Il punto della giurisprudenza sulla somministrazione illecita

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano1


Le SS.UU. della Cassazione tornano sulle conseguenze della somministrazione illecita, precisando l’applicabilità e gli effetti della ricostituzione del rapporto di lavoro in capo al committente fittizio o effettivo utilizzatore della prestazione. In tale fattispecie, il lavoratore acquisisce un vero e proprio diritto retributivo, e non solo risarcitorio, il cui contenuto economico è tuttavia mitigato dagli adempimenti e corresponsioni già poste in essere dall’appaltatore fittizio. Sembra utile a questo punto un inquadramento generale delle fattispecie interpositorie.

Un fenomeno tristemente diffuso, una legislazione ondivaga e fattispecie sovrapposte

L’esternalizzazione produttiva è una fattispecie intrinseca al moderno modo di concepire l’impresa. Usiamo qui il termine di esternalizzazione nel senso più ampio e generale di terzializzazione e segmentazione della filiera in appalti e subappalti di opere o servizi o comunque di contratti che in modo analogo frammentano su diversi soggetti la riuscita di un risultato economico-produttivo, la cui utilità finale – e non di rado anche la progettualità originale – resta in capo al committente. Essa è una stretta derivazione della specificità e specializzazione che caratterizzano il modello attuale di lavoro ed inoltre consente, entro certi termini, una frammentazione dei rischi e delle attenzioni imprenditoriali, oltre a considerevoli flessibilità organizzative.

Modello fortemente sospetto per un certo modo, antico ed ideologico, di concepire l’imprenditorialità, l’esternalizzazione è fenomeno che il legislatore ha ritenuto, opportunamente, di governare e non di reprimere, a partire dal D.lgs. n. 276/2003, per quanto riguarda un aspetto tutt’altro che secondario della questione: le tutele da riservare ai prestatori di lavoro. La frammentazione produttiva e la condivisione dei rischi non può infatti avere come conseguenza la liquefazione dei diritti e delle tutele (sotto ogni aspetto: retributivo, di sicurezza sociale e sul lavoro) riservate al lavoratore. Tutele che, nella esternalizzazione lecita, riguardano in particolare la responsabilità solidale (oggetto di infinite modifiche e alla quale accenneremo in seguito) del committente sia per la parte retributiva e contributiva, così come anche per quella infortunistica prevista dall’art. 26 co. 4 del D.lgs. n. 81/2008.

Resta da osservare, invece, che purtroppo una grave perdita di tutele – con un’insopportabile ”corsa al ribasso” che (avvelenando la concorrenza e la filiera seria) fa male alle imprese oltre che ai lavoratori – è ciò che nel nostro Paese succede con una frequenza ed una diffusione sempre più allarmanti, per la proliferazione di soggetti fornitori di manodopera in modo illegittimo, truffaldino ed irresponsabile, complice anche una crisi economica che le aziende non hanno certo smaltito con la tenue ripresa a cui stiamo assistendo nel presente2.

L’interposizione illecita presenta in ogni caso vari aspetti anche decisamente dissimili fra loro:

– la somministrazione illecita o (secondo la dicitura dell’art. 38 co. 2 del D.lgs. n. 81/2015) irregolare riguarda la fornitura di personale da parte di soggetti privi delle autorizzazioni di cui al Capo Primo (in particolare artt. 4-6) del D.lgs. n. 276/2003 o al di fuori delle condizioni di cui agli artt. 31, 32 e 33 del D.lgs. n. 81/2015;

– la somministrazione nulla (art. 38, co. 1 del D.lgs. n. 81/2015) si ha in mancanza di forma scritta del contratto di somministrazione di lavoro;

l’appalto o il distacco fittizi o irregolari (cioè al di fuori delle condizioni di cui rispettivamente agli artt. 29 e 30 del D.lgs. n. 276/2003) sono sanzionati dall’art. 18, co. 5-bis del D.lgs. n. 276/2003 ed in ogni caso sono disciplinati in modo analogo alla somministrazione irregolare ai sensi, rispettivamente, dei commi 3-bis e 4-bis dei suddetti artt. 29 e 30);

l’intermediazione illecita (di manodopera) e sfruttamento del lavoro, altrimenti comunemente definita con il termine di “caporalato”, è ipotesi di reato prevista dall’art. 603-bis3 del Codice Penale e riguarda i casi in cui vengano reclutati lavoratori allo scopo di destinarli al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento4, approfittando dello stato di bisogno degli stessi.

Al di là degli aspetti sanzionatori – che hanno subito, a parere di chi scrive, una gigantesca opera di demolizione sia con la soppressione di fatto della fattispecie di somministrazione fraudolenta ad opera del D.lgs. n. 81/2015 sia con la depenalizzazione operata dal D.lgs. n. 8/2016 – l’effetto più immediato rimane comunque la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’effettivo utilizzatore.

Tale costituzione ha però un aspetto multiforme: nel caso di somministrazione irregolare, infatti, la legge (sia la Biagi, abrogata, che il nuovo art. 38 del D.lgs. n. 81/2015, il c.d. “codice dei contratti” del Jobs Act che ha riscritto anche le regole sul contratto di somministrazione) prevede che la costituzione di un rapporto di lavoro sia possibile su iniziativa giudiziale del lavoratore, ed in caso di accoglimento del ricorso il rapporto venga costituito a tempo indeterminato ex tunc, cioè dall’inizio della somministrazione; lo stesso dicasi per i casi di appalto e distacco non genuini, ove però la norma non precisa la decorrenza del rapporto (per analogia con la norma sulla somministrazione, il rapporto deve intendersi costituito sin dall’inizio, cfr. Cass., 15 luglio 2011, n. 15610 e 23 gennaio 2013, n. 1630).

La nullità della somministrazione comporta invece l’immediata riconduzione del rapporto in capo al falso committente (letteralmente: ”i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore”); la stessa cosa vale per l’intermediazione con sfruttamento di lavoro, in forza della nullità del contratto per causa illecita (art. 1343 c.c.).

Si vanno così evidenziando due gruppi di fattispecie di interposizione (somministrazione, distacco ed appalto irregolari, da una parte, e somministrazione nulla ed intermediazione con sfruttamento, dall’altra) con caratteristiche diverse, in ciascuno dei due raggruppamenti, riguardo alla riconduzione del rapporto in capo al committente.

Per quanto riguarda il primo gruppo suddetto:

– la ricostituzione del rapporto di lavoro può verificarsi unicamente a seguito di ricorso giudiziale da parte del lavoratore, il che preclude che la stessa possa essere agevolmente azionata anche da parte di un terzo (tipicamente, un soggetto ispettivo), anche se non è mancata qualche sentenza nella quale è emerso un diverso indirizzo; ad es. Cass., 4 novembre 2011, n. 22894, rimarcando la natura frodatoria del contratto – e quindi la sua nullità ex art. 1344 c.c. – ha considerato applicabile ex lege la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore effettivo5;

– ai sensi dell’art. 27 co. 2 del D.lgs. n. 276/2003 – abrogato ma contemporaneamente ripreso (con l’art. 38 comma 3) dal D.lgs. n. 81/2015 per la sola somministrazione (ma implicitamente si considera valere anche per appalto e distacco, peraltro in considerazione dell’applicabilità in via generale dell’art. 1180 c.c.) – tutti gli atti ed i pagamenti compiuti dal somministratore (fittizio o irregolare) valgono a liberare il committente6.

Non così per quanto riguarda il secondo gruppo (somministrazione nulla ed intermediazione con sfruttamento) per le quali fattispecie la nullità del rapporto comporta l’immediata considerazione ex tunc del rapporto in capo al committente e la nullità di ogni e qualsiasi atto conseguente, che risulterebbe quindi tanquam non esset, con le immaginabili conseguenze di carattere economico e sanzionatorio.

Prima di passare alla sentenza che vorremmo commentare in questo contributo, è il caso di notare che su un fenomeno, quale è quello delle esternalizzazioni, tanto importante e dai risvolti particolarmente critici sul mercato del lavoro e, più in generale, nel panorama economico italiano, il legislatore si è mosso con incertezza ed in modo non uniforme, senza cercare una visione generale e soluzioni efficaci.

Se la Legge Biagi si poneva su un piano di sostanziale uniformità e sistematicità, con un buon equilibrio fra modernità e sicurezza sociale (la somministrazione ed il distacco, da una parte, che rappresentavano il “dare” manodopera, con un proprio bagaglio di tutele, dall’altra parte l’appalto all’insegna del “fare”7, con regole e definizioni in qualche modo stringenti, e contemporanea repressione delle zone grigie dell’illegalità interpositoria), la riscrittura della parte relativa alla somministrazione, operata dal D.lgs. n. 81/2015, scombinava un già difficile equilibrio e creava una stratificazione normativa critica; lo stesso può dirsi per le numerose norme intervenute in materia di responsabilità solidale8.

La sentenza SS.UU. n. 2990/2018: risarcimento o retribuzione?

In tema di costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, sono recentemente intervenute le Sezioni Unite di Cassazione, con la sentenza n. 2990 del 7 febbraio 2018.

In buona sostanza, la vicenda approdata all’attenzione delle SS.UU. riguarda un caso di appalto dichiarato illegittimo, con accoglimento della richiesta dei lavoratori di costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore. Oppostosi alla sentenza nei vari gradi di giudizio, il committente continuava nel frattempo ad utilizzare i lavoratori con lo strumento contrattuale dell’appalto di servizi.

I lavoratori, insieme con la pronuncia definitiva dell’illegittimità dell’appalto per mancanza dei requisiti di genuinità dello stesso (in particolare, nel caso di specie, rischio di impresa dell’appaltatore e gestione diretta del rapporto di lavoro da parte dell’utilizzatore) richiedevano al committente le retribuzioni dalla data della pronuncia di illegittimità.

Della questione venivano interessate le Sezioni Unite con riferimento alla composizione di due tesi dottrinali (e di giurisprudenza) contrapposte, determinate in via analogica con fattispecie ritenute simili.

La prima tesi opta per la natura retributiva delle spettanze maturate dal lavoratore, la cui quantificazione della spettanza risulterebbe pertanto di natura reale ed assoluta e parzialmente indipendente dall’eventuale aliunde perceptum: una volta costituitosi in rapporto per via giudiziale con la declaratoria di interposizione fittizia, il lavoratore maturerebbe pertanto automaticamente le retribuzioni con l’offerta la prestazione lavorativa allo pseudo committente. La seconda, in analogia con la successione di contratti in caso di trasferimento d’azienda e con la natura risarcitoria di alcune indennità di licenziamento, valorizzando il sinallagma retribuzione-prestazione effettiva, propende per la natura di mero risarcimento del danno da mancata assunzione, con possibilità, ai fini della quantificazione dello stesso, della deduzione di quanto percepito (cioè, in buona sostanza, della prova – ed eventuale controdeduzione – del danno effettivamente subito), secondo le regole codicistiche dell’illecito contrattuale ex art. 1218 e segg c.c.. Nel caso di specie, questa seconda ipotesi interpretativa era quella intrapresa dalla Corte d’Appello, la quale poi, rilevando l’assenza di differenze (o la mancanza di richiesta in tal senso) fra retribuzione corrisposta dallo (pseudo) appaltatore e quella spettante dalla costituzione del rapporto con il (fittizio) committente, concludeva per l’assenza di un danno concreto e quindi per la non debenza di somme a favore dei lavoratori, ricorrenti perciò in Cassazione.

Le Sezioni Unite, interessate in ragione della predetta discordanza di sentenze, con un’ampia disamina della giurisprudenza precedente, ritengono inapplicabili soluzioni in via analogica e propendono per l’applicazione del “diritto comune delle obbligazioni”. Valorizzando anche le riflessioni della Corte Costituzionale (sentenza n. 303/2011) in tema di reintegrazione, con al sentenza in commento le SS.UU. stabiliscono che “nel momento successivo alla declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera (…) grava sull’effettivo datore di lavoro l’obbligo retributivo”, ovviamente in considerazione dell’offerta della prestazione da parte del lavoratore ed il rifiuto, in parallelo, della stessa a parte del datore di lavoro, determinandosi così una situazione di mora credendi.

Il tutto, in ogni caso, salvo gli effetti dell’art. 29 co. 3-bis (rectius, dell’art. 27 co. 29) del D.lgs. n. 276/2003, ovvero con la deduzione delle somme già corrisposte dallo pseudo-appaltatore.

Ricapitolando in modo schematico, pertanto, in caso di rapporto ricostituito con il committente a seguito di interposizione illecita, le SS.UU. han chiarito, fissando un principio di diritto:

  • la natura retributiva delle somme spettanti al lavoratore dalla data della sentenza che sancisce l’illegittimità dell’interposizione;
  • la valenza delle somme pagate dall’appaltatore e degli atti da esso compiuti, (ma solo) nel caso di continuazione ulteriore dell’appalto10.

Nel caso di specie, la continuità del rapporto con l’appaltatore e la non rilevanza (o non rilevazione in sede giudiziale) di differenze fra le retribuzioni corrisposte da quest’ultimo e le retribuzioni spettanti in forza del rapporto ricostituito con il committente hanno determinato, seppure con diversa (anzi, opposta) motivazione, la conferma della decisione della Corte d’Appello, ovvero nessuna spettanza ai lavoratori, tranne che nei riguardi di una lavoratrice che nel frattempo aveva lavorato per un terzo. Le conclusioni delle SS.UU. appaiono condivisibili in quanto al principio di diritto enunciato, specie in termini di tutela sostanziale del lavoratore.

Sia concessa solo una piccola notazione: nel caso concreto in considerazione, il rapporto era continuato in quanto la sentenza di ricostituzione del rapporto in capo al committente non era ancora passata in giudicato ed al contratto, per quanto irregolare, di appalto (con il conseguente utilizzo dei lavoratori sotto tale forma) è stata data prosecuzione. Tuttavia, nei casi normali, l’interposizione cessa con la sollevazione della questione o della vertenza, magari anche a fronte di un intervento ispettivo, il quale nel rilevare l’appalto illegittimo deve “adottare la prescrizione obbligatoria intimando con prescrizione obbligatoria (…) l’immediata cessazione dell’azione antidoverosa allo pseudo-committente e allo pseudo appaltatore” (così la circ. n. 5/2011 del Ministero del Lavoro). In tal modo, al di là della soluzione adottata, assume particolare rilievo la fissazione del principio della natura retributiva delle somme de quibus.

Conclusioni critiche

Dicevamo in apertura del presente di una grave stratificazione ed asistematicità normativa in tema di esternalizzazioni, il che consente amplissimi spazi di manovra ad attività illegittime ed elusive, sempre più numerose (proliferazione inspiegabile, se si pensa che tali attività sono sotto gli occhi di tutti, basterebbe una semplice ricerca in rete).

Vorremmo essere chiari e distinguere bene le fattispecie: con “attività illegittime” intendiamo fenomeni interpositori a qualsiasi titolo posti in essere in modo irregolare e con costruzioni scientificamente sistematiche di irregolarità; posto che anche tali fattispecie hanno pesanti effetti elusivi ed evasivi (d’altronde, quando già si è scelto di operare nella piena illegittimità, perchè fermarsi a poche violazioni?), con “attività elusive” intendiamo invece riferirci ad appalti ed esternalizzazioni sostanzialmente leciti, ma con una pesante depressione dei diritti, delle tutele e dei trattamenti riservati ai lavoratori (i cosiddetti “appalti al ribasso”, ad opera di appaltatori spesso tutt’altro che affidabili, con effetti di dumping salariale e contributivo).

Gli interventi che in questi anni si sono succeduti sui temi hanno visto il legislatore ondeggiare fra concessioni politiche (non si spiega in altro modo l’adesione incondizionata alle tesi CGIL ad opera del D.l. n. 25/2017), tentennamenti senza senso (la responsabilità solidale dei committenti, fronte di infiniti rimaneggiamenti senza una direzione precisa11), un depotenziamento della parte coercitiva (la già ricordata depenalizzazione degli illeciti in materia di interposizione e l’abrogazione della somministrazione fraudolenta) a cui fa il paio un’attività ispettiva senza strumenti e, si lasci dire, apparentemente senza particolare impulso di intervento (malgrado gli annunci pubblici).

In tale desolante – soprattutto per l’estensione dei fenomeni – situazione normativa occorre invece constatare un’attività della Magistratura che cerca in qualche modo di mantenere fermo il timone della legalità, richiamandosi ai principi costituzionali e di generale orientamento normativo.

Oltre alla sentenza qui commentata, di contenuto invero più tecnico ma con gli importanti effetti che abbiamo sottolineato, come non ricordare la già citata Cass. n. 22894/2011 e la recentissima Corte Cost. n. 254/2017 sull’estensione della responsabilità solidale alla sub-fornitura, ma con un’ipotesi di allargamento de plano a tutte le attività di esternalizzazione.

In altre parole, dove il legislatore (non si capisce se per precisa volontà o per insipienza) non sta arrivando, la giurisprudenza sta parando i colpi. Il che fa anche parte, in certo senso, delle sue prerogative, non fosse che gli effetti perversi di tale situazione, oltre ad un protagonismo di cui talvolta la Magistratura abusa ed ad una confusione generale, sono un grave indebolimento delle azioni di contrasto a tali fattispecie e, soprattutto, l’arrivare (quando si arriva …) a chiudere la stalla quando i buoi sono ormai da tempo scappati.

1Pubblicato sul n. 20/2018 de Il giurista del lavoro, Euroconference E.

2 A parere di chi scrive, tuttavia, la crisi economica – per quanto gravissima – ed il pesante costo del lavoro non devono servire da comodo alibi a chi, anche prima della crisi ed a prescindere da essa, con il solo scopo di guadagnare illecitamente sulla pelle dei lavoratori e delle imprese, ha realizzato massicce forme di interposizione illecita ed elusiva.

3 Introdotto dal D.l. n. 138/2011 e di cui recentemente la L. n. 199/2016 ha ampliato l’efficacia e la portata.

4  La norma individua la nozione di “sfruttamento” con riferimento alla sussistenza delle seguenti fattispecie: a) reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; b) reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; c) violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; d) sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

5 Così la sentenza: “già soltanto ex art. 2094 c.c. non è consentito separare la titolarità ex parte datoris del rapporto di lavoro dal soggetto che in concreto ha utilizzato e diretto la prestazione del lavoratore”; per questa via la giurisprudenza potrebbe porre rimedio all’abrogazione della fattispecie di somministrazione fraudolenta, che rappresentava un certo deterrente all’interposizione illecita. Non di rado il lavoratore si trova infatti in una posizione di estrema debolezza verso il committente e l’intera filiera, con la conseguente scarsa praticabilità di azioni giudiziarie. Sia consentito sul punto il rimando ad Asnaghi A., Rausei P., Il Jobs Act e quel piccolo, pericoloso, “cadeau” ai mercanti di braccia, Boll. Adapt, 2 marzo 2015.

6 La valenza di tale previsione normativa non riguarda solo il pagamento delle retribuzioni e della contribuzione previdenziale ed assistenziale (riguardo alle quali l’utilizzatore effettivo resta pertanto onerato solamente per la parte eventualmente “differenziale”) ma anche per gli adempimenti di carattere amministrativo (denunce di assunzione/cessazione, denunce contributive, Libro Unico del lavoro ecc).

7 La distinzione fra il “dare “ (fornire manodopera) della somministrazione regolare ed il “fare” (un’opera o un servizio) proprio dell’appalto è contenuta nella circolare n. 5/2011 del Ministero del Lavoro.

8 Su tali temi sia concesso, anche per brevità espositiva, il rimando ad Asnaghi A., Il D.L. 25/2017 cambia ancora (ma poco, e male) la solidarietà negli appalti, La Circolare di lavoro e previdenza, 20 aprile 2017, n. 15 ed a Asnaghi A., L’appalto e le esternalizzazioni: il punto sul sistema sanzionatorio dopo la depenalizzazione, La Circolare di lavoro e previdenza, 8 aprile 2016, n. 14.

9 Che recita esattamente: “Nelle ipotesi di cui al comma 1 tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione”.

10 E a parer di chi scrive, corrispettivamente, l’irrilevanza ai fini della determinazione delle spettanze dovute, di altre somme percepite dal lavoratore per altre attività o per rapporti di lavoro diverso da quello con l’appaltatore in esecuzione dell’appalto dichiarato irregolare..

11 E, sempre in tema di responsabilità solidale, un’incomprensibile difformità normativa fra attività di trasporto (art. 1 co. 248 L. n. 190/2014) e attività in appalto.

 

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Senza filtro – Puliti dentro, brutti fuori: gli altarini del dumping delle aziende dal volto umano

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

 

Sembra giusto cominciare questo articolo dall’obbiettiva considerazione che Cristina Chiabotto, Laura Chiatti ed Elena Santarelli sono tre belle figliole; così quando, con o senza Del Piero, ci assicurano che l’assunzione regolare di determinate acque minerali lascia “puliti dentro e belli fuori” siamo del tutto disposti a credergli. E tanto dovevamo per aver parafrasato, nel titolo, il fortunato slogan pubblicitario propinatoci da sì avvenenti testimonial delle quali, purtroppo, smetteremo subito di occuparci ma senza abbandonare il mondo dorato della pubblicità e della comunicazione.

E sì perché a distanza di qualche secondo, ecco che appaiono in TV gli spot dei supermercati dal volto umano (quelli che si occupano di persone o più semplicemente di te o ancora “della tua libertà”), dei produttori che destinano parte del loro ricavato a questo o quel progetto umanitario, oppure di quelli che rispettano la filiera naturale per farci vivere in un mondo più pulito, o ancora del commerciante che ti strappa gridolini di gioia per il prodotto sottocosto, ma che più sottocosto non si può, recapitato a casa tua.

Poi però cambi canale e ti imbatti in qualche servizio (sono scherzi del telecomando, una volta quando dovevi alzarti e maneggiare coi tasti della TV per cambiare canale non lo facevi così di frequente – anche perché di emittenti al massimo ce n’erano tre o quattro ) da cui scopri che le cose non sono proprio così “rose e fiori”, che dietro molte di queste realtà “perbene” ci sono catene di distribuzione e di subappalto in cui le condizioni di lavoro ed i trattamenti riservati a chi vi è occupato sono di quelli che è meglio non far sapere troppo in giro.

Ma anche fuori dal mondo della pubblicità, tanto ormai anche la comunicazione è spesso puro advertising, ecco apparire l’imprenditore esasperatamente innamorato del “made in Italy”, l’azienda che chiama lo chef di grido ad inaugurare la propria mensa per i dipendenti, l’impresa che rimodella il proprio opificio o i propri uffici ricorrendo all’archistar famoso, la ditta che si impegna per la gestione della diversity, la compagnia che è tutta un asilo nido, uno smart working, una flessibilità che concilia tempi di lavoro ed esigenze di vita, l’ufficio dove si persegue il welfare, anzi il wellness, l’azienda nella top twenty del “best place to work”, l’impresa con un codice etico più lungo dei Promessi Sposi… E anche qui, fuori della patina dorata e (forse anche) delle oneste buone intenzioni, girata la pagina sul mondo dorato degli insider, ecco apparire gli outsider, quelli degli appalti al ribasso, quelli dell’indotto strozzato, quelli dei lavori sporchi ma tanto necessari, quelli dei lavoretti. Un mondo fatto di pulizie, di trasporti, di logistica, di guardiani armati e non, di distribuzione, di assistenza sanitaria e personale, di call center, di consegne, ma anche di catene di sottoproduzione o di seconda lavorazione.

Insomma, da tanto nitore e letizia interiori, da tanta cura alle persone interne, da tanta nobiltà di intenti si dipanano non di rado catene di esternalizzazione dal volto disumano, caratterizzate dalla precarietà e da condizioni al di sotto del minimo, da carenza non già di chissà quali attenzioni e coccole ma spesso anche solo delle tutele minime.

È il dumping interno, bellezza … Quella condizione di gran parte del nostro tessuto produttivo a cui nessun governo sembra finora aver posto dovuta attenzione, e che prolifera fin nelle più bieche offerte della somministrazione illecita, fra uno Stato impotente ed un’attività ispettiva che (dichiaratamente, è questo il bello) preferisce tartassare il piccolo, con cui fa la voce grossa, che non invischiarsi a tentare di fermare il grande. Ridicoli, poi, i richiami alla contrattazione maggiormente rappresentativa, quando nessuno sa indicare quale sia e quando anche i “maggiormente rappresentativi” si guardano bene dal contarsi veramente e dal darsi regole serie (e talvolta qualche interesse non del tutto immacolato ce l’hanno pure loro).

L’importante è trattare bene i propri – sempre meno numerosi – dipendenti. E poi esternalizzare il più possibile, risparmiare sui costi, strangolare chi lavora al di fuori e non è direttamente collegabile alla tua immagine, al tuo brand di successo. E magari con tanto di prestanome a fare da testa di legno, meglio se straniero e con un nome improbabile, così anche qualcuno dall’altra parte si fa complice organizzando, guadagnandoci, queste catene di sfruttamento, erodendo anche risorse pubbliche (ah, se un giorno qualcuno facesse due conti, con l’evasione sistematica di certe cooperative, di certi consorzi, di certi soggetti, si potrebbe tranquillamente recuperare l’equivalente economico di tre o quattro leggi di bilancio …).

Intendiamoci, non siamo contro l’esternalizzazione per partito preso, la terziarizzazione dei servizi e dei meccanismi produttivi è un’esigenza dei moderni sistemi economici. Solo diventa poco comprensibile ed inaccettabile pensare che non si possa realizzare senza ricorrere spesso allo sfruttamento indiscriminato delle risorse e delle persone.

Non sarà un caso che si parla sempre meno di concreta responsabilità sociale delle imprese e che fra gli stakeholder dei nuovi codici etici gli appaltatori (e i loro lavoratori) sono sempre meno considerati. Forse non sarà un caso nemmeno se nel rating di legalità, tanto considerato da AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), non si fa cenno (forse solo un distratto collegamento indiretto) a condizioni di lavoro nelle catene del subappalto che si dipanano dall’azienda principale. E che legalità è mai questa?

Ecco allora che tali aziende mi ricordano un po’ la signora Pina (c’è in ogni condominio una signora Pina, anche con un altro nome) che aveva il balcone ed i davanzali tanto puliti, perché buttava rifiuti e detriti ai piani di sotto, ed altrettanto pulito il pianerottolo davanti a casa, però spazzando lo sporco davanti all’uscio dei vicini.

Forse è sbagliato lo slogan che abbiamo messo a titolo, non puliti dentro e sporchi fuori, no al contrario, belli fuori (nel senso di immagine offerta all’esterno) e sporchi dentro, nell’interno di invisibili processi decisionali con cui si risparmia sulla pelle degli altri. Purchè poco o nulla collegabili. Tanto la gente dimentica presto, hai visto il nuovo sottocosto? E l’offerta speciale? Che qui, tra l’altro, scatta una riflessione parallela; chiediamolo, a ciascuno di noi: per realizzare un po’ più di giustizia sociale, saremmo disposti a pagare di più (magari, il prezzo corretto)?

Sì, forse “belli fuori e sporchi dentro” meglio rende l’immagine della più bieca ipocrisia che Qualcuno duemila anni fa descriveva benissimo con queste parole: “rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità”.

Ma non c’è solo tanta ipocrisia, c’è anche una grande miopia. Il manager che guarda al risparmio di oggi (e al bonus conseguente che si porterà casa) non sa o finge di non sapere che l’impresa per cui lavora e che ricorre all’esternazione selvaggia è seduta su una polveriera. Stolido e squallido sperare che non scoppi (perché a volte, sapete, scoppiano…) o che lo faccia il più in là possibile, forse solo in un domani di cui “non v’è certezza” (mentre del bonus di oggi, sì).

Un tessuto sociale ed un’imprenditoria che oggi pensano di risparmiare, stanno in realtà minando le fondamenta del vivere civile: se lasciamo crescere ed imperversare gli squali, alla fine domineranno loro, anzi dominerà proprio chi sarà “più squalo degli altri”.

La distruzione delle filiere serie, conseguente alla proliferazione di strutture selvagge e fetide, è un vulnus per tutti: si perdono professionalità, capacità e competenze.

Si perde le qualità del lavoro, della socialità e della vita; per gli sporchi interessi di quattro canaglie (e magari fossero solo quattro) che ieri forse sembravano servire, domani comanderanno il mercato. Anzi, lo stanno già condizionando oggi.

Ecco, forse solo il desiderio finale è che non ci siano più maschere ed infingimenti. Non siete i manager illuminati del mondo apparentemente bello e dorato che volete farci apparire sotto gli occhi, siete i complici consapevoli di un marciume che già ora non riuscite più a nascondere ed il cui accumulo finirà per travolgere anche voi.

E, soprattutto, non è ancora troppo tardi per fermarvi.

 

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Una proposta al mese – Appalto privato: vogliamo cambiare una situazione esplosiva?

Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

 

In Italia, quando si sente parlare di appalto da parte di politici o di opinion maker – e se ne sente parlare troppo poco – con rare eccezioni o si sentono discorsi a vanvera (se preferite, ad effetto) o si sente parlare di appalti pubblici: sembra che solo questi ultimi (che indubbiamente rappresentano una fetta di una certa rilevanza nell’economia italiana) abbiano la necessità di una tutela regolatoria.

Eppure l’esternalizzazione produttiva è fenomeno trasversale e diffuso in ogni ambito dell’economia, e spesso si combina con meccanismi perversi di somministrazione e sfruttamento, di cui abbiamo dato conto più volte in questa Rivista (ed anche in questo numero). Non solo: i meccanismi di controllo sono poco efficaci e pericolosi, con il doppio rischio di avere norme e attenzioni troppo lasche per gli scienziati dell’illegalità e troppo penalizzanti per i normali operatori economici. Come amava dire Flaiano: la situazione è grave, ma non è seria.

Nella sintesi di anni di attenzione che il nostro Centro Studi ha dedicato al fenomeno (non perdetevi il Quaderno sull’Appalto di imminente pubblicazione – edizione 2018 di aggiornamento della prima del 2012) abbiamo elaborato una serie di proposte – che malgrado la forma utilizzata – devono intendersi in ogni caso prospettiche, aperte e programmatiche.

Oltre ad esporle in forma più articolata nel predetto quaderno, abbiamo ritenuto di diffonderle qui, per stimolare un dibattito ed un’attenzione che riteniamo cruciali e non più rimandabili per chiunque abbia a cuore il futuro del nostro Paese.

1. La modifica dell’art. 29: una piccola legge-quadro

Abbiamo ritenuto di rivedere interamente la norma sull’appalto, pur lasciandola all’interno dell’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003 e non cambiandone la struttura di base. Lo scopo è quello di non dover riaggiornare tutti i riferimenti giurisprudenziali, dottrinali e di prassi, ma di costruire un piccolo articolo-quadro sulle esternalizzazioni.

Invariato il co. 1, vedremmo utile inserirvi, con altri commi, un obbligo generale per il committente, sanzionato penalmente, di individuare appaltatori e sub-appaltatori affidabili. L’obbligo è già contenuto nell’art. 26 del D.lgs. n. 81/2008 ma in tal modo rimane confinato agli aspetti meramente tecnici più che ad aspetti più sistematici. Volendo si potrebbe prevedere anche in questo caso un decreto attuativo con attività codificate che, una volta realizzate, diventerebbero esimenti per il committente (non l’abbiamo scritto perché argomento molto delicato e perché quello previsto dal D.lgs. n. 81/2008 lo stiamo ancora aspettando dopo 10 anni). La centralità dell’opera di selezione dell’appaltatore e della estraneità a processi di intermediazione illecita è ribadita dal richiamo alla norma sulla responsabilità amministrativa delle imprese (D.lgs. n. 231/2001) nel cui modello di organizzazione e gestione ben può essere inserito utilmente anche questo aspetto.

Nella seguente esposizione abbiamo raggruppato i commi della norma in senso discorsivo e non secondo l’ordine numerico ad essi assegnato, che come detto tende a non modificare i commi attualmente esistenti.

1-bis Ogni committente o subcommittente è tenuto ad assicurarsi, anche mediante il sistema di qualificazione delle imprese, della affidabilità, della idoneità tecnico-professionale e della capacità finanziaria dell’esecutore a cui affida un’opera o un servizio, nonché degli eventuali sub-appaltatori, per tutta la catena della esternalizzazione da sé dipendente; il committente o sub committente è tenuto ad accertare che al personale impiegato in appalto e subappalto venga riservato un trattamento economico non inferiore a quello individuato dai contratti collettivi di settore sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale. In caso di violazione degli obblighi di cui al periodo precedente, il committente è punito con un’ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Se la violazione interessa un contratto in cui sono impiegati più di 20 dipendenti in un arco temporale di un anno solare la sanzione di cui al periodo precedente è triplicata1.

1-ter All’art.25 del D.lgs. n. 231/2001 è aggiunto il seguente comma:

Art. 25 ter-decies

1. In relazione ai reati in materia di esternalizzazione previsti dal co. 1-bis dell’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie: a) se il reato riguarda fino a 20 dipendenti, la sanzione pecuniaria da cento a duecento quote; b) se il reato riguarda oltre 20 dipendenti, la sanzione pecuniaria da trecento a seicento quote c). In caso di recidiva, gli importi di cui alle lettere a) e b) che precedono sono raddoppiati:

2. In relazione ai reati in materia di esternalizzazione previsti dal co. 3-bis lett. c) dell’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003, si applicano all’ente (sia fornitore che utilizzatore di manodopera) le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) se il reato riguarda fino a 20 dipendenti, la sanzione pecuniaria da cento a duecento quote; b) se il reato riguarda oltre 20 dipendenti, la sanzione pecuniaria da trecento a seicento quote; c) se il reato riguarda oltre 100 dipendenti, la sanzione pecuniaria da settecento a mille quote,d) In caso di recidiva, gli importi di cui alle lettere a, b e c, che precedono sono raddoppiati2.

Proseguendo, riteniamo che il meccanismo della responsabilità solidale possa costituire un valido deterrente per il contrasto ad azioni di dumping e/o di sfruttamento, ma vada meglio inquadrato, eliminando ogni ridondanza o dualità, riservandolo ad aspetti di un certo rilievo e ove il committente abbia effettiva possibilità di controllo, e aprendo la porta alla istituzione di buone prassi in merito, con lo scopo, in concomitanza con gli obblighi visti in precedenza, di istituire norme premiali ed esimenti per gli operatori virtuosi.

Inoltre si è posta l’attenzione su una più ampia qualificazioni delle esternalizzazioni produttive, agendo in senso estensivo, così come a livello giurisprudenziale è stato più volte fatto (si veda più avanti il co. 5).

La delicatezza dell’argomento è data anche dalla necessità di arginamento di fenomeni di concorrenza sleale fra imprese.

2. Il committente di un’opera o un servizio è responsabile in solido con l’appaltatore per tutti i suoi obblighi retributivi, diretti e/o indiretti, nei confronti dei lavoratori di cui sia obbligatoria la registrazione sul Libro Unico del Lavoro che siano stati utilizzati nell’appalto per almeno un quarto del loro orario normale di lavoro; è inoltre responsabile inoltre, relativamente alle retribuzioni dei medesimi lavoratori, per tutti gli obblighi contributivi ed assicurativi nei confronti degli Enti previdenziali competenti, con esclusione delle sanzioni civili ad amministrative. In caso di uno o più subappalti, la responsabilità solidale si estende secondo la successione della catena dell’appalto dal committente sino all’ultimo sub committente. L’obbligazione solidale può essere fatta valere dai creditori entro il termine di decadenza di due anni dalla cessazione dell’appalto. Il committente è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente coobbligato solidale può eccepire, nella prima difesa o in fase amministrativa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’obbligato principale. In tal caso il giudice o l’Ente accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti dei coobbligati solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio del creditore originario. Il coobbligato che ha eseguito il pagamento può esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali. In caso di intervento economico del coobbligato su debiti ad Enti Previdenziali, l’obbligato originario è considerato in via permanente debitore ai fini del DURC, tranne che se provi il rimborso dell’intero importo al coobbligato.

La responsabilità solidale su retribuzioni indirette matura (per la quota unicamente relativa all’appalto) solo se il prestatore di lavoro abbia prestato la propria attività nell’appalto per un periodo superiore a 3 mesi ovvero, se periodo inferiore, per almeno la metà del suo rapporto di lavoro)3.

2-bis. Ferma restando l’azione di cui dispongono in ogni caso i dipendenti dell’appaltatore nei confronti del committente a norma dell’art. 1676, la disposizione del co. 3 non si applica al committente persona fisica o all’ente privato non imprenditore o professionista che conferiscano un appalto estraneo all’esercizio di una attività commerciale, professionale o imprenditoriale. La disposizione del co. 2 non si applica altresì agli appalti di opere o servizi di valore inferiore ad euro 5.000,00 per anno solare, a quelli che vengano svolti in locali o con modalità autonomi dall’azione di controllo del committente o a quelli in cui l’appaltatore non versi in situazione di dipendenza economica dal committente. I cantieri, anche mobili, si considerano sempre sotto il controllo del committente ai fini della presente disposizione per qualsiasi tipo di lavorazione in essi svolto4.

2-ter Il Ministro del Lavoro, anche per il tramite dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, può produrre un decreto di natura non regolamentare o, su istanza degli Ordini Professionali nazionali competenti, protocolli di intesa al fine di stabilire termini e modalità di asseverazione, certificazione e controllo della regolarità degli appalti anche al fine di considerare assolti gli obblighi di cui al comma 1-bis ed escludere la responsabilità solidale di cui al co. 3. Le procedure di asseverazione e controllo potranno essere svolte – nei termini previsti del predetto decreto o dei protocolli stipulati – unicamente sotto la direzione di almeno un professionista di cui all’art. 1 della Legge n. 12/19795.

5. Le disposizioni relative ai commi 1-bis e 1-ter, 2, 2-bis e 2-ter, che precedono si applicano in ogni caso in cui si realizzi un decentramento produttivo, alle condizioni di cui ai predetti commi, ed in particolare nei seguenti casi:

– affidamento o assegnazione di opere o servizi nell’ambito di attività consortili o di reti di impresa, con responsabilità solidale del consorzio o della rete verso i lavoratori del consorziato impiegati nella lavorazione;

– associazione in partecipazione fra imprese ed altri contratti di tipo associativo, con responsabilità solidale dell’impresa associante o della capofila o della mandataria verso i lavoratori dell’impresa associata o mandante;

servizi integrati o globali di trasporto e logistica;

“nolo a caldo”;

– fornitura di materiale o beni con posa in opera o installazione, per il personale del fornitore ivi materialmente impiegato;

– somministrazione di beni o servizi, per il personale del somministratore materialmente impiegato nel servizio;

– contratti di lavorazione c/terzi e subfornitura6.

Abbiamo voluto disciplinare il fenomeno dei cambi di appalto tuttora vero buco normativo malgrado dopo le recenti modifichedellegislatore (anzi forse anche a causa di esse).

3. L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, in assenza di altri indici significativi di continuità quali il trasferimento di beni, mezzi o competenze, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda7.

4. In caso di cambio di appalto di servizi in cui siano coinvolti più di 4 lavoratori, il committente e l’appaltatore uscente sono obbligati a darne comunicazione almeno 40 giorni prima ai lavoratori occupati nell’appalto, alle OO.SS. comparativamente più rappresentative del settore relativo all’attività appaltata ed all’Ufficio Provinciale del Lavoro territorialmente competente. Nell’ambito dei 20 giorni successivi alla comunicazione, su richiesta delle OO.SS. vengono esperite, con la presenza anche dell’appaltatore subentrante, consultazioni al fine di verificare le condizioni di subentro nell’appalto e le misure volte ad attenuare l’eventuale impatto occupazionale negativo, fermo restando il diritto di precedenza dei lavoratori occupati continuativamente nell’appalto da almeno 4 mesi all’assunzione presso l’appaltatore subentrante e nell’ambito delle lavorazioni oggetto del cambio di appalto, per un periodo di 6 mesi dalla data del cambio appalto. In caso di mancato accordo relativo alla acquisizione del personale ed ai criteri di dismissione dell’eventuale personale eccedente, nei 20 giorni successivi il direttore dell’Ufficio provinciale convoca le Parti ai fini di un ulteriore esame della materia e del raggiungimento di un accordo. In caso di mancato accordo, i lavoratori eccedenti vengono licenziati dall’appaltatore disdettato con preavviso decorrente dalla comunicazione iniziale di cui al primo periodo e termine della prestazione con l’ultimo giorno di esercizio dell’appalto. L’onere del contributo iniziale di finanziamento ASPI è posto a carico dell’appaltatore uscente, con responsabilità solidale del committente.8

Riteniamo infine centrale ripristinare la norma penale sui fenomeni di appalto illecito, laddove la somministrazione, il distacco siano effettuati con la specifica finalità di agire in frode di legge ed il fenomeno si presenti massivo e sistematico (nel restante caso vale la depenalizzazione attuale), dando anche all’intervento ispettivo il potere di ricostituire il rapporto con l’utilizzatore in detti casi di frode.

3-bis Quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal co. 1:

a) il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo a partire dalla data accertata della irregolarità. In tal caso, i pagamenti effettuati dal datore di lavoro originario a titolo retributivo e previdenziale liberano sino a concorrenza l’utilizzatore e tutti gli atti compiuti dal datore di lavoro originario si intendono come compiuti dall’utilizzatore;

b) l’ITL, su segnalazione degli organismi di vigilanza che accertino l’irregolarità o del giudice che riceve il ricorso di cui alla precedente lettera a), dispone l’immediata sospensione delle prestazioni dei lavoratori interessati;

c) la violazione del co. 1 è punita ai sensi dell’art. 18 del D.lgs. n. 276/20039.

3-ter Il contratto di appalto che sia costituito solo formalmente come tale , senza la sussistenza di alcuno dei requisiti di cui ai co. 1 e 2 che precedono ovvero che costituisca somministrazione illecita di fatto indipendentemente dalla fattispecie contrattuale formale posta in essere, comprese quelle di cui al co. 5, comporta la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, anche da parte dell’organo accertatore o di vigilanza, alle condizioni di cui al co. 3-bis lett. a) del presente articolo, oltre all’applicazione delle sanzioni previste.

3-quater L’art. 18 co. 5-bis del D.lgs. n. 276/2003 è sostituito dal seguente:

5-bis Nei casi di appalto privo dei requisiti di cui all’art. 29, co. 1, e di distacco privo dei requisiti di cui all’art. 30, co. 1, l’utilizzatore e il somministratore sono puniti con la pena della ammenda di euro 50,00 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione. Se vi è sfruttamento dei minori la pena è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo; la medesima pena si applica nei casi in cui la violazione riguardi più di 1000 giornate/uomo ad anno solare, da calcolarsi, per l’utilizzatore, riguardo a tutti i contratti posti in essere anche con più somministratori, e, per il somministratore, riguardo a tutti i contratti posti in essere anche con più utilizzatori”10.

Per finire, invitiamo i lettori a consultare il nostro Quaderno11 su Appalto ed esternalizzazioni, che contiene altri spunti sulla materia, ed ad indirizzarci le loro impressioni ed osservazioni sulle proposte avanzate.

1 Il co. 1-bis prevede l’obbligo di accertare in via preventiva la regolarità ed affidabilità dell’appaltatore e si configura come ipotesi di reato.

2 Il comma 1-ter prevede l’inserimento di apposito richiamo nel D.lgs. n. 231/2001 inerente la materia della responsabilità amministrativa degli Enti, prevedendo una specifica sanzione in caso di mancato controllo della affidabilità di colui a cui il committente affida un’opera o un servizio (qui introdotto come ipotesi di violazione penale) oppure in caso di somministrazione fraudolenta.

3 Viene rivisitato il meccanismo della responsabilità solidale, con una minor incidenza degli obblighi in caso di appalto di breve durata, e con l’incidenza del TFR solo in caso di appalto di medio-lunga durata. Viene introdotto il beneficium excussionis, con una penalizzazione dell’obbligato principale in cado di insolvenza.

4 Viene introdotta l’esclusione della responsabilità solidale per non imprenditori né per appalti di importo minimo, ne per appalti in cui non vi sia alcuna possibilità di ingerenza del committente. In quest’ultimo caso si tratta della commissione di opere o servizi nella normale attività imprenditoriale , per eseguire i quali l’esecutore agisca in completa autonomia, in spazi di cui ha la piena disponibilità e senza alcuna possibilità di controllo da parte del committente.

5 Il co. 2-ter prevede la possibilità da parte del Ministro del lavoro o dell’Ispettorato Nazionale, di realizzare procedure di controllo ed audit preventivo al fine di normalizzare il ricorso alel esternalizzazioni. La fonte di garanzia sarà data, oltre che dalle regole di tali decreti o protocolli, dalla caratura deontologica dei soggetti, professionisti ordinistici, a ciò abilitati.

6 Con il co. 5 viene effettuata un’estensione degli obblighi in tema di affidabilità dell’esecutore e di responsabilità solidale a tutte le attività di esternalizzazione oggi conosciute. L’inserimento delle attività di trasporto e logistica comporterebbe l’abrogazione dello speciale regime di responsabilità solidale oggi vigente per tale settore (vedi cap. 3).

7 Il co. 3 viene ripresentato nella forma originale, con una modifica che apre all’eventuale fattispecie del trasferimento d’azienda ma che è più equilibrata rispetto a quella della Legge n. 122/2016.

8 Con il co. 4 viene introdotta una disciplina legislativa per il cambio appalto che stabilisce obblighi e procedure. Gli effetti delle c.d. clausole sociali vengono mitigati ma vengono introdotti specifici obblighi anche per il committente, tenuto a governare il processo di cambio appalto e le sue conseguenze senza sfilarsene.

9 Nel co. 3-bis si intende confermare meglio la procedura in caso di appalto che abbia perso i requisiti di genuinità, per distinguere la fattispecie dalla somministrazione in frode di legge, di cui al comma 3-ter. In sostanza, nel secondo caso – a cui viene data rilevanza penale in caso di particolare estensione del fenomeno, con una riscrittura dell’art. 18 co. 5-bis a cura del co. 3-quater – l’organo di vigilanza può costituire il rapporto in capo all’utilizzatore, oltre alla facoltà che tale azione provenga dal lavoratore. La facoltà prevede un margine di discrezionalità dell’organo ispettivo nei casi un cui la costituzione di un rapporto con il committente risultasse nei fatti una penalizzazione per il lavoratore.

10 Vedi nota precedente. È introdotta un’ipotesi nuova di reato, in caso di somministrazione in frode di legge che superi una certa estensione.

11 Reperibile sul sito www.consulentidellavoro.mi.it.

 

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Una proposta al mese – Per una revisione ed uniformità dell’offerta conciliativa e della tassazione dell’indennità di licenziamento

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

“Donaci, padre Zeus, il miracolo di un cambiamenta”

(Simonide di Ceo)

Un passo avanti e due indietro, qualche scatto repentino dentro un andamento lento, un crescente nervosismo che sale (soprattutto in chi legge) . Il fandango del nostro legislatore è così, per una che ne fa giusta cento ne pensa sbagliate (o discutibili o contraddittorie o inefficaci, scegliete voi…).

È il caso dell’indennità risarcitoria e dell’offerta conciliativa previste dal vituperatissimo D.lgs. n. 23/2015.

Le idee di fondo sono buone: deflazionare il contenzioso giudiziale con un incentivo fiscale e trovare una misura economica precisa per definire le indennità economiche conseguenti ad un licenziamento illegittimo. Le soluzioni adottate, a nostro avviso, un po’ meno , a cominciare dall’antidiluviana previsione che il pagamento de quo debba essere fatto unicamente con assegno circolare (una traduzione pratica piuttosto rozza del noto “pochi, maledetti e subito”). Ma l’offerta conciliativa è davvero così affascinante? Calcolatrice alla mano, essa rappresenta un concreto vantaggio per il lavoratore solo in caso di stipendi medio- alti (circa da RAL superiori ai 40/45.000 euro) e, anche il tali casi, soltanto quando si raggiunga un’anzianità di servizio di almeno 15 anni (cifra più, cifra meno). Un po’ poco, come appeal. E una scrittura della norma che lascia spazio a qualche dubbio (vedi, al fine di trovare un percorso condiviso ed equilibrato, l’Orientamento del nostro Centro Studi).

Proviamo pertanto a dare una maggiore consistenza ed efficacia alle previsioni di legge. Cominciamo con l’immaginare un’uniformità delle varie norme sull’indennità di licenziamento, per cui il concetto di mensilità conseguente ad un risarcimento sul licenziamento per tutti i casi previsti dalla legge (non solo, quindi, quelli delle tutele crescenti, ma anche quelli contemplati dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori o dalla L. n. 604/1966) debba parametrarsi sull’ultima retribuzione utile ai fini del Tfr (possibilmente con un concetto univoco e definito normativamente in modo preciso, per cui il suddetto lavoro del CSR di Milano potrà essere utile a tale definizione).

Per quanto riguarda la deflazione del contenzioso, proponiamo due misure, anche in questo caso applicabili non solo alle tutele crescenti ma a tutti i casi di licenziamento.

La prima è di natura fiscale/impositiva e consiste nell’attribuire uno sconto fiscale alle indennità di risarcimento per il licenziamento conseguenti ad una conciliazione stragiudiziale, nel senso di definite prima ed in alternativa al radicamento di una causa (in altre parole, il solo deposito del ricorso, anche con definizione intervenuta prima della sentenza, farebbe decadere l’agevolazione). Lo sconto consisterebbe nell’applicare a tali transazioni un’aliquota fiscale pari al 50 % dell’aliquota Tfr e nessuna imponibilità previdenziale (quest’ultima, tuttavia, già in re ipsa rispetto alle somme erogate a tale specifico titolo) entro il limite della somma massima indennitaria prevista per il caso specifico. In tal modo si darebbe un incentivo alle parti, in maniera più equilibrata rispetto all’attuale ed in ogni ambito del licenziamento, di pervenire ad una conciliazione. Lo sconto si applicherebbe, peraltro, solo con il versamento delle ritenute in modo corretto, ovvero qualora il datore non versasse le ritenute si accollerebbe in proprio il 50 % di sconto, senza conseguenze per il lavoratore.

En passant, ci sembra giusto attribuire alle indennità di licenziamento, scontate o meno che siano, una tassazione a titolo definitivo, consistente nell’applicazione (come ora) alle stesse dell’aliquota spettante ai fini del Tfr (eventualmente dimezzata nel senso della nostra proposta di poche righe sopra) ma senza riliquidazione ex post da parte delle Entrate. La cosa ci sembra rappresentare equamente l’esigenza del lavoratore di sapere esattamente quale cifra netta sta intascando a fronte della cessazione del contendere, senza “sorprese future” sgradite e, peraltro, si coordina perfettamente con quanto sopra proposto in termini di agevolazione.

Elenchiamo quelli che secondo noi sono gli ulteriori i vantaggi (oltre quelli già detti) di tali proposte rispetto al panorama attuale :

– incentivo autentico della conciliazione stragiudiziale, in tutti i casi del licenziamento e non solo a tutele crescenti, senza obbligare il lavoratore ad accettare cifre troppo basse rispetto alle indennità di legge e con un incentivo fiscale che trasversalmente ha sempre una certa convenienza (e non solo in qualche caso sporadico);

– certezza del diritto sia in termini fiscali di percezione che in prevenzione degli abusi (si pensi a quelle “indennità-polpettone” – a volte anche di importo abnorme – in cui confluiscono, mercè l’esenzione previdenziale, anche aspetti del contenzioso che sarebbero del tutto imponibili);

– eliminazione dell’Unilav-conciliazione, cioè della necessità di ulteriori comunicazioni posticce ed inutili, in quanto l’attività di accertamento e di contabilizzazione (anche in termini di valutazione dell’impatto sulla Finanza pubblica) di tali somme agevolate verrebbe automaticamente garantita dalla certificazione fiscale.

L’eventuale minor introito fiscale (peraltro, nel rigore della proposta, tutto da dimostrare: le altre somme eventualmente concordate in definizione dell’ulteriore contenzioso – e senza possibilità di altre somme definitorie della casistica “cessazione del rapporto” – sarebbe imponibili secondo il proprio titolo specifico) sarebbe ampiamente compensato dalla facilità e linearità di riscossione e dalla ulteriore deflazione del lavoro delle aule giudiziarie.

Per quanto riguarda la seconda proposta , pensiamo di rivalutare ulteriormente la funzione di tutte le commissioni di certificazione ex art. 76 del D.lgs. n. 276/2003, annullando procedure analoghe previste dall’art. 7 della L. n. 604/1966 (come modificato dalla riforma Fornero) e l’offerta conciliativa dell’art. 6 del D.lgs. n. 23/2015.

Fatta salva la possibilità di ogni altra procedura conciliativa, proponiamo che in caso di contestazione sul licenziamento, entro 90 giorni dalla ricezione dell’impugnazione dello stesso, possa essere effettuata presso le commissioni di certificazione (che, ai sensi dell’art. 82 del D.lgs. n. 276/2003 hanno anche facoltà di certificare rinunzie e transazioni) un’offerta volontaria di conciliazione, comunicata alla commissione ed alla parte, di un numero di mensilità pari almeno all’85 %, con arrotondamento normale (0,5 inferiore) ad un numero di mensilità finite e con un minimo comunque di una, delle mensilità massime spettanti per legge per il caso in questione. L’offerta sarebbe irrevocabile per un periodo di 30 giorni dalla ricezione della stessa e potrebbe essere avanzata dal datore di lavoro, che si accollerebbe gli eventuali costi di istruzione della procedura di certificazione. La commissione adita avrebbe l’obbligo di convocare entro i predetti 30 giorni le parti per discutere la proposta e, in caso di accettazione del confronto da parte del lavoratore, di verbalizzare, con verbale che costituisce atto di certificazione, l’accordo delle parti oppure le motivazioni e dichiarazioni che le parti rilasciano in tale sede, a favore della proposta o per rifiutare la stessa. Il comportamento delle parti in tale confronto risulterebbe decisivo ai fini della ripartizione delle spese di una successiva causa. In caso di accettazione dell’offerta, almeno il 50 % della somma dovrebbe essere corrisposto al lavoratore contestualmente o entro 5 giorni dall’accordo ed il restante , anche a rate, entro i successivi 4 mesi. Le parti, una volta radicato il confronto, potrebbero altresì accordarsi per una cifra anche superiore all’offerta o per una diversa rateazione.

Il vantaggio di tale proposta, che con qualche modifica potrebbe utilmente replicarsi anche in altre ipotesi di contenzioso lavoristico (di cui si vorrebbe l’alleggerimento giudiziale) consiste nell’evitare passaggi includenti e formali con una procedura che, pur facoltativa, sarebbe indice di una volontà concreta ed effettiva di definire costruttivamente la vertenza in atto.

Il mondo del contenzioso lavoristico ha bisogno di certezze, equilibrio, confronto serio, incentivazione, al fine di promuovere una cultura della conciliazione ed un’assenza della litigiosità, talvolta spesso fine a se stessa e poco utile alle relazioni industriali. Le nostre proposte, senza nessuna pretesa, vanno esattamente in questa direzione e possono essere utili a sviluppare ulteriori riflessioni in tal senso.

 

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Una proposta al mese – Degli Enti Bilaterali (e delle parti che li costituiscono)

Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

Grande è il dibattito che si è sviluppato da circa trent’anni intorno agli Enti Bilaterali, cioè quegli organismi paritetici costituiti dalle parti sociali firmatarie di un contratto collettivo a cui la legge affida compiti molto importanti. A fronte di un Convegno organizzato sul tema dall’Ordine e Ancl di Milano, sono emerse alcune proposte che ho avuto il privilegio di presentare e che qui ripropongo.

Come è noto, uno degli argomenti più controversi intorno agli Enti Bilaterali è stato quello della loro obbligatorietà o meno. Dando la stessa per scontata, o almeno per acquisita, se non per ragioni teoretiche quantomeno per evidenze pratiche, nella nostra parte propositiva ci chiediamo se non sia più opportuno spostare l’attenzione sul funzionamento degli Enti Bilaterali.

Ad essi il legislatore ha voluto nel tempo affidare, infatti, alcuni compiti regolatori davvero importanti: basterebbe rileggere l’art. 2, co. 1, lett. h, del D.lgs. n. 276/2003 per individuare la stupefacente ampiezza del potere affidato a tali organismi, potere addirittura autoreferenziale visto che essi possono svolgere “ogni altra funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento” (cioè dalle stesse parti sociali che li costituiscono).

Sorgono alcuni problemi, collaterali agli E.B., primo fra tutti quello della rappresentatività delle Parti Sociali, mai affrontato seriamente e risolto in maniera risibile (o meglio, lasciato totalmente irrisolto) dalle recenti circolari n. 3 e 4 dell’INL , che nel parlare di contratti maggiormente rappresentativi non hanno avuto il buongusto di indicarci quali siano i soggetti rappresentativi o quantomeno le modalità della loro individuazione (un po’ come dire: “fa la cosa giusta” senza dire quale sia). Del resto, dell’inattuazione dell’art. 39 della Costituzione Italiana si parla da tempo. Altro problema, enorme e ad avviso di chi scrive centrale nell’odierno panorama lavoristico italiano, è quello del dumping contrattuale, ovvero della nascita e diffusione di trattamenti al ribasso (precisiamo: nati al precipuo scopo di gestire il ribasso) stipulati da sigle sindacali che proprio su tale svendita dei diritti fondano la gran parte del loro “successo”, con danno non solo verso i lavoratori ma verso tutta la filiera sana, cioè degli imprenditori onesti e seri.

  • Allora una prima proposta, che sorge quasi spontanea, sarebbe quella di istituire un osservatorio permanente della Contrattazione collettiva, che dia evidenza ufficiale degli accordi o contratti con reale valenza rappresentativa, escludendo gli altri.

  • Ma la precedente proposta rappresenterebbe un cortocircuito logico senza prima affrontare il nodo – ed è la seconda proposta – della rappresentatività. Che tuttavia da sé sola non è a nostro avviso sufficiente, tanto che poniamo il tema non solo sulla rappresentatività ma sul funzionamento degli stessi sindacati. Possibile che, con una legislazione che continuamente rimanda ad essi, non vi sia uno straccio di regolazione della loro attività? Vorremo perciò promuovere l’idea di una norma che, insieme alla conta della rappresentatività e dei requisiti minimi per considerarla acquisita, istituisse una sorta di “deontologia del sindacato”, cioè un vero e proprio codice di comportamento (stilato per legge, non ancora una volta autoassegnato da chi vi si dovrebbe conformare) a cui si attengano le parti sociali (sia dei lavoratori che dei datori) che ambiscano ad un ruolo di protagonista del mondo del lavoro. Fra le cose che ci piacerebbe leggervi ci sarebbero: l’obbligo di deposito dei bilanci, la trasparenza operativa delle organizzazioni e dei loro responsabili, l’obbligo di adesione esplicita al sindacato che comprenda anche il rinnovo periodico della stessa (pena decadenza), la fine delle esclusive in materia di assistenza ai lavoratori o alle imprese, l’obbligo di dedicarsi ad attività non-profit o, in caso di attività con oneri a carico degli aderenti, la tassazione normale degli introiti da esse incamerati.

  • Una conseguenza di tale “serietà di comportamento” sarebbe la cassazione (in parole chiare, la messa fuorilegge) dell’inserimento di clausole nei contratti collettivi o negli accordi interconfederali che prevedano, direttamente od indirettamente, l’adesione e/o il finanziamento delle parti sociali stipulanti o, ancora, in caso di delegazione della legge alla contrattazione collettiva, di clausole che prevedano agevolazioni o facilitazioni di qualsiasi genere o natura riservate solamente agli associati o condizionate al parere delle parti sociali vincolato all’adesione alle stesse.

  • Aiuterebbe, inoltre anche l’introduzione per via normativa di elementi di retribuzione minima e di trattamento minimo come fonte omogenea di legalità (a cui ancorare anche i minimali di contribuzione) con libertà di adesione alle altre regole liberamente contrattate dalle parti. Questa ipotesi potrebbe addirittura superare il problema della rappresentatività come condizione di accesso ad una contrattazione libera.

  • Sullo stesso tema si pone la valorizzazione di quella che potremmo definire autonomia contrattuale positiva (rispettosa, peraltro, anche della libertà sindacale negativa) nelle piccole e medie imprese, cioè la possibilità per aziende di dimensioni ridotte, qualora non sindacalizzate, di accedere attraverso meccanismi di certificazione dei contratti individuali o dei regolamenti aziendali a forme importanti per lo sviluppo e la crescita delle stesse (citiamo fra le tante possibilità: premi di risultato e welfare, conciliazione vita-lavoro, clausole elastiche, flessibilità organizzative) in alternativa alla realizzazione di una contrattazione di secondo livello che comporta in molti casi la partecipazione solo posticcia ma obbligatoria (e sostanzialmente inutile o soltanto formale) di una parte sociale per accedere a determinati benefici economici e/o organizzativi previsti dalle norme vigenti1.

Chi legge potrà pensare: ma non si parlava di Enti Bilaterali? Crediamo di aver spiegato, ancorché succintamente, che senza regole sulle parti che costituiscono gli Enti Bilaterali, eventuali regole sugli stessi avrebbero il pregio di esser costruite sulla sabbia e di assumere una valenza blanda e di poca efficacia concreta (alla pari delle ricordate circolari INL).

Anche perché una parte delle proposte su tali organismi, che ora elencheremo, sono la logica conseguenza di quelle appena formulate.

  • Infatti, cominceremmo per obbligare tutti gli Enti Bilaterali ad una trasparenza di bilancio e di gestione, ancora più necessaria di quella delle parti sociali, essendo gli E.B. destinati a gestire servizi e funzioni destinate in via sussidiaria alla collettività degli aderenti raccogliendo la contribuzione degli stessi.

  • Scopo principale, ma non unico, di tale trasparenza sarebbe la destinazione della maggior parte delle somme incamerate dagli E.B. (almeno il 90 %) ad attività e provvidenze concrete in favore degli iscritti.

  • In caso di attività cruciali per la regolazione del mercato del lavoro (come conciliazioni, certificazione dei contratti, congruità e verifiche, ecc.), obbligo di formazione continua certificata per tutti i funzionari a ciò addetti.

  • A questo riguardo, inoltre, riteniamo illegittima la presenza, e quindi proponiamo l’uscita, di ogni Ente Bilaterale da sistemi di valutazione di congruità e regolarità di ogni ordine e grado (comprese, tanto per intenderci, le Casse Edili dal DURC) fino ad un completo sistema di regolamentazione legale, in termini di responsabilità e deontologia di comportamento uniforme, degli Enti Bilaterali e delle parti sociali che li costituiscono.

  • Un tema parallelo riguarda la possibilità per gli Enti Bilaterali di prevedere prestazioni solo di natura integrativa o di welfare o di formazione (e mai sostitutive di parte della retribuzione) o comunque con possibilità alternativa del datore di lavoro di provvedere direttamente o mediante adesione ad altri enti, anche privati, che garantiscano almeno le medesime condizioni dell’Ente Bilaterale.

  • Gradiremmo infine, come forma anche di semplificazione, una uniformità di funzionamento degli Enti Bilaterali nella parte più concreta (tracciati anagrafici, scadenze e modalità di contribuzione, richiesta di prestazioni etc.) anche per garantire una maggiore portabilità di benefici e prestazioni in un mondo del lavoro caratterizzato da un’alta mobilità professionale e territoriale.

  • Una soluzione alternativa a una parte delle proposte precedenti potrebbe essere quella di una raccolta di contribuzione alla bilateralità generalizzata, indifferenziata ed uniforme (sulla scorta, tanto per intenderci, dello 0,30 % per la formazione, pensiamo ad un meccanismo esattamente di tale tipo, con raccolta capo ad Inps) con la possibilità per gli enti Bilaterali, solo quelli rappresentativi e riconosciuti, di accedere a tali risorse economiche sulla base delle adesioni raccolte.

Abbiamo in mente una normazione che potrebbe essere facilmente realizzabile, probabilmente molto più nell’aspetto formale che non sul versante politico: siamo ben consci, infatti, dell’avversione delle parti sociali ad ogni forma di regolamentazione della loro attività; tale avversione accomuna anche diverse posizioni dottrinali, che paventano in tale disciplinamento il ritorno ad un sistema corporativistico tipico di epoche infelici della storia italiana.

Tuttavia, a noi sembra (se concedete la citazione dall’Uomo Ragno) che a un grande potere debba corrispondere una altrettanto grande responsabilità, e che nell’esercizio della stessa una regolamentazione avrebbe il vantaggio di mettere al palo gli scorretti, superando l’attuale, oggettivo, bailamme che ne fa solo il gioco. Come professionisti ordinistici sappiamo, perché lo viviamo tutti i giorni sulla nostra pelle, che l’assoggettamento a regole di comportamento, per quanto a volte impegnativo, è un segno di distinzione interiore e di garanzia esteriore.

E pertanto lo proponiamo a tutte le parti sane della società attiva.

Nota a margine:

Il Centro Studi e Ricerche di Milano, promosso dall’Ordine e dall’Ancl di Milano nasce come veicolo di approfondimento e di studio per tutti coloro – principalmente colleghi ma non solo – che vogliono confrontarsi sui temi del lavoro e formulare analisi e proposte. Non è una mera “vetrina” dei colleghi di Milano che ne portano avanti i lavori con dedizione, ma un punto di ascolto, e – per quanto possibile e senza pretese – di riferimento per tutti i colleghi ed i professionisti che vogliano su questi temi e sui nostri lavori confrontarsi (tanto che talvolta, e qualcuno anche con encomiabile e preziosa puntualità, ci onorano dei loro contributi). Per questo “restiamo in ascolto” – sui social, sulle riviste e nelle manifestazioni pubbliche di ogni genere – delle istanze e delle idee, spesso molto ricche, che vengono da tanti valenti colleghi. In questo caso vorrei personalmente ringraziare i colleghi Paolo Palmaccio di Latina, Danilo Paolucci di Avezzano (AQ), Claudio Boller di Treviso, Alberto Borella di Chiavenna (SO), Dario Guidotti di Montignoso (MS) , Alessandro Graziano di Milano, Daniela Iuorio di Salerno e Marco Militello di Roma per un lungo e fruttuoso dibattito, nato in un social sul tema presente, che ha permesso di arricchire i concetti e le proposte del nostro Centro Studi che qui leggete. Cà va sans dire, il ringraziamento non implica necessariamente la loro integrale adesione alle proposte sopra esposte.

1 In questo senso va anche la nostra proposta di Asnaghi A. “Il Patto Aziendale Certificato – P.A.C.”, Sintesi, maggio 2016, pagg. 10-14.

 

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Semplificazione: raccogliere il guanto di una sfida

Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano*

Con la lungimiranza e la tempestività a cui ormai siamo abituati, Adapt lancia ai nuovi legislatori dalle sue colonne (La battaglia della semplificazione, 22 marzo 2018) il guanto di una sfida che chi scrive non può non raccogliere per vari motivi, soprattutto perché nella semplificazione ci crede, al punto da promuovere da anni – insieme ad un gruppo di colleghi, votati alla “lucida follia”, del Centro Studi e Ricerche dei Consulenti del Lavoro di Milano – la formulazione di proposte di semplificazione, dapprima rimaste all’interno della categoria e poi sfociate, nel 2014, in un progetto organico di Riforma del lavoro (presentata al congresso regionale lombardo e apparsa anche sul Bollettino Adapt n. 21 del 26 maggio 2014) e, da allora, comparse nella pubblicazione puntuale sul mensile “Sintesi” sotto la forma di proposte di vario genere.

La semplificazione non è di per sé una riduzione di tutela, come ben scrivono i professori Ichino e Tiraboschi, anzi nel suo intento di portare chiarezza aumenta la certezza del diritto, che è insieme certezza di esigibilità del diritto e di sapere con precisione anche cosa nel concreto si possa esigere. Sembra banale osservare che non si valuta l’efficacia di una legge in funzione della sua lunghezza e complicatezza, ma riguardo alla sua concretezza e capacità di cogliere il bersaglio, che spesso è caratteristica della goccia giusta piuttosto che del fiume in piena. Anzi, la semplificazione è sintomo di una mentalità per la quale le cose giuste e necessarie si affermano grazie ad una molteplicità di fattori, e non soltanto con la chimerica ricerca di una “legge perfetta” che in questi anni in tanti campi non si è mai vista – e non solo per la, a volte, palese insipienza del legislatore – ma per un difetto, per così dire, ontologico. Significativo, peraltro, che il c.d. “decreto semplificazioni“ (D.lgs. n. 151/2001) sia stata in realtà la peggior accozzaglia di disposizioni casuali e raffazzonate fra quelle viste negli ultimi anni.

Sotto questo profilo, la semplificazione non è necessariamente (o soltanto) scrivere meno, ma è scrivere bene, con concretezza e piena cognizione di causa, ed è per questo che ci permettiamo di aggiungere qualcosa alle dotte e profonde riflessioni con cui il guanto, che come detto raccogliamo senza indugio, è stato lanciato e che ci sembra che in qualche modo possano contribuire a completarle.

Vorremmo aggiungere alle tre accezioni della semplificazione proposte (semplicità formale, sostanziale ed applicativa) una quarta forma di semplificazione, che definiremmo “organica” o di sistema. Il diritto del lavoro non è un mondo a sé stante ma si innesta in una miriade di intrecci con il diritto civilistico, fiscale, previdenziale, assicurativo ed altro ancora. Trascurare in una proposta di riforma giuridica questi aspetti, per quanto l’obiettivo di considerarli possa appare titanico, non solo può essere deleterio, ma può portare ad effetti perversi o condurre in un inestricabile ginepraio. Tanto per fare un esempio, la definizione di subordinazione contenuta nel, pur ottimo, Codice Semplificato del lavoro si arenava, in parte trascurando gli aspetti suddetti, sulla definizione del lavoro dei soci di società, degli amministratori, dei familiari e del lavoro microimprenditoriale, che poi sono gli aspetti su cui la dottrina si arrovella da tempo senza trovare, a parere di chi scrive, soluzioni definitive e convincenti. O, sempre per offrire esempi, il problema della subordinazione e parasubordinazione è stato, obiettivamente, fatto esplodere da una serie di norme fiscali ed assicurative (di pura applicazione pratica, se si vuole) promulgate all’inizio del 2000 il cui effetto devastante è stato la proliferazione di contratti non genuini, a cui da allora nessuna norma (non la Biagi, non la Fornero e nemmeno il Jobs Act) è riuscita a porre riparo. Una qualsiasi riforma che voglia davvero semplificare – cioè dare certezze immediate – non potrà pertanto trascurare tal aspetti ma considerarne i tanti agganci con il diritto del lavoro, oltre che gli effetti e/o le ricadute.

Se la precedente è un’osservazione “a monte” dell’analisi sulla semplificazione, vorremmo aggiungerne un’altra “a valle”, ovvero quando gli Autori prospettano, molto opportunamente, anche soluzioni normative caratterizzate solo da un inquadramento generale e che rimandano, per una declinazione puntuale delle regole, ad un sistema di relazioni industriali, ovvero alla contrattazione collettiva, anche di secondo livello. Orbene, a parere di chi scrive non si può dimenticare che la maggior parte del tessuto imprenditoriale italiano è formato da piccole aziende che da tale sistema rischiano di rimanere escluse e che la bilateralità non riesce a raggiungere o, ancora, che vivono entro un sistema di cooperazione di fatto fra imprenditore e lavoratori che non necessità di corpi intermedi, magari attori di interventi posticci o artificiosi. Tuttavia – anche senza scomodare il tema, pur sussistente, della libertà sindacale negativa – sarebbe errato e riduttivo liquidare molte di tali aziende come espressione di una imprenditorialità retriva. Queste imprese potrebbero essere invece facilmente raggiunte da un sistema di concertazione autonoma positiva che trovasse un suo sbocco nella strada della certificazione (ex art. 75, D.lgs. n. 276/2003) di accordi spontanei e regolamenti. Temi (per fare esempi) come il welfare aziendale e la partecipazione, la produttività e la conciliazione vita-lavoro, con il carico di incentivazioni che comportano (giustamente, perché migliorano la vita delle persone e la qualità del lavoro) non possono essere relegati ad una contrattazione ove le parti sociali semplicemente non esistano o non abbiano ragione di esistere. Questo, peraltro, eliminerebbe anche molta autoreferenzialità delle parti sociali stesse e le porrebbe in una condizione di sana concorrenza e di rappresentatività conquistata sul campo, e non “imposta” per legge.

Finiamo con un’ultima osservazione relativamente alla certezza del diritto che è anche certezza di un tessuto di vigilanza efficace e coerente (nel presente, soprattutto ciò che manca sembra una vigilanza in prevenzione dei tanti fenomeni perversi del mercato del lavoro, fra cui spiccano la somministrazione illecita ed il caporalato) che difenda le filiere buone e non permetta ambiti sempre maggiori di concorrenza sleale. Forse non sembrerà un tema particolarmente azzeccato rispetto alla semplificazione, ma vorremmo osservare che la semplicità di realizzazione e di esecuzione di una legge corrisponde anche ad una semplicità di controllo. Oggi molte energie delle imprese sono sprecate in un apparato burocratico, e sanzionatorio, di peso eccesivo e senza un reale risultato in termini di legalità acquisita o di sviluppo, e l’espressione “tanto quando arrivano qualcosa che non va la trovano sempre” , oppure “ogni giorno ne inventano una nuova” fa da contraltare e ad una sfiducia dilagante nella realizzazione di una sana imprenditorialità , quando non diventa un alibi (falso ma accattivante) alle peggiori manovre elusive.

Per noi parlare di semplificazione è anche parlare di tutto ciò. Per questo la battaglia della semplificazione porta dietro di sé altre sfide che non abbiamo intenzione di perdere.

* Articolo già pubblicato su Bollettino Adapt n. 12 del 26 marzo 2018.

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Senza filtro – Le nebbie di… Amazon, ovvero cose che si vedono e non si vedono (anche solo in un braccialetto)

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

 

Si è già spenta l’eco, accesasi ad inizio mese, del braccialetto elettronico di Amazon, che ha destato scandalo e ludibrio in una parte dell’opinione pubblica italiana. D’altronde, succede sempre così: l’attenzione sui fatti – se non servono per portare avanti una campagna elettorale povera di idee o per raccattare fondi – dura meno della vita di una mosca e viene seppellita in fretta e furia sulla scorta della più usata di tutte le espressioni da talk show: ”e passiamo ad un nuovo argomento…” . Passare ad altro vuol dire spesso non approfondire mai, avere una vaga infarinatura (ovviamente, quella più utile a chi te la sta raccontando) su cui però scattano le più trancianti prese di posizione (che talvolta, purtroppo, diventano anche iniziative parlamentari, e, quel che è peggio, leggi – quando a farsene carico è un nostro politico medio).

La sfortuna (stiamo parlando di questa rubrica e di questa Rivista) di uscire una volta al mese, e quindi di non essere immediatamente sul pezzo, è al tempo stesso la fortuna di poter mettere insieme idee e riflessioni che vanno un po’ più a fondo, o almeno cercano di farlo.

Sul braccialetto di Amazon si sono sentite prospettazioni di ogni genere, dal nuovo schiavismo alla trasformazione dell’uomo in robot. Per chi non si è occupato minimamente della cosa, ricordiamo molto succintamente che la famosa azienda di commercio elettronico ha comunicato di aver brevettato (nel 2016 ma la notizia è stata diffusa solo ora) uno strumento elettronico da mettere al polso dei lavoratori, in modo da aiutarli nella ricerca, catalogazione e scarico della merce negli enormi magazzini, pare anche con un sistema di rilevazione che riscontri l’esattezza o meno dell’azione di un lavoratore riscontrandola già dal movimento del braccio o del corpo.

Mettiamo assieme alcuni concetti, partendo da due fuori tema e da un quasi fuori tema; i fuori tema sono cose che supportano discorsi senza però essere particolarmente pertinenti sul punto.

Fuori tema 1 – “È solo un brevetto, non è ancora successo niente, non è il caso di agitarsi”.

L’osservazione è vera, indubbiamente: chi già prospettava sit-in fuori dalle sedi dei magazzini di Amazon (neanche fosse la veglia all’entrata dell’ultimo concerto di Vasco Rossi) ha davvero esagerato. Però un brevetto del 2016 è una realizzazione annunciata. Parlarne si può e, se il tema è sensibile, si deve. E con tutta l’importanza che un concetto ha (perché quando diventa realtà, a volte è un po’ tardi).

Fuori tema 2 – Amazon rovina il commercio tradizionale ed è causa di disastri occupazionali, pertanto tutto ciò che fa Amazon va boicottato a prescindere.

Amazon si può amare oppure no (chi scrive non è tendenzialmente contrario, anche se appartiene più alla seconda categoria) ma a chi volesse boicottare Amazon basterebbe fare delle consapevoli scelte nei propri consumi e stili di vita/acquisto. Bocciare acriticamente tutto ciò che viene da una parte è manicheismo, farlo solo perché viene da quella parte è pregiudizio, il quale, come diceva Voltaire, è il modo di ragionare degli sciocchi.

Quasi-fuori tema – Amazon utilizza metodi di sfruttamento intensivo e disumano della forza lavoro, quindi dobbiamo iscrivere anche questa novità nel calderone delle nequizie lavorative del colosso del consumo on line.

La base di partenza di tale affermazione è quella del pregiudizio precedente, ma con una preoccupazione che, fosse retta su basi veritiere, avrebbe almeno una giustificazione: chi ha un vizietto tende a replicarlo in ogni cosa che fa. Di solito ad affermazioni di questo tipo seguono commenti a grappolo (come la peggiore cefalea, che infatti provocano) che si dividono fra chi denuncia le peggiori malefatte interne e chi dice che è un posto di lavoro come un altro, o magari ne parla anche in modo positivo. Insomma, niente di palese ed inconfutabile, al più giustificante un livello di attenzione in più.

Il vero cuore della critica riveste però due aspetti , per così dire ideologici, che a nostro avviso sono più che altro degli pseudo-problemi.

Psedo-problema 1 La robotizzazione porta ad una riduzione della manodopera e ad un conseguente calo occupazionale e Amazon sta spingendo molto in questa direzione.

Curiosamente, chi avanza questo argomento accusa anche Amazon di far fare un lavoro disumano, causa mansioni ripetitive ed assillanti, al proprio personale di magazzino, ma al contempo di lamenta se a tale personale vengono affiancate, proprio nello svolgimento di tali mansioni, delle macchine-robot.

Però ora qui dobbiamo deciderci: se un lavoro è disumano, meglio che lo facciano delle macchine, ma poi non possiamo lamentarci che le macchine sostituiscano l’uomo creando disoccupazione.

Il classico circolo vizioso dell’ideologia, di qualsiasi ideologia, che vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca.

Pseudo-problema n. 2 – Gli apparati di lavoro sofisticati creati dall’ingegneria, si reggono su sistemi informatici in grado di captare, conservare e trasmettere una serie di informazioni che consentono il terribile controllo a distanza dei lavoratori. Il quale controllo viola la dignità dei lavoratori e deve quindi essere combattuto senza se e senza ma. Da qui lo stracciamento delle vesti populista di questo e quel politico, tanti proclami alla “no pasaran” che, in fondo, fanno tanto (e solo) propaganda, e Dio sa quanto alcuni ne hanno bisogno di questi tempi pre-elettorali.

Noi sul tema ci siamo già pronunciati più volte su questa Rivista, arrivando a confessare che non troviamo per nulla disdicevole un equilibrato controllo, anche a distanza, sull’attività dei lavoratori, purché vengano garantiti alcuni aspetti di fondo. Ma su questo tema, per non tediarvi, rimandiamo alle considerazioni dell’articolo su Sintesi di dicembre 2016 1 e diremo qualcosa nella trattazione che segue.

Su questi pseudo-problemi verrebbe comunque in prima battuta da dire ai commentatori che li hanno sollevati: benvenuti in industry 4.0, benvenuti nel presente!

Ma di tutto ciò probabilmente avete già sentito parlare.

A nostro avviso si aprono invece quattro spunti di riflessione che pochi hanno colto.

Problema n. 1 Il futuro vedrà sempre di più, anche nel campo del lavoro, interazioni complesse nel rapporto uomo-macchine. Se ciò è inevitabile quali problemi comporterà nella rappresentazione dell’individuo e nel suo vissuto? Non è tanto un problema di disoccupazione quanto di possibile “disumanizzazione” del lavoro e del suo significato. Ciò anche rispetto ai tempi ed alla qualità del lavoro. La sfida di coniugare efficienza e riduzione delle fatica con tempi e modalità umane di vita sarà la chiave di volta per un’evoluzione verso un mondo migliore e diversamente antropico o, al contrario, per scenari apocalittici alla Blade Runner.

Problema n. 2 Ma il benessere di questa riduzione della fatica a chi andrà in tasca? Ancora una volta e soltanto a chi deterrà i mezzi di realizzazione tecnologica? Senza voler essere comunisti (tale idea ci pare abbia già ampiamente mostrato tutti i suoi lati deboli), ci chiediamo quale modello di benessere sociale ci si prospetta con un aumentato potere della meccanizzazione, anzi ormai della intelligenza artificiale quasi antropomorfa. Da un diffuso benessere (con qualche scompenso) stiamo andando verso una società dove, sia territorialmente che socialmente, il divario fra ricchi e poveri aumenta. Fino a che punto? Dove mettere un fermo? Cosa progettare per il futuro?

Problema n. 3 Torniamo al controllo a distanza. Qui il focus ci sembra che si debba spostare non tanto sulla raccolta dei dati (su cui, come detto, non proviamo alcuno scandalo) ma sulla messa a disposizione dei dati raccolti. Chi e come vi ha accesso? Con quali finalità? Perché, vista proprio la loro facilità di raccolta non possono essere condivisi in maniera seria e controllata? Abbiamo la sensazione di logiche di facciata per cui tutti ormai raccolgono dati e controllano, in maniera non trasparente, moltissimo e facilmente, ma formalmente non si può, non si dice, non si ammette. Occhio non vede, cuore non sente. Una società di sepolcri imbiancati. Con tutto il male che ne può derivare.

Problema n. 4 È strettamente collegato al precedente: socialmente, ma anche – per quel che qui ci interessa – lavorativamente, una volta raccolti ed anche condivisi, magari anche legalmente, cosa ce ne facciamo dei dati, che finalità diamo loro?

Mettiamo la questione sotto un altro aspetto: come si risolve nelle aziende e nella società il problema della devianza, dell’imperfezione, o anche solo del “low performer” per vari motivi (età, disabilità, problemi di salute, impegni familiari)? Una volta che abbiamo dei dati incontrovertibili a disposizione, che succede? Facciamo una bella classifica e chi è sotto la sufficienza è out? E chi stabilisce la sufficienza? Dove finisce la meritocrazia e dove comincia la disumanità?

Proviamo a ragionare su questo: per difendere gli pseudo-diritti di qualche fannullone o di qualche imbroglione immatricolato (tipo i furbetti del cartellino) inneschiamo una guerra dei poveri (e verso i poveri) di cui fanno le spese fasce più deboli ma non per questo automaticamente meno meritevoli, della società e del contesto lavorativo? E, al contrario, se un’azienda volesse diversamente ragionare, nell’attuale contesto giuslavoristico, che strumenti avrebbe? Come distinguiamo ed incoraggiamo la (vera, non di facciata o per convenienza fiscale) impresa etica? Perché l’azienda che volesse prendersi la briga di trattare la devianza e la debolezza, disposta a spendersi invece che a defilarsi, non solo non avrebbe supporti economico-normativi seri ma si esporrebbe oggi ad una serie di rischi e sospetti tali da far passare la voglia ad un santo?

Ora noi di una cosa possiamo esser certi, che quando parliamo di Amazon la santità non è certo dietro l’angolo. Ma o continuiamo a strillare come galline impazzite dietro concetti di privacy e di dignità del lavoro – che vanno difesi (sempre) ma con strumenti nuovi ed evoluti (e non coi divieti “anni 70”) – e continuiamo ad abbeverarci a modelli ormai inesistenti, oppure cominciamo a porci i nuovi problemi che una società in continua evoluzione ci sta mettendo di fronte (magari anche con soluzioni “antiche”, ma comprensive del nuovo). Uomo tecnologico, sostenibilità sociale del progresso, uso e controllo dei dati, impresa con responsabilità sociale; diradata la nebbia, anzi il fumo, di discorsi un tanto al chilo, le questioni che emergono, magari anche occasionalmente, da un semplice braccialetto appaiono abbastanza cruciali. È meglio che li affrontiamo con coscienza e li risolviamo con coerenza e realismo, tali problemi, prima che arrivi qualcun altro a scavalcarli con un sorpasso a destra (nel senso di illecito e spavaldo).

1 Asnaghi A. “Perché vietare in modo assoluto il controllo a distanza dei lavoratori?”, Sintesi, dicembre 2016, pag 50.

 

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Senza filtro – Programmi e promesse elettorali sul lavoro: parole in libertà

Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

“Le promesse di certi uomini sono come sabbie mobili che viste da lontano

sembrano solide e sicure ma si rilevano inconsistenti e insidiose.”
(F. de La Rochefoucauld)

Sono finite le Feste, sta proseguendo l’inverno, la Nazionale di calcio è fuori dal Mondiale ed è cominciata la campagna elettorale.
Tutte brutte notizie, l’ultima è evidentemente la peggiore di tutte, ma in fondo è anche una fake new, perché siamo un Paese in continua e costante campagna elettorale. A scanso di equivoci, dobbiamo subito precisare: non sentiamo alcun fastidio nell’esercizio della democrazia (anzi…), è solo che in questo periodo ancora più forti si levano le voci che palesano una assoluta distanza dal mondo reale; e siccome questa è una Rivista che parla di lavoro confrontiamoci non tanto sulle varie proposte (faremmo torto ad ogni rispettabile orientamento politico) ma sul metodo con cui si parla del lavoro e dei vari programmi.
E per osservare il metodo ci concentreremo su alcune parole abusate, che sarebbero da utilizzare con una moderazione che non sempre contraddistingue i nostri politici, in particolare, appunto, in questo periodo.

La prima parola su cui vorremmo suggerire un senso della misura è la parola “abolire”, spesso utilizzata insieme ai sinonimi “abrogare” (più colto) e “cancellare” (più drastico).
Ora, la vita è fatta di continui superamenti, è vero, tuttavia ci sfugge il senso di locuzioni verbali come “cancellare il Jobs Acts” oppure “abolire la Fornero” (si suppone e si spera la riforma Legge n. 92/2012, non l’ex Ministra del Lavoro; sembra una battuta ma purtroppo meglio essere precisi: diversi anni fa si parlava di abolire la Biagi e qualche criminale ha pensato di mettere la cosa un po’ troppo sul personale…
Orbene, per quanto certe idee possano fare presa – e per quanto effettivamente qualcosa da cambiare qua e là ci sia – probabilmente chi usa certe espressioni non sa (e se lo sa, sta parlando a vanvera) che si sta rivolgendo ad un complesso di norme talmente intricato e con aspetti così interconnessi e variegati, che un’abolizione acritica e generalizzata equivarrebbe ad un marasma paralizzante.
Volendo fare un paragone – forse azzardato, ma esplicativo – è un po’ come se chi ottant’anni fa fosse stato (comprensibilmente) contrario al movimento hitleriano, invece di contrastare il terzo Reich avesse proposto di… abolire la Germania il che sarebbe stato un assurdo (storico, politico e geografico) e, fosse stato anche solo ipoteticamente realizzabile avrebbe creato, oltre al sacrificio di parecchi innocenti, non pochi problemi a chi avesse voluto recarsi da Parigi a Praga (o viceversa).
Abrogare è un esercizio estremamente affascinante (chi nella vita non ha mai subito il coup de foudre verso un qualche taglio netto…) ma rischioso, che richiede sempre, specie in ciò di cui stiamo trattando, una ponderata riflessione su ciò che si elimina, specie per tre aspetti, intimamente connessi fra loro:
a) con che cosa lo si sostituisce;
b) cosa si perde di buono in ciò che si è eliminato;
c) cosa si è lasciato scoperto con l’eliminazione.
Senza queste riflessioni, l’abrogazione è un esercizio velleitario, un colpo di testa tardo-adolescenziale o una promessa ad effetto buona solo per chi ci crede.

La seconda parola su cui vorremmo vedere una maggiore riflessione è la parola “rispristino” (qualche esempio fra tanti: ripristinare l’art. 18, ripristinare il tempo pieno ed indeterminato per tutti) normalmente utilizzata insieme alla parola “diritto”. Normalmente questa parola fa riferimento a schemi del passato, improponibili nel panorama lavoristico odierno. Si propone una società con regole ingessate, buone per schemi di 50 anni fa ma più che altro utili per mantenere posizioni politiche e di potere ormai malinconicamente autoreferenziali ma superate dal tempo.
Anche qui è importante un distinguo: non crediamo che il progresso passi per l’abolizione dei diritti ed il lassez faire e in questa Rivista non abbiamo mai mancato e mai mancheremo di denunciare le varie forme, antiche e moderne, in cui i diritti delle persone e dei soggetti – lavoratori o datori di lavoro che siano – vengono calpestati insieme al buon senso ed alla giustizia). Quello che ci preoccupa sono piuttosto tentativi di restaurazione che vogliono imporre a viva forza modelli ormai impraticabili: come abbiamo sottolineato più volte, i risultati più eclatanti dell’applicazione di tale logica sono l’abnorme sviluppo di soluzioni “parallele” (quelle sì particolarmente illegali e funeste) e la penalizzazione delle (intralciate o inutilmente vessate) sane imprenditorialità.

La terza parola su cui vorremmo suggerire una certa moderazione è la parola “risultati”, anch’essa spesso correlata a statistiche, cifre, valori che ognuno stiracchia un po’ come crede.
Comprendiamo l’orgoglio (condivisibile o meno che sia, ognuno la pensi come crede) di chi ha provato nuove strade ed ha portato avanti delle riforme strutturali, e tantomeno non ne accettiamo la contraria, gratuita, demonizzazione “a prescindere”.
Sicuramente dei passi avanti sono stati fatti. Resta tuttavia difficile da comprendere il trionfalismo di certe affermazioni quando la maggior parte delle prospettate riforme è ancora da costruire e da rendere efficace (pescando a casaccio: il sistema del placement e della ricollocazione, gli strumenti di sostegno al reddito, il nuovo sistema ispettivo, la formazione professionale, l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro). Se poi sentiamo citare fra le riforme importanti del lavoro “la sconfitta della piaga delle dimissioni in bianco” (con tutti i problemi irrisolti che ha provocato una norma fra le più insulse e confuse degli ultimi anni) e il “superamento delle collaborazioni fittizie” (inesistente), forse ci sorge il dubbio di non aver compreso bene.

La quarta parola su cui vorremmo un minimo di realismo è la parola “soldi”, mai usata di per sé ma sempre collegata a qualcosa di mirabolante che ci dovrebbe venire in tasca (abbassare le tasse, ridurre i costi del lavoro, aumentare le pensioni, dare redditi vari di cittadinanza, inclusione, partecipazione).
Tutto molto giusto e molto bello, a patto che il costo non sia ripagato in altro modo dalla collettività, di modo che ciò che una mano ti concede l’altra ti toglie (magari in modo più sudbolo ma ancora più oneroso). Per fare un esempio, all’Università avevamo un amico in perenne bisogno di soldi che chiedeva prestiti (piccoli) qua e là agli amici. E fieramente si presentava dopo qualche tempo ridandoti le agognate 10.000 lire prestate e offrendoti un caffè per la tua gentilezza. Forte della sua affidabilità e simpatia testè riconquistate, il giorno dopo te ne chiedeva in prestito 15.000, sicchè ti domandavi se in fondo non ti avesse tirato una fregatura; pare scontato aggiungere che un giorno scomparve, lasciando in noi amici un grande rammarico (e non solo per la sua simpatia smarrita per sempre). Alla parola soldi qualcuno accompagna la parola “tagli”, suscitando la preoccupazione che i tagli vadano sempre in una direzione e non si concentrino su ciò che dovrebbero invece colpire.

L’ultima parola (che in realtà ci piace moltissimo ma che ogni volta che viene pronunciata ci provoca un senso misto fra la nausea ed il terrore) è la parola “semplificazione”.
Questa parola accompagna da decenni la nostra professione (e non solo la nostra), ma non ci affianca come un benevolo compagno di viaggio, no … ci segue come una iattura, come una maledizione lanciata alle nostre spalle da una fattucchiera malvagia.
Ogni volta che sentiamo parlare di semplificazione arriva in realtà sulle nostre spalle un fardello di norme ed adempimenti (nuovi, e quindi che rivoluzionano lo scibile e l’operatività precedenti) la maggior parte dei quali sembrano ideati da qualcuno che vive su un altro pianeta e che in realtà non semplificano, non risolvono, sono inutili (quando va bene, se no sono pure dannosi) e tremendamente complicati, astrusi, farraginosi.

Siamo invece piuttosto preoccupati da parole che continuiamo a non sentire, come “razionalità” e “sistematicità”. D’accordo, non sono parole accattivanti, richiederebbero anche dei ragionamenti che non hanno “i tempi televisivi” ed i meccanismi giusti dello show business e dei social network (i cui metodi hanno da tempo intaccato la comunicazione politica).
Per questo motivo, rubando per una volta un po’ di spazio alla proposta del mese, lanciamo un’idea generale che riguarda (in via universale) le professioni ordinistiche e che valorizza la portata di competenze ed esperienze del mondo professionale: la creazione di una Commissione permanente di esperti, in seno a ciascun Ordine professionale, che venga interpellata obbligatoriamente in via preventiva dalle varie commissioni parlamentari (sia pure, è ovvio, a mero titolo consultivo) ogniqualvolta venga emanata una legge di competenza (esclusiva o meno) della predetta professione o comunque agente nel suo campo. Qualcosa di più strutturato delle attuali audizioni parlamentari – che pure esistono – o delle collaborazioni estemporanee a questo o quel progetto di legge: al contrario, un’azione pienamente trasparente ed incisiva, al punto che nella fase di presentazione o di discussione di una legge o di un regolamento vi sia obbligo di dare risposta (positiva o meno che sia) alle obiezioni o ai suggerimenti che provengono (attraverso le predette commissioni) dal mondo professionale.

Insomma, come diceva uno slogan di qualche anno fa: “prima passa da noi”. O, sempre per stare nell’ambito degli slogan, prevenire è meglio che curare, che qui potremmo parafrasare in consigliare (prima) è meglio che criticare (poi). O, se volete l’espressione aulica, chiedeteci interventi e pareri de iure condendo.
Poi, promettete pure quel che volete, abbondate in campagne aggressive o autoreferenziali. Ma almeno, quando poi si tratta di fare sul serio e le varie promesse (per loro natura, in fondo, sempre fumose e sensazionali) si annacquano nella materialità della realizzazione pratica e si scontrano con l’esigenza concreta, dateci un poco retta. Siamo sicuri che il Paese intero ne trarrebbe giovamento.
E se proprio non sapete da cosa cominciare, le pagine precedenti contengono il riassunto di un anno di proposte del nostro Centro Studi. Senza pretese si intende.
Un “buon lavoro” a tutti.

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La sospensione dell’attività imprenditoriale fra disequilibri normativi e forzature di prassi

Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano1

La sospensione dell’attività imprenditoriale è indubbiamente un fatto dalle conseguenze gravi per un’azienda e pertanto sarebbe auspicabile che tale provvedimento venisse attuato solamente laddove se ne riscontrasse l’effettiva necessità. Purtroppo sia la formulazione normativa sia la prassi messa in campo dal corpo ispettivo, e ribadita da ultimo nel giugno scorso con la pubblicazione di una serie di FAQ sull’argomento, non appaiono equilibrate e rischiano di penalizzare in particolare la piccolissima azienda. Un passaggi di prassi, inoltre, sembra non rispecchiare in pieno il testo normativo potendosi così creare contenzioso in opposizione alle decisioni ispettive.

Nel giugno 2017 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha emanato una nota con cui ha comunicato l’assestamento, in tema di sospensione dell’attività ex art. 14 del D.lgs. n. 81/2008, dell’attività formativa dell’intero corpus ispettivo, comprensivo cioè di quello degli Istituti Previdenziali. Nell’occasione ha inoltre pubblicato sul proprio sito alcune FAQ di indirizzo generale sulle questioni più ricorrenti e controverse nella materia.

Non si può tuttavia ritenere che sull’argomento si sia tracciato un punto fermo – come forse pretenderebbe l’INL – in quanto, a parere di chi scrive, sono ancora diverse le questioni tutt’altro che pacifiche e scontate.

Fermo restando che il lavoro nero è in assoluto fattispecie spregevole e decisamente stigmatizzabile e perseguibile, il plus rappresentato dalla sospensione dell’attività imprenditoriale non appare ad oggi sufficientemente calibrato e rischia di creare qualche problema, oltre ad alimentare il contenzioso.

Una norma non equilibrata

Osserviamo come la disposizione dell’art. 14 non appaia particolarmente equilibrata. Essa prevede in buona sostanza che gli ispettori possano emettere un provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale2 (solo per la parte di attività interessata dalle violazioni de quibus) qualora riscontrino “l’impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20 per cento del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, nonché in caso di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro”. Senza voler mettere in discussione la percentuale del 20 per cento indicata dalla norma – che il legislatore ha evidentemente individuato come soglia massima superata la quale non sussistono le condizioni di sicurezza minime, anche se non è dato comprendere su quali dati (statistici? di tecnica organizzativa?) si sia basato per fissare tale limite – osserviamo che in genere qualora una norma preveda un rapporto percentuale, come nel caso in esame, è buona regola fissare contemporaneamente un limite minimo e/o un limite massimo, quali correttivi ad un’aliquota il cui risultato potrebbe assumere un significato diverso in termini di valore assoluto. Pertanto risulta opportuno individuare delle soglie c.d. di tolleranza (o di intolleranza), di modo che tale risultato non faccia scattare situazioni troppo penalizzanti anche per valori trascurabili, oppure ex converso che non risulti eccessivamente lassista rispetto ad una violazione di dimensioni insopportabili.

Tanto per fare un esempio numerico, a chi scrive non sembra che un numero di 19 lavoratori in nero, contro altri 80 in forza, sia meno grave o meno rischioso di 1 lavoratore in nero su un totale di 5.

Il problema, seppure in altri termini, era stato sollevato dalla lungimirante “Direttiva Sacconi” sulle ispezioni, emanata nel settembre 2008.

Citiamo testualmente il passaggio:

Quanto alla sospensione della attività d’impresa, peraltro, sembra opportuno un richiamo sulla opportunità di adottare tale grave provvedimento (…) in modo da non punire esasperatamente le microimprese.(…). Per quanto concerne la percentuale di lavoratori “in nero”, si ritiene che nella micro-impresa trovata con un solo dipendente irregolarmente occupato non siano di regola sussistenti i requisiti essenziali di tutela di cui al decreto legislativo n. 81 del 2008 idonei a sfociare in un provvedimento di sospensione”.

La Direttiva in tal modo molto opportunamente si domandava se non fosse il caso di evitare il provvedimento in argomento per l’azienda di dimensioni così limitate che la presenza di un solo dipendente in nero avrebbe fatto automaticamente scattare la sospensione. Al riguardo giova ricordare, se le parole hanno ancora un senso, che la definizione europea di micro-impresa si riferisce ad un’azienda con un numero di dipendenti inferiore a 10 unità e con un fatturato annuo non superiore ai 2 milioni di euro. L’attenzione dell’allora Ministro del Lavoro veniva però disgraziatamente male interpretata dal legislatore che, pochi mesi dopo, nel correttivo al D.lgs. n. 81/2008, con l’aggiunta del comma 11-bis all’art. 14 così disponeva: “Il provvedimento di sospensione nelle ipotesi di lavoro irregolare non si applica nel caso in cui il lavoratore irregolare risulti l’unico occupato dall’impresa”.

Il concetto di micro-impresa si trasformava così nella (diversa) nozione di “impresa senza dipendenti” (peraltro, si noti: indipendentemente dal fatturato realizzato), contro l’originaria espressione letterale ma soprattutto contro la logica: infatti, l’impresa senza altri occupati oltre al lavoratore trovato “in nero” molto probabilmente si trova nella condizione di non aver realizzato, in quanto non obbligata, alcuna misura di prevenzione o di valutazione in termini di sicurezza ovvero di non averla mantenuta aggiornata (qualora avesse avuto lavoratori occupati nel passato). Quindi il lavoratore in nero unico dipendente si trova presumibilmente nella situazione meno garantita dal punto di vista della sicurezza, e per assurdo, in quel caso il provvedimento di sospensione sarebbe molto più giustificabile rispetto ad un’azienda ove già operassero altri dipendenti. Né ha particolarmente senso sostenere, come fa il Ministero nella FAQ n. 1 sulla scorta di una sentenza del TAR Piemonte, che oltre alla finalità evidentemente cautelare il provvedimento di sospensione ha “la finalità di sollecitare il datore di lavoro a regolarizzare la posizione lavorativa di dipendenti in nero”, in quanto tale ulteriore finalità evidentemente non sarebbe in alcun modo correlata al numero dei dipendenti trovati in nero ma soprattutto alla loro percentuale rispetto agli occupati regolari. A veder bene, inoltre, il passaggio normativo in argomento rischia pertanto di rivelarsi addirittura in contrasto con i principi di uniformità, ragionevolezza ed uguaglianza propri della nostra Costituzione, non sussistendo alcuna giustificazione – né logica né tantomeno pratica – nel “favorire” l’azienda senza dipendenti rispetto a quella che ne ha in forza due o tre3.

Allo stesso modo, appare un buco normativo non aver previsto una soglia massima di lavoratori irregolari oltre la quale, indipendentemente dalla consistenza aziendale, il provvedimento di sospensione debba essere in ogni caso elevato4.

Una prassi ingiustificabile

L’assurdo viene tuttavia raggiunto nella FAQ n. 6, in cui l’Ispettorato cristallizza un atteggiamento già adombrato in precedenti interventi, sia del Ministero che della Direzione Generale dell’Attività Ispettiva: per evitare “comportamenti opportunistici”, secondo l’INL la base di computo del provvedimento di sospensione deve essere calcolata con riferimento ai lavoratori “fotografati” (una vera e propria istantanea) all’esatto momento dell’ingresso degli ispettori in azienda, senza tenere in alcun conto eventuali lavoratori assenti o addirittura sopraggiunti in un secondo momento.

L’Ispettorato interpreta – malamente, ad avviso di chi scrive – il passaggio normativo in cui si lega il provvedimento di sospensione (rectius, il paragone, e quindi il computo numerico che ad esso sottende) ai “lavoratori presenti sul luogo di lavoro”.

Come è stato correttamente evidenziato dallo stesso Ministero con la propria circolare n. 33/2009, il significato della norma è quello di ricomprendere nel numero di dipendenti presi a base per il calcolo del 20 per cento anche i lavoratori trovati in nero, sommandoli a tal fine a quelli regolari per comparare il risultato con la percentuale di sbarramento.

Tuttavia il Ministero nella propria prassi, ora confermata dalla FAQ n. 6, compie un passo ulteriore, interpretando la legge – con un orientamento che non sembra supportato dalla lettera della norma, risultando pertanto del tutto arbitrario – nel senso che il conteggio in questione debba essere riferito al momento (istante) dell’accesso ispettivo.

A parere dello scrivente, la dizione “personale presente sul luogo di lavoro” si riferisce al personale normalmente e stabilmente occupato in via ricorrente sul luogo di lavoro ispezionato, non potendo pertanto un’azienda ricorrere al personale ubicato in altri siti e/o comunque in forza a qualsiasi titolo al fine di “guadagnare” la percentuale utile ad evitare la sospensione, in quanto l’efficacia della sicurezza normalmente viene riferita non già al complesso aziendale ma a ciascuno specifico sito produttivo (concetto espresso in più punti nel D.lgs. n. 81/2008; solo per citarne alcuni, art. 29 co. 4, art. 47 co. 1, art. 49 ). Parliamo di sicurezza consapevoli che il senso da rendere al provvedimento di sospensione non possa che essere, in via esclusiva, quello di una misura di carattere protettivo e tutelante, e proprio in quest’ottica inserita nel Testo Unico della sicurezza.

È però del tutto evidente che una cosa è il concetto appena espresso, un’altra è considerare unicamente il personale presente al momento “istantaneo” dell’accesso ispettivo e ciò per una duplice ragione:

– da una parte è del tutto evidente che a supportare o meno il provvedimento di sospensione sarebbe un fatto del tutto aleatorio: basterebbe ad esempio un avvenimento del tutto incidentale relativo al lavoratore o all’organizzazione aziendale (una malattia, un giorno o anche solo poche ore di permesso, una commissione presso un ufficio, una visita medica, una missione, la partecipazione ad un corso di formazione esterno … magari proprio sulla sicurezza) oppure che l’orario di arrivo degli ispettori sul posto di lavoro sia anticipato o ritardato, per determinare effetti completamente diversi rispetto al provvedimento sospensivo, senza pertanto che di questi differenti effetti sarebbe possibile cogliere alcuna ratio;

– d’altra parte, proprio in funzione della logica suddetta, nel computo del personale non può non tenersi conto del personale normalmente ed in via stabile concretamente occupato nel sito produttivo ispezionato.

Per quanto comprensibile sia la preoccupazione ministeriale, volta ad arginare fenomeni di “mobilità strumentale” del personale attuata unicamente al fine di evitare la sospensione, basterebbe fissare parametri diversi senza imporre una prassi rigida, assurda e del tutto ingiustificata (oltre che, non abbiamo dubbi, foriera di contenzioso), ad esempio legittimando il “metodo fotografico” del personale presente sul luogo di lavoro solo ove non sia possibile dalla documentazione ufficiale (ovviamente precedente all’ispezione) ricostruire il personale appartenente ad un determinato sito, ovvero qualora si tratti di una prestazione mobile, in cui tale ricostruzione sarebbe difficile; ovviamente, qualora gli ispettori riscontrassero in qualsiasi modo una situazione di fatto diversa da quanto dichiarato dall’impresa, riacquisirebbero pertanto in pieno la facoltà di disporre il fermo dell’attività.

Si pensi, per offrire un’ipotesi particolarmente significativa, ad un’azienda che abbia una ed una sola sede di lavoro con un numero di lavoratori regolari pari a sei e nella quale, durante un accesso ispettivo, venga trovato un ulteriore lavoratore in nero; tuttavia, al momento dell’accesso ispettivo un lavoratore con la mansione di magazziniere-autista era impegnato nelle consegne esterne ed un altro aveva chiesto due ore di permesso per una visita medica, quindi i lavoratori istantaneamente presenti erano 4, più l’irregolare. Stando alla FAQ n. 6 (anzi: stando al comportamento che in concreto gli ispettori adottano regolarmente) il provvedimento di sospensione sarebbe adottabile.

Ma questo – al di là dell’aleatorietà che da sé sola basterebbe a qualificare fallace ed immotivato un tale provvedimento – a quale finalità e a quale logica consegue?

Nell’azienda ”monosito” dell’esempio di poc’anzi è indubbio che, sia sotto il profilo squisitamente cautelare, sia rispetto ad un computo di gravità legato alla mera proporzionalità fra regolari e non, staremmo parlando di un’impresa in cui sono presenti ed operanti 6 dipendenti correttamente assunti. Diventa veramente arduo sostenere una tesi differente.

Ed allora, con quale discernimento (qualità che viene prima della discrezionalità, perché ne costituisce il fondamento) applicare un ingiustificabile provvedimento di sospensione?

Conclusioni

Dall’indirizzo ministeriale, e da quanto si osserva nella pratica, sembra evincersi che talvolta il provvedimento di sospensione serva agli ispettori non come misura effettivamente cautelare ma ben più come “elemento coercitivo”, volto ad annullare sul nascere una resistenza alle determinazioni ispettive (anche, si lasci dire, quelle meno supportate da un’attività di concreto accertamento) di fronte al rischio, di una sospensione dell’attività lavorativa a medio termine, rischio talvolta ben più grave per il datore di una sanzione o di una regolarizzazione. In particolar modo nella piccola impresa sorpresa con un lavoratore in nero, il dato è abbastanza evidente. Sotto questo aspetto, la vigilanza sembra proprio non voler rinunciare a questo strumento di “semplificazione” (ma solo della propria attività ispettiva) a favore di una razionalizzazione della norma e della prassi.

Ma, così fosse, bisognerebbe avere il coraggio legislativo di saltare direttamente qualsiasi considerazione intermedia in termini proporzionali e di considerare la sospensione sempre attuabile in presenza di lavoratori in nero, qualunque ne fosse la percentuale, anche se si trattasse di un solo lavoratore.

Tuttavia una simile risoluzione normativa sarebbe in contrasto con principi di ragionevolezza, nonché di libertà ed autonomia di impresa, andando ad impattare in maniera significativa nella protezione all’iniziativa imprenditoriale che è un bene costituzionalmente garantito.

È quindi per questo che il provvedimento di sospensione si giustifica solo e soltanto in chiave cautelare e di prevenzione. E sotto questo aspetto, essendo provvedimento emergenziale e di tutela, esso appare irragionevole per una violazione minima (quale sarebbe la presenza di un solo5 dipendente in nero).

In conclusione, a fare le spese di una ingiustificata tendenza “estensiva” del ricorso alla sospensione sono pertanto oggi soprattutto le micro-aziende6, ove, come esposto, spesso il superamento della soglia prevista dalla norma è solo frutto di una imprevidente formulazione normativa e di un assurdo irrigidimento della prassi.

1 Articolo già pubblicato, previe modifiche editoriali, nel n. 11/2017 di “Strumenti di lavoro”, ed. Euroconference

2 Nella FAQ n. 4 in Ministero interpreta la nozione di attività imprenditoriale escludendo da tale fattispecie i soggetti quali Onlus, Studi professionali non organizzati in forma societaria (STP), Associazioni sportive dilettantistiche, Associazioni culturali e consimili, salvo che nel corso dell’ispezione non appaia riscontrabile l’esercizio di un’attività economica vera e propria.

3 Anzi, ragionando a contrariis, se non sussistono elementi di urgenza e tutela (tali da portare al fermo dell’attività) nella impresa senza dipendenti con un solo lavoratore a nero, si potrebbe sostenere in analogia che un solo lavoratore a nero non giustificherebbe mai il provvedimento di sospensione.

4 Basandosi sul concetto europeo di piccola impresa (fino a 50 dipendenti) e mantenendo ferma la percentuale teorica del 20 %, si potrebbe legiferare che un numero di lavoratori trovati in nero pari o superiori a 10 farebbe sempre scattare la sospensione. Del resto, da un lato la diffusione del lavoro nero nelle aziende di una certa dimensione non è particolarmente elevata, dall’altro lato è del tutto probabile che in una situazione del genere (cioè oltre un certo numero di lavoratori non regolari) ci si aspetterebbe di riscontrare molteplici profili di irregolarità sostanziale, proprio perché il fatto sarebbe anomalo ed indice di una pervicace volontà elusiva.

5 E’ opportuno ribadire che chi scrive ritiene l’impiego di lavoratori in nero, fosse anche solo uno, un fatto grave. Quello che non sembra equo è aggiungere alle sanzioni già previste un provvedimento di sospensione senza reali necessità cautelari, perché l’assenza di tale requisito prospetterebbe quasi un bis in idem rispetto alla maxi-sanzione per lavoro nero.

6 Anche perché la presenza di lavoratori irregolari, salvo situazioni particolarmente criminose, solitamente si attesta su uno o pochi elementi: è quindi evidente che a rimanere “sotto soglia”, a rischio sospensione, sono soprattutto le micro-imprese.

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Senza filtro – Equo compenso? Ma sì, (s)parliamone…

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

 

“Dice lo stolto: «Non mettere tutte le uova in un paniere solo».

Mentre il saggio dice: «Metti tutte le uova in un paniere solo

masorveglia quel paniere».”

Mark Twain – Calendario di Wilson lo Zuccone

Fanno discutere le norme appena introdotte sul cosiddetto equo compenso nelle professioni. E c’è già chi parla (da tempo) di un nuovo attacco dei professionisti alla libera concorrenza, una specie di “Star Wars” economico dove i professionisti stanno, ovviamente nel lato oscuro della forza (il Male, detto in senso etico), mentre piccoli e sparuti gruppi economici (il Mercato) organizzano strenuamente un minimo di resistenza, anche se male organizzati e con le scarse forze residue indebolite dall’attacco dell’Impero.

Già così la riflessione negativa sulla norma fa abbastanza sorridere: personalmente faccio fatica a scorgere nel piccolo commercialista di Vidigulfo, nell’avvocatino di Montesilvano o nella Consulente del lavoro di Portogruaro1 le fattezze di un Lord Dart Fener (il cattivone della saga, Darth Vader per gli appassionati) e della Flotta Imperiale e in un Grande Gruppo bancario o assicurativo o in una Pubblica Amministrazione l’esile figura stoica e solitaria del giovane eroe Luke Skywalker.

Anzi se proprio proprio devo dire, mi sembra esattamente il contrario.

Ma poiché vorremmo proporre ragionamenti e non suggestioni (e ci sembra di aver visto, al contrario, molte suggestioni travestite da ragionamenti) esaminiamo alcune critiche mosse alla norma. Lo faremo partendo dall’autorevole documento dell’Autorità Garante della Concorrenza (AGCOM), intervenuta contro la norma nel proprio Bollettino n. 45 del 27 novembre 2017, che riassume le riflessioni che a vario titolo sono comparse sui giornali.

Ci siamo già occupati in questa rubrica di AGCOM (settembre 2017) notando con preoccupazione che, quando si parla di attività professionali o ad esse contigue, i commenti di tale Autorità garante talvolta non sono per nulla equilibrati e sono anzi orientati; in particolare, se possono, sono ben predisposti pregiudizialmente verso altre entità economiche (e “forse” non va bene) e sono contro i professionisti che evidentemente per AGCOM sono una delle principali cause dell’arretratezza del Paese (come abbiamo già detto, il lato oscuro della forza).

1. La norma parla dei rapporti fra professionista e grandi imprese

Cos’è, in due parole, la norma sull’equo compenso? È la previsione che clausole che prevedano che un professionista (ordinistico o no), quindi un lavoratore autonomo intellettuale) non possa lavorare per un compenso inferiore a livelli minimi stabiliti per via di decreto ministeriale; e se si scende sotto a tali limiti, il professionista (e solo lui) può far valere la nullità della clausola.

Ma attenzione: questo non vale per tutti ma solo quando il professionista si rivolge ad imprese bancarie e assicurative o ad imprese diverse dalle piccole o medie imprese oppure alla Pubblica Amministrazione. Giusto per capirci, si definisce “media impresa” a livello europeo quella che occupa meno di 250 lavoratori effettivi ed ha un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro.

Detto in altre parole, oltre quei livelli vi è un soggetto che nei confronti del professionista, magari singolo, ha un forte potere contrattuale, che però per AGCOM non v’è ragione di bilanciare.

Il problema non è di giovani contro baroni (argomento retorico tirato fuori dal cilindro come concetto buono per tutte le stagioni, ma ci ritorneremo in seguito) ma è di piccoli (anche meno giovani) contro grandi.

Ma d’altronde, vuoi mettere, togliere un po’ di forze all’Impero del Male va sempre bene, anche se stai sparando solo su soldati semplici.

Notare che il professionista può scendere sotto tali limiti, se vuole, purchè gli stessi non gli siano imposti forzatamente dal ”mercato” (delle vacche, e per giunta magre).

2. Il ribasso quale indice tout court di strumento concorrenziale

AGCOM guarda con preoccupazione l’equo compenso in quanto, a suo dire, reintrodurrebbe surrettiziamente un sistema di tariffe professionali. Ma merita di essere riportato letteralmente per intero

il concetto del garante.

Secondo i consolidati principi antitrust nazionali e comunitari, infatti, le tariffe professionali fisse e minime costituiscono una grave restrizione della concorrenza, in quanto impediscono ai professionisti di adottare comportamenti economici indipendenti e, quindi, di utilizzare il più importante strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione”.

Vi prego di leggere bene e di riflettere sul concetto in grassetto: il più importante strumento concorrenziale, secondo AGCOM ed i “consolidati principi antitrust”non è la qualità di ciò che viene offerto, il rispetto della filiera e degli elementi tutti in gioco, la preparazione e la competenza necessarie all’esecuzione di un compito, la soddisfazione del cliente . Niente di tutto ciò, sono cose secondarie, ciò che conta davvero è solo il prezzo.

Principio questo che favorisce chi ha una posizione di competitor forte (talvolta anche spregiudicato, ai limiti della legalità, e magari oltre), magari sottolineato da campagne aggressive pubblicitarie non sempre sincere.

Il ribasso, peraltro, in molte filiere è proprio indice non di migliore organizzazione ma di scarsa qualità, di mancato rispetto dei parametri normativi; insomma, uno strisciante incremento di ingiustizia e di alienazione per tutti.

Il concetto ci sembra abbastanza evidente di per sé, ma ci piace commentarlo con le parole di un profeta del nostro tempo.

Non mi piace il mercato globale

che è il paradiso di ogni multinazionale,

e un domani state pur tranquilli
ci saranno sempre più poveri e più ricchi
ma tutti più imbecilli
.”

(G. Gaber, La razza in estinzione)

3. Minimo non vuol dire tariffa

Riflettiamo un attimo: un equo compenso minimo (peraltro senza obbligo per il lavoratore autonomo di non rispettarlo) non fissa alcuna tariffa obbligatoria, ma stabilisce un limite “non plus infra”, al di sotto del quale o c’è una scelta ben precisa o stiamo parlando di sfruttamento.

E se ci fosse una scelta precisa (e non subìta) in termini promozionali, il classico “mi devo far conoscere a tutti i costi”, chi poi una volta apertosi a fatica un certo mercato tornerebbe sui propri passi “ritrattando” il prezzo promesso?

Sarebbe come fare terra bruciata delle reputazione e fiducia faticosamente costruita.

È completamente diversa dalla tariffa fissa è la mera fissazione di un minimo, che per esser tale dovrà essere sufficientemente basso (ma non troppo) in modo da permettere di salvaguardare contemporaneamente intraprendenza e dignità professionale, senza aste sul mercato al miglior (rectius, al minor) offerente.

4. La presunta penalizzazione dei giovani e la rendita di posizione

L’equo compenso, reintroducendo secondo AGCOM ed altri commentatori, un sistema tariffario (abbiamo già visto che non è così, ma tutte le notizie accattivanti sono utili bufale per portare acqua ad un certo mulino) disincentiverebbe “l’erogazione di una prestazione adeguata” e garantirebbe “ai professionisti già affermati sul mercato di godere di una rendita di posizione determinando la fuoriuscita dal mercato di colleghi più giovani in grado di offrire all’inizio un prezzo più basso”. In altre parole, tutti i professionisti affermati si adagerebbero sulla comoda tariffa di legge e giovani resterebbero tagliati fuori.

Un simile concetto è stato espresso con altre parole anche da Alessandro De Nicola su “Repubblica” del 21.11. novembre 2017 e in rete da Angelo Deiana su Formiche.net (solo per citare due fra i commenti più equilibrati che ho trovato contro l’equo compenso, anche se non concordo per nulla sulle conclusioni).

Proprio di quest’ultimo trovo significativa una frase che riporto, riguardo all’effetto che avrebbe l’equo compenso secondo l’autore (il grassetto è opera di chi scrive).

Il mercato dei contraenti più forti tende naturalmente a riposizionarsi sul livello più basso, sfruttando proprio la forte capacità contrattuale che possiede. E pauperizzando, come sempre, il professionista più debole”.

In pratica, secondo tali commentatori, i professionisti già affermati tenderebbero a ridurre i prezzi (ma di questo, – se fosse vero, cosa che non è – AGCOM non dovrebbe rallegrarsi?) sbarrando il mercato ai giovani.

Il concetto è sbagliato di fondo (e chi lo rappresenta propugna semplicemente l’ingresso sul mercato di forze antagoniste ai professionisti e pronte ad impossessarsi del loro mercato, giovani o meno giovani che siano) in quanto:

– i contraenti più forti rimangono comunque più forti ed in grado, se vogliono, di orientare il mercato (si veda l’emblematico “come sempre” più sopra sottolineato), equo compenso o meno che sia. Anche senza l’equo compenso ci potrebbero essere politiche concorrenziali di ribasso dei prezzi: anzi vediamola al contrario, se sotto un certo prezzo non si può andare la concorrenza al ribasso (che può fare solo chi ha spalle forti o chi ha interessi paralleli, magari non proprio cristallini) ad un certo punto si ferma;

– i professionisti più affermati (guardatevi in giro, è evidentissimo) non hanno alcun interessi ad adagiarsi sulla fascia bassa del mercato: essendo affermati, possono praticare una diversa politica dei prezzi e permettersi di scegliere la propria clientela, privilegiando determinati clienti;

– l’equo compenso cambia poco anche per i professionisti stabilizzati su una certa posizione, seppur non di grido, che oggi subiscono politiche aggressive da parte di soggetti che non sono professionisti (ma sono tanto simpatici ad AGCOM e compagni) e che agiscono ormai quasi come multinazionali (senza alcuna modernizzazione reale, solo con una cannibalizzazione feroce, propedeutica a ben altre speculazioni);

– i giovani emergenti hanno altre armi e non solo il costo (che con l’equo compenso sarebbe comunque contenuto e quindi concorrenziale): l’energia maggiore, una cultura più aggiornata coi tempi e con le nuove tecnologie, la possibilità di fare rete e di condividere i saperi (cosa che appartiene solo ai più illuminati professionisti delle generazioni precedenti).

Ma è un altro il concetto che afferma AGCOM, e su cui vorremmo riflettere e che è espressa di seguito ai concetti riportati più sopra (posizione di rendita e fuoriuscita dal mercato dei giovani).

È noto, infatti, che la qualità di una prestazione professionale si percepisce nel tempo e, al momento della scelta, la reputazione del professionista assume un’importanza cruciale, scalfibile solo attraverso offerte particolarmente vantaggiose che inducono il cliente a dare fiducia a un professionista meno affermato.”

In altri termini, AGCOM ci sta dicendo che l’unica possibilità di accesso al successo per un giovane è quella di … svendersi.

Ciò per cui tanti giovani scappano all’estero, ciò che critichiamo nell’uso distorto di stage e di contratti-beffa verso le nuove generazioni viene assurto dall’Autorità garante della concorrenza a mera logica di mercato: “è il consumismo, bellezza”. Sistema di mercato che, così a occhio, tutta questa grande opportunità non la offre.

Invece di cercare vie di mediazione, siamo tornati alla logica bieca del lassez faire, lassez passer, la giungla del mercato dove qualcuno mangerà sempre di sicuro: il leone.

5. Conclusioni

Chi scrive è convinto che non tutto vada bene, che ci sia molto da cambiare anche nel mondo delle professioni, ed in maniera radicale, prima che il futuro le spazzi via con la risata delle cose che cambiano.

Chi scrive è anche profondamente convinto che le professioni siano da cambiare profondamente proprio al loro interno, per recuperare in pieno quel senso della funzione di pubblica utilità e di garanzia che talvolta in alcuni casi è apparso un po’ annacquarsi in interessi di parte.

Se si parla di equo compenso, potremmo anche ragionare sugli equi compensi che i professionisti affermati dovrebbero rivolgere verso i colleghi più giovani (e non sempre è così).

Potremmo anche scoprire che in taluni casi nel futuro, o forse già nel presente, alcune nicchie professionali e alcune riserve non abbiano più ragione di esistere, e dovremmo semplicemente prenderne atto senza sterili difese.

L’equo compenso non risolve tutti i problemi, ma costituisce una forma di riflessione sul rispetto dell’importanza del mondo professionale. Il libero professionista oggi serve, serve la sua competenza e la sua serietà, la sua terzietà e la sua funzione per la crescita della società.

Parafrasando Twain nella frase che abbiamo posto a cappello dell’articolo, nel paniere delle professioni ci sono competenze importanti e cruciali per il mondo economico: è importante sorvegliare questo paniere, anche mettergli regole serie, utilizzarlo, piuttosto che disperderne la ricchezza con il presupposto che “tutti possono far tutto” è l’unica (non) regola che conta.

Su questo dobbiamo lavorare e dobbiamo spingere. Su questo le categoria professionali devono esser disponibili, sempre ad avviso molto personale di chi scrive, anche un confronto serrato e a tutta l’autocritica che eventualmente servisse per darsi regole ancora più stringenti ed assumersi ancor di più compiti utili alla società.

Ma non ci vengano a dare “illuminati pareri” gli asserviti a poteri più forti, non ci vengano ad ammannire lezioncine coloro che vorrebbero disperdere le uova in più panieri, solo per concedere a qualcuno di appropriarsi di tutti i panieri.

1 Professioni, località e nomi sono messi a casaccio, o a titolo esemplificativo, e non fanno riferimento a persone o fatti reali.

 

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