IL FINTO PART-TIME integra il reato di sfruttamento del lavoro

Michele Siliato, Consulente del lavoro in Messina e Roma

 

Contrattualizzare part-time lavoratori che svolgono la prestazione lavorativa a tempo pieno integra il reato di sfruttamento del lavoro previsto dall’art. 603-bis, Codice Penale. All’assunto è addivenuta la quarta sezione penale della Corte di Cassazione che, con la sentenza 24 giugno 2022, n. 24388, ha condiviso i precedenti gradi di giudizio nei quali è stato affermato che far figurare falsamente i dipendenti a tempo parziale, costringendoli ad accettare le condizioni imposte dal datore di lavoro a fronte della necessità di mantenere l’occupazione, è un comportamento idoneo a perfezionare il reato di sfruttamento del lavoro. Nel tentativo di arginare il fenomeno del c.d. caporalato, tutt’ora ampiamente presente specie in determinati settori produttivi, con la riformulazione operata dalla Legge 29 ottobre 2016, n. 199, all’art. 603-bis, Codice Penale, il Legislatore ha inteso ampliare il perimetro di operatività dell’incriminazione dalla fattispecie della “mera” intermediazione di manodopera organizzata mediante violenza, minaccia o intimidazione ovvero approfittando dello stato di bisogno o necessità dei lavoratori, a comportamenti direttamente riconducibili al fruitore finale della prestazione lavorativa.

Ad oggi, il delitto in esame si presenta come una norma di portata generale volta a punire tutte quelle condotte gravemente distorsive del mercato del lavoro che, sfruttando mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittano dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori e che realizzano una vera e propria condizione di sfruttamento.

Ai sensi dell’art. 603-bis, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

  1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti  collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle oo.ss più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionata rispetto alla qualità ed alla quantità del lavoro prestato;
  1. la reiterata violazione della normativa in materia di orario di lavoro, periodi di riposo giornaliero o settimanale, periodi di ferie;
  2. la sussistenza di gravi violazioni in materia di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro;
  3. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o a situazioni analoghe degradanti.

Gli anzidetti indici sintomatici, pedissequamente individuati dal Legislatore, consentono al giudice di orientarsi rispetto alla valutazione dello squilibrio tra le prestazioni effettivamente rese dal lavoratore e la rispondenza del trattamento rispetto al correlativo modello contrattuale o legale. Giacché non vi siano margini o confini ben delineati che possano incardinare la fattispecie delittuosa, avendo il Legislatore fornito solo indizi all’integrazione del reato, il che potrebbe – peraltro – essere vantaggioso per scongiurare perversi meccanismi più o meno delittuosi con tendenza all’eventuale sanzione amministrativa, il bene giuridico oggetto di tutela è certamente la dignità del lavoratore ed il relativo contrasto rispetto a gravi violazioni tendenti alla mercificazione dell’essere umano.

Il caso al vaglio degli Ermellini trae origine dal sequestro preventivo disposto dal Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Lamezia Terme nei confronti del legale rappresentante gravemente indiziato del reato di sfruttamento del lavoro. La ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale ha accer- ! tato in maniera dettagliata e circostanziata come tutti i lavoratori, dalla data della loro assunzione, fossero stati resi edotti della circostanza per cui avrebbero dovuto lavorare per un numero di ore superiore a quello previsto dalla contrattazione collettiva. Altresì, in costanza di rapporto, i dipendenti subirono una modifica unilaterale del contratto di lavoro da full-time a part-time, continuando a prestare la propria opera per le ore corrispondenti al contratto a tempo pieno e percependo una retribuzione debitamente riproporzionata alla percentuale part-time accusata. Il Tribunale accertava, inoltre, che i dipendenti non usufruivano di ferie e/o permessi retribuiti, lavorando – sostanzialmente – tutti i giorni fino a raggiungere, anche, le quarantotto ore settimanali durante i picchi stagionali. Tali risultanze venivano desunte dalle dichiarazioni rese dai lavoratori in fase di accesso ispettivo e dal raffronto tra i turni di lavoro e i documenti contabili elaborati dall’impresa. Tra le doglianze poste innanzi alla Corte di Cassazione, il ricorrente ha sostenuto che i rapporti di lavoro erano stati instauranti in data antecedente al 4 novembre 2016, giorno in cui è stata introdotta la fattispecie incriminatrice, sicché la disposizione penale non avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie.

Secondo il condivisibile assunto dei Giudici di Piazza Cavour, invece, il delitto di sfruttamento del lavoro è un reato istantaneo con effetti permanenti il cui perfezionamento si realizza anche attraverso l’impiego o l’utilizzazione della manodopera in condizioni di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno. Di conseguenza, dunque, la lesione del bene giuridico protetto permane finché perdura la condizione di sfruttamento e approfittamento, potendo, il reato, essere commesso anche dai datori di lavoro che abbiano assunto lavoratori prima dell’introduzione della norma penale e che abbiano continuato a mantenerli in servizio, in condizioni di sfruttamento, anche successivamente al 4 novembre 2016.

La sopradetta decisione è perfettamente in li nea con il tenore della norma e con l’intenzione del Legislatore ovvero con lo scopo di punire lo sfruttamento dei lavoratori. In tal senso, il reato, oltreché configurarsi all’atto dell’assunzione di lavoratori in condizioni di sfruttamento, richiede necessariamente che le anzidette condizioni si realizzino durante la gestione del rapporto di lavoro, protraendosi per tutto il tempo in cui le stesse contravvengano gravemente alle disposizioni di legge. L’ampia tutela ricercata dalla norma, infatti, prevede che il reato si perfezioni non solo all’atto dell’assunzione, ma anche nell’utilizzazione o nell’impiego di manodopera. Nella medesima pronuncia, quanto allo stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, la Corte ha riaffermato l’orientamento ormai consolidato secondo cui ai fini del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualsivoglia libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose. Al riguardo si rileva come anche il tessuto imprenditoriale o le c.d. condizioni ambientali possano costituire un importante indice valutativo del comportamento datoriale laddove, nel contesto socioeconomico di consumazione della vicenda, la (fittizia) libera pattuizione – quale accordo contrattuale di accettazione di una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorate – è sic et simpliciter riconducibile alla necessità di mantenere un’occupazione, non esistendo, nel predetto contesto, possibili reali alternative di lavoro. La sentenza in commento appare in linea con i precedenti orientamenti giurisprudenziali concernenti la rilevanza penale di talune condotte datoriali accomunate, generalmente, dall’incutere timore e forzare la volontà del lavoratore nel senso voluto dal datore di lavoro1.

Al riguardo, dall’analisi del tenore letterale dell’art. 603-bis, Codice Penale, assunto che il bene tutelato è la dignità personale del lavoratore, il reato di caporalato si configura ogni qualvolta siano rinvenibili le caratteristiche dello sfruttamento e dello stato di bisogno del prestatore di lavoro. L’intenzione del Legislatore non è quella di limitarsi alla mera attività di reclutamento, utilizzazione o impiego di manodopera (art. 603-bis, commi 1 e 2) al ricorrere delle condizioni elencate al comma 3 dello stesso articolo. L’accezione peggiorativa del termine sfruttamento pu  essere definita come quella forzatura della capacità produttiva per l’ottenimento di un vantaggio patrimoniale immediato, depauperandone risorse ed il rendimento futuro. Nell’alveo delle dinamiche lavoristiche, ai fini della configurazione del reato il predetto concetto di sfruttamento – che, come sopra esplicitato, appare attenere all’illiceità di un sistema di produzione nella tutela della concorrenza – deve essere correlato e connesso all’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore, con conseguente disvalore e lesione della dignità del singolo prestatore. In tal senso, l’impostazione ricercata dal Legislatore attribuisce al giudice la possibilità di indagare sull’attività effettivamente resa di volta in volta dal singolo lavoratore per poi verificarne la rispondenza rispetto al trattamento tutelato dalla legge o dal contratto collettivo.

Tale ricerca non deve consistere in un mero ed isolato inadempimento, sicché le inadempienze devono essere “sproporzionate”, “palesemente difformi” e/o “reiterate”. Violazioni che devono essere valutate rispetto alla posizione del singolo lavoratore e non già rispetto alla pluralità dei lavoratori impiegati. Lo sfruttamento, quale condotta accompagnata all’approfittamento dello stato di bisogno idoneo ad integrare il reato in commento, va inteso come depauperamento del rapporto tra la forza impiegata dal lavoratore e le condizioni assicurate dal datore di lavoro che, oltrepassando in maniera sistematica e reiterata i limiti posti dall’ordinamento a garanzia e tutela della prestazione lavorativa, pone in es sere situazioni di degrado della dignità del lavoratore, vuoi per spregio dello stato psico-fisico, vuoi per l’adeguamento a situazioni alloggiative umilianti, vuoi per l’obbligo di accettazione di condizioni lavorative gravemente lesive per il prestatore in ragione dello stato di necessità correlato all’impossibilità di reperire diverse condizioni lavorative.

Quanto ai profili penali della condotta datoriale, si noti che dalla lettura della sentenza in commento, dal giugno 2018 i dipendenti subirono una modifica unilaterale del contratto di lavoro, passando da un contratto subordinato “ full-time” ad un “part-time”. Tuttavia, nonostante la modifica del contratto, i dipendenti continuarono a lavorare per un numero di ore corrispondenti al contratto a tempo pieno, percependo la retribuzione prevista dal Ccnl relativa ai contratti part-time. Ebbene, senza voler entrare nel merito del giudicato, oltre a rinvenire la fattispecie contemplata dall’art. 603-bis, Codice Penale, che si integra, come detto, al realizzarsi dello sfruttamento del lavoro in stato di necessità o di bisogno del prestatore di lavoro, vi è un ulteriore fatto prodotto dal datore di lavoro ovverosia il fittizio accordo di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. A parere di chi scrive, non vi è, dunque, il solo sfruttamento del lavoro, bensì, probabilmente, anche la configurazione del reato di cui all’art. 629, Codice Penale, laddove il datore di lavoro mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La violenza o la minaccia citata nel reato di estorsione deve essere diretta a coartare la volontà della vittima affinché questa compia un atto di disposizione patrimoniale, sia esso positivo (donazione di una somma di danaro) o negativo (remissione di un debito), produttivo di effetti giuridici. Nel caso de quo, l’ingiusto profitto realizzato dagli indagati, corrispondente alle retribuzioni non erogate, è stato quantificato in oltre 186.000 euro. In punto di diritto, l’oggetto di tutela giuridica nel reato di estorsione è duplice: l’interesse pubblico di inviolabilità del patrimonio; la libertà di autodeterminazione. Sempre rimanendo sul caso in esame, l’evento finale della disposizione patrimoniale (la sottoscrizione dell’accordo di trasformazione del rapporto) proviene dalla stessa vittima e non è escluso che esso sia il risultato di una situazione di costrizione determinata da violenza o minaccia dell’agente che ha ridotto notevolmente il potere di autodeterminazione della vittima. In breve, il lavoratore, quale soggetto passivo dell’estorsione, poteva trovarsi nell’alternativa tra far conseguire all’agente il vantaggio economico noto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato. Al riguardo si evidenzia che la minaccia puo’  – in giurisprudenza – assumere notevoli sfaccettature, potendo presentarsi in forme esplicite o larvate, scritte o orali, determinate o indeterminate ovvero assumere forme di semplice esortazione o consiglio, sicché la sottoscrizione di un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente volto all’accettazione da parte di quest’ultimo a percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore di lavoro svolte (di dubbia libera pattuizione), non pu  escludere la sussistenza dei presupposti dell’estorsione mediante minaccia idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi, comunque, una possibilità di lavoro.

Le condivisibili e molteplici pronunce della Suprema Corte in materia di diritto penale del lavoro di censura a riprovevoli condotte datoriali evidenziano che, non sempre, le sanzioni di natura amministrativa sono idonee a contrastare gravi forme di illegalità che incidono fortemente sulla posizione del prestatore di lavoro subordinato. Stiamo, pian piano, assistendo ad un importante utilizzo dell’art. 603-bis, Codice Penale, che necessariamente innalza le tutele giuslavoristiche. A parere di chi scrive, derubricare o depotenziare gli effetti di una norma incriminatrice, anche a favore di nuove e contorti illeciti di natura amministrativa, non puo’  essere salutata con favore laddove questa rappresenta – com’è in effetti – l’unico strumento deterrente a riprovevoli condotte.

 

1. C. Caminiti, “La rilevanza penale delle condotte datoriali”, in questa Rivista, aprile 2022, pag. 18.

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L’ACCUSA DI CAPORALATO per lesione del trattamento retributivo*

Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano

 

Oltre alle ipotesi “tradizionali” per cui appare solitamente contestabile il reato di caporalato, da una attenta lettura dell’art. 603-bis c.p. emerge che anche la corresponsione consapevole di differenze minime di retribuzione può concretare l’ipotesi di sfruttamento del lavoratore, se ne è provato l’“assillo” economico. Con i relativi rischi di incriminazione per i datori di lavoro ed eventualmente pure per chi li assiste.

 

Anche la ritenuta non corretta applicazione di Ccnl sotto il profilo economico potrebbe fare emergere accuse di “caporalato” per i datori di lavoro ed eventualmente anche, in concorso o per favoreggiamento, dei professionisti che li assistono. Una prospettiva poco considerata, ma in effetti, oltre che emergente dal dato testuale, oggi fattasi particolarmente attuale dato l’interesse alla materia mostrato da Procure e Uffici del lavoro. Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro -a tutti meglio noto come reato di cosiddetto “caporalato”- è previsto dall’art. 603-bis, c.p..

Nella sua accezione più nota e conosciuta, esso afferisce alla condotta di coloro che reclutano e comunque utilizzano manodopera, facendola lavorare in “condizioni di sfruttamento” e “approfittando dello stato di bisogno”. Alla luce della più immediata ratio legis, la mente corre, giustamente, alle più gravi ipotesi di sfruttamento della manodopera, ad assolati campi di pomodori e ad acquartieramenti miseri e degradanti.

Tuttavia, la previsione dell’art. 603-bis, c.p., specie a seguito della modifica a opera della Legge 4 novembre 2016, n. 199, risulta più articolata e sottile di quanto non appaia alla prima impressione, tanto da meritare una maggiore attenzione quanto alle ricadute che essa pu  comportare. E non solo per i datori di lavoro e gli “intermediari”. Tra le ipotesi di ritenuto indice dello sfruttamento della manodopera, è dato osservarsi come attualmente sia annoverata, tra le altre, anche la corresponsione di retribuzioni che, in sostanza, non rispettano i “minimali” stabiliti per legge.

Così l’art. 603-bis, c.p. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque: 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;

  • utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; ! 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

  • la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  • la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; 2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; 3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro

Dalla lettura della previsione penale emerge come, tra le ipotesi di ritenuto soggiogamento del lavoratore, risiedano situazioni non insolite nella prassi, ma che non si manifestano in modi sempre univoci. E, comunque, di difficile ponderabilità.

Per molti aspetti sfuggenti possono infatti essere considerate quelle situazioni che attengono alla corresponsione di trattamenti economici non adeguati, per mancato rispetto della contrattazione collettiva.

Se infatti pu  dirsi palese lo sfruttamento in riferimento a situazioni di evidente squilibrio economico (es. in presenza di corrispettivi orari di € 2), appare più sottile la linea di demarcazione del lecito dall’illecito, allo stato dell’ordinamento, laddove si sia in presenza di una “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.

Ci si pu  interrogare, per esempio, su come debba essere ritenuta la “palese” difformità dai Ccnl degli emolumenti versati (se basta uno “scollamento” matematico, comunque sia -es. € 7,65 orari, anziché, € 7,85-, o se esso debba essere sensibile e più ampio). Ma pure quale genere di “reiterazione” di corrispettivi possa dirsi sufficiente a concretare il reato (due mesi? sei mesi?).

La crescente attenzione di Uffici del lavoro e Procure della Repubblica nei riguardi del “caporalato”, rende oggi più pressante l’esigenza di chiarire i termini della potenziale lesione del bene giuridico preservato dall’art. 603-bis, c.p..

Senz’altro non suscita difficoltà concettuali l’individuazione di coloro che possono venire puniti per illecita intermediazione e sfruttamento del lavoro, quali soggetti attivi. Chiaramente per l’imputazione del fatto non basterà ravvisare l’avvio o l’impiego del lavoratore, bensì occorrerà la presenza di due elementi oggettivi, rispondenti a condizioni fattuali, che andranno puntualmente provate: non solo lo sfruttamento del lavoratore, ma pure la presenza di un suo stato di bisogno. Quanto allo “stato di bisogno dei lavoratori”, che si rendono disposti a lavorare in condizioni disagevoli, non occorre versare in stato di assoluta indigenza, ma è sufficiente che i lavoratori considerati si trovino in una condizione anche provvisoria di carenza di mezzi idonei a fare fronte a esigenze primarie. In definitiva, in una situazione di “assillo” economico tale da compromettere fortemente la sua libertà contrattuale in ambito lavorativo (cfr. Cass. Pen., sentenza n. 10554/2021).

Così per la S.C., sentenza n. 7861/2022. Lo stato di bisogno non si identifica con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo e, cioè ! una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose.

Tanto non basta, per , per dirsi perpetrato il reato di caporalato. La condizione di difficoltà personale deve dare motivo a un oggettivo sfruttamento del lavoratore.

In tale senso, occorre precisare che il Legislatore ha scelto di punire non lo sfruttamento in sé, ma solo l’approfittamento di una situazione di grave inferiorità del lavoratore (sia essa economica, che di altro genere), che lo induca ad accettare condizioni proposte dal reclutatore o dall’utilizzatore, a cui altrimenti non avrebbe acconsentito (Cassazione Penale, sentenza n. 7861/2022).

Sostanzialmente, la condizione di sfruttamento punita dall’art. 603-bis, c.p. è quella che coincide con l’abuso cosciente della condizione personale del lavoratore, da cui consegue un ricercato vantaggio di chi recluta o utilizza la manodopera.

Così per la S.C., sentenza n. 25083/2021 L’art. 603-bis c.p. è caratterizzato dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio.

Date queste premesse sull’obiettività del reato, va osservato come l’art. 603-bis, comma 2, c.p. descriva una serie di generici indici obiettivi di sfruttamento.

Il primo di tali indici attiene, appunto, alla corresponsione di retribuzioni che siano proporzionate rispetto al lavoro prestato e di un compenso “palesemente difforme dai contratti collettivi… stipulati da organizzazioni più rappresentative a livello nazionale”. Come cennato, nessun indice matematico di riferimento viene offerto dal Legislatore quanto alla “sproporzione” rilevante, con ci  rendendo incerto (o, al contrario, sempre certo) quale debba essere lo “scarto” rilevante tra Ccnl e corrispettivo effettivo tale da potersi configurare lo “sfruttamento”. In sostanza, la disposizione in commento si rifà a una testuale nozione di “palese difformità” che nulla indica in ordine alla misura della divergenza, ma solo alla sua esistenza. Per cui, alla lettera, potrebbe astrattamente concretare la descritta ipotesi di sfruttamento anche un’evidente e perpetuata corresponsione di retribuzione inferiore, per esempio, a € 0,10 all’ora rispetto alla dovuta.

Dal dato testuale parrebbe perci  plausibile che mere divergenze concretino la “difformità” stabilita dalla disposizione. La quale circostanza aumenta oggi senza dubbio il rischio di valutazioni in malam partem per le aziende e i professionisti che le assistono. A volere trarre ogni dovuta conseguenza da quanto risulta affiorare dalla disposizione, infatti, il rispetto in ordine alla corretta “corresponsione di retribuzioni” dovrà, nella sostanza, venire valutato rispetto al minimale retributivo di cui all’art. 1, D.l. n. 338/1989. L’art. 1 predetto, come noto, stabilisce che “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non pu  essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale”.

Va per  osservato che chi è chiamato a valutare la correttezza dei corrispettivi -ossia Istituti e funzionari-, lo fa di norma con un raffronto su base mensile (come pare anche suggerire la lettera del comma 2, dell’art.

603-bis, c.p., che parla di “retribuzioni” al ! plurale), quando correttamente la verifica dovrebbero avvenire rispetto al periodo d’imposta, ad anno (cfr. Cassazione, sentenza n. 9169/2003; Tribunale Milano, sez. lav., sentenza n. 1306/2020). Ci  aumenta il rischio di vedersi accusati (pure) di “caporalato”. Anche la sovente insufficiente considerazione del principio di onnicomprensività delle retribuzioni percepite (cfr. TUIR) pu  aumentare il pericolo che le aziende ricadano nell’alveo dell’art. 603-bis, c.p.. Un rischio tecnico da non prendere alla leggera. In definitiva, seguendo l’interpretazione più diffusa in ordine al “minimale”, si potrebbe versare in una situazione di pacifico sfruttamento (per “corresponsione di retribuzione … difforme dai contratti collettivi nazionali”), per esempio, anche nel caso in cui per un certo tempo non si fosse corrisposta retribuzione per giornate di aspettativa non retribuita, ritenuta non giustificata alla stregua del Ccnl. Oppure, nell’ipotesi di chi applica un Ccnl valutato di organizzazioni sindacali non comparativamente più rappresentative nel settore di attività considerato.

Già la Circolare Inl n. 5 del 28.2.2019, relativa al contrasto al caporalato, aveva sottolineato l’esigenza della massima rappresentatività sindacale del Ccnl applicato, inserendovi, peraltro, indicazioni ulteriori che non trovano riscontro nella norma.

Così la Circolare Inl n. 5/2019 Al riguardo si ritiene utile precisare che la reiterazione va intesa come comportamento reiterato nei confronti di uno o più lavoratori, anche nel caso in cui i percettori di tali retribuzioni non siano sempre gli stessi in ragione di un possibile turn over. Inoltre, il riferimento ai contratti collettivi è evidentemente da intendersi ai contratti sottoscritti dalle organizzazioni “comparativamente” più rappresentative, il che costituisce elemento di maggior garanzia per i lavoratori. Ciò anche in ragione del fatto che ogni altra disposizione di legge emanata negli ultimi decenni, che richiede l’applicazione di contratti collettivi a diversi fini, fa espresso riferimento ai contratti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali “comparativamente più rappresentative a livello nazionale” (v. ad es. l’art. 54 bis, comma 16, del D.L. n. 50/2017, secondo il quale nell’ambito del lavoro occasionale in agricoltura “il compenso minimo è pari all’importo della retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata individuata dal contratto collettivo di lavoro stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”; oppure l’art. 7, comma 4, del D.L. n. 248/2007 secondo il quale, nel settore della cooperazione, vanno applicati “i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”).

Per cui, il tema della presunta maggiore o minore rappresentatività sindacale di quanti sottoscrivono i Ccnl -pressoché mai provata in concreto (cfr. TAR Lazio, sent. n. 8865/2014; Trib. Pavia, sent. n. 80/2019; Trib. Milano, sent. n. 596/2020; Trib. Napoli, sent. n. 1717/2020)- potrà divenire ragione o meno di incriminazione.

Malgrado l’incertezza attuale del dibattito su ci  che vada considerato maggiormente rappresentativo in termini di Ccnl, l’accusa di “caporalato” potrebbe sorgere dalla mera applicazione di un contratto collettivo ritenuto “sbagliato”. Una situazione che rischia di condurre a contestazioni e imputazioni arbitrarie, o comunque potrebbe essere difficile liberarsi. Del resto, contrariamente a quello che si crede comunemente, l’adeguatezza e la proporzionalità del trattamento retributivo, non corrisponde ad alcun precetto di necessaria applicazione del migliore trattamento retributivo previsto da pure legittimi Ccnl. Ci  in quanto i Ccnl di oo.ss. maggiormente rappresentative potrebbero essere molteplici e recanti importi differenti, ma comunque di valido riferimento.

Dando poi seguito a pedissequi e agevoli ragionamenti sulla materia, è facilmente prevedibile che l’Autorità giudiziaria potrebbe configurare il “caporalato”, per esempio, in molti casi in cui si ritiene l’appalto di servizi un’illecita fornitura di manodopera, venendo applicato (scientemente, si suppone, al fine di ottenere auspicati “risparmi”) dall’appaltatore un trattamento retributivo deteriore rispetto a quello migliorativo del committente. E ci , magari, facendo ritenere potenzialmente incriminabile il coinvolgimento di quei professionisti che con la loro necessaria attività di supporto tecnico -magari, nella sostanza, anche solo “tenendo i conti”- avrebbero agevolato, o comunque resa possibile, la condotta penalmente rilevante.

 

 

(*) L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

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SFRUTTAMENTO DEL LAVORO: il sequestro preventivo dell’azienda solo se ci sono concreti elementi di prova del reato

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano (*)

Il caporalato e lo sfruttamento del lavoro sono fenomeni che purtroppo continuano ad intossicare il nostro mercato del lavoro, soprattutto il settore agricolo; una piaga che il Legislatore, soprattutto nell’ultimo decennio, ha cercato di arginare affinando e differenziando le “armi di giustizia”, per non lasciare impunita alcuna ipotesi di irregolarità che mini la dignità della persona, dalla meno grave alla più odiosa. Per questo motivo, nell’attuale panorama giuridico, abbiamo ben tre norme che sanzionano altrettante fattispecie nelle quali può manifestarsi il fenomeno in esame, tutte richiamate e ben sintetizzate in una recente sentenza della Quarta Sezione penale della Suprema Corte che chiarisce non solo le differenti condotte perseguite dall’ordinamento, ma anche gli elementi probatori necessari per il loro accertamento1. Nella sentenza appena citata, i giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi in ordine ad un provvedimento di dissequestro di un’azienda agricola disposto dal Tribunale del Riesame di Cosenza: la misura preventiva era stata precedentemente autorizzata in conseguenza dell’indagine penale in corso nei confronti dei titolari dell’azienda, indagati per sfruttamento del lavoro (condotta prevista e punita dall’art. 603-bis c.p.). Secondo la prospettazione del Procuratore generale della repubblica di Cosenza, infatti, questi avrebbero impiegato braccianti in stato di bisogno, sottoponendoli a condizioni di sfruttamento concretizzatisi nella reiterata corresponsione di retribuzioni difformi a quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali di settore e comunque sproporzionate rispetto alla quantità e qualità di lavoro prestato, nella reiterata violazione della normativa sull’orario di lavoro, sui riposi, sulle ferie, nella violazione delle norme in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro, nella sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza e a situazioni alloggiative degradanti. In conseguenza dell’azione penale avviata nei confronti dei titolari dell’azienda era scattato il sequestro preventivo della struttura, misura cautelare con il precipuo scopo di evitare che il trascorrere del tempo necessario allo svolgimento del processo penale potesse pregiudicare irrimediabilmente l’effettività della giurisdizione espressa con la sentenza di condanna. È evidente che una misura di coercizione preventiva così invasiva non possa essere disposta se non ove sussista il c.d. fumus commissi delicti, ossia nel solo caso in cui vi siano elementi concreti che facciano apparire verosimile che un reato sia stato commesso.

Prima di spiegare i motivi di infondatezza del ricorso promosso dal Procuratore generale della Repubblica avverso il provvedimento che aveva annullato il sequestro preventivo dell’azienda – proprio per mancanza del fumus commissi delicti -, i giudici della Quarta Sezione penale hanno offerto una puntuale ricostruzione della normativa vigente in materia di sfruttamento di lavoro, soffermandosi in particolare sull’ambito di applicazione del reato punito dall’art. 603-bis. Tale norma si colloca nel mezzo di due altre disposizioni che sanzionano, una più duramente, l’altra in modo decisamente più blando, altrettante ipotesi di utilizzazione irregolare di manodopera. La condotta più odiosa e per questo punita con la pena più afflittiva (reclusione da otto a vent’anni) è la riduzione o il mantenimento in stato di soggezione, condotta che si attua mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona (art. 600 c.p.). Si tratta di una vera e propria riduzione in schiavitù del lavoratore, costretto – sotto la pressione di chi ha su di lui un’autorità tale da eliminare ogni forma di libertà personale – a lavori forzati, all’accattonaggio, allo sfruttamento delle prestazioni personali. La condotta sanzionata invece in modo meno grave è la somministrazione irregolare o fraudolenta di manodopera, che si realizza quando l’utilizzatore impieghi manodopera fornita da un soggetto non autorizzato all’intermediazione (somministrazione irregolare, art. 38, D.lgs. 81/2015), magari allo scopo precipuo di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore (somministrazione fraudolenta, art. 38-bis, D.lgs.81/2015). Tali condotte integrano un mero reato contravvenzionale ed espongono l’utilizzatore e il somministratore alla sola pena dell’ammenda, salva l’ipotesi di sfruttamento di minori, nel cui caso si aggiunge anche la pena dell’arresto fino a diciotto mesi. L’art. 603-bis c.p. si colloca esattamente tra le due disposizioni citate: le condotte punite sono l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, represse con la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato. In particolare, oltre al caporale, viene perseguito penalmente anche colui che “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione (…), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”. I giudici della Quarta Sezione penale ricordano la portata dei due elementi oggettivi che caratterizzano l’ipotesi di reato in esame, ossia, da una parte, lo “sfruttamento” e, dall’altra parte, l’“approfittamento dello stato di bisogno”. In particolare, quanto al concetto di sfruttamento, i giudici di legittimità ricordano che la norma offre una serie di indici dai quali poter desumere la sussistenza o meno di una condizione di sfruttamento dei lavoratori. Questi sono:

  1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
  2. la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
  3. la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Tali indici non definiscono, né esauriscono il concetto di sfruttamento, piuttosto forniscono all’interprete (dunque al giudice) delle linee guida che possono aiutare nell’accertamento in concreto della sussistenza di condizioni di sfruttamento. Dunque, il ricorrere di uno o più di tali indici non può lasciare automaticamente presumere la configurabilità dell’ipotesi di reato: questa deve invece essere vagliata in concreto, per comprendere la gravità delle violazioni perpetrate a danno dei lavoratori, nonché l’intensità e il grado di sfruttamento e di degrado cui siano state sottoposte le vittime. Infatti, come rimarcato dai giudici della Quarta Sezione Penale della Cassazione, solo significative alterazioni del rapporto di lavoro e un eclatante pregiudizio dei lavoratori può effettivamente integrare l’ipotesi delittuosa duramente punita dall’art. 603-bis c.p.. Quanto invece al secondo elemento oggettivo che caratterizza l’ipotesi di reato in esame, ossia lo sfruttamento dello stato di bisogno, la Cassazione sottolinea come per “stato di bisogno” non debba intendersi uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualsiasi libertà di scelta, bensì una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose. Anche questa condizione deve necessariamente essere provata in modo puntuale e concreto, tanto che – ricordano gli Ermellini – nemmeno la mera irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato in parola.

Nel caso di specie, il Gip aveva disposto il sequestro dell’azienda agricola ritenendo sussistente il fumus commissi delicti in via quasi automatica, riscontrando la non corrispondenza delle condizioni riservate ai lavoratori con quelle previste dai contratti collettivi di categoria. Tuttavia, come poi rilevato dal giudice del riesame, nell’adozione del provvedimento cautelare era completamente mancato un esame concreto delle condizioni alle quali erano stati sottoposti i lavoratori. Perché vero era che le retribuzioni percepite erano inferiori a quelle tabellari applicate nel settore, ma di poco (34 euro a giornata contro i 37,514 delle tabelle paga vigenti nella provincia di Matera), dunque non tali da potersi parlare di sfruttamento. Anche la reiterazione delle condotte non sussisteva, in quanto questa doveva essere intesa come un comportamento ripetuto nei confronti dello stesso lavoratore, non come mera sommatoria di condotte realizzate episodicamente a danno di lavoratori diversi. Assente anche la prova della violazione della normativa sull’orario di lavoro e sui riposi: peraltro, trattandosi di lavoro stagionale che occupava al massimo 15/20 giorni per ogni mese, l’assenza di giornate di riposo contestata dalla Pubblica accusa era di fatto smentita. Ed ancora, nessuna violazione delle disposizioni a tutela della salute e sicurezza sul lavoro era stata concretamente riscontrata, atteso che si trattava di braccianti assoldati per la raccolta delle fragole, i quali non necessitavano di particolari dispositivi individuali di protezione e, quand’anche non li avessero avuti, ciò non avrebbe comportato un grave pericolo per la loro incolumità ma piuttosto compromesso i frutti a seguito di una loro errata manipolazione. Allo stesso modo era stato quasi automaticamente presunto lo stato di bisogno dei lavoratori, senza tuttavia elementi di fatti che lo comprovassero. Nella sentenza in commento la Suprema Corte ricorda come debba ritenersi ormai superata la tesi secondo cui in tema di sequestro preventivo, ai fini della verifica del fumus, sarebbe sufficiente accertare l’astratta configurabilità del reato ipotizzato.

Il giudice, all’opposto, deve provvedere alla misura cautelare solo ove sia in presenza di elementi di prova che lascino concretamente presupporre la sussistenza del reato. Il giudicante, quindi, deve poter esercitare un controllo effettivo che, pur coordinato e proporzionale con lo stato del procedimento penale e con lo stato delle indagini, non sia solo formale, apparente, appiattito alla mera prospettazione astratta dell’esistenza del reato da parte della Pubblica accusa, ma ancorato ad elementi di fatto accertati e che diano effettiva verosimiglianza circa la configurabilità del reato. Non già un’anticipazione di condanna degli indagati o degli accusati, ma un serio esame dei presupposti fattuali che rendano giusto e coerente il fermo dell’attività economica con l’ipotesi di reato. In assenza della prova di elementi solidi che lasciassero presumere l’effettiva commissione del delitto di sfruttamento del lavoro, la Cassazione ha dunque ritenuto esente da vizi il provvedimento di dissequestro dell’azienda.

 

  1. Corte Cassazione, Quarta Sezione Penale, sentenza del 22 dicembre 2021, n. 46842.

(*)Pubblicato anche in Corriere delle paghe, n. 3/2022.

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Caporalato: la legge c’è e funziona, basterebbe applicarla

di Antonella Rosati – Ricercatrice del Centro Studi e Ricerche

Un’intervista ai “protagonisti” per capire come funzionano le assunzioni nel settore agricolo[1]

 

L’intervista del prof. Miscione a Raffaele Vicidomini, Segretario del sindacato ravennate della Flai-Cgil, fa emergere un quadro preoccupante e contraddittorio.

La lotta allo sfruttamento del lavoro agricolo fatica a raccogliere i risultati auspicati ed emergono ritardi – in alcuni casi anche una certa immobilità – nell’applicazione delle norme.

Ma, come sempre, le soluzioni “dal basso” possono venire in aiuto alle carenze dell’applicazione del diritto.

Il caporalato come sistema

È ormai accertato come non siano rari i lavoratori, soprattutto stranieri, che vengono intercettati nei loro paesi di origine e arrivano in Italia per essere sfruttati da un “caporale”, il trait d’union che li trasporta e li affida a chi li sfrutta in turni massacranti di lavoro senza il riconoscimento di tutto ciò che differenzia un lavoro subordinato dignitoso da una condizione di nuovo schiavismo.

Per di più la Legge Bossi/Fini, ancora vigente, prescrive come condizione per arrivare in modo regolare, di essere in possesso di un contratto di lavoro.

È su questo presupposto, e sullo stato di estrema indigenza e vulnerabilità in cui versano i lavoratori immigrati, che si fomenta un altro aspetto degenerativo come quello del business dei permessi di soggiorno.

Il lavoratore straniero arriva al paradosso di pagare migliaia di euro pur di restare a lavorare in Italia in condizioni spesso degradanti e pericolose.

Legge n. 199/2016: una svolta etica

Uno strumento efficace a cui dare rilievo è rappresentato dalla Legge n. 199/2016 – concepita e adottata in un clima di attenzione mediatica – sia per i suoi interventi repressivi, sia per le indicazioni per arginare una piaga non solo del mercato del lavoro ma soprattutto sociale.

Vengono stabiliti nuovi strumenti penali per la lotta al caporalato come la confisca dei beni (alla stregua delle organizzazioni mafiose[2]), misure cautelari alternative come il controllo giudiziario dell’azienda, l’arresto obbligatorio in flagranza, l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità e l’estensione alle persone giuridiche della responsabilità per il reato.

Viene ridefinito il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” con l’introduzione di un illecito autonomo di sfruttamento del lavoro, che può prescindere anche dal ricorso ai caporali[3] o alla “violenza, minaccia o intimidazione”, come elementi necessari.

La nuova norma riformula inoltre i cosiddetti “indici di sfruttamento”, ossia quelle circostanze indiziarie che orientano il corso delle indagini e del giudizio in casi di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;  reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

La nuova legge lascia infine intravedere la possibilità di una tutela più ampia attraverso l’estensione alle vittime di caporalato e sfruttamento – nel caso di una loro situazione di pericolo attuale – di programmi di assistenza ed integrazione sociale (già previsti dal Testo Unico per le vittime di grave sfruttamento, tratta e sfruttamento della prostituzione) e il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione sociale.

Questa interpretazione sembra sostenuta da due ulteriori disposizioni: l’assegnazione al Fondo anti-tratta dei proventi delle confische ordinate a seguito di sentenza di condanna o di patteggiamento per il reato in questione, e la destinazione delle risorse del Fondo anche all’indennizzo delle vittime di caporalato e sfruttamento del lavoro.

 

Chi controlla le assunzioni e sporge denuncia

Nella provincia di Ravenna, con la campagna “Ancora in campo”, il sindacato denuncia cosa avviene nelle campagne e informa direttamente i lavoratori impegnati nella raccolta circa i propri diritti, il rispetto dei contratti e dei salari e le nuove opportunità offerte dalla L. n. 199/2016.

La scorsa estate, in Puglia, le “Brigate di lavoro”, composte da militanti Flai di tutta Italia, si sono recate dall’alba ad incontrare lavoratori e lavoratrici; la Flai è presente anche per incontrare le Istituzioni affinché sia attuata la Rete del Lavoro agricolo di qualità – il primo sistema pubblico di certificazione etica del lavoro che dovrebbe raccogliere, certificare e “bollinare” le aziende virtuose e fornire un piano per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori stagionali – e perché si comincino a sperimentare nel territorio collocamento e trasporti legali, togliendo così spazio vitale ai caporali.

Attraverso la formula del Sindacato di Strada, la Flai-Cgil opera sul territorio con il “Camper dei Diritti”, contattando direttamente i lavoratori nei luoghi di lavoro o nei posti di ritrovo: attraverso camper o furgoncini, di cui si è dotati in alcuni territori, i sindacalisti si muovono incontrando i lavoratori, diffondendo materiale informativo e contratti anche tradotti in diverse lingue, supporto circa i servizi

Osservazioni conclusive

Dopo l’approvazione della L. n. 199/2016, abbiamo assistito a numerosi tentativi di svuotarla ed eluderla per vie contrattuali, come l’annunciata clamorosa reintroduzione dei voucher: non c’è bisogno di brevettare ulteriori strumenti, basta utilizzare quelli normativi esistenti.

Non a caso, a due anni dalla sua approvazione, è ancora molto basso il numero delle aziende iscritte nella Rete del Lavoro agricolo di qualità.

Certo è che la lotta al caporalato avrà pienamente successo se si interverrà non unicamente per via legale e repressiva ma neutralizzando le sacche di inefficienza e i vuoti istituzionali che favoriscono il deprecabile fenomeno: carenza di servizi credibili di intermediazione lecita nel settore; assenza di mezzi di trasporto pubblico nelle aree rurali; nuclei ispettivi disorganizzati e privi di strumenti adeguati, mirati e selettivi; debole attività di monitoraggio presso le Prefetture; mancanza di una visione globale delle condizioni di sfruttamento lavorativo e, infine, una mancata presa di posizione sulla questione delle inique filiere produttive della Gdo e delle industrie di trasformazione, a discapito dei piccoli produttori e dei lavoratori, oltre che dei consumatori.

Ma, più di ogni altra cosa, sarà indispensabile un serrato e continuo lavoro di sensibilizzazione prevalentemente culturale che parta “dal basso”, dalle Acli ai sindacati, per far maturare un nuovo approccio alle regole e al rispetto dei lavoratori.

Per ripartire dalla dignità delle persone.

[1] Sintesi dell’articolo pubblicato ne Il Lavoro nella giurisprudenza, n. 8-9/2018, pag 761, dal titolo Intervista al sindacato sulle assunzioni nell’agricoltura

[2], D.l. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies, co. 1.

[3] L’unico strumento per attivare in qualche modo la responsabilità del datore di lavoro era il “concorso in reato” (artt. 110 e ss. c.p.).

 

 

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Il punto della giurisprudenza sulla somministrazione illecita

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano1


Le SS.UU. della Cassazione tornano sulle conseguenze della somministrazione illecita, precisando l’applicabilità e gli effetti della ricostituzione del rapporto di lavoro in capo al committente fittizio o effettivo utilizzatore della prestazione. In tale fattispecie, il lavoratore acquisisce un vero e proprio diritto retributivo, e non solo risarcitorio, il cui contenuto economico è tuttavia mitigato dagli adempimenti e corresponsioni già poste in essere dall’appaltatore fittizio. Sembra utile a questo punto un inquadramento generale delle fattispecie interpositorie.

Un fenomeno tristemente diffuso, una legislazione ondivaga e fattispecie sovrapposte

L’esternalizzazione produttiva è una fattispecie intrinseca al moderno modo di concepire l’impresa. Usiamo qui il termine di esternalizzazione nel senso più ampio e generale di terzializzazione e segmentazione della filiera in appalti e subappalti di opere o servizi o comunque di contratti che in modo analogo frammentano su diversi soggetti la riuscita di un risultato economico-produttivo, la cui utilità finale – e non di rado anche la progettualità originale – resta in capo al committente. Essa è una stretta derivazione della specificità e specializzazione che caratterizzano il modello attuale di lavoro ed inoltre consente, entro certi termini, una frammentazione dei rischi e delle attenzioni imprenditoriali, oltre a considerevoli flessibilità organizzative.

Modello fortemente sospetto per un certo modo, antico ed ideologico, di concepire l’imprenditorialità, l’esternalizzazione è fenomeno che il legislatore ha ritenuto, opportunamente, di governare e non di reprimere, a partire dal D.lgs. n. 276/2003, per quanto riguarda un aspetto tutt’altro che secondario della questione: le tutele da riservare ai prestatori di lavoro. La frammentazione produttiva e la condivisione dei rischi non può infatti avere come conseguenza la liquefazione dei diritti e delle tutele (sotto ogni aspetto: retributivo, di sicurezza sociale e sul lavoro) riservate al lavoratore. Tutele che, nella esternalizzazione lecita, riguardano in particolare la responsabilità solidale (oggetto di infinite modifiche e alla quale accenneremo in seguito) del committente sia per la parte retributiva e contributiva, così come anche per quella infortunistica prevista dall’art. 26 co. 4 del D.lgs. n. 81/2008.

Resta da osservare, invece, che purtroppo una grave perdita di tutele – con un’insopportabile ”corsa al ribasso” che (avvelenando la concorrenza e la filiera seria) fa male alle imprese oltre che ai lavoratori – è ciò che nel nostro Paese succede con una frequenza ed una diffusione sempre più allarmanti, per la proliferazione di soggetti fornitori di manodopera in modo illegittimo, truffaldino ed irresponsabile, complice anche una crisi economica che le aziende non hanno certo smaltito con la tenue ripresa a cui stiamo assistendo nel presente2.

L’interposizione illecita presenta in ogni caso vari aspetti anche decisamente dissimili fra loro:

– la somministrazione illecita o (secondo la dicitura dell’art. 38 co. 2 del D.lgs. n. 81/2015) irregolare riguarda la fornitura di personale da parte di soggetti privi delle autorizzazioni di cui al Capo Primo (in particolare artt. 4-6) del D.lgs. n. 276/2003 o al di fuori delle condizioni di cui agli artt. 31, 32 e 33 del D.lgs. n. 81/2015;

– la somministrazione nulla (art. 38, co. 1 del D.lgs. n. 81/2015) si ha in mancanza di forma scritta del contratto di somministrazione di lavoro;

l’appalto o il distacco fittizi o irregolari (cioè al di fuori delle condizioni di cui rispettivamente agli artt. 29 e 30 del D.lgs. n. 276/2003) sono sanzionati dall’art. 18, co. 5-bis del D.lgs. n. 276/2003 ed in ogni caso sono disciplinati in modo analogo alla somministrazione irregolare ai sensi, rispettivamente, dei commi 3-bis e 4-bis dei suddetti artt. 29 e 30);

l’intermediazione illecita (di manodopera) e sfruttamento del lavoro, altrimenti comunemente definita con il termine di “caporalato”, è ipotesi di reato prevista dall’art. 603-bis3 del Codice Penale e riguarda i casi in cui vengano reclutati lavoratori allo scopo di destinarli al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento4, approfittando dello stato di bisogno degli stessi.

Al di là degli aspetti sanzionatori – che hanno subito, a parere di chi scrive, una gigantesca opera di demolizione sia con la soppressione di fatto della fattispecie di somministrazione fraudolenta ad opera del D.lgs. n. 81/2015 sia con la depenalizzazione operata dal D.lgs. n. 8/2016 – l’effetto più immediato rimane comunque la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’effettivo utilizzatore.

Tale costituzione ha però un aspetto multiforme: nel caso di somministrazione irregolare, infatti, la legge (sia la Biagi, abrogata, che il nuovo art. 38 del D.lgs. n. 81/2015, il c.d. “codice dei contratti” del Jobs Act che ha riscritto anche le regole sul contratto di somministrazione) prevede che la costituzione di un rapporto di lavoro sia possibile su iniziativa giudiziale del lavoratore, ed in caso di accoglimento del ricorso il rapporto venga costituito a tempo indeterminato ex tunc, cioè dall’inizio della somministrazione; lo stesso dicasi per i casi di appalto e distacco non genuini, ove però la norma non precisa la decorrenza del rapporto (per analogia con la norma sulla somministrazione, il rapporto deve intendersi costituito sin dall’inizio, cfr. Cass., 15 luglio 2011, n. 15610 e 23 gennaio 2013, n. 1630).

La nullità della somministrazione comporta invece l’immediata riconduzione del rapporto in capo al falso committente (letteralmente: ”i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore”); la stessa cosa vale per l’intermediazione con sfruttamento di lavoro, in forza della nullità del contratto per causa illecita (art. 1343 c.c.).

Si vanno così evidenziando due gruppi di fattispecie di interposizione (somministrazione, distacco ed appalto irregolari, da una parte, e somministrazione nulla ed intermediazione con sfruttamento, dall’altra) con caratteristiche diverse, in ciascuno dei due raggruppamenti, riguardo alla riconduzione del rapporto in capo al committente.

Per quanto riguarda il primo gruppo suddetto:

– la ricostituzione del rapporto di lavoro può verificarsi unicamente a seguito di ricorso giudiziale da parte del lavoratore, il che preclude che la stessa possa essere agevolmente azionata anche da parte di un terzo (tipicamente, un soggetto ispettivo), anche se non è mancata qualche sentenza nella quale è emerso un diverso indirizzo; ad es. Cass., 4 novembre 2011, n. 22894, rimarcando la natura frodatoria del contratto – e quindi la sua nullità ex art. 1344 c.c. – ha considerato applicabile ex lege la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore effettivo5;

– ai sensi dell’art. 27 co. 2 del D.lgs. n. 276/2003 – abrogato ma contemporaneamente ripreso (con l’art. 38 comma 3) dal D.lgs. n. 81/2015 per la sola somministrazione (ma implicitamente si considera valere anche per appalto e distacco, peraltro in considerazione dell’applicabilità in via generale dell’art. 1180 c.c.) – tutti gli atti ed i pagamenti compiuti dal somministratore (fittizio o irregolare) valgono a liberare il committente6.

Non così per quanto riguarda il secondo gruppo (somministrazione nulla ed intermediazione con sfruttamento) per le quali fattispecie la nullità del rapporto comporta l’immediata considerazione ex tunc del rapporto in capo al committente e la nullità di ogni e qualsiasi atto conseguente, che risulterebbe quindi tanquam non esset, con le immaginabili conseguenze di carattere economico e sanzionatorio.

Prima di passare alla sentenza che vorremmo commentare in questo contributo, è il caso di notare che su un fenomeno, quale è quello delle esternalizzazioni, tanto importante e dai risvolti particolarmente critici sul mercato del lavoro e, più in generale, nel panorama economico italiano, il legislatore si è mosso con incertezza ed in modo non uniforme, senza cercare una visione generale e soluzioni efficaci.

Se la Legge Biagi si poneva su un piano di sostanziale uniformità e sistematicità, con un buon equilibrio fra modernità e sicurezza sociale (la somministrazione ed il distacco, da una parte, che rappresentavano il “dare” manodopera, con un proprio bagaglio di tutele, dall’altra parte l’appalto all’insegna del “fare”7, con regole e definizioni in qualche modo stringenti, e contemporanea repressione delle zone grigie dell’illegalità interpositoria), la riscrittura della parte relativa alla somministrazione, operata dal D.lgs. n. 81/2015, scombinava un già difficile equilibrio e creava una stratificazione normativa critica; lo stesso può dirsi per le numerose norme intervenute in materia di responsabilità solidale8.

La sentenza SS.UU. n. 2990/2018: risarcimento o retribuzione?

In tema di costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, sono recentemente intervenute le Sezioni Unite di Cassazione, con la sentenza n. 2990 del 7 febbraio 2018.

In buona sostanza, la vicenda approdata all’attenzione delle SS.UU. riguarda un caso di appalto dichiarato illegittimo, con accoglimento della richiesta dei lavoratori di costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore. Oppostosi alla sentenza nei vari gradi di giudizio, il committente continuava nel frattempo ad utilizzare i lavoratori con lo strumento contrattuale dell’appalto di servizi.

I lavoratori, insieme con la pronuncia definitiva dell’illegittimità dell’appalto per mancanza dei requisiti di genuinità dello stesso (in particolare, nel caso di specie, rischio di impresa dell’appaltatore e gestione diretta del rapporto di lavoro da parte dell’utilizzatore) richiedevano al committente le retribuzioni dalla data della pronuncia di illegittimità.

Della questione venivano interessate le Sezioni Unite con riferimento alla composizione di due tesi dottrinali (e di giurisprudenza) contrapposte, determinate in via analogica con fattispecie ritenute simili.

La prima tesi opta per la natura retributiva delle spettanze maturate dal lavoratore, la cui quantificazione della spettanza risulterebbe pertanto di natura reale ed assoluta e parzialmente indipendente dall’eventuale aliunde perceptum: una volta costituitosi in rapporto per via giudiziale con la declaratoria di interposizione fittizia, il lavoratore maturerebbe pertanto automaticamente le retribuzioni con l’offerta la prestazione lavorativa allo pseudo committente. La seconda, in analogia con la successione di contratti in caso di trasferimento d’azienda e con la natura risarcitoria di alcune indennità di licenziamento, valorizzando il sinallagma retribuzione-prestazione effettiva, propende per la natura di mero risarcimento del danno da mancata assunzione, con possibilità, ai fini della quantificazione dello stesso, della deduzione di quanto percepito (cioè, in buona sostanza, della prova – ed eventuale controdeduzione – del danno effettivamente subito), secondo le regole codicistiche dell’illecito contrattuale ex art. 1218 e segg c.c.. Nel caso di specie, questa seconda ipotesi interpretativa era quella intrapresa dalla Corte d’Appello, la quale poi, rilevando l’assenza di differenze (o la mancanza di richiesta in tal senso) fra retribuzione corrisposta dallo (pseudo) appaltatore e quella spettante dalla costituzione del rapporto con il (fittizio) committente, concludeva per l’assenza di un danno concreto e quindi per la non debenza di somme a favore dei lavoratori, ricorrenti perciò in Cassazione.

Le Sezioni Unite, interessate in ragione della predetta discordanza di sentenze, con un’ampia disamina della giurisprudenza precedente, ritengono inapplicabili soluzioni in via analogica e propendono per l’applicazione del “diritto comune delle obbligazioni”. Valorizzando anche le riflessioni della Corte Costituzionale (sentenza n. 303/2011) in tema di reintegrazione, con al sentenza in commento le SS.UU. stabiliscono che “nel momento successivo alla declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera (…) grava sull’effettivo datore di lavoro l’obbligo retributivo”, ovviamente in considerazione dell’offerta della prestazione da parte del lavoratore ed il rifiuto, in parallelo, della stessa a parte del datore di lavoro, determinandosi così una situazione di mora credendi.

Il tutto, in ogni caso, salvo gli effetti dell’art. 29 co. 3-bis (rectius, dell’art. 27 co. 29) del D.lgs. n. 276/2003, ovvero con la deduzione delle somme già corrisposte dallo pseudo-appaltatore.

Ricapitolando in modo schematico, pertanto, in caso di rapporto ricostituito con il committente a seguito di interposizione illecita, le SS.UU. han chiarito, fissando un principio di diritto:

  • la natura retributiva delle somme spettanti al lavoratore dalla data della sentenza che sancisce l’illegittimità dell’interposizione;
  • la valenza delle somme pagate dall’appaltatore e degli atti da esso compiuti, (ma solo) nel caso di continuazione ulteriore dell’appalto10.

Nel caso di specie, la continuità del rapporto con l’appaltatore e la non rilevanza (o non rilevazione in sede giudiziale) di differenze fra le retribuzioni corrisposte da quest’ultimo e le retribuzioni spettanti in forza del rapporto ricostituito con il committente hanno determinato, seppure con diversa (anzi, opposta) motivazione, la conferma della decisione della Corte d’Appello, ovvero nessuna spettanza ai lavoratori, tranne che nei riguardi di una lavoratrice che nel frattempo aveva lavorato per un terzo. Le conclusioni delle SS.UU. appaiono condivisibili in quanto al principio di diritto enunciato, specie in termini di tutela sostanziale del lavoratore.

Sia concessa solo una piccola notazione: nel caso concreto in considerazione, il rapporto era continuato in quanto la sentenza di ricostituzione del rapporto in capo al committente non era ancora passata in giudicato ed al contratto, per quanto irregolare, di appalto (con il conseguente utilizzo dei lavoratori sotto tale forma) è stata data prosecuzione. Tuttavia, nei casi normali, l’interposizione cessa con la sollevazione della questione o della vertenza, magari anche a fronte di un intervento ispettivo, il quale nel rilevare l’appalto illegittimo deve “adottare la prescrizione obbligatoria intimando con prescrizione obbligatoria (…) l’immediata cessazione dell’azione antidoverosa allo pseudo-committente e allo pseudo appaltatore” (così la circ. n. 5/2011 del Ministero del Lavoro). In tal modo, al di là della soluzione adottata, assume particolare rilievo la fissazione del principio della natura retributiva delle somme de quibus.

Conclusioni critiche

Dicevamo in apertura del presente di una grave stratificazione ed asistematicità normativa in tema di esternalizzazioni, il che consente amplissimi spazi di manovra ad attività illegittime ed elusive, sempre più numerose (proliferazione inspiegabile, se si pensa che tali attività sono sotto gli occhi di tutti, basterebbe una semplice ricerca in rete).

Vorremmo essere chiari e distinguere bene le fattispecie: con “attività illegittime” intendiamo fenomeni interpositori a qualsiasi titolo posti in essere in modo irregolare e con costruzioni scientificamente sistematiche di irregolarità; posto che anche tali fattispecie hanno pesanti effetti elusivi ed evasivi (d’altronde, quando già si è scelto di operare nella piena illegittimità, perchè fermarsi a poche violazioni?), con “attività elusive” intendiamo invece riferirci ad appalti ed esternalizzazioni sostanzialmente leciti, ma con una pesante depressione dei diritti, delle tutele e dei trattamenti riservati ai lavoratori (i cosiddetti “appalti al ribasso”, ad opera di appaltatori spesso tutt’altro che affidabili, con effetti di dumping salariale e contributivo).

Gli interventi che in questi anni si sono succeduti sui temi hanno visto il legislatore ondeggiare fra concessioni politiche (non si spiega in altro modo l’adesione incondizionata alle tesi CGIL ad opera del D.l. n. 25/2017), tentennamenti senza senso (la responsabilità solidale dei committenti, fronte di infiniti rimaneggiamenti senza una direzione precisa11), un depotenziamento della parte coercitiva (la già ricordata depenalizzazione degli illeciti in materia di interposizione e l’abrogazione della somministrazione fraudolenta) a cui fa il paio un’attività ispettiva senza strumenti e, si lasci dire, apparentemente senza particolare impulso di intervento (malgrado gli annunci pubblici).

In tale desolante – soprattutto per l’estensione dei fenomeni – situazione normativa occorre invece constatare un’attività della Magistratura che cerca in qualche modo di mantenere fermo il timone della legalità, richiamandosi ai principi costituzionali e di generale orientamento normativo.

Oltre alla sentenza qui commentata, di contenuto invero più tecnico ma con gli importanti effetti che abbiamo sottolineato, come non ricordare la già citata Cass. n. 22894/2011 e la recentissima Corte Cost. n. 254/2017 sull’estensione della responsabilità solidale alla sub-fornitura, ma con un’ipotesi di allargamento de plano a tutte le attività di esternalizzazione.

In altre parole, dove il legislatore (non si capisce se per precisa volontà o per insipienza) non sta arrivando, la giurisprudenza sta parando i colpi. Il che fa anche parte, in certo senso, delle sue prerogative, non fosse che gli effetti perversi di tale situazione, oltre ad un protagonismo di cui talvolta la Magistratura abusa ed ad una confusione generale, sono un grave indebolimento delle azioni di contrasto a tali fattispecie e, soprattutto, l’arrivare (quando si arriva …) a chiudere la stalla quando i buoi sono ormai da tempo scappati.

1Pubblicato sul n. 20/2018 de Il giurista del lavoro, Euroconference E.

2 A parere di chi scrive, tuttavia, la crisi economica – per quanto gravissima – ed il pesante costo del lavoro non devono servire da comodo alibi a chi, anche prima della crisi ed a prescindere da essa, con il solo scopo di guadagnare illecitamente sulla pelle dei lavoratori e delle imprese, ha realizzato massicce forme di interposizione illecita ed elusiva.

3 Introdotto dal D.l. n. 138/2011 e di cui recentemente la L. n. 199/2016 ha ampliato l’efficacia e la portata.

4  La norma individua la nozione di “sfruttamento” con riferimento alla sussistenza delle seguenti fattispecie: a) reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; b) reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; c) violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; d) sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

5 Così la sentenza: “già soltanto ex art. 2094 c.c. non è consentito separare la titolarità ex parte datoris del rapporto di lavoro dal soggetto che in concreto ha utilizzato e diretto la prestazione del lavoratore”; per questa via la giurisprudenza potrebbe porre rimedio all’abrogazione della fattispecie di somministrazione fraudolenta, che rappresentava un certo deterrente all’interposizione illecita. Non di rado il lavoratore si trova infatti in una posizione di estrema debolezza verso il committente e l’intera filiera, con la conseguente scarsa praticabilità di azioni giudiziarie. Sia consentito sul punto il rimando ad Asnaghi A., Rausei P., Il Jobs Act e quel piccolo, pericoloso, “cadeau” ai mercanti di braccia, Boll. Adapt, 2 marzo 2015.

6 La valenza di tale previsione normativa non riguarda solo il pagamento delle retribuzioni e della contribuzione previdenziale ed assistenziale (riguardo alle quali l’utilizzatore effettivo resta pertanto onerato solamente per la parte eventualmente “differenziale”) ma anche per gli adempimenti di carattere amministrativo (denunce di assunzione/cessazione, denunce contributive, Libro Unico del lavoro ecc).

7 La distinzione fra il “dare “ (fornire manodopera) della somministrazione regolare ed il “fare” (un’opera o un servizio) proprio dell’appalto è contenuta nella circolare n. 5/2011 del Ministero del Lavoro.

8 Su tali temi sia concesso, anche per brevità espositiva, il rimando ad Asnaghi A., Il D.L. 25/2017 cambia ancora (ma poco, e male) la solidarietà negli appalti, La Circolare di lavoro e previdenza, 20 aprile 2017, n. 15 ed a Asnaghi A., L’appalto e le esternalizzazioni: il punto sul sistema sanzionatorio dopo la depenalizzazione, La Circolare di lavoro e previdenza, 8 aprile 2016, n. 14.

9 Che recita esattamente: “Nelle ipotesi di cui al comma 1 tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione”.

10 E a parer di chi scrive, corrispettivamente, l’irrilevanza ai fini della determinazione delle spettanze dovute, di altre somme percepite dal lavoratore per altre attività o per rapporti di lavoro diverso da quello con l’appaltatore in esecuzione dell’appalto dichiarato irregolare..

11 E, sempre in tema di responsabilità solidale, un’incomprensibile difformità normativa fra attività di trasporto (art. 1 co. 248 L. n. 190/2014) e attività in appalto.

 

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