Il Registro nazionale degli aiuti di Stato: il solito lavoro fatto a metà

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna

 

Tra le tante difficoltà che i professionisti si trovano ad affrontare ve ne è una particolarmente insidiosa, ovvero la predisposizione per i propri clienti della dichiarazione “de minimis” ovvero una attestazione circa l’ammontare degli aiuti di importo minore – quelli, per intenderci, che i singoli Stati possono concedere alle imprese senza violare le norme sulla concorrenza1 – da rendersi in forma di atto notorio ai sensi del D.P.R. n. 445 del 28 dicembre 2000.

Le difficoltà sono note, in primis perché la verifica riguarda sia l’esercizio finanziario in corso e i due precedenti, ma soprattutto perché la ricerca è a 360 gradi (non limitata quindi al solo campo lavoristico) e spesso coinvolge professionisti diversi.

È stata di conseguenza salutata con grande favore la notizia dell’operatività – a seguito alla pubblicazione del Decreto interministeriale n. 115 del 31 maggio 2017 a firma del Ministero dello Sviluppo Economico, del Ministero Economia e Finanze e del Ministero Politiche Agricole Alimentari e Forestali – del Registro nazionale degli aiuti di Stato di cui all’art. 52 della L. n. 234/2012.

Il Regolamento attuativo del Registro

L’idea di fondo è estremamente semplice:- creare un database degli aiuti di Stato in base alle informazioni inserite dalla Autorità responsabile;– attivare una banca dati degli aiuti concessi grazie alle informazioni inserite dal soggetto concedente;- infine, rendere disponibili queste informazioni ai soggetti coinvolti nella procedura di concessione.

Le disposizioni per il funzionamento del Registro

Il Regolamento nasce con due specifiche finalità:

1. definire le modalità operative per la raccolta, la gestione e il controllo dei dati e delle informazioni relative agli aiuti di Stato, agli aiuti de minimis ed agli aiuti SIEG;

2. individuare i contenuti specifici in riferimento agli obblighi di effettuazione di controlli propedeutici alla concessione e alla erogazione degli aiuti.

Al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati viene disposto che il Registro dovrà contenere una serie di informazioni su:

– dati identificativi dell’Autorità responsabile;

– dati identificativi del regime di aiuti o dell’aiuto ad hoc, ovvero: titolo, base giuridica, dotazione finanziaria complessiva, tipologia dell’aiuto e obiettivo perseguito;

– dati identificativi del soggetto concedente;

– dati identificativi del soggetto beneficiario dell’aiuto individuale;

– dati identificativi del progetto o dell’attività per il quale è concesso l’aiuto individuale;

– dati identificativi dell’aiuto individuale, quali: tipologia dell’aiuto, data di concessione, ammontare in termini di valore nominale e di equivalente sovvenzione.

Queste informazioni dovranno essere raccolte in relazione a tutti gli aiuti di Stato, soggetti o meno all’obbligo di notifica alla Commissione europea a norma dell’art. 108, paragrafo 3, del TFUE.

L’accesso al Registro

L’articolo 4 dispone che l’accesso alle informazioni contenute nel Registro nazionale degli aiuti è assicurato senza restrizioni e senza necessità di identificazione e autenticazione, fatte salve le esigenze di tutela del segreto industriale. Tutti i dati presenti nel Registro sono conservati e resi accessibili per almeno dieci anni dalla data di concessione dell’aiuto e sono resi disponibili alla Banca dati delle amministrazioni pubbliche.

L’obbligo di registrazione del regime di aiuto

Ciascuna Autorità responsabile – onde identificare, nell’ambito del Registro nazionale degli aiuti, ciascun regime di aiuti e aiuto ad hoc – è tenuta alla registrazione dello stesso attraverso una procedura informatica disponibile sul sito web del Registro.

L’obbligo di registrazione degli aiuti individuali concessi

Analogamente, anche i soggetti concedenti – al fine di identificare ciascun aiuto individuale nell’ambito del Registro nazionale degli aiuti – sono tenuti alla registrazione dell’aiuto individuale prima della sua concessione utilizzando sempre una procedura informatica ad hoc. La corretta registrazione è certificata dal Registro nazionale degli aiuti attraverso l’attribuzione di uno specifico codice identificativo che viene rilasciato dal sistema a conclusione delle verifiche propedeutiche alla concessione.

Le verifiche sugli aiuti de minimis

Il Regolamento impone altresì ai soggetti concedenti di avvalersi, nell’ambito delle attività inerenti le verifiche propedeutiche alla concessione degli aiuti de minimis e agli aiuti de minimis SIEG, del supporto del Registro nazionale degli aiuti ricorrendo alla procedura disponibile sul sito web del registro.

Il Registro coadiuva i soggetti concedenti nelle loro verifiche rendendo disponibili due diversi documenti riferiti al soggetto beneficiario, ovvero:

a) Visura Aiuti che identifica, con riferimento a un periodo massimo pari a dieci esercizi finanziari, gli aiuti di Stato, gli aiuti SIEG, gli aiuti de minimis e gli aiuti de minimis SIEG concessi ad un determinato soggetto.

b) Visura Aiuti de minimis che identifica gli aiuti de minimis e gli aiuti de minimis SIEG concessi, nei due esercizi finanziari precedenti e nell’esercizio finanziario in corso del soggetto beneficiario, a livello di impresa unica.

Entrambe le visure riportano l’importo, la data di concessione, il soggetto concedente, la legge, il regolamento o la normativa in applicazione del quale l’aiuto è concesso, con i riferimenti della data e dell’ora di ultimo aggiornamento disponibile.

Con particolare riferimento agli esiti della procedura di emissione della Visura Aiuti de minimis, il Registro nazionale degli aiuti rilascia il Codice Concessione RNA-COR solo qualora l’importo dell’aiuto individuale per il quale è in corso la registrazione è pari o inferiore all’importo dell’aiuto concedibile, determinato sulla base dei dati risultanti dalla visura.

Al contrario il Registro nazionale degli aiuti non rilascia il predetto codice, non consentendo quindi alcuna registrazione dell’aiuto individuale, qualora l’importo dello stesso sia superiore all’importo dell’aiuto concedibile. È fatta ovviamente salva la possibilità, nei casi previsti, di effettuare la registrazione dell’aiuto individuale parzialmente, purché nei limiti del massimale de minimis ancora disponibile.

Il Regolamento dispone, in ultimo, che a decorrere dal 1° luglio 2020, il controllo del massimale relativo agli aiuti de minimis e agli aiuti de minimis SIEG già concessi dovrà avvenire esclusivamente attraverso il Registro nazionale degli aiuti. Nelle more il soggetto concedente è tenuto a effettuare il predetto controllo, oltre che sulla base delle informazioni desumibili dalla Visura Aiuti de minimis, anche utilizzando le dichiarazioni sostitutive di atto notorio rilasciate dai soggetti beneficiari attestanti gli aiuti concessi nei due esercizi finanziari precedenti e nell’esercizio finanziario in corso.

Le responsabilità

Il Regolamento prevede esplicitamente in capo all’Autorità responsabile o al soggetto concedente la responsabilità in merito alla veridicità e alla completezza delle informazioni rilasciate dal Registro nazionale degli aiuti sulla base delle informazioni che i predetti soggetti hanno inserito nel registro stesso.

Viene precisato poi che il soggetto beneficiario rimane responsabile unicamente della correttezza delle informazioni oggetto di inserimento da lui fornite all’Autorità responsabile o al soggetto concedente mediante dichiarazione di atto notorio.

Criticità

Bisogna essere onesti: nessuno si aspettava che il Registro risolvesse da subito tutte le problematiche connesse alla difficoltà denunciate dagli utenti, sia concedenti che beneficiari, di ricostruire tutti gli aiuti pubblici ottenuti a vario titolo (agevolazioni all’occupazione, finanziamenti, contributi per attività di ricerca o di promozione all’estero, etc.) ed avere così la certezza della spettanza dei benefici.

È palese che un sistema di monitoraggio che dia contezza degli aiuti concessi nell’ultimo triennio, proprio perché nuovo, non potesse essere immediatamente operativo. E in quest’ottica è chiara la ratio della disposizione che prevede che solo a decorrere dal 1° luglio 2020, il controllo del massimale relativo agli aiuti de minimis e agli aiuti de minimis SIEG già concessi possa avvenire consultando esclusivamente il Registro nazionale degli aiuti.

Comprensibile anche che, nelle more del completamento della banca dati contenente i suddetti aiuti concessi nei due esercizi finanziari precedenti e nell’esercizio finanziario in corso, il predetto controllo debba necessariamente avvenire – oltre che sulla base delle informazioni desumibili dalla Visura Aiuti de minimis – anche sulla base delle dichiarazioni rilasciate, oggi come prima, dai soggetti potenzialmente beneficiari.

Ciò che invece non convince è la mancata possibilità di rendere direttamente accessibile anche al soggetto richiedente la consultazione del Registro aiuti, opzione che – pur nella evidente impossibilità dello strumento di dare contezza della fruizione di benefici in riferimento a tutto l’arco temporale triennale – avrebbe permesso al richiedente un riscontro perlomeno sugli aiuti registrati, lasciandogli solo l’onere della verifica sui restanti periodi.

Una “dimenticanza” che peraltro stride non poco con il principio dell’accesso alle informazioni contenute nel Registro nazionale “senza restrizioni e senza necessità di identificazione e autenticazione”.

Dando per scontato che dal 12 agosto 2017 tutti i soggetti concedenti procederanno, senza errori o omissioni, all’inserimento delle informazioni relative agli aiuti di Stato concessi per loro tramite, la verifica del soggetto beneficiario si sarebbe potuta limitare al solo periodo mobile antecedente all’istituzione del Registro. Un controllo che quindi, man mano che ci si avvicinasse alla fatidica data del 1° luglio 2020, si ridurrebbe sempre di più ad un periodo di pochi mesi fino ad azzerarsi.

Una possibilità di verifica peraltro che manterrebbe una sua utilità anche dopo la piena operatività del registro permettendo al soggetto richiedente una valutazione preliminare, e in tempo reale, circa la spettanza o meno del beneficio in funzione del tetto massimo di aiuti previsto dalla normativa comunitaria. Il tutto senza inutili perdite di tempo.

Il sistema escogitato dal legislatore, di permettere invece l’accesso al solo soggetto concedente l’accesso alla banca dati, impone al soggetto richiedente una autonoma verifica sull’intero periodo.

Salvo ovviamente che quest’ultimo sia in grado di richiedere la collaborazione dell’Ente concedente; oppure che lo stesso soggetto, di sua iniziativa, metta a disposizione una utility che in fase di inserimento del dato “aiuti di stato ricevuti” proponga l’elenco degli aiuti già registrati.

Ma questa sarebbe una storia se non di fantascienza quantomeno ambientata in un paese fuori dai confini italici.

1 Regolamento UE n. 1407/2013 sugli aiuti di importanza minore (regime generale) e Regolamento UE n. 1408/2013 sugli aiuti d’importanza minore nel settore della produzione primaria dei prodotti agricoli.

 

Preleva l’articolo completo in pdf 

Senza filtro – E se pensassimo ad una abilitazione/un esame di stato per chi sottoscrive i contratti collettivi?

di Alberto  Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna

 

Non si può più andare avanti così.

Non basta un legislatore spesso impreciso e quasi sempre equivoco, una giurisprudenza sempre più ondivaga, un pubblica amministrazione che nelle proprie indicazioni di prassi travalica immancabilmente i propri compiti, fornendo interpretazioni della norma a proprio uso e consumo.

Ci si mettono pure i sottoscrittori dei contratti collettivi a complicarci la vita.

E la cosa potrebbe anche non riguardarci se ci fosse permesso di ignorare quantomeno questi accordi collettivi. Invece i Ccnl vanno applicati, perché altrimenti non puoi ottenere il Durc… perché altrimenti non puoi sfruttare appieno determinati istituti contrattuali perché non ti verranno riconosciuti i benefici contributi perché rischi un contenzioso con il lavoratore a cui non hai riconosciuto una retribuzione proporzionata e sufficiente secondo il dettato dell’art. 36 Costituzione… ed infine perché sei passibile di contestazione per evasione contributiva calcolata proprio sulla teorica retribuzione prevista dai Ccnl stipulati dalle OO.SS. maggiormente rappresentative.

Già, maggiormente rappresentative. Ma rappresentative di che cosa? Forse della ignoranza giuridica ma soprattutto della approssimativa proprietà di linguaggio dell’italiano medio che fa fatica a spiegare cos’è un fuorigioco nel calcio?

È un dato di fatto e gli operatori del settore lo sanno bene.

Molto del contenzioso azienda/lavoratore si sviluppa nell’ambito della corretta applicazione dei trattamenti economici e normativi previsti dalla contrattazione collettiva. Inquadramento, maggiorazioni, indennità, permessi e soprattutto regolamenti disciplinari corrispondono spesso a discipline buttate lì alla bell’e meglio.

Per non parlare della fantasia che i rappresentanti aziendali e dei lavoratori mettono in campo per disciplinare i vari istituti, cercando di distinguersi da quella che ovviamente è considerata la mediocrità degli altri contratti collettivi.

Esattamente un anno fa, su questa rivista, avevamo trattato il caso del rinnovo del Ccnl Autoscuole chiedendoci se la fiducia posta dal legislatore nei contratti collettivi fosse ben riposta1.

Ma altri esempi possono essere citati perché la fantasia italica non ha limiti, sfornando le più strampalate discipline che con un briciolo di buon senso non sarebbero mai state sottoscritte.

Ad esempio il Ccnl Metalmeccanici Artigiani prevede che l’integrazione economica a carico delle imprese per i primi tre giorni di assenza sia dovuta solo in caso di malattie che raggiungano i sette giorni. A nessuno è sorto il dubbio che questo possa invogliare il lavoratore a fingere una gravità maggiore di quella reale per ottenere sufficienti giorni di prognosi che gli garantiscano il diritto al pagamento della carenza.

E nemmeno che il lavoratore, che ha conseguito la guarigione anticipata, non avrebbe alcun interesse a valutare un rientro al lavoro prima del previsto, ove questo gli farebbe perdere il diritto alla indennità economica per i tre giorni di carenza.

È un po’ come dire ai bambini che fare i capricci non serve per ottenere la caramella ma se i capricci diventano crisi isterica allora ne avrà un pacchetto.

Della serie “alla ricerca del risparmio illusorio”.

E va segnalato anche il Ccnl Autotrasporto merci che – prefiggendosi esplicitamente di disincentivare il fenomeno dell’assenteismo penalizzando le assenze dovute alle malattie che iniziano il giorno successivo a giornate non lavorative – prevede la riduzione del trattamento economico di malattia riferito ai primi tre giorni secondo una progressione che, via via, aumenta in base al numero degli eventi morbosi registrati.

Se quattro saranno gli episodi iniziati il giorno successivo a giornate non lavorative, l’integrazione a carico dell’azienda non sarà del 100% ma del 75%; per cinque eventi l’integrazione scende al 50%; al sesto spetta il 25%; dal settimo evento l’azienda non sarà più tenuta ad alcuna integrazione.

Opportunamente si è pensato di non applicare la disciplina ad alcuni eventi morbosi oggettivamente sussistenti (ricoveri ospedalieri, day hospital, day surgery e altre patologie), ricascando però nell’errore di escludere dal computo solo gli “eventi di malattia certificati con prognosi iniziale non inferiore a 7 giorni”.

Ma a prescindere da ciò – tenuto conto che il numero degli eventi viene calcolato considerando i 12 mesi precedenti, che la riduzione si applica solo dal quarto evento nell’anno e che si sta parlando di tre giorni di carenza – è palese la volontà di colpire le situazioni patologiche, che proprio perché tali non dovrebbero portare a risparmi (vedremo poi che tali nemmeno sono) di un certo rilevo.

Peraltro il riferimento ai 12 mesi calcolati a ritroso dall’ultima malattia insorta (secondo quindi l’anno solare mobile) costringe a controlli manuali che spesso i programmi paghe non riescono a gestire.

Ma ovviamente non basta. Si stabilisce pure che gli importi “trattenuti”, per effetto di “tali azioni”, saranno “redistribuiti” nell’ambito degli accordi di secondo livello previsti dall’art. 38 del Ccnl.

In questo caso – e sorvoliamo sulle imprecisioni terminologiche considerato che solo in ultimo si comprende che, ciò che apparivano specifici e differenziati trattamenti economici collegati alla diversa durata dell’assenza per malattia, sono di fatto delle trattenute retributive – i sottoscrittori si inventano pure la ridistribuzione di questa specie di “sanzione a presunzione assoluta”.

Ed è proprio questo che lascia basiti, questa voglia di complicarsi la vita, disponendo che il risparmio ottenuto dovrà essere opportunamente quantificato ed accantonato, per poi ridistribuirlo in sede di contrattazione di secondo livello, che avrà il compito di precisarne il come e il quando, le percentuali e i beneficiari.

Se poi la contrattazione territoriale o aziendale non venisse attivata, che fare di questi soldi non si dice.

Il nuovo Ccnl per i dipendenti da aziende dei settori Pubblici Esercizi, Ristorazione collettiva e commerciale e turismo

In data 8 febbraio 2018, tra la RIPE, l’Angem, la Lega Coop Produzione e Servizi, la Federlavoro e Servizi Confcooperative, l’AGCI Servizi e la FILCAMS-CGIL, la FISASCAT-CISL, aderente alla FIST-CISL, la UILTUCS UIL, è stato sottoscritto il nuovo contratto collettivo per i Pubblici esercizi.

I firmatari non sono certo, come vi vede, dei principianti ma organizzazioni avvezze alla contrattazione e che dovrebbero conoscere il mondo del lavoro, quello reale, e le relative dinamiche.

E probabilmente si sono pure affidati a professionisti per mettere nero su bianco gli accordi raggiunti dopo faticose discussioni e molte nottate in bianco. Ecco forse sta tutto lì, in quelle nottate in bianco, spesso su questioni di lana caprina, la spiegazione di ciò che oggi vogliamo commentare.

1. Un nuovo Contratto collettivo oppure no?

Subito un dubbio ci assale. Ma siamo di fronte ad un nuovo Ccnl oppure è solo un’operazione di stralcio della disciplina dei Pubblici esercizi dal vecchio accordo collettivo che era quindi una sorta di contratto plurimo (tre contratti in uno) firmato congiuntamente con FederAlberghi, per la parte Aziende alberghiere, e Faita, per la parte Complessi turistico – ricettivi dell’aria aperta?

La questione non è di poco conto perché nel primo caso l’applicazione dell’accordo Fipe comporterebbe una sostituzione del Ccnl applicato presso l’azienda con i noti problemi di armonizzazione tra quello di provenienza e quello di destinazione.

Non dovrebbe essere questo il caso, ma sul punto un minimo di chiarezza sarebbe stata apprezzata da tutti gli operatori.

2. La data di entrata in vigore

La prima cosa che notiamo è la data di entrata in vigore: il 1° gennaio 2018 pur a fronte della firma dell’accordo avvenuta solo l’8 febbraio.

La possibilità che a questa data qualche azienda abbia già elaborato i propri cedolini paga e pertanto possa essere costretta a rielaborare le retribuzioni e magari anche integrare la retribuzione già corrisposta al lavoratore non sfiora minimamente nessuno dei firmatari.

E se comunque la corresponsione degli arretrati creerà qualche difficoltà (pensiamo al conguaglio di straordinari e supplementare, di maggiorazioni domenicali o notturne, per lavoro festivo, per malattie e infortuni) non è un problema che li riguarda minimamente.

Del resto i Consulenti del Lavoro son pagati “profumatamente” anche per questo.

3. La disciplina della quattordicesima mensilità

Una formulazione poco felice di questa disciplina ha fatto sì che da subito si sia scatenato un dibattito circa l’esclusione degli scatti di anzianità dal calcolo della retribuzione utile ai fini della erogazione di questa mensilità aggiuntiva.

L’articolo 161 del nuovo contratto Fipe così recita:

1) Salvo quanto diversamente previsto all’articolo a tutto il personale sarà corrisposta una mensilità della retribuzione in atto al 30 giugno di ciascun anno (paga-base nazionale, indennità di contingenza, eventuale terzo elemento o quote aggiuntive provinciali, eventuali trattamenti integrativi salariali aziendali comunque denominati), esclusi gli assegni familiari e gli scatti di anzianità maturati.

Ora permettetemi una prima considerazione.

Cosa porta le parti, che stanno discutendo principalmente dei nuovi minimi contrattuali, a concedere da un lato ai lavoratori un aumento economico sui minimi contrattuali – che si rifletterà quindi su tutte le mensilità previste dalla contrattazione, quattordicesima compresa – e dall’altro lato intervenire proprio su quest’ultima riducendone la base di calcolo disponendo la sottrazione degli scatti di anzianità maturati?

Ti do con una mano e con l’altra mi riprendo parte del concesso. Quale ragionamento perverso è alla base di questa manfrina?

Entrando nel merito della disciplina della quattordicesima mensilità, è soprattutto il fatto di aver stabilito che dal relativo calcolo debbano essere esclusi gli scatti di anzianità maturati ad aver destato non poche perplessità.

Qualche commentatore ha sostenuto che d’ora in poi la sua quantificazione avverrà escludendo tutti gli scatti di anzianità, compresi quelli già maturati dal lavoratore e non solo i maturandi.

Altri hanno invece insinuato il dubbio – chi scrive è tra questi – che gli scatti di anzianità, esclusi dal computo della retribuzione utile per il calcolo della quattordicesima, sono esclusivamente i futuri, ovvero quelli che matureranno dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina. Senza entrare troppo nel tecnicismo si dovrebbe quantomeno considerare che diverso senso ha l’espressione “esclusi gli scatti di anzianità maturati” rispetto la formula esclusi gli scatti di anzianità”.

Tutto questo comporterà – tanto o poco – per il lavoratore una diminuzione dello stipendio, ovvero della sua retribuzione lorda annua? Poco importa.

Peraltro è facile immaginare che, ove venisse sposata la prima tesi (quella dell’esclusione di tutti gli scatti) ed il lavoratore anziano – quello che ha già maturato il massimo dell’anzianità prevista, quello che è una colonna portante dell’azienda – avanzasse recriminazioni per la diminuzione della paga sarà il datore di lavoro a porre rimedio con una integrazione economica volontaria.

Ma oltre il fatto di non aver pensato a certe dinamiche la cosa che più irrita è l’incapacità di comprendere l’assoluta necessità di utilizzare la massima chiarezza nel caso in cui, con un nuovo accordo collettivo, si intenda incidere negativamente sulle aspettative, soprattutto economiche, previste dal previgente accordo.

4. I maledetti copia-incolla

Va detto che questo contratto collettivo, vecchio o nuovo che sia, nasce da una costola del precedente contratto Turismo, da cui Fipe si era dal 2014 dissociata non firmando più i successivi rinnovi.

La tecnica utilizzata nella stipula è di fatto un copia-incolla del precedente accordo, del quale vengono modificati alcuni articoli. Nel fare questa operazione appare evidente come nemmeno ci sia preoccupati di leggere e rivedere le “castronerie” che già comparivano nei precedenti accordi.

Eppure la disposizione a cui ci riferiamo è proprio una di quelle oggetto di revisione e modifica, senza quindi che nessuno si sia accorto della bestialità che veniva riproposta.

Ecco che quindi, nell’individuare nella base di calcolo della quattordicesima mensilità, la retribuzione in atto al 30 giugno di ciascun anno (paga-base nazionale, indennità di contingenza, eventuale terzo elemento o quote aggiuntive provinciali, eventuali trattamenti integrativi salariali aziendali comunque denominati) escludendo gli scatti di anzianità maturati, i sottoscrittori si preoccupano di ricordarci che dalle mensilità aggiuntive vanno pure esclusi gli assegni familiari.

Si fa veramente fatica a credere ai propri occhi.

Quale rimedio?

Come si diceva in premessa “non si può più andare avanti così”. Questo paese merita più rispetto.

Più rispetto per il legislatore, che alla contrattazione collettiva affida la disciplina di moltissimi istituti contrattuali.

Più rispetto per la Pubblica Amministrazione e organi di vigilanza, a cui è affidata la verifica della corretta applicazione dei contratti collettivi anche in riferimenti a sgravi e benefici.

Più rispetto per i giudici del lavoro, che anziché alla deflazione del contenzioso, assistono impotenti ad un iperaffollamento delle aule giudiziarie.

Più rispetto per i lavoratori e per le aziende, che ai loro rappresentanti chiedono una regolamentazione non solo semplice ma certa dei loro rapporti.

Più rispetto per i professionisti, Consulenti del lavoro in primis, a cui è affidata la gestione delle dinamiche del complesso mondo del lavoro.

Perché di questo passo l’alternativa diventerebbe quella di un sistema dei Ccnl basato su un testo standard, sul quale le parti sociali andrebbero a riempire delle caselline vuote, inserendo importi, giorni, percentuali e valori economici in genere.

Una cosa che forse, a ben guardare, sarebbe aderente al principio che tutti i lavoratori sono uguali e che i diritti economici e normativi (parliamo di ferie, permessi, prova, preavviso, malattia, comporto) non possono essere condizionati dal settore in cui un lavoratore opera o peggio dalla voglia di stupire dei loro rappresentanti.

Riflessioni finali

Spesso assistiamo a battage pubblicitarie di sigle datoriali che ci dicono, in buona sostanza: “vieni a far elaborare le tue paghe da chi stipula il Ccnl”, con ciò sottintendendo una maggior capacità ed esperienza nel settore rispetto ad altri soggetti.

Certamente su un punto possiamo concordare: solo costoro sono in grado di comprendere appieno il senso di quanto scritto o meglio di ciò che avrebbero voluto scrivere. E sarebbero pure in grado, alla bisogna, di giustificare a posteriori il loro operato sulla scorta di una specie di unilaterale interpretazione autentica.

Volendo pensar male potremmo chiosare dicendo che tanta complicazione – ovvero scrivere i loro accordi in un linguaggio criptato, le cui chiavi sono in possesso solo di pochi eletti depositari della verità – potrebbe pure essere strumentale ad iniziative commerciali di questo genere.

Ma non vogliamo essere così maliziosi: per chi scrive tutto ciò è semplicemente il frutto di un pericoloso mix di superficialità e di incompetenza.

1 Borella A. “I contratti collettivi meritano veramente la fiducia del legislatore? Il caso del Ccnl autoscuole”, Sintesi, marzo 2017, pag. 3.

 

Preleva l’articolo completo in pdf 

La nuova disciplina della corresponsione delle retribuzioni ai lavoratori: molta approssimazione e una data che non quadra

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna

 

La fretta è una cattiva consigliera … Presto e bene, di raro avviene … Chi fa in fretta, fa due volte … La gatta frettolosa fece i gattini ciechi.

La saggezza popolare tramandata di generazione in generazione, o come si suol dire da padre in figlio, è sempre più disattesa dal legislatore, che evidentemente è rimasto orfano da piccolo ed è all’oscuro di queste massime di assoluto buon senso.

Questo errore di fondo si evidenzia ad ogni approvazione della legge di Bilancio, provvedimento omnibus che, si sa bene, in un modo o nell’altro verrà licenziato in modalità “pacchetto completo” e pertanto considerata in assoluto l’occasione migliore per inserire, in fretta e furia, quelle disposizioni che non hanno trovato accoglienza nella normale discussione parlamentare.

E non importa se le stesse avrebbero necessitato di un iter più ragionato, perché l’importante è assecondare questo o quel parlamentare che evidentemente non vede l’ora di veder accostato, quale promotore dell’ennesima, inutile, complicazione burocratica, il proprio nome ai sacrosanti improperi dell’imprenditore di turno.

La disciplina della corresponsione delle retribuzioni e dei compensi ai lavoratori

La Legge n. 205 del 27 dicembre 2017 non fa ovviamente eccezione e sulla materia ci regala l’ennesimo provvedimento giuridicamente sgrammaticato del quale non solo si dubita della reale utilità ma soprattutto si fatica a comprende la disciplina causa l’approssimazione con cui risulta scritta.

Un peccato anche perché della follia di un intervento che introducesse il pagamento tracciabile delle retribuzioni avevamo discusso proprio su questa rivista: era l’aprile dello scorso anno e Andrea Asnaghi aveva sapientemente e con grande ironia commentato l’ultima proposta normativa del “prestilegislatore” che oggi è diventata legge dello Stato1.

Tutto si è dimostrato inutile. Troppo dilagante il fenomeno del pagamento in contanti di retribuzioni (con annessa corresponsione di denaro in misura inferiore a quanto indicato sul cedolino paga) per far finta di nulla e non intervenire decisamente per debellare l’orribile piaga.

In attesa degli immancabili chiarimenti (ma possibile che una legge dello Stato abbia sempre bisogno di chiarimenti ufficiali?) vediamo quelli che ad una prima lettura appaiono i punti critici di questo provvedimento, che ci auguriamo sia quanto prima oggetto di vere e proprie modifiche legislative.

Gli intermediari, i mezzi di pagamento e l’impedimento all’incasso

Il comma 910 così esordisce:

A far data dal 1° luglio 2018 i datori di lavoro o committenti corrispondono ai lavoratori la retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, attraverso una banca o un ufficio postale con uno dei seguenti mezzi:
a) bonifico sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore;
b) strumenti di pagamento elettronico;
c) pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento;
d) emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato.
L’impedimento s’intende comprovato quando il delegato a ricevere il pagamento è il coniuge, il convivente o un familiare, in linea retta o collaterale, del lavoratore, purché di età non inferiore a sedici anni.

Se la disposizione nella parte iniziale è chiara (committenti e datori di lavoro dovranno rivolgersi ad una banca o un ufficio postale per pagare i propri lavoratori, subordinati o collaboratori che siano), sui mezzi utilizzabili nascono i primi dubbi.

La norma prevede l’utilizzo di un conto (individuabile da un codice IBAN) “indicato” dal lavoratore oppure di uno degli strumenti di pagamento elettronico oggi esistenti: bonifici, addebiti diretti, carte di credito e di debito, rimesse di denaro (cd. Money transfer) e addirittura bitcoin. Si noti come in entrambe le fattispecie non si dispone che il conto o lo strumento sia intestato al lavoratore: titolare del mezzo prescelto potrà essere anche un familiare o addirittura un terzo, con ampi spazi di manovre elusive che la fattispecie può offrire.

Poco convincente l’alternativa del pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento, che, data la sua scarsa praticità, è facile ritenere che sarà la meno utilizzata.

L’ultima possibilità è rappresentata dall’emissione di un assegno da consegnare al lavoratore. Si potrà quindi fare ricorso sia ad assegni circolari sia anche ad assegni bancari che riteniamo consigliabile emettere con la dicitura “non trasferibile”, comunque già obbligatoria per gli importi pari o superiori a 1.000 euro. Anche in questo caso la norma prevede che il titolo debba essere solo “consegnato” e non anche intestato al lavoratore: beneficiario potrebbe quindi risultare, come già visto per il conto corrente, un familiare o addirittura un terzo, anche qui con possibilità di comportamenti elusivi.
La materiale consegna dell’assegno potrà peraltro avvenire, così prevede esplicitamente la norma, oltre che direttamente in mani del lavoratore anche in quelle di un suo delegato, ma ciò solo in caso di sussistente impedimento del primo.
Cosa si intenda per impedimento – e come questo debba essere in che modo dimostrato e in quali limiti verificato dal debitore – non è dato sapere: certamente dovrà essere citato nell’atto di procura ma quali siano le circostante che autorizzano la delega e quali poteri e oneri di controllo abbia il soggetto che provvede alla consegna a terzi non risulta in alcun modo specificato.
Normale quindi domandarsi se basterà la mera presentazione di una procura semplice (con allegata una carta di identità) a sollevare da qualsiasi responsabilità il debitore nel caso che il creditore neghi di averla mai rilasciata. Si pensi al caso estremo, ma possibile come visto, dove nella procura venisse indicato un soggetto delegato alla ricezione autorizzando contestualmente l’intestazione dell’assegno allo stesso delegato.
Non aiuta peraltro nemmeno il successivo passaggio dove il legislatore ha previsto che l’impedimento “s’intende comprovato quando il delegato a ricevere il pagamento è il coniuge, il convivente o un familiare, in linea retta o collaterale, del lavoratore”. In questi casi la norma lascia intendere che è sufficiente che l’impedimento venga citato, anche in termini assolutamente generici, nella procura scritta, ad esempio “sono impossibilitato a passare di persona, ti mando mio figlio Andrea a ritirare il mio stipendio”.

Come si può notare la platea dei soggetti delegabili è piuttosto vasta rientrandovi non solo il coniuge e il convivente (il riferimento dovrebbe intendersi ai legami ex art. 36 della Legge n. 76/2016) ma anche tutti i familiari in linea collaterale ovvero quei parenti che, pur avendo uno stipite comune (ad esempio il padre o il nonno), non discendono l’uno dall’altro (fratelli o cugini).

Non sfugga infine che il delegato può anche essere un minorenne, purché abbia compiuto i 16 anni.

Il divieto di utilizzo dei contanti

Il comma 911 stabilisce un primo divieto:

I datori di lavoro o committenti non possono corrispondere la retribuzione per mezzo di denaro contante direttamente al lavoratore, qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.

Il comma è palesemente ridondante: già si è detto come occorra necessariamente servirsi di una banca o di un ufficio postale.
E peraltro, a dirla tutta, il comma è pure doppiamente contraddittorio, in primis perché il divieto di utilizzo del contante è previsto nel caso di apertura di un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento.
E in secondo luogo perché è altrettanto errato che il divieto valga per qualsiasi tipologia di rapporto di lavoro dato che alcune eccezioni sono proprio contemplate dal comma 913.

La firma per quietanza

Il secondo periodo del comma 912 dispone che:

La firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione.

Qui non si comprende la necessità di stabilire che l’eventuale firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituirebbe “prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione”.
Ovvio, e lo è sempre stato, che una semplice firma su un cedolino paga, ove non accompagnata da una dichiarazione esplicita di quietanza, non può in nessun caso costituire prova dell’incasso del corrispettivo della prestazione lavorativa.
Ed allora cosa si voleva intendere? Che dal prossimo 1° luglio in caso di utilizzo di mezzi di pagamento diversi da quelli previsti al comma 910, non solo scatterebbero le sanzioni previste dal comma 913, ma che l’importo dichiarato incassato dal lavoratore verrà considerato non corrisposto a prescindere da qualsiasi dichiarazione apposta sul cedolino paga? E se la quietanza fosse riportata su un qualsiasi altro documento scambiato tra le parti? Ed ancora, il lavoratore in questi casi avrebbe diritto alla ripetizione del pagamento spettantegli?
Se questa erano le intenzioni del legislatore, la norma non è certamente scritta in tal senso.

Soggetti esclusi e apparato sanzionatorio

Il comma 913 recita quanto segue:

Le disposizioni di cui ai commi 910 e 911 non si applicano ai rapporti di lavoro instaurati con le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a quelli di cui alla legge 2 aprile 1958, n. 339, né a quelli comunque rientranti nell’ambito di applicazione dei contratti collettivi nazionali per gli addetti a servizi familiari e domestici, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Al datore di lavoro o committente che viola l’obbligo di cui al comma 910 si applica la sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000 euro a 5.000 euro.

Viene stabilito che la nuova normativa non si applica alla pubbliche amministrazioni. Del resto ci rimane difficile immaginare che qualche Ente pubblico paghi in contanti.
Più ridondante la precisazione che non si applica ai rapporti di lavoro “comunque rientranti nell’ambito di applicazione dei contratti collettivi nazionali per gli addetti a servizi familiari e domestici, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale”. Semplificando si tratta di tutti gli addetti al funzionamento della vita familiare e delle convivenze famigliarmente strutturate.

Anche la disciplina sanzionatoria risulta formulata in modo approssimativo. La sanzione infatti riguarda la violazione dell’obbligo di cui al comma 910 ovvero l’utilizzo di canali che non siano banche o uffici postali e/o il ricorso a modalità diverse da quelle indicate. La domanda che qui nasce spontanea è se la sanzione si riferisca ad ogni lavoratore e ad ogni periodicità di corresponsione oppure sia una sanzione per illecito a condotta permanente, indipendente quindi dal numero di violazioni e dal numero di lavoratori coinvolti.
E poi, quale è l’organo preposto alla contestazione ed all’elevazione della sanzione?

Entrata in vigore

Il secondo periodo del comma 914 dispone che:

Gli obblighi di cui ai commi 910, 911 e 912 e le relative sanzioni si applicano a decorrere dal centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della presente legge.

A leggere le disposizioni sull’entrata in vigore pare di assistere allo storico programma di Corrado, La Corrida: dilettanti allo sbaraglio.
Si stabilisce infatti che gli obblighi di cui ai commi 910, 911 e 912 e le relative sanzioni si applicano “a decorrere dal centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della presente legge”.
Ora, se la matematica non ci inganna, essendo la legge entrata in vigore il 1° gennaio 2018, il centottantesimo giorno successivo andrebbe a cadere il 30 giugno 2018 e pertanto in tale data dovrebbe entrare in vigore la nuova normativa.
E qui ci perdiamo perché il comma 910 indica esplicitamente quale decorrenza della nuova disciplina la data del 1° luglio 2018, esattamente il giorno dopo.
Dove sta l’arcano o meglio l’errore? Un maldestro, soprattutto frettoloso, copia incolla del comma 2 dell’art. 3 del progetto di legge originario che prevedeva che “Indipendentemente dalla stipula della convenzione di cui al comma 1, le disposizioni della presente legge diventano efficaci decorsi centottanta giorni dalla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale”1.
E qui torniamo alla storia della gatta e dei suoi poveri gattini ciechi.

Conclusioni

È demoralizzante vedere come la necessità di ridurre l’atavico carico di burocrazia – peraltro oggetto ad ogni tornata elettorale di promesse di semplificazione – venga inesorabilmente vanificata da provvedimenti adottati da un legislatore distratto, incapace e sempre più lontano dalla realtà produttiva.
Pur essendo infatti innegabile la maggiore (sulla carta) tutela che la legge offre ai lavoratori vittime del pagamento in misura inferiore della retribuzioni, chi scrive non nasconde le proprie forti perplessità sulla reale possibilità di porre freno a questo fenomeno. E ciò a prescindere da una, auspicabile, migliore tecnica legiferativa.
Un lavoratore costretto fino ieri ad accettare una retribuzione inferiore ai minimi sindacali avrà oggi la forza di tenersi in tasca la giusta retribuzione solo per il fatto che questa anziché in contanti gli verrà accreditata sul suo conto corrente? Non accadrà invece che la situazione di debolezza nei confronti della parte datorile sia tale da costringere comunque il lavoratore a restituire al proprio datore di lavoro, in contanti, parte del denaro percepito con gli strumenti tracciabili individuati dal legislatore?

1Asnaghi A. “L’ultima follia del prestilegislatore: la proposta di legge per
disciplinare il pagamento delle retribuzioni”, Sintesi, aprile 2017, pag. 22.

 

 

 

 

Preleva l’articolo completo in pdf 

Comunicazione telematica di dimissioni versus comunicazione ordinaria: quando decorre il preavviso?

di Alberto Borella – Consulente del Lavoro in Chiavenna

 

Anche Facebook e i gruppi di discussione che vengono creati al suo interno possono essere fonte di ispirazione per i nostri articoli. Una problematica ricorrente, che riguarda la gestione del preavviso in funzione della comunicazione telematica di dimissioni, diventa così il pretesto per chiarire modalità e particolarità dell’istituto.

La diatriba da cui vogliamo partire riguarda il caso di un’eventuale preventiva comunicazione predisposta dal lavoratore ai soli fini della decorrenza del preavviso, posticipando ad altro momento l’invio della comunicazione telematica delle dimissioni. A questa manifestazione di volontà può essere riconosciuta la caratteristica di atto unilaterale ricettizio oppure i suoi effetti dipendono da un accordo con il datore di lavoro?

Le dimissioni telematiche 

La risposta alla domanda non può che partire dall’analisi della disciplina delle “Dimissioni volontarie e risoluzione consensuale” prevista dall’art. 26, co. 1, del D.lgs. n. 151/2015 (c.d. Decreto Semplificazioni) che così dispone:

Al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 55, comma 4, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali attraverso il sito www.lavoro.gov.it e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente con le modalità individuate con il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di cui al comma 3.

La volontà del legislatore appare chiara in quanto la procedura di dimissioni e di risoluzione consensuale assurge a forma tipica, che quindi non può essere derogata da altre e diverse modalità comunicative fino ad oggi utilizzate.

In parole povere il lavoratore, a differenza di quanto previsto dal sistema della “convalida” contenuto nella c.d. Riforma Fornero (che prevedeva la presentazione delle dimissioni in modalità cartacea procedendo successivamente alla loro ratifica), dovrà utilizzare questa specifica procedura comunicativa, per la quale dovrà seguire necessariamente il canale telematico, essendo l’unica modalità ammessa pena l’inefficacia delle dimissioni stesse.

L’accesso alla predetta procedura quale modalità legale di esternazione della volontà è confermata chiaramente anche nelle FAQ ministeriali:

20. Il modulo telematico ha la funzione di convalidare delle dimissioni già presentate con altra forma o quella di comunicare la volontà di dimettersi?

Il modello telematico non ha la funzione di convalidare dimissioni rese in altra forma bensì introduce la “forma tipica” delle stesse che per essere efficaci devono essere presentate secondo le modalità introdotte dall’articolo 26 del Decreto Legislativo n. 151/2015.

In questo contesto come vedremo si inserisce la problematica in argomento ovvero in quali termini un’eventuale comunicazione del lavoratore della volontà di dimettersi – in modalità cartacea e preventiva rispetto quella telematica – esplichi i suoi effetti sugli obblighi di preavviso.

La tesi della autonoma rilevanza del preavviso

La tesi da cui prende spunto la nostra disamina è quella che considera la nuova normativa riguardante esclusivamente la modalità legali di formalizzazione della decisione di porre fine al rapporto di lavoro. Rimarrebbero invece in vigore gli effetti ricettizi di una diversa comunicazione relativa il rispetto del preavviso previsto contrattualmente il quale, quindi, inizierebbe a decorrere immediatamente a prescindere dall’aver seguito o meno la nuova procedura telematica. Seguendo questa impostazione il datore di lavoro si vedrebbe costretto, in funzione della mera intenzione del lavoratore di comunicare (in un prossimo futuro) le proprie dimissioni nelle forme di legge, a considerare da subito decorrenti gli effetti del preavviso, senza nulla poter eccepire in merito.

Una tesi che taluni vedrebbero confermata dalla stessa prassi che, ritengono, avrebbe riconosciuto come la data di cessazione indicata sul modulo telematico sia aspetto irrilevante e secondario (ma vedremo che non è vero) sulla scorta della facoltà riconosciuta alle parti di rettificare tale termine senza che sia necessario provvedere all’invio di ulteriore comunicazione telematica1.

Al contrario è proprio nelle FAQ – strumento che in verità chi scrive non ama particolarmente – che si ritiene venire smentita la tesi sopra riportata.

22. Nell’ipotesi in cui il lavoratore e il datore di lavoro si accordino per modificare il periodo di preavviso, spostando quindi la data di decorrenza indicata nel modello telematico, come si può comunicare la nuova data se sono trascorsi i 7 giorni utili per revocare le dimissioni e variare la data di cessazione?

Come indicato nella circolare n. 12/2016, la procedura online non incide sulle disposizioni relative al preavviso lasciando quindi alle parti la libertà di raggiungere degli accordi modificativi che spostino la data di decorrenza delle dimissioni o della risoluzione consensuale. Sarà cura del datore di lavoro indicare l’effettiva data di cessazione nel momento di invio della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro, senza che il lavoratore revochi le dimissioni trasmesse telematicamente.

La possibilità di un accordo sul periodo di preavviso non significa che lo stesso non sia “gestito” dalla comunicazione telematica; anzi è proprio la prevista “libertà di raggiungere degli accordi modificativi che spostino la data di decorrenza delle dimissioni o della risoluzione consensuale” a presupporre che la comunicazione telematica contenga implicitamente le decisioni del lavoratore in merito alla data di decorrenza del preavviso da cui conseguentemente ricavare la volontà o meno di rispettarlo.

Se così non fosse il lavoratore sarebbe sempre costretto ad una duplice comunicazione per gestire le proprie dimissioni: una telematica ai fini dell’espressione della volontà e un’altra cartacea (contestuale o meno) per la decorrenza dei termini di preavviso.

Chiarito ciò, semplificando possiamo dire che se il lavoratore ha indicato sul modulo telematico la data del 31 dicembre, quella data (rectius: il giorno prima) sarà l’ultimo giorno di lavoro e pertanto:

– se questa data cadrà antecedentemente alla scadenza teorica del periodo di preavviso previsto dal Ccnl si considererà, implicitamente, la volontà di lavorare solo in parte il preavviso e il datore di lavoro sarà autorizzato a trattenere pro quota l’indennità sostituita e il lavoratore, salvo accordi con il datore di lavoro, non potrà avanzare pretesa di completare il periodo al quale si intende abbia rinunciato;

– se la data cadrà oltre il termine minimo del periodo di preavviso significherà che il lavoratore ha individuato quella data come ultimo giorno di lavoro (anticipando la sua volontà al datore di lavoro magari solo per una questione di correttezza nei confronti di costui) e su quella data l’azienda potrà fare affidamento per tutti gli aspetti normativi e organizzativi.

L’errore di data nel modulo telematico

Le conclusioni sopra riportare trovano del resto conferma anche in una successiva FAQ:

23. Se la data di decorrenza è stata inserita dal lavoratore calcolando erroneamente il preavviso e sono trascorsi i 7 giorni utili per revocare le dimissioni, come può essere comunicata la data di cessazione esatta?

La procedura telematica introdotta dall’articolo 26 del D.lgs.151/2015 e dal DM del 15 dicembre 2015 interviene sulle modalità di manifestazione della volontà, la quale non viene inficiata da un eventuale errore di calcolo o di imputazione. In questa ipotesi, la Comunicazione obbligatoria di cessazione, da effettuare secondo le vigenti disposizioni normative, fornisce l’informazione esatta sull’effettiva estinzione del rapporto di lavoro.

Anche dalle indicazioni ministeriali si intuisce quindi come la comunicazione telematica dia piena contezza delle scelte del dimissionario circa l’eventuale periodo di preavviso lavorato proprio perché tale scelta – che è ovviamente a carico del lavoratore – può comportare un errore di calcolo o di imputazione.

Un eventuale errore che, comunque, rimane irrilevante per il datore di lavoro, salvo che possa essere considerato riconoscibile ai sensi dell’art. 1431 c.c. ovvero “quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”.

A prescindere quindi da qualsiasi inesattezza, l’indicazione da parte del dimissionario della data di risoluzione del rapporto (dato peraltro obbligatorio) produrrà – quantomeno nell’immediato – il duplice effetto a valenza giuridica di porre fine al proprio rapporto di lavoro e di formalizzare la sua decisione di rispettare o meno i termini di preavviso previsti dal contratto.

In conclusione troviamo anche in questa FAQ un’ulteriore conferma di come le modalità di gestione del preavviso emergano implicitamente dal contenuto (la data indicata di fine rapporto) della comunicazione telematica, che racchiude in sé la rinuncia o la disponibilità a lavorarlo, interamente o parzialmente.

Tutto ciò, come detto, senza che sia necessario ricorrere ad altra specifica comunicazione.

La modifica della data di cessazione rapporto

In questo quadro un eventuale errore nell’indicazione della data di cessazione potrà essere gestito, in autonomia dal lavoratore, entro i 7 giorni successivi previsti per la revoca delle dimissioni mediante un escamotage ovvero annullando la comunicazione inviata e presentandone una nuova con data diversa.

Oltre tale termine la data potrà essere modificata solo ed esclusivamente tramite accordo con il proprio datore. E non potrebbe essere altrimenti perché riconoscendo al lavoratore il potere unilaterale di modificare la data di fine rapporto si giungerebbe a situazioni paradossali.

Si ipotizzi infatti l’indicazione della cessazione del contratto dopo una decina di giorni, pur a fronte di un periodo di preavviso di un paio di mesi. Se fosse riconosciuto un potere unilaterale al lavoratore di modificare la data di fine lavoro questi potrebbe, di dieci giorni in dieci giorni, posticipare la cessazione del rapporto di lavoro creando non pochi disagi all’organizzazione del datore di lavoro.

Analoga situazione dove si permettesse al lavoratore di modificare – anticipando la chiusura del proprio rapporto – una comunicazione che sia stata presentata con largo anticipo rispetto ai termini previsti dal Ccnl. In questo caso si ritiene che l’abbandono del lavoro prima della data segnalata autorizzerà il datore di lavoro a trattenere il preavviso nella misura della prestazione lavorativa non eseguita, considerando il teorico periodo di preavviso con un calcolo a ritroso dalla data di cessazione effettiva. Una diversa interpretazione permetterebbe a ciascun lavoratore di segnalare la cessazione del rapporto di lavoro con la data ad esempio del compimento dei 100 anni lasciandosi così aperta la possibilità di cessare il proprio rapporto ad nutum senza incappare in alcuna trattenuta per il mancato rispetto del preavviso.

L’accordo tra le parti per la gestione del preavviso

Ovviamente nulla vieta che le parti prevedano – a mezzo di un accordo ad hoc, anche preventivo – gli effetti di un futuro verificarsi dell’evento dimissioni e pertanto convengano tra loro che il periodo di preavviso abbia decorrenza dalla manifestazione delle dimissioni, anche prescindendo dalla presentazione cartacea di una lettera di dimissioni. Si tratterebbe quindi di un accordo e mai di una conseguenza automatica di un atto unilaterale del lavoratore.

Si ritiene peraltro che un accordo di questo tipo sia fortemente da sconsigliare in quanto un ripensamento del lavoratore – anche se è improprio parlare di ripensamento dato che la volontà di dimettersi è giuridicamente inesistente – potrebbe creare non pochi problemi all’azienda che avesse fatto affidamento sulla cessazione del rapporto.

Si ipotizzi un lavoratore con un periodo di preavviso di qualche mese con il quale si concordasse la decorrenza del preavviso senza una valida comunicazione telematica e proprio a fronte di questa programmata assenza (giuridicamente non certa ma solo prospettata dal lavoratore) il datore di lavoro si organizzasse e contattasse un sostituto, formalizzando con questi un impegno di assunzione a tempo determinato, il quale in funzione di questa promessa abbandonasse il suo posto di lavoro.

E magari che il lavoratore dimissionario, spinto a dimettersi perché allettato da altra proposta lavorativa, si rendesse conto che il cambio lavoro non è così allettante come credeva e rinunciasse a dimettersi.

In tali casi, salvo integrare l’accordo di gestione del preavviso con una clausola penale di importo elevato per il caso di mancata cessazione del rapporto, le conseguenze economiche potrebbero essere di un certo rilievo.

Del resto non si riesce ad immaginare motivo alcuno – giuridicamente meritevole di tutela – per cui il lavoratore non possa accedere da subito alla procedura telematica o per permettergli di procrastinare, magari all’ultimo giorno di lavoro previsto, la formalizzazione della propria volontà nelle modalità previste ex lege ai fini dell’efficacia delle proprio dimissioni.

Conclusioni

La tesi dell’autonoma efficacia del preavviso che abbiamo preso a pretesto per questa disamina e per le successive considerazioni appare in tutta evidenza non sostenibile per le varie ragioni che abbiamo sopra esposto.

Ma soprattutto non appare condivisibile sulla base di una semplicissima considerazione: la norma parla di inefficacia delle dimissioni in assenza della forma tipica.

In assenza di una diversa precisazione, che nella norma non si intravede, l’inefficacia è da intendersi a tutto tondo e quindi ai fini civilistici, normativi ed economici (preavviso compreso) e non solo in relazione alla volontà di porre termine al proprio rapporto di lavoro.

Poiché solo la procedura telematica fornisce rilevanza giuridica alla decisione del lavoratore non appare possibile sostenere che in assenza dell’atto principale (le dimissioni) possano crearsi, per volontà unilaterale, effetti collaterali e secondari necessariamente collegati e riconducibili ad una volontà mai manifestata, inesistente in quanto priva della forma prevista dalla legge.

Se così fosse ci ritroveremmo a dare rilevanza giuridica a una manifestazione di intenti (la volontà di dimettersi) che per legge non vincola il lavoratore in quanto inesistente, ma che si vorrebbe produrre effetti sul datore di lavoro (in riferimento al preavviso) nel caso in cui la cessazione del rapporto si realizzasse in un successivo momento.

È un poco come sostenere che un datore di lavoro possa comunicare al lavoratore la decorrenza del preavviso in funzione di un licenziamento che ancora non si intende formalizzare, precisando che una vera e propria comunicazione di risoluzione del rapporto verrà inviata successivamente perché sta fissando un appuntamento con il proprio Consulente del lavoro per individuare e compiutamente esplicitare le necessarie motivazioni.

1 Ministero del Lavoro: Dimissioni on line: Risposte FAQ.

 

Preleva l’articolo completo in pdf 

Una Proposta al mese – Lavoratrici madri: alla ricerca di un nuovo equilibrio delle regole e tutele

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna

La normativa italiana in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, parliamo ovviamente del D.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001, è improntata ad una forte tutela dell’evento maternità con una attenzione che si rivolge indiscutibilmente più alla lavoratrice che all’azienda.

Divieto di discriminazione, anticipo del Tfr, sicurezza sul lavoro, controlli prenatali, congedo di maternità, interdizione anticipata, interruzione di gravidanza, congedo parentale, permessi per allattamento, congedo per malattia del figlio, lavoro notturno, divieto di licenziamento – senza dimenticare i diritti riconosciuti al padre – dimostrano questa sperequazione a favore della parte prestatrice.

Al datore di lavoro viene riservata una scarsissima considerazione nonostante le evidenti problematiche dovute sia alla lunga, spesso lunghissima, assenza della lavoratrice che agli oneri economici per retribuzioni, dirette e differite, che maturano in capo alla stessa nel periodo di gravidanza e maternità.

Non si vuole qui ipotizzare un, peraltro difficilmente dimostrabile, rapporto di causa-effetto, tuttavia appare più che evidente che l’iperprotezione della lavoratrice madre (spesso a danno e discapito del datore di lavoro) non rappresenta certo la miglior soluzione al problema della discriminazione che l’universo femminile subisce sia nell’accesso nel mondo del lavoro che nella propria carriera lavorativa.

Scopo del presente intervento non è certo una riscrittura delle tutele, quanto piuttosto un modesto suggerimento per un restyling di due disposizioni, una in ambito organizzativo e l’altra sotto l’aspetto economico, nel tentativo di superare la, ahimè diffusa, percezione della donna lavoratrice quale “portatrice sana di problemi in azienda”.

La sostituzione di lavoratrici in congedo

Si diceva di come all’azienda, che pure subisce pesanti ripercussioni organizzative dall’assenza della lavoratrice per maternità, venga riservata una attenzione minima che scorgiamo in pratica nel solo art. 4, Sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo, che opera su due fronti:

  1. l’aspetto economico, riconoscendo uno sgravio contributivo del 50% (peraltro riservato alle sole aziende con meno di 20 dipendenti) per i contributi dovuti per il personale assunto a tempo determinato in sostituzione di lavoratrici/lavoratori in congedo, oltre all’esenzione dal contributo dell’1,40% previsto per i normali contratti a tempo determinato;

  2. l’aspetto normativo, concedendo di procedere alle predette assunzioni anche con un anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio del congedo (salvo periodi superiori che possono essere previsti dalla contrattazione collettiva) oltre alla esclusione dalla computabilità degli assunti per esigenze sostitutive dai limiti massimi degli occupabili a tempo determinato in ciascuna azienda (art. 23 del D.lgs. n. 81/2015).

Se poco vi è da dire circa lo sgravio sulla quota di contribuzione dovuta per il sostituto, che di fatto permette di azzerare i costi indiretti che il datore di lavoro sostiene per le lavoratrici e lavoratori in congedo ai sensi del Testo Unico n. 151/2001 (quota ratei ferie, mensilità aggiuntive e Tfr), qualcosa in più poteva esser fatto in tema di periodo di affiancamento e sostituzione.

Procediamo con ordine analizzando per prima cosa ciò che l’attuale normativa prevede sul punto all’art. 4, co. 2:

L’assunzione di personale a tempo determinato e l’utilizzazione di personale temporaneo, in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo ai sensi del presente testo unico, può avvenire anche con anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio del congedo, salvo periodi superiori previsti dalla contrattazione collettiva.

La ratio è assolutamente condivisibile. Il lavoratore assunto per sostituire una lavoratrice, specie se occupa una posizione strategica, e che si assenterà per un periodo di almeno cinque mesi, ha l’assoluta necessità di coordinarsi con il sostituito e quindi di potersi affiancare ad essa per un passaggio di consegne quanto più indolore. Un periodo di affiancamento che la norma prevede in un mese ma che la contrattazione collettiva ha la possibilità di ampliare in funzione, quantomeno nelle intenzioni del legislatore, della specificità del settore o delle mansioni: si pensi al personale con funzioni concettuali, non necessariamente iperspecialistiche, non certo a figure facilmente intercambiabili quali, per fare un esempio banale, il personale di pulizia.

Un plauso quindi al legislatore al quale però, allo stesso tempo, dobbiamo sollevare un appunto ovvero l’essersi lasciato sfuggire che il medesimo problema si pone al rientro della sostituita (parleremo quasi sempre al femminile dato che l’assenza del lavoratore è caso raro e non ugualmente significativo in termini temporali), la quale si potrebbe ritrovare a rioccupare la propria posizione anche molto tempo dopo l’inizio del congedo.

Non è raro infatti (si potrebbe malignamente dire che è quasi la norma) che la dipendente sia oggetto di un provvedimento di interdizione anticipata – per gravi complicanze nella gestazione o per condizioni di lavoro o ambientali pregiudizievoli – che significa l’assenza della lavoratrice già dalle prime settimane di gravidanza, quindi anche otto mesi prima del parto. Ovviamente in questo caso la neo-mamma rientrerebbe al lavoro senza nemmeno aver svolto un affiancamento pre-partum e quindi senza aver conosciuto il sostituto e condiviso con lui le metodologie di lavoro essendo ovviamente l’assenza “anticipata” non programmabile per definizione.

Aggiungiamoci il periodo di assenza obbligatorio post-partum, quindi altri tre mesi. Ipotizziamo pure la fruizione del congedo parentale: altri sei mesi. Senza escludere poi che la lavoratrice possa chiedere di usufruire di una assenza non retribuita fino al compimento del primo anno di età del bambino.

E dovrà anche, prima del rientro, godere delle ferie maturate nel frattempo.

Siamo a venti mesi e oltre, quasi due anni di assenza, al termine della quale, come detto, la lavoratrice tornerebbe a rioccupare la propria “postazione” trovando la scrivania sommersa da pratiche, riferite a nuovi clienti o nuove procedure, di cui non sa ovviamente nulla e senza qualcuno che la possa aiutare o dare indicazioni.

Se aziende molto strutturate sono in grado, nella maggior parte dei casi, di gestire senza particolari intoppi questi eventi, l’assenza per maternità in aziende di ridotte dimensioni, dove spesso la parte amministrativa è tutta sulle spalle di un’unica impiegata, è evidentemente una problematica di una certa delicatezza, che può avere gravi ripercussioni sull’intera struttura organizzativa.

Spesso infatti, nelle piccole aziende, è difficile ipotizzare un passaggio di consegne interno – gestito direttamente dal titolare o da altro suo collaboratore – senza che ciò per costoro comporti il tralasciare le proprie mansioni rivolte ad altri settori o alla parte operativa. In questi casi l’alternativa diventa l’assunzione a termine con scadenza il mese successivo l’effettivo rientro al lavoro della lavoratrice sostituita, gestendo ulteriori necessità con delle proroghe.

Vi sarebbe quindi un originario duplice motivo alla base del rapporto lavorativo: un primo di tipo “sostitutivo”, che per espressa disposizione di legge comprende anche l’affiancamento pre-assenza, e un successivo per “affiancamento post-rientro”. Ovviamente per questo secondo periodo di contestuale presenza del sostituto e della sostituita, non spetterebbe alcun beneficio economico, imponendo quindi la doppia elaborazione ai fini contributivi nello stesso mese di due cedolini per lo stesso lavoratore.

Peraltro – e lo diciamo sottovoce – considerata la pretestuosità di alcune interpretazioni di prassi a mero fini di incasso non ci sorprenderemmo se l’assunzione venisse dall’Inps considerata “non sostitutiva pura ai sensi del D.lgs. n. 151/2001”, negando quindi i benefici, sia economici che normativi, per l’intero periodo sostitutivo.

Una proposta che superi qualsiasi complicazione operativa e elimini qualsiasi rischio di vertenza è semplice ed appare, per quanto sin qui detto, finanche pleonastico precisarla.

L’assunzione di personale a tempo determinato e l’utilizzazione di personale temporaneo, in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo ai sensi del presente testo unico, può avvenire anche con anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio del congedo e potrà protrarsi fino al mese successivo il rientro della lavoratrice o del lavoratore sostituita/o, salvo periodi superiori previsti dalla contrattazione collettiva.

Gli oneri economici per lo Stato non appaiono insostenibili dato che riguarderebbero solo lo sgravio contributivo del 50%, peraltro riservato alle sole aziende al di sotto delle 20 unità, costo che riteniamo facilmente giustificabile dall’esigenza di mantenere la piena competitività sul mercato delle aziende interessate, salvaguardando al contempo la professionalità ma anche e soprattutto – in ottica di prevenzione dal rischio da stress lavoro-correlato – la serenità personale delle lavoratrici in rientro.

Le dimissioni volontarie

Ma c’è una situazione che risulta difficile da spiegare e da far, come si suol dire, “digerire” ai nostri clienti ovvero i costi connessi alle dimissioni di una lavoratrice presentate nel primo anno di vita del bambino.

L’art. 55 del D.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001, Testo Unico sulla maternità, così dispone:

1. In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell’articolo 54, il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. La lavoratrice e il lavoratore che si dimettono nel predetto periodo non sono tenuti al preavviso.

Anche in questo caso il legislatore non è parso particolarmente illuminato.

La giurisprudenza si è infatti divisa interpretando in alcuni casi il diritto alle indennità previste da disposizioni contrattuali condizionato “alla sola condizione che le dimissioni volontarie siano state presentate durante il periodo in cui è previsto il divieto di licenziamento. Nessun altro elemento di natura soggettiva od oggettiva è richiesto dalla norma”1.

Una lettura rigida che si fonda sulla presunzione assoluta di non spontaneità completa delle dimissioni, dovute alla necessità di occuparsi del bambino in maniera esclusiva2.

Un diverso orientamento – più favorevole ai datori di lavoro – ha invece ritenuto che la presunzione di non spontaneità delle dimissioni della lavoratrice madre (che giustificherebbe l’obbligo indennitario a carico del datore di lavoro) potesse essere in qualche modo superata, osservando che, se si teme che le dimissioni della gestante o della madre siano dovute non alla sua volontà ma al sistema di organizzazione produttiva ed al datore di lavoro e sembra perciò ragionevole equipararle sul piano degli effetti patrimoniali al licenziamento, la ragionevolezza dell’equiparazione viene meno quando l’iniziativa sia dettata da chiare ragioni di convenienza del recedente.

Con molta lucidità la suprema Corte osserva che “La corresponsione dell’indennità … potrebbe anzi indurre la lavoratrice più facilmente alle dimissioni e … a ripeterle anche col nuovo datore di lavoro, senza esserne dissuasa da possibili conseguenze negative sul piano dell’abuso del diritto: figura di incerta consistenza nel campo dei contratti a prestazioni corrispettive. L’imposizione indiscriminata di obblighi indennitari al datore di lavoro contrasterebbe col principio costituzionale di ragionevolezza (art. 3, secondo comma, Cost.), che si concreta, nel caso in esame, in quello di responsabilità nonché nella necessità che all’indennizzo corrisponda almeno un “pericolo” di danno. Si avrebbe, inoltre, una sorta di premio di maternità a carico non già del sistema previdenziale ma dell’imprenditore, con ingiustificata riduzione della sua libertà di iniziativa economica” (art. 41 Cost.)3.

A far da contraltare al principio esposto vi sono dei se e dei ma. Gli ermellini infatti ritengono ripristinata la ratio legis, e quindi che l’indennità sia ugualmente dovuta, quando il datore di lavoro non sia in grado di provare che la lavoratrice abbia, subito dopo le dimissioni, iniziato un nuovo lavoro ovvero quando la lavoratrice riesca a provare che il nuovo impiego sia per lei meno vantaggioso sul piano sia patrimoniale sia non patrimoniale (ad esempio per gravosità delle mansioni o per maggiore distanza della sede di lavoro dall’abitazione, ecc.).

Premesso che ad avviso di chi scrive risulterebbe iniquo pretendere il versamento del mancato preavviso (quantomeno in misura totale) nel caso che il nuovo stipendio sia inferiore di pochi euro o che il nuovo luogo di lavoro sia raggiungibile impiegando qualche minuto in più, non si può non sottolineare la prova diabolica che viene richiesta al datore di lavoro, chiamato a discutere dell’asserita non equivalenza delle nuove mansioni rispetto le precedenti in riferimento ad aspetti spesso non valutabili in termini matematici, quali situazioni di vantaggio e di gravosità.

Non è poi da escludersi che la lavoratrice potrebbe sottoscrivere formalmente un contratto part-time pur di fatto lavorando a tempo pieno (magari facendosi pagare gli extra in nero o dilazionandoli sotto forma di bonus o premi periodici: la fantasia italica in questi casi non ha limiti), ovvero richiedere un sottoinquadramento per il periodo iniziale del rapporto se non addirittura posticipare ad arte l’assunzione presso il nuovo datore dato che, stando alla Cassazione, la lavoratrice perderebbe il diritto solo se l’inizio del nuovo lavoro avvenisse “senza intervallo di tempo”. In pratica: aspetta una settimana e nessuno potrà contestare nulla.

Che dire: il classico pastrocchio all’italiana dove tutto è ambiguo e il contenzioso dall’esito incerto perché i criteri indicati dalla giurisprudenza non si riferiscono a dati oggettivi e dove i soliti furbetti verrebbe stimolato e pure premiato. E di questo, in questa disastrata Italia, non se ne sente proprio il bisogno.

Forse sarebbe stato meglio puntare sin dall’inizio su una lettura che sottolineasse il fatto che il periodo finale del comma 1 dell’art. 55 dispone che la dimissionaria non è tenuta al rispetto del preavviso. Una precisazione che in effetti appare contraddittoria ove, nello stesso istante, si voglia intendere – in via interpretativa – riconosciuta implicitamente alla lavoratrice l’indennità sostitutiva del preavviso a carico del datore (che presuppone un licenziamento senza rispetto dei termini) e al contempo si esclude – in questo caso esplicitamente – il dovere di rispettare il preavviso per la lavoratrice, previsto in caso di dimissioni.

È evidente che c’è qualcosa che non va se per la medesima situazione giuridica, la cessazione del rapporto, si disciplinano contestualmente e a favore della lavoratrice le conseguenze di due diversi comportamenti, dimissioni e licenziamento, nonostante l’uno escluda necessariamente l’altro.

Ovviamente questa lettura porterebbe a negare l’indennità di mancato preavviso in tutti i casi, ma rispetterebbe la ratio di concedere alla lavoratrice dimissionaria, impossibilita proprio per la situazione organizzativa post-partum a proseguire il rapporto, di non attenersi ai termini di preavviso previsti dal contratto per le dimissioni.

Ma soprattutto risulterebbe una interpretazione aderente al criterio costituzionale della ragionevolezza, che impone al legislatore di bilanciare sempre i distinti valori costituzionali in gioco. Perché una domanda nasce spontanea: cosa avrà fatto di male il povero datore di lavoro per accollargli un onere economico quale conseguenza di un comportamento riconducibile ad altri? Perché questa eccezione al principio di autoresponsabilità? È sufficiente richiamare, come fatto dalla Cassazione, la considerazione che il datore di lavoro è “un esponente di un sistema di organizzazione produttiva che non sempre consente alla donna di conciliare adeguatamente le prestazioni lavorative con l’adempimento dei propri compiti di madre4?

Non scordiamoci peraltro che, dal punto di vista economico, la lavoratrice madre, non solo non subisce trattenuta alcuna per mancato preavviso a seguito delle proprie dimissioni, ma ha la possibilità di vedersi riconosciuto l’accesso alla Naspi.

Di un ulteriore “omaggio economico” a carico azienda non se ne sente il bisogno salvo ritenere che le dimissioni in periodo protetto della lavoratrice madre costituisca un costo sociale da far ricadere (al pari del collocamento obbligatorio) non sul sistema previdenziale statale ma proprio sul “meritevole” datore di lavoro che abbia provveduto, in questo caso per scelta volontaria, all’assunzione di personale di sesso femminile.

Affermazione chiaramente pericolosa.

Le considerazioni che precedono pongono in evidenza la necessità di fare giustizia di una norma la cui formulazione approssimativa e la conseguente lettura datale dalla giurisprudenza (nonostante un filone favorevole in talune fattispecie al datore di lavoro) ha creato una ingiustificata penalizzazione alle aziende che nei fatti percepiscono l’obbligo previsto dalla norma una prevaricazione se non un vero e proprio furto.

Questa quindi la proposta di modifica dell’art. 55 del D.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001

1. In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell’articolo 54, il divieto di licenziamento, la lavoratrice e il lavoratore non sono tenuti al preavviso. La lavoratrice che si dimetta nel predetto periodo ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento, esclusa l’indennità di mancato preavviso.

Come si può notare ci siamo limitati ad invertire i due periodi della disposizione originaria: dapprima stabilendo il principio generale dell’esclusione dagli obblighi di preavviso della lavoratrice e del lavoratore; poi andando a disciplinare il diritto della lavoratrice alle indennità previste per il caso di licenziamento.

La novità è solo nell’ultimo periodo (ove si esclude il diritto alla indennità di mancato preavviso) il quale appare, in effetti, tautologico e ridondante a conferma che la norma avrebbe potuto essere letta sin da subito in modo da escludere l’onere che qui si propone di abolire.

1 Cassazione 22 ottobre 1991, n. 11164.

2 Corte Cost. 24 marzo 1988 n. 332.

3 Cassazione 19 agosto 2000, n. 10994.

4 Cassazione 14 maggio 1985, n. 2999.

 

 

Preleve l’articolo completo in pdf 

Indennità di trasferta: la querelle pare finalmente risolta. Ma sul trasfertismo…

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna

Al di là di ogni più rosea previsione.

Con la sentenza n. 27093 datata 24 ottobre 2017 la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite chiude, si spera in maniera definitiva, a favore delle aziende la querelle sul trattamento di trasferta e trasfertismo iniziata nel 20121, che si pensava definitivamente chiusa nel 2016 grazie ad una norma di interpretazione autentica dell’art. 51, co. 6, del Tuir2, e inaspettatamente riaperta agli inizi 2017 da una ordinanza della Cassazione che aveva sollevato il dubbio che lettura della disposizione in questione, solo asseritamente interpretativa, fosse invece di tipo innovativo e pertanto non potesse che avere valore esclusivamente per l’avvenire3.

Lo fa con una corposa sentenza di oltre trenta pagine, con una ricostruzione storica molto articolata (che, per quanto qui interessa, non andremo a riportare nei suoi dettagli) da cui emerge un mix di rigore giuridico e di buon senso che lascia sperare che la questione non possa riproporsi in un prossimo futuro.

La sentenza della Corte di Cassazione n. 27093 del 24 ottobre 2017

Gli Ermellini, dopo aver ripercorso tutta l’evoluzione normativa della disciplina delle indennità corrisposte dal datore di lavoro ai dipendenti che prestano la propria opera al di fuori della sede dell’impresa, evidenziano come la posizione espressa dalla sentenza n. 396 del 2012 (consolidata nelle successive sentenze di legittimità) avesse creato notevoli incertezze, determinate dalla mancata condivisione di tale orientamento da parte delle Pubbliche Amministrazioni del settore nonché da una variegata giurisprudenza di merito”.

In questa situazione il legislatore era intervenuto con l’art. 7-quinquies del D.l. n. 193 del 2016 mediante una norma di interpretazione autentica di cui, ora, l’ordinanza di rimessione mette in discussione la portata interpretativa in quanto non si limita a chiarire il senso della norma preesistente (articolo 51, comma 6, Tuir) o a scegliere uno dei possibili sensi ad essa attribuibili, ma sembra piuttosto avere un valore innovativo”4.

Pur riconoscendo in parte fondate le perplessità che avevano spinto la Cassazione a chiedere l’intervento delle Sezioni Unite, la decisione in commento esprime una posizione in contrasto con la recente giurisprudenza di legittimità.

La censura che viene operata alla lettura data art. 51, co. 6, del Tuir dal 2012 ad oggi è che questa si fosse limitata al senso letterale della parole senza indagare – come prescrive l’art. 12 disp. Prel. Cod. civ. – l’intenzione del legislatore alla stregua dei criteri di interpretazione storica, logico-sistematica e teleologica. Ebbene, nella specie, per cogliere l’esatta portata della suindicata espressione è necessario fare uso di tutti i suddetti criteri interpretativi”.

Nella particolare querelle su trasferta e trasfertismo le Sezioni Unite ritengono necessario quindi derogare alla regola che vede l’interpretazione fermarsi al solo dato grammaticale, potendo quindi ricorrere agli altri criteri interpretativi solo in presenza di problemi interpretativi per insufficienza del dato letterale o equivocità.

La precisa ed anche complessa ricostruzione della genesi della locuzione “anche se corrisposta con carattere di continuità” porta quindi la Cassazione a ritenere che – diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 396 del 2012 cit. e dalla successiva conforme giurisprudenza di legittimità – ad essa non possa essere attribuito il significato di limitare la “rigida continuità” della “trasferta abituale” e della corresponsione del relativo compenso, considerando tale elemento come eventuale. È infatti proprio la presenza dell’inciso “anche se …” dimostra che il legislatore ha considerato la “continuità” della prestazione del “trasfertista abituale” solo eventuale e comunque indifferente ai fini del relativo trattamento contributivo; nel senso che pure in ipotesi di continuità il trattamento non deve essere quello ordinario previsto per la retribuzione, bensì quello più favorevole previsto per l’indennità di trasferta o i compensi analoghi.

La Suprema Corte arriva quindi ad enunciare il seguente principio di diritto:

in materia di trattamento contributivo dell’indennità di trasferta, alla stregua dei criteri di interpretazione letterale, storica, logico-sistematica e teleologica, l’espressione “anche se corrisposta con carattere di continuità” – presente sia nell’art. 11 della legge 4 agosto 1984, n. 467 sia nel vigente art. 51, comma 6, del TUIR (così come nel comma 6 dell’art. 48 del TUIR, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal D.lgs. 2 settembre 1997, n. 314) – deve essere intesa, nel senso che l’eventuale continuatività della corresponsione del compenso per la trasferta non ne modifica l’assoggettabilità al regime contributivo (e fiscale) meno gravoso (di quello stabilito in via generale per la retribuzione imponibile), rispettivamente previsto dalle citate disposizioni”;

In altre parole l’elemento della continuità (o ripetitività o altissima frequenza che dir si voglia) non risulta essere la discriminante fra trasferta e trasfertismo, discriminante che piuttosto va ricercata nella differenziazione fra l’elargizione di elementi collegati in modo analitico a ciascun singolo giorno di trasferta (ancorché esercitata in modo continuativo) oppure elargita in modo indifferenziato come quota di retribuzione, perdendo quindi qualsiasi connessione con la verifica o meno di un analitico se/come/quando di ogni singolo movimento del dipendente “sempremobile”.

Notevole infine non solo che si enunci tale criterio per l’effetto della interpretazione autentica operata nel 2016 da legislatore, ma che si sostenga (fra le righe, almeno così pare a chi scrive) che tale interpretazione logico-sistematica ben avrebbe potuto evincersi dalla norma originaria, con una maggiore accortezza e senza (si consenta) la frenesia di onnipotenza interpretativa di cui talvolta qualche magistrato sembra affetto.

Quanto in questi fenomeni vi siano anche valutazioni politico-sociali non è dato sapere. Ovviamente va benissimo così perché questa volta (una tantum) condividiamo in pieno la ratio della decisione in commento. Certo in chi scrive rispetto ad altre sentenze rimane il dubbio che se si fosse voluto giungere ad una determinata conclusione o al suo opposto si sarebbe potuto farlo sulla base di motivazioni (almeno in apparenza) valide e giuridicamente supportate.

La ricostruzione storica (che qui come già detto non ripercorreremo) proposta dalla sentenza n. 27093/2017 porta la Cassazione ad escludere che la decisione del legislatore di intervenire con una norma retroattiva sia contestabile.

Si osserva infatti come, il linea generale, qualsiasi intervento legislativo destinato a regolare situazioni pregresse – a prescindere dalla sua qualificazione o autoqualificazione in termini di norma interpretativa, innovativa, di sanatoria – deve essere conforme ai principi costituzionali della ragionevolezza e della tutela del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche, nonché al rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario, anche se finalizzato alla necessità di riduzione del contenzioso o di contenimento della spesa pubblica o a far pronte ad evenienze eccezionali.

In questo caso la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativa in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore a tutela della certezza del diritto e dell’uguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale”.

Nel caso di specie, statuisce la Suprema Corte, ricorrono tutti questi elementi, essendo infatti innegabile che:

1) la tesi della disposta attribuzione alla norma interpretativa di un significato non compatibile con il suo tenore letterale, non è condivisibile perché basata su una esegesi dell’espressione “anche se …” contenuta nell’art. 51, comma 6, TUIR che non trova riscontro nella relativa interpretazione letterale, storica, logico-sistematica e teleologica;

2) … omissis…

3) in considerazione del mancato adeguamento delle Amministrazioni del settore e della complessiva giurisprudenza di merito all’orientamento di legittimità inaugurato dalla sentenza n. 396 del 2012 si era venuta a creare una “situazione di oggettiva incertezza del dato normativo”, determinata da “un dibattito giurisprudenziale irrisolto”;

4) con l’art. 7-quinquies cit. è stata “ristabilita un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore”, che, con l’inciso “anche se …”, aveva manifestato l’intenzione di ampliare e non di restringere l’ambito di applicabilità del regime contributivo più favorevole.

Ne deriva che il suddetto intervento legislativo risulta conforme ai principi costituzionali della ragionevolezza e della tutela del legittimo affidamento nella certezza della situazioni giuridiche, cioè a “principi di preminente interesse costituzionale”.

Le indennità per trasfertismo

Se da un lato possiamo ritenere risolto sia per il presente che per il passato (ante 2012) il discorso “trasferta” (quantomeno sull’esclusione delle mera continuità come elemento caratterizzante, che resta – come già avrebbe dovute essere – problema definitivamente risolto ed in modo equo e razionale), rimangono alcune criticità in riferimento al trattamento fiscale delle indennità per trasfertismo, la cui disciplina dopo l’approvazione dell’articolo 7-quinquies del D.l. n. 193 del 22 ottobre 2016 risulta la seguente:

1. Il comma 6 dell’articolo 51 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che i lavoratori rientranti nella disciplina ivi stabilita sono quelli per i quali sussistono contestualmente le seguenti condizioni:

a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro;

b) lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;

c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta.

2. Ai lavoratori ai quali, a seguito della mancata contestuale esistenza delle condizioni di cui al comma 1, non è applicabile la disposizione di cui al comma 6 dell’articolo 51 del testo unico di cui al citato decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986 è riconosciuto il trattamento previsto per le indennità di trasferta di cui al comma 5 del medesimo articolo 51.

La soluzione adottata dal legislatore, salvo quanto detto finora, potrebbe apparire su un solo punto innovativa e, in tal senso foriera di possibili scelte elusive. Chi scrive vorrebbe evidenziare che per poter togliere ai giudici la facoltà – erroneamente interpretata come indipendenza della magistratura ma che in fondo appare un’appropriazione illecita del potere legislativo – di decidere arrampicandosi sugli specchi con interpretazioni fantasiose, il legislatore rischia di esagerare nel senso opposto.

Per poter accedere al regime del trasfertismo è infatti necessaria la sussistenza – chi scrive ritiene non solo formale ma sostanziale – di tutti e tre i requisiti previsti, ma (e qui, e solo qui, cioè in sostanza nel co. 2, sta l’esagerazione e la portata potenzialmente innovativa, se letta maliziosamente) l’assenza di anche un solo requisito determina ipso facto l’applicazione del più favorevole regime della trasferta.

I tre requisiti infatti non sono del tutto uguali in quanto a valenza sul fenomeno del lavoratore in missione.

La mancata indicazione della sede di lavoro potrebbe infatti essere strumentale al beneficio: si pensi ad un impiegato amministrativo che abbia una effettiva postazione lavorativa fissa e che una volta al mese si rechi in trasferta per il quale si ometta volontariamente l’indicazione nel contratto di assunzione della sede lavoro.

Anche la corresponsione al dipendente, in relazione di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta potrebbe essere nascondere intenti elusivi: si pensi al citato impiegato amministrativo al quale si riconosce una indennità di 1.000,00 euro mensili a fronte di una sola trasferta.

In questa situazioni si ritiene che la discriminante continuerà ad essere, in primis, la previsione di cui alla lettera b) dello “svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente”, che giocoforza impone una attenta valutazione delle mansioni e della modalità di svolgimento delle stesse.

Ma soprattutto dovrà essere tenuto in considerazione l’inciso di cui alla lettera c) che prevede la corresponsione dell’indennità “in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi”.

Esemplificando non si potrà sostenere che l’erogazione di un premio fisso, che prescinde dalla circostanza che il dipendente si sia effettivamente recato in trasferta e dal luogo della stessa, possa essere soggetto al regime di cui al co. 6 dell’art. 51 del Tuir se poi non si possa provare che l’attività lavorativa sia svolta in luoghi “sempre variabili e diversi” ovvero che richieda la “continua mobilità del dipendente”.

È facilmente intuibile come espressioni quali “sempre” oppure “continua” non lascino presagire nulla di buono.

Una precisazione deve essere fatta: l’art. 51, co. 6, del Tuir si riferisce ad una “indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa” per cui non è necessario – stando ad una rigorosa interpretazione letterale – che l’indennità sia mensile e quindi uguale in tutti i mesi, ma potrebbe ben essere sia una indennità giornaliera, purché di importo sempre uguale, rapportata ai giorni di calendario (31 giorni a gennaio e 28 a febbraio), ma anche riferita ai giorni teoricamente lavorativi della settimana (dal lunedì al venerdì o dal lunedì al sabato a seconda del Ccnl) purché attribuita “senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta”.

Ciò premesso, nei casi in cui venissero disconosciuti i presupposti di legge e disconosciuta la riconducibilità alla fattispecie del trasfertista, bensì a quella della trasferta, si pone il problema del trattamento fiscale e contributivo delle somme corrisposte.

La risposta non è per nulla facile anche se per quanto sopra precisato si potrebbero tenere distinte due fattispecie:

– nell’ipotesi di indennità riconosciuta in cifra fissa mensile l’importo, a rigor di logica, parrebbe doversi ricondurre ad intera ripresa fiscale e previdenziale, non essendo possibile l’imputazione alle singole trasferte; decisamente impervia infatti la strada che pretenderebbe di riconoscere la non imponibilità (entro il limite massimo giornaliero di esenzione) delle somme erogate, chiedendone l’imputazione ai giorni di effettiva trasferta, con un calcolo proporzionale che consideri l’indennità fissa come implicitamente riferita ai soli singoli giorni di comprovata attività lavorativa al di fuori del territorio comunale.

– nel caso invece di indennità corrisposte per le singole giornate (ovviamente per tutte le giornate teoricamente lavorabili) si ritiene che i soli importi riferiti alle giornate non lavorate ovvero con prestazione lavorativa presso la sede o all’interno del comune, debbano essere considerati in toto imponibili riservando pertanto l’esenzione fiscale e contributiva alle indennità riferibili ai soli giorni di effettiva trasferta fuori dal territorio comunale, sempre che sia possibile darne prova con documentazione varia (ricevute per vitto e/o alloggio, rimborsi chilometrici, pedaggi autostradali, parking, etc).

Appare peraltro evidente che con l’attuale disciplina il riconoscimento dell’indennità di trasfertismo venga ridotto a casi rari come, ad esempio, viaggiatori e piazzisti di aziende commerciali oppure a lavoratori in mobilità continua, tipo certi lavori nel campo cantieristico o dell’autotrasporto, qualora l’azienda voglia con essi attuare una determinata politica retributiva “omnicomprensiva” e non “day by day”. Peraltro anche in questi casi non sono da escludersi comportamenti potenzialmente considerabili elusivi ove anziché accedere al regime dei “trasfertisti” si opti (senza rispettarne le condizioni) per il regime della “trasferta”; le scelte sono pertanto da analizzare con cura e prudenza, anche se evidentemente non è estranea ad esse l’entità delle indennità concordate con il lavoratore.

Abbiamo già segnalato su questa Rivista che l’intero argomento “trasferta” avrebbe bisogno di una rivisitazione complessiva che calibrasse meglio fattispecie, esenzioni ed obblighi documentali, in modo da coniugare semplicità, trasparenza e razionalità. Il che, purtroppo, nel panorama normativo attuale appare auspicio pressoché chimerico.

1 Cassazione n. 396 del 13 gennaio 2012.

2 D.L. n. 193 del 22 ottobre 2016.

3 Cassazione n. 9731 del 18 aprile 2017.

4 Per un approfondimento si rinvia A. Borella, Trasferta e trasfertismo: la storia infinita di un inopportuno bracci o di ferro fra giudici e legislatore, in Sintesi, ottobre 2017, pag. 13.

Preleve l’articolo completo in pdf

Trasferta e trasfertismo: la storia infinita di un inopportuno braccio di ferro fra giudici e legislatore

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna

Era la fine del 1997 quando con una corposa circolare, la n. 326/E, il Ministero delle Finanze forniva la propria definizione di “trasfertisti”.

Un intervento di prassi che di fatto sopperiva alla mancata adozione di un decreto del Ministero delle Finanze che, di concerto con il Ministro del lavoro, avrebbe potuto, secondo il disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, individuare le categorie di lavoratori e le condizioni di applicabilità della disciplina delle indennità e delle maggiorazioni di retribuzione previste dall’art. 51, comma 61.

La circolare n. 326/E del 23 dicembre 1997 del Ministero delle Finanze riconduceva al termine trasfertisti tutti quei lavoratori tenuti per contratto all’espletamento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, ai quali, in funzione delle modalità di svolgimento dell’attività, vengono attribuite delle somme non in relazione ad una specifica “trasferta” (istituto, quest’ultimo, che presuppone che il lavoratore, più o meno occasionalmente, venga destinato a svolgere un’attività fuori della propria sede di lavoro) ma in modo forfettario.

La precisazione si era resa necessaria per distinguere, dal punto di vista fiscale, l’indennità di trasfertismo (che concorre a formare il reddito nella misura del 50 per cento del suo ammontare) dalla diversa indennità di trasferta (esente totalmente da imposizione fiscale entro i limiti ivi individuati) prevista al co. 5 dell’art. 51 del Tuir.

Grazie alle indicazione ministeriali, venivano ricompresi nella definizione di trasfertisti

tutti quei soggetti ai quali viene attribuita una indennità, chiamata o meno di trasferta, ovvero una maggiorazione di retribuzione, che in realtà non è precisamente legata alla trasferta poiché è attribuita, per contratto, per tutti i giorni retribuiti, senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove si è svolta la trasferta.

A questa conclusione – che prendeva atto degli orientamenti giurisprudenziali in materia – si allineava il Ministero del Lavoro con la nota n. 25/I/0008287 del 20 giugno 2008 che, analizzando i Ccnl dei settori edili e autotrasporti, giungeva alla conclusione che

il lavoratore debba considerarsi «trasfertista» ove il contratto non preveda una sede di lavoro predeterminata, in quanto assoggettato a continui spostamenti, per i quali abbia diritto ad una particolare maggiorazione contributiva, senza che rilevino a detti fini, i tempi e il luogo delle varie trasferte.

La stessa Inps, poco tempo dopo, avrebbe confermato l’impostazione, individuando, con il messaggio n. 27271 del 5 dicembre 2008, i seguenti elementi riconducibili al trasfertismo:

1. la mancata indicazione nel contratto e/o lettera di assunzione della sede di lavoro intendendosi per tale il luogo di svolgimento dell’attività lavorativa e non quello di assunzione (quest’ultimo, infatti, può non coincidere con quello di svolgimento del lavoro)

2. lo svolgimento di una attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente (ossia lo spostamento costituisce contenuto ordinario della prestazione di lavoro)

3. la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di una indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa vale a dire non strettamente legata alla trasferta poiché attribuita senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove si è svolta la trasferta.

La sentenza della Corte di Cassazione n. 396 del 13 gennaio 2012

Tutto bene per lunghissimi quindici anni, fino a quando la Corte di Cassazione, costretta ad interpretare il disposto dell’art. 51, co. 6, del Tuir, forniva una lettura totalmente diversa del concetto di “trasfertista” rispetto a quello fino ad allora assunto sia dall’Amministrazione Finanziaria che dall’Inps.

Con la sentenza n. 396/2012 – a cui avrebbero fatto seguito altre sentenze, la n. 3824 del 25 gennaio 2012 e la n. 22796 del 10 ottobre 2013 – gli Ermellini pronunciarono infatti la seguente massima:

L’articolo 51, sesto comma del testo unico delle imposte sui redditi – il quale prevede che le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti ai lavoratori tenuti per contratto all’espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità, concorrono a formare il reddito, anche ai fini contributivi, nella misura del 50 per cento del loro ammontare – si riferisce al caso in cui la normale attività lavorativa si debba svolgere contrattualmente al di fuori di una sede di lavoro prestabilita – ancorché l’assunzione del dipendente sia formalmente avvenuta per una determinata sede – e con riguardo al pagamento di una indennità o una maggiorazione retributiva erogata in ragione di tale caratteristica, anche se non nei giorni di assenza dal lavoro per ferie, malattia e così via e anche se in misura variabile in relazione alle località di volta in volta assegnate.

Le conclusioni della Cassazione si basano sull’inciso della norma che recita “anche se corrisposta in via continuativa”, interpretato nel senso di considerare irrilevante che l’indennità venga o meno corrisposta tutti i giorni, anche per quelli non lavorativi. Trattasi di mera precisazione al fine di evitare fraintendimenti sul disposto principale. Ciò che conta è quindi che sia versata a “lavoratori tenuti per contratto all’espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi”, dovendosi in definitiva verificare esclusivamente se il tipo di mansioni, previste negli accordi individuali sottoscritti, prevedano o non prevedano una stabile sede di lavoro.

In sostanza l’unico requisito necessario alla identificazione del lavoratore trasfertista è quello della variabilità del luogo della prestazione.

Non rileva nemmeno che nel contratto di lavoro sottoscritto tra le parti venga indicata una sede di assunzione, che per la figura del trasfertista è considerarsi quale indicazione meramente formale che nulla ha a che vedere con la vera e propria sede di lavoro, la quale, nel caso di specie, non può mai essere prestabilita a priori.

L’effetto fu dirompente considerato il fatto che moltissime aziende – confidando nell’interpretazione data illo tempore da Ministero delle Finanze, Ministero del Lavoro e Inps – avevano trattato in totale esenzione (entro i limiti giornalieri previsti) gli emolumenti corrisposti ai propri lavoratori comandati in trasferta i quali, da ora in avanti, avrebbero dovuto essere considerati “trasfertisti”.

Queste imprese, che correvano ora il rischio di sostanziosi recuperi contributivi nei limiti prescrizionali, si trovarono peraltro davanti ad un dilemma: adeguarsi da subito al cambio di rotta oppure attendere un consolidamento dell’orientamento espresso dalla sentenza del 2012, con il rischio di far lievitare l’importo di contributi non versati.

Sia permesso qui di giudicare quantomeno “avventato” il giudicato della Suprema Corte, molto spesso arroccata sulla torre d’avorio di un diritto ideale, non tanto nel senso della ragionevolezza quanto in quello dello scollegamento dalla realtà fattuale, a cui invece parevano ben ancorati i ricordati interventi di prassi.

Una ulteriore parentesi va peraltro aperta sottolineando che, per la maggior parte delle fattispecie portate all’attenzione della Cassazione, il contenzioso era stato generato proprio dagli Enti di vigilanza fiscale o previdenziale, che in tal modo dimostravano di non aver tenuto in alcun conto le disposizioni interpretative emanate dai loro stessi Organi di riferimento.2

Un comportamento che non può che definirsi moralmente scorretto e che va ulteriormente a minare la già flebile fiducia che gli operatori economici nutrono verso le istituzioni.

Il D.l. n. 193 del 22 ottobre 2016

Il legislatore, in considerazione di una giurisprudenza che man mano andava sempre più a consolidarsi, riprese molto opportunamente in mano la propria facoltà dispositiva, andando ad emanare una norma di interpretazione autentica finalizzata a porre fine a un contenzioso dai risvolti sociali, dato che rischiava di mettere al tappeto, del tutto ingiustamente, parecchie realtà aziendali.

Con l’articolo 7-quinquies veniva così a statuirsi:

1. Il comma 6 dell’articolo 51 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che i lavoratori rientranti nella disciplina ivi stabilita sono quelli per i quali sussistono contestualmente le seguenti condizioni:

a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro;

b) lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;

c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta.

2. Ai lavoratori ai quali, a seguito della mancata contestuale esistenza delle condizioni di cui al comma 1, non è applicabile la disposizione di cui al comma 6 dell’articolo 51 del testo unico di cui al citato decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986 è riconosciuto il trattamento previsto per le indennità di trasferta di cui al comma 5 del medesimo articolo 51.

La natura interpretativa della norma, che, in quanto tale, ha efficacia retroattiva ex lege, permise agli operatori del settore di tirare un sospiro di sollievo.

Non a tutti, però, dato che creò nuova incertezza a coloro che nel frattempo avevano scelto di adeguarsi (o già erano allineati) all’indirizzo espresso dalla sentenza della Cassazione n. 396/2012.

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 9731 del 18 aprile 2017

E arriviamo così ai recentissimi sviluppi, quando la Suprema Corte si è trovata a discutere un ricorso presentato da un imprenditore piemontese che contestava la pretesa dell’Inps di considerare l’indennità corrisposta ai propri dipendenti – riguardante comunque, si sottolinea, un periodo antecedente la pubblicazione della norma di interpretazione autentica – come soggetta al regime di cui all’art. 51, comma 6, e quindi imponibile dal punto di vista contributivo per il 50% del suo ammontare. E ciò nonostante l’indennità fosse stata corrisposta solo nei giorni di lavoro nei cantieri e non in quelli di presenza dei dipendenti presso la sede o in cantieri prossimi alla stessa.

La sentenza rammenta innanzitutto come la stessa Corte avesse già avuto modo di stabilire che il D.P.R. n. 917/1986, all’art. 51, comma 6,

non richiede per la sua applicazione che le indennità e le maggiorazioni ivi previste siano corrisposte in maniera fissa e continuativa e anche indipendentemente dalla effettuazione della trasferta e dal tipo di essa, rilevando unicamente che si tratti di erogazione corrispettiva dell’obbligo contrattuale assunto dal dipendente di espletare normalmente le proprie attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, quindi al di fuori di una qualsiasi sede di lavoro prestabilita, e restando irrilevanti le modalità di erogazione dell’indennità.

Gli Ermellini pur prendendo atto dell’entrata in vigore, nelle more del procedimento, dell’art. 7-quinquies, D.l. n. 193/2016 e della sua lodevole intenzione di voler risolvere il contrasto di giurisprudenza creatosi nel tempo ricorrendo ad una interpretazione autentica e retroattiva dell’art. 51, comma 6, Tuir, ritengono tuttavia che:

la disposizione dell’articolo 7-quinquies, D.L. 193/2016, non può considerarsi norma di interpretazione autentica, in quanto non si limita a chiarire il senso della norma preesistente (articolo 51, comma 6, Tuir) o a scegliere uno dei possibili sensi ad essa attribuibili, ma sembra piuttosto avere un valore innovativo.

Il dispositivo prosegue quindi osservando che

l’intervento del legislatore, ancorchè autodefinitosi di interpretazione autentica del testo del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 51, comma 6, pare attribuire a quest’ultimo un significato che non poteva in alcun modo essere incluso nel novero dei suoi significati possibili, dal momento che la disposizione asseritamente interpretata contempla “Le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti ai lavoratori tenuti per contratto all’espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità”, e, da un punto di vista grammaticale, l’impiego della locuzione congiuntiva “anche se” ha valore concessivo, indicando un fatto nonostante il quale si verifica ugualmente l’azione descritta nella proposizione reggente (ossia, nel caso di specie, che dette indennità e maggiorazioni “concorrono a formare il reddito nella misura del 50% del loro ammontare”).

In pratica la Corte si pone il seguente dubbio: una lettura che di fatto va a sopprimere la locuzione congiuntiva “anche se” (che figura nella disposizione interpretata) e che conseguentemente indica come essenziale, ai fini dell’individuazione del trasfertista, la modalità continuativa delle indennità in questione, può mantenere la funzione di interpretazione autentica oppure l’attribuzione di un senso estraneo ed incompatibile con il testo dell’art. 51 del Tuir, così come operata D.l. n. 193/2016, rende questa norma di carattere innovativo?

Questa la risposta data dalla Suprema Corte: se è vero che le disposizioni di interpretazione autentica trovano un limite nella circostanza che il significato ascrivibile alla legge anteriore deve rientrare tra le possibili varianti di senso del testo originario, ove ciò non si rinvenga, la disposizione in questione, solo asseritamente interpretativa, non potrà che avere valore esclusivamente per l’avvenire.

Fortunatamente la questione è stata considerata di particolare importanza ex art. 374 c.p.c., co. 2, e il Collegio ha reputato opportuno disporre la rimessione della controversia al Primo Presidente, affinché valuti la sua eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

Gli effetti dell’ordinanza

L’ordinanza di rimessione, se da un lato conferma che dall’ottobre 2016 la definizione del trasfertista è quella che si ricava dal D.l. n. 193/2016, rischia di riaprire un annoso problema circa il trattamento previdenziale da riservare alle indennità di trasferta e di trasfertismo corrisposte prima del presunto intervento di interpretazione autentica.

Chi scrive non può non sottolineare come, leggendo la sentenza, trapeli un certo risentimento da parte della Cassazione nei confronti del legislatore che, si cita testualmente, “ha all’evidenza inteso disattendere l’orientamento fatto proprio da questa Corte”.

E la cosa non lascia presumere nulla di buono. Sia o non sia così, il rischio è comunque che si apra un nutrito contenzioso, che riguarderà ovviamente, seppur nei limiti prescrizionali, l’eventuale contribuzione sino a ottobre 2016.

L’auspicio è che l’Inps, dotandosi dell’opportuno buon senso, sospenda qualsiasi verifica ispettiva in attesa della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite.

Rimane il fardello di una vera e propria spada di Damocle che non può far dormire sonni tranquilli alle aziende interessate.

Considerazioni finali

Aldilà della lettura che verrà fatta dalle Sezioni Unite, sull’intera vicenda possono essere fatte alcune amare considerazioni.

Su una norma in vigore dal 1986 si era formato un costante orientamento giurisprudenziale circa l’individuazione del cosiddetto trasfertista.

Una lettura che nel 1997 otteneva l’avvallo del Ministero delle Finanze e poi, nel 2008, sia del Ministero del Lavoro che dell’Inps, non certo degli sprovveduti in materia fiscale e giuslavoristica.

Nel 2012 la giurisprudenza si accorge di aver sbagliato a interpretare la norma e implicitamente di aver errato nel deliberare su chissà quanti casi.

Nel 2016 il legislatore prova a risolvere una situazione dai risvolti economici delicatissimi per le aziende, chiarendo il significato della disposizione mediante una norma di interpretazione autentica.

Nel 2017 la giurisprudenza mette in dubbio l’efficacia retroattiva della norma interpretativa in quanto avente carattere innovativo e sottopone la questione alle S.U. della Corte di Cassazione.

Sembra quasi una barzelletta.

Cominciamo ad osservare che in un Paese civile le leggi dovrebbero essere formulate con estrema chiarezza. E con l’art. 51, co. 6, del Tuir – considerato quello che sta succedendo – pare proprio che ciò non sia successo.

La lettura amministrativa e giurisprudenziale della legge dovrebbe, auspicabilmente, essere unitaria e costante nel tempo. E invece, a distanza di anni, assistiamo ad un revirement che stravolge il modus operandi consolidato di molte aziende.

Il giudice è chiamato ad applicare la legge, non ad interpretarla creativamente: ed i giudici che “fanno il mestolino” quando il legislatore non accoglie i loro orientamenti assomigliano ai nostri figli quando gli viene negata la Nutella.

Le norme di interpretazione autentica, nei rarissimi casi in cui occorre intervenire con esse (che in pratica è l’ammissione di aver legiferato in modo poco comprensibile, anche se a volte appare, al contempo, un intervento necessario quando i giudici prendono direzioni inusitate) non dovrebbero essere mai successivamente messe in discussione perché scritte male anch’esse. Eppure questo è quanto accaduto con la rimessione alle Sezioni Unite.

Il giudizio è desolante. Sulla filiera giuslavoristica, potere legislativo, amministrativo e giudiziario, c’è molto, moltissimo da lavorare.

 

1 Peraltro, la contemporanea emissione della circ. Inps 24 dicembre 1997, n. 263, che ha rimandato di fatto alla circolare n. 326/E, è quanto di più somigliante a quel Decreto interministeriale previsto dalla norma, che – colpevolmente – non è mai stato emesso.

2 È probabile, invero, che ciò sia dovuto a qualche caso in cui il datore di lavoro si sia spinto un po’ troppo in là con le indennità in questione, ma ciò richiederebbe una riflessione equilibrata e puntuale sulla concreta applicazione della norma, non una oscillazione di interpretazioni di segno contrario che, invece di limitarsi al caso giuridico specifico, rendono orientamenti e principi di diritto sostanzialmente incoerenti. Si veda a tal proposito: A. Asnaghi, Rivedere gli importi (e la logica) della trasferta, su questa Rivista, settembre 2017, pag. 21.

Preleve l’articolo completo in pdf