata registrazione da parte delle rappresentanze sindacali comporta che i sindacati siano oggi delle associazioni di fatto.

Pertanto i contratti sottoscritti dalle parti sono contratti di diritto comune che vincolano solo i contraenti e coloro che esplicitamente o implicitamente vi abbiano conferito mandato.

Ciò comporta un’altra importante conseguenza relativa all’applicazione di alcune norme nel nostro ordinamento. Ci riferiamo in particolare all’articolo 2070 del codice civile[2] : un datore di lavoro può scegliere di applicare un Ccnl di un settore diverso rispetto a quello nel quale opera. Ad esempio, un’azienda con attività tipica del terziario potrebbe applicare un contratto del settore metalmeccanico.

Quanto disposto nell’articolo del codice civile significa che se l’azienda è iscritta all’associazione sindacale firmataria del Ccnl, dovrà applicare integralmente il contratto sottoscritto dall’associazione alla quale ha conferito mandato.

La gestione di questa informazione non è  sempre semplice. Tante volte il cliente non ci comunica se è iscritto a una associazione di categoria, oppure è iscritto contemporaneamente a più associazioni o, ancora più complicato, è iscritto a una associazione che è a sua volta iscritta all’associazione di categoria. In quest’ultimo caso il datore di lavoro è obbligato all’applicazione integrale del contratto collettivo.

Ma l’azienda non iscritta è obbligata ad applicare il Ccnl? E se sì quale? Sicuramente la nostra prassi è quella di suggerire al cliente l’applicazione di un Ccnl per poter gestire con più tranquillità alcuni aspetti essenziali. Non solo quelli più strettamente quotidiani della gestione del rapporto di lavoro, per la quale solitamente all’interno della lettera di assunzione effettuiamo il rimando alla contrattazione collettiva nazionale applicata in azienda.

Ciò che ci può spingere all’applicazione di un Ccnl è innanzitutto il fatto che la giurisprudenza, ormai consolidata, considera le retribuzioni dei Ccnl comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale quelle idonee al rispetto del dettato in Costituzione di cui all’articolo 36[3].

In seconda battuta possiamo ricordare che la retribuzione imponibile ai fini contributivi, ai sensi della legge n. 389/89[4], è quella dei contratti collettivi di categoria sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Si possono inoltre aggiungere due ulteriori riferimenti normativi molto importanti nel nostro ordinamento, che nell’ultimo periodo ci troviamo a gestire quasi quotidianamente. Basandoci solo su un criterio temporale di introduzione della norma dobbiamo fare riferimento alle condizioni per l’accesso da parte delle aziende di benefici e agevolazioni contributive e normative. Tra i diversi requisiti richiesti dall’articolo 1, comma 1775, legge 27 dicembre 2006, n. 296 vi è il rispetto dei Ccnl sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative.

Infine possiamo ricordare che nel D.lgs. n. 81/2015 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in materia di mansioni), così come modificato dal recente Decreto Dignità, si trovano numerosi rimandi e numerose possibilità di deroghe alla contrazione collettiva, nazionale, territoriale o aziendale. All’interno del decreto, precisamente all’articolo 51, il Legislatore offre una indicazione chiara di lettura dell’intero testo normativo: “Salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.”

Evidenziata quindi l’importanza dell’applicazione di un contratto collettivo per il datore di lavoro, sorge spontanea una domanda: ma quali sono i sindacati maggiormente rappresentativi?

A questa domanda non è possibile dare una risposta certa. Non ci sono attualmente strumenti a nostra disposizione per valutare correttamente quali sigle sindacali rispettino il requisito della maggior rappresentatività.

Come accennato all’inizio del presente articolo, il problema sta emergendo sempre più nella sua drammaticità. Nel contesto economico attuale e nella situazione di incertezza normativa si sono viste proliferare sigle sindacali che hanno dato vita a una molteplicità di contratti collettivi. Leggendo alcuni di questi testi ci si è trovati di fronte a retribuzioni inferiori rispetto ad altri Ccnl o addirittura a un numero di mensilità inferiore rispetto al contratto considerato solitamente leader in quel settore.

La prospettiva di un risparmio da parte del datore di lavoro potrebbe fargli gola. Tuttavia deve essere reso cosciente di tutte le problematiche che potrebbero scaturire dal mancato rispetto delle norme e degli obblighi illustrati in precedenza.

Infine aggiungiamo un ulteriore aspetto, anche questo di difficile applicazione anche da parte di operatori del settore, ma che ricopre sempre maggior importanza nei contratti. Ci riferiamo all’introduzione sempre crescente di soluzioni di welfare all’interno della contrattazione di cui i lavoratori possono beneficiare (casse sanitarie, enti bilaterali, ecc.) la cui collocazione all’interno del Ccnl non è mai chiara e pertanto è difficile capire se rientrano nella parte cosiddetta “obbligatoria” o se sono attratti nella parte economica.

L’individuazione dei sindacati maggiormente rappresentativi non sembra di facile e breve soluzione. Questa difficoltà genera sicuramente incertezza negli operatori, come i Consulenti del lavoro, che si trovano a gestire aspetti quotidiani dei rapporti di lavoro, e inoltre fa sì che venga meno una contrattazione di qualità tra le parti sociali.

Infatti in una situazione in cui il Legislatore demanda la regolamentazione o la possibilità di deroga alla contrattazione, sarebbe utile che le parti sociali trovino accordi costruttivi e virtuosi che permettano una gestione efficace ed efficiente dei rapporti di lavoro, senza ledere la dignità dei lavoratori (proponendo ad esempio retribuzioni al ribasso) o facendo leva sulle difficoltà economiche dei datori di lavoro attraendoli verso accordi cosiddetti “pirata”.

È essenziale pertanto che le parti sociali costruiscano relazioni che abbiano al centro il valore e la dignità del lavoro (sia dell’imprenditore che del dipendente) e che procedano anche alla definizione di una soluzione all’annosa questione della maggior rappresentatività, che permetterebbe sicuramente maggior certezza applicativa dei contratti.

[1] Art. 39. L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

[2] Art. 2070 c.c. (Criteri di applicazione). L’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore. Se l’imprenditore esercita distinte attività aventi carattere autonomo, si applicano ai rispettivi rapporti di lavoro le norme dei contratti collettivi corrispondenti alle singole attività. Quando il datore di lavoro esercita non professionalmente un’attività organizzata, si applica il contratto collettivo che regola i rapporti di lavoro relativi alle imprese che esercitano la stessa attività.

[3] Art. 36 Cost. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

[4] Decreto Legge 338/89 convertito in Legge n. 389/89, art. 1, co. 1: “Retribuzione imponibile, accreditamento della contribuzione settimanale e limite minimo di retribuzione imponibile”

La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo.

 

 

 

 

Preleva l’articolo completo in pdf 

Senza filtro – E se pensassimo ad una abilitazione/un esame di stato per chi sottoscrive i contratti collettivi?

di Alberto  Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna

 

Non si può più andare avanti così.

Non basta un legislatore spesso impreciso e quasi sempre equivoco, una giurisprudenza sempre più ondivaga, un pubblica amministrazione che nelle proprie indicazioni di prassi travalica immancabilmente i propri compiti, fornendo interpretazioni della norma a proprio uso e consumo.

Ci si mettono pure i sottoscrittori dei contratti collettivi a complicarci la vita.

E la cosa potrebbe anche non riguardarci se ci fosse permesso di ignorare quantomeno questi accordi collettivi. Invece i Ccnl vanno applicati, perché altrimenti non puoi ottenere il Durc… perché altrimenti non puoi sfruttare appieno determinati istituti contrattuali perché non ti verranno riconosciuti i benefici contributi perché rischi un contenzioso con il lavoratore a cui non hai riconosciuto una retribuzione proporzionata e sufficiente secondo il dettato dell’art. 36 Costituzione… ed infine perché sei passibile di contestazione per evasione contributiva calcolata proprio sulla teorica retribuzione prevista dai Ccnl stipulati dalle OO.SS. maggiormente rappresentative.

Già, maggiormente rappresentative. Ma rappresentative di che cosa? Forse della ignoranza giuridica ma soprattutto della approssimativa proprietà di linguaggio dell’italiano medio che fa fatica a spiegare cos’è un fuorigioco nel calcio?

È un dato di fatto e gli operatori del settore lo sanno bene.

Molto del contenzioso azienda/lavoratore si sviluppa nell’ambito della corretta applicazione dei trattamenti economici e normativi previsti dalla contrattazione collettiva. Inquadramento, maggiorazioni, indennità, permessi e soprattutto regolamenti disciplinari corrispondono spesso a discipline buttate lì alla bell’e meglio.

Per non parlare della fantasia che i rappresentanti aziendali e dei lavoratori mettono in campo per disciplinare i vari istituti, cercando di distinguersi da quella che ovviamente è considerata la mediocrità degli altri contratti collettivi.

Esattamente un anno fa, su questa rivista, avevamo trattato il caso del rinnovo del Ccnl Autoscuole chiedendoci se la fiducia posta dal legislatore nei contratti collettivi fosse ben riposta1.

Ma altri esempi possono essere citati perché la fantasia italica non ha limiti, sfornando le più strampalate discipline che con un briciolo di buon senso non sarebbero mai state sottoscritte.

Ad esempio il Ccnl Metalmeccanici Artigiani prevede che l’integrazione economica a carico delle imprese per i primi tre giorni di assenza sia dovuta solo in caso di malattie che raggiungano i sette giorni. A nessuno è sorto il dubbio che questo possa invogliare il lavoratore a fingere una gravità maggiore di quella reale per ottenere sufficienti giorni di prognosi che gli garantiscano il diritto al pagamento della carenza.

E nemmeno che il lavoratore, che ha conseguito la guarigione anticipata, non avrebbe alcun interesse a valutare un rientro al lavoro prima del previsto, ove questo gli farebbe perdere il diritto alla indennità economica per i tre giorni di carenza.

È un po’ come dire ai bambini che fare i capricci non serve per ottenere la caramella ma se i capricci diventano crisi isterica allora ne avrà un pacchetto.

Della serie “alla ricerca del risparmio illusorio”.

E va segnalato anche il Ccnl Autotrasporto merci che – prefiggendosi esplicitamente di disincentivare il fenomeno dell’assenteismo penalizzando le assenze dovute alle malattie che iniziano il giorno successivo a giornate non lavorative – prevede la riduzione del trattamento economico di malattia riferito ai primi tre giorni secondo una progressione che, via via, aumenta in base al numero degli eventi morbosi registrati.

Se quattro saranno gli episodi iniziati il giorno successivo a giornate non lavorative, l’integrazione a carico dell’azienda non sarà del 100% ma del 75%; per cinque eventi l’integrazione scende al 50%; al sesto spetta il 25%; dal settimo evento l’azienda non sarà più tenuta ad alcuna integrazione.

Opportunamente si è pensato di non applicare la disciplina ad alcuni eventi morbosi oggettivamente sussistenti (ricoveri ospedalieri, day hospital, day surgery e altre patologie), ricascando però nell’errore di escludere dal computo solo gli “eventi di malattia certificati con prognosi iniziale non inferiore a 7 giorni”.

Ma a prescindere da ciò – tenuto conto che il numero degli eventi viene calcolato considerando i 12 mesi precedenti, che la riduzione si applica solo dal quarto evento nell’anno e che si sta parlando di tre giorni di carenza – è palese la volontà di colpire le situazioni patologiche, che proprio perché tali non dovrebbero portare a risparmi (vedremo poi che tali nemmeno sono) di un certo rilevo.

Peraltro il riferimento ai 12 mesi calcolati a ritroso dall’ultima malattia insorta (secondo quindi l’anno solare mobile) costringe a controlli manuali che spesso i programmi paghe non riescono a gestire.

Ma ovviamente non basta. Si stabilisce pure che gli importi “trattenuti”, per effetto di “tali azioni”, saranno “redistribuiti” nell’ambito degli accordi di secondo livello previsti dall’art. 38 del Ccnl.

In questo caso – e sorvoliamo sulle imprecisioni terminologiche considerato che solo in ultimo si comprende che, ciò che apparivano specifici e differenziati trattamenti economici collegati alla diversa durata dell’assenza per malattia, sono di fatto delle trattenute retributive – i sottoscrittori si inventano pure la ridistribuzione di questa specie di “sanzione a presunzione assoluta”.

Ed è proprio questo che lascia basiti, questa voglia di complicarsi la vita, disponendo che il risparmio ottenuto dovrà essere opportunamente quantificato ed accantonato, per poi ridistribuirlo in sede di contrattazione di secondo livello, che avrà il compito di precisarne il come e il quando, le percentuali e i beneficiari.

Se poi la contrattazione territoriale o aziendale non venisse attivata, che fare di questi soldi non si dice.

Il nuovo Ccnl per i dipendenti da aziende dei settori Pubblici Esercizi, Ristorazione collettiva e commerciale e turismo

In data 8 febbraio 2018, tra la RIPE, l’Angem, la Lega Coop Produzione e Servizi, la Federlavoro e Servizi Confcooperative, l’AGCI Servizi e la FILCAMS-CGIL, la FISASCAT-CISL, aderente alla FIST-CISL, la UILTUCS UIL, è stato sottoscritto il nuovo contratto collettivo per i Pubblici esercizi.

I firmatari non sono certo, come vi vede, dei principianti ma organizzazioni avvezze alla contrattazione e che dovrebbero conoscere il mondo del lavoro, quello reale, e le relative dinamiche.

E probabilmente si sono pure affidati a professionisti per mettere nero su bianco gli accordi raggiunti dopo faticose discussioni e molte nottate in bianco. Ecco forse sta tutto lì, in quelle nottate in bianco, spesso su questioni di lana caprina, la spiegazione di ciò che oggi vogliamo commentare.

1. Un nuovo Contratto collettivo oppure no?

Subito un dubbio ci assale. Ma siamo di fronte ad un nuovo Ccnl oppure è solo un’operazione di stralcio della disciplina dei Pubblici esercizi dal vecchio accordo collettivo che era quindi una sorta di contratto plurimo (tre contratti in uno) firmato congiuntamente con FederAlberghi, per la parte Aziende alberghiere, e Faita, per la parte Complessi turistico – ricettivi dell’aria aperta?

La questione non è di poco conto perché nel primo caso l’applicazione dell’accordo Fipe comporterebbe una sostituzione del Ccnl applicato presso l’azienda con i noti problemi di armonizzazione tra quello di provenienza e quello di destinazione.

Non dovrebbe essere questo il caso, ma sul punto un minimo di chiarezza sarebbe stata apprezzata da tutti gli operatori.

2. La data di entrata in vigore

La prima cosa che notiamo è la data di entrata in vigore: il 1° gennaio 2018 pur a fronte della firma dell’accordo avvenuta solo l’8 febbraio.

La possibilità che a questa data qualche azienda abbia già elaborato i propri cedolini paga e pertanto possa essere costretta a rielaborare le retribuzioni e magari anche integrare la retribuzione già corrisposta al lavoratore non sfiora minimamente nessuno dei firmatari.

E se comunque la corresponsione degli arretrati creerà qualche difficoltà (pensiamo al conguaglio di straordinari e supplementare, di maggiorazioni domenicali o notturne, per lavoro festivo, per malattie e infortuni) non è un problema che li riguarda minimamente.

Del resto i Consulenti del Lavoro son pagati “profumatamente” anche per questo.

3. La disciplina della quattordicesima mensilità

Una formulazione poco felice di questa disciplina ha fatto sì che da subito si sia scatenato un dibattito circa l’esclusione degli scatti di anzianità dal calcolo della retribuzione utile ai fini della erogazione di questa mensilità aggiuntiva.

L’articolo 161 del nuovo contratto Fipe così recita:

1) Salvo quanto diversamente previsto all’articolo a tutto il personale sarà corrisposta una mensilità della retribuzione in atto al 30 giugno di ciascun anno (paga-base nazionale, indennità di contingenza, eventuale terzo elemento o quote aggiuntive provinciali, eventuali trattamenti integrativi salariali aziendali comunque denominati), esclusi gli assegni familiari e gli scatti di anzianità maturati.

Ora permettetemi una prima considerazione.

Cosa porta le parti, che stanno discutendo principalmente dei nuovi minimi contrattuali, a concedere da un lato ai lavoratori un aumento economico sui minimi contrattuali – che si rifletterà quindi su tutte le mensilità previste dalla contrattazione, quattordicesima compresa – e dall’altro lato intervenire proprio su quest’ultima riducendone la base di calcolo disponendo la sottrazione degli scatti di anzianità maturati?

Ti do con una mano e con l’altra mi riprendo parte del concesso. Quale ragionamento perverso è alla base di questa manfrina?

Entrando nel merito della disciplina della quattordicesima mensilità, è soprattutto il fatto di aver stabilito che dal relativo calcolo debbano essere esclusi gli scatti di anzianità maturati ad aver destato non poche perplessità.

Qualche commentatore ha sostenuto che d’ora in poi la sua quantificazione avverrà escludendo tutti gli scatti di anzianità, compresi quelli già maturati dal lavoratore e non solo i maturandi.

Altri hanno invece insinuato il dubbio – chi scrive è tra questi – che gli scatti di anzianità, esclusi dal computo della retribuzione utile per il calcolo della quattordicesima, sono esclusivamente i futuri, ovvero quelli che matureranno dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina. Senza entrare troppo nel tecnicismo si dovrebbe quantomeno considerare che diverso senso ha l’espressione “esclusi gli scatti di anzianità maturati” rispetto la formula esclusi gli scatti di anzianità”.

Tutto questo comporterà – tanto o poco – per il lavoratore una diminuzione dello stipendio, ovvero della sua retribuzione lorda annua? Poco importa.

Peraltro è facile immaginare che, ove venisse sposata la prima tesi (quella dell’esclusione di tutti gli scatti) ed il lavoratore anziano – quello che ha già maturato il massimo dell’anzianità prevista, quello che è una colonna portante dell’azienda – avanzasse recriminazioni per la diminuzione della paga sarà il datore di lavoro a porre rimedio con una integrazione economica volontaria.

Ma oltre il fatto di non aver pensato a certe dinamiche la cosa che più irrita è l’incapacità di comprendere l’assoluta necessità di utilizzare la massima chiarezza nel caso in cui, con un nuovo accordo collettivo, si intenda incidere negativamente sulle aspettative, soprattutto economiche, previste dal previgente accordo.

4. I maledetti copia-incolla

Va detto che questo contratto collettivo, vecchio o nuovo che sia, nasce da una costola del precedente contratto Turismo, da cui Fipe si era dal 2014 dissociata non firmando più i successivi rinnovi.

La tecnica utilizzata nella stipula è di fatto un copia-incolla del precedente accordo, del quale vengono modificati alcuni articoli. Nel fare questa operazione appare evidente come nemmeno ci sia preoccupati di leggere e rivedere le “castronerie” che già comparivano nei precedenti accordi.

Eppure la disposizione a cui ci riferiamo è proprio una di quelle oggetto di revisione e modifica, senza quindi che nessuno si sia accorto della bestialità che veniva riproposta.

Ecco che quindi, nell’individuare nella base di calcolo della quattordicesima mensilità, la retribuzione in atto al 30 giugno di ciascun anno (paga-base nazionale, indennità di contingenza, eventuale terzo elemento o quote aggiuntive provinciali, eventuali trattamenti integrativi salariali aziendali comunque denominati) escludendo gli scatti di anzianità maturati, i sottoscrittori si preoccupano di ricordarci che dalle mensilità aggiuntive vanno pure esclusi gli assegni familiari.

Si fa veramente fatica a credere ai propri occhi.

Quale rimedio?

Come si diceva in premessa “non si può più andare avanti così”. Questo paese merita più rispetto.

Più rispetto per il legislatore, che alla contrattazione collettiva affida la disciplina di moltissimi istituti contrattuali.

Più rispetto per la Pubblica Amministrazione e organi di vigilanza, a cui è affidata la verifica della corretta applicazione dei contratti collettivi anche in riferimenti a sgravi e benefici.

Più rispetto per i giudici del lavoro, che anziché alla deflazione del contenzioso, assistono impotenti ad un iperaffollamento delle aule giudiziarie.

Più rispetto per i lavoratori e per le aziende, che ai loro rappresentanti chiedono una regolamentazione non solo semplice ma certa dei loro rapporti.

Più rispetto per i professionisti, Consulenti del lavoro in primis, a cui è affidata la gestione delle dinamiche del complesso mondo del lavoro.

Perché di questo passo l’alternativa diventerebbe quella di un sistema dei Ccnl basato su un testo standard, sul quale le parti sociali andrebbero a riempire delle caselline vuote, inserendo importi, giorni, percentuali e valori economici in genere.

Una cosa che forse, a ben guardare, sarebbe aderente al principio che tutti i lavoratori sono uguali e che i diritti economici e normativi (parliamo di ferie, permessi, prova, preavviso, malattia, comporto) non possono essere condizionati dal settore in cui un lavoratore opera o peggio dalla voglia di stupire dei loro rappresentanti.

Riflessioni finali

Spesso assistiamo a battage pubblicitarie di sigle datoriali che ci dicono, in buona sostanza: “vieni a far elaborare le tue paghe da chi stipula il Ccnl”, con ciò sottintendendo una maggior capacità ed esperienza nel settore rispetto ad altri soggetti.

Certamente su un punto possiamo concordare: solo costoro sono in grado di comprendere appieno il senso di quanto scritto o meglio di ciò che avrebbero voluto scrivere. E sarebbero pure in grado, alla bisogna, di giustificare a posteriori il loro operato sulla scorta di una specie di unilaterale interpretazione autentica.

Volendo pensar male potremmo chiosare dicendo che tanta complicazione – ovvero scrivere i loro accordi in un linguaggio criptato, le cui chiavi sono in possesso solo di pochi eletti depositari della verità – potrebbe pure essere strumentale ad iniziative commerciali di questo genere.

Ma non vogliamo essere così maliziosi: per chi scrive tutto ciò è semplicemente il frutto di un pericoloso mix di superficialità e di incompetenza.

1 Borella A. “I contratti collettivi meritano veramente la fiducia del legislatore? Il caso del Ccnl autoscuole”, Sintesi, marzo 2017, pag. 3.

 

Preleva l’articolo completo in pdf