CIGO E INPS. Il Tar riconosce gli “ovvi” diritti dell’azienda*

di Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano  

Un unico accordo tra oo.ss. e un’azienda per la fruizione anche discontinua di periodi di Cigo. Le richieste all’Inps, come concordato. La pretesa dell’Istituto che gli accordi sindacali abbiano “scadenza”. Il Tar Lombardia, sede di Milano, con la sentenza del 31.07.2023, n. 1984, viene a dare tutela a un datore di lavoro costretto a farsi carico di un contenzioso giudiziario per ribadire i propri pure palesi diritti e uno stato dei fatti con poche ombre.

 

Purtroppo la via del riconoscimento dei propri diritti è spesso imprevedibilmente irta. Anche di fronte all’evidenza. Lo sa bene, tra i molti, un’azienda milanese e suoi Consulenti del Lavoro, che hanno dovuto penare per farsi riconoscere -anche con l’assistenza dell’ANCL nazionale- l’ovvio diritto a godere di un periodo di cassa integrazione guadagni ordinaria, pure risultando in possesso di tutti i requisiti di legge.

Come comunemente accade, l’azienda, a causa di una contrazione imprevista delle commesse, si era rivolta al proprio professionista, affinché facesse tutto quanto necessario per richiedere l’intervento dell’ammortizzatore sociale. Come noto, tra quanto viene previsto al riguardo dal Decreto legislativo n. 148 del 2015 al fine di ottenere l’ammissione alla Cigo, al suo articolo 14, si stabilisce anche l’esigenza di procedere all’informativa preventiva alle organizzazioni e rappresentanze sindacali delle cause di riduzione dell’attività lavorativa e di quanti ne saranno coinvolti. Cio’  al manifesto fine di dare la possibilità di procedere, se richiesto, a un esame congiunto della situazione di crisi.

  1. Nei casi di sospensione o riduzione dell’attività produttiva, l’impresa è tenuta a comunicare preventivamente alle rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria, ove esistenti, nonché alle articolazioni territoriali delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, le cause di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile, il numero dei lavoratori interessati.
  2. A tale comunicazione segue, su richiesta di una delle parti, un esame congiunto, anche in via telematica, della situazione avente a oggetto la tutela degli interessi dei lavoratori in relazione alla crisi dell’impresa.

Nel caso considerato, avveniva che l’azienda, fatte tutte le dovute comunicazioni, giungesse a trovare l’accordo, sia pure con una sola sigla sindacale, per fruire di alcune settimane complessive di cassa integrazione, anche “in maniera non consecutiva”.

Avveniva così che, sulla base di quanto concordato in sede sindacale, l’azienda facesse luogo a una prima richiesta all’Inps di cassa integrazione per alcune settimane e che essa fosse regolarmente ammessa dall’Istituto. Quindi, di poco successivamente, sulla base dei medesimi presupposti e per lo stesso personale, si richiedeva un ulteriore periodo di Cigo, anche questo concesso senza difficoltà. Infine, a esaurimento del numero di settimane di Cigo concordate, residuava un ulteriore breve periodo di cassa integrazione per completare quanto già ammesso. Come per i precedenti, e con le medesime modalità, per esso veniva presentata richiesta dall’azienda; la quale, pero’, questa volta, si sentiva opporre un inaspettato diniego dall’Inps.

Il perché era presto detto: a parere dell’Istituto, occorrevano, nel caso, nuove comunicazioni e rinnovati confronti con le organizzazioni sindacali, ai sensi dell’art. 14, D.lgs. n. 148/2015 (“Preso atto che l’azienda non ha assolto all’obbligo dell’esperimento della procedura di informazione e consultazione sindacale; la documentazione allegata inerente la consultazione sindacale fa riferimento a una procedura già esaurita con l’autorizzazione delle precedenti domande”).

Ritenuto di constatare il difetto della necessaria documentazione, pertanto, la sede Inps competente provvedeva a non ammettere la Cigo, con evidenti e immediate ricadute sull’azienda e sulle posizioni dei singoli lavoratori. Purtroppo, nella vicenda, a nulla conduceva il tentativo di interlocuzione diretta con l’Istituto per fare comprendere le pacifiche evidenze del caso. E neppure la presentazione di un ricorso amministrativo a cui, come sovente accade, l’Inps non offriva neppure riscontro. Dopo un confronto sulla vicenda, da parte del Consulente del lavoro, con l’ANCL e i suoi legali, preso atto che ogni confronto con l’Inps, sul pure palese diritto, non aveva avuto esito positivo, si decideva di predisporre senza ritardo un ricorso al Tar per impugnare il diniego e fare concedere la Cigo mancante. Con esso si puntualizzava che, non solo risultava palesemente contrario alla legge e contraddittorio il modo di agire dell’Istituto; ma che inoltre -pure a volere ritenere valida la contestazione dell’Istituto- neanche era stata offerta all’azienda la possibilità di “rimediare”, come previsto dal D.M. 15 aprile 2016, n. 95442 del Ministero del Lavoro in materia, con un supplemento istruttorio e alla luce del preminente e ineludibile principio del soccorso istruttorio.

In particolare, ai sensi dell’art. 11 del regolamento ministeriale sui criteri di esame delle domande di concessione dell’integrazione salariale ordinaria, nel caso, prima di procedere al rigetto dell’istanza di Cigo, addirittura avrebbe potuto essere l’Istituto stesso a contattare le organizzazioni sindacali al fine di perfezionare l’istruttoria, se ritenuta carente di alcune condizioni.

In caso di supplemento di istruttoria, l’Inps può richiedere all’impresa di fornire, entro 15 giorni dalla ricezione della richiesta, gli elementi necessari al completamento dell’istruttoria e può sentire le organizzazioni sindacali di cui all’articolo 14 del Decreto legislativo n. 148 del 2015 che hanno partecipato alla consultazione sindacale.

Malgrado lo stato dei fatti privo di ombre e dubbi, in fatto e diritto, l’azienda era percio’  costretta, dapprima a fronteggiare da sé l’emergenza stipendiale del proprio personale; quindi, a farsi tempestivamente carico dell’onere di proporre impugnazione al Tar per fare riconoscere il proprio pure conclamato diritto a fruire della restante Cigo, già concordata e ammessa anche in sede sindacale.

Il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sede di Milano, in effetti riscontrava quanto già avrebbe dovuto essere del tutto evidente dalla mera considerazione delle circostanze di causa. Ovverosia, che erano state poste in essere le stabilite comunicazioni alle rappresentanze sindacali; che era stato raggiunto un accordo in riferimento alla fruizione anche non consecutiva dei periodi di Cigo; che al tempo dell’ulteriore domanda, in effetti, come non contestato, residuava un periodo settimanale non fruito dall’azienda. A fronte di ci , e alla luce del decreto attuativo n. 148/2015, oltre che del regolamento ministeriale del 2016, in definitiva, l’affermazione del diritto del datore di lavoro era riconosciuta come circostanza del tutto pacifica, mentre la pervicacia dell’Inps risultava priva di giustificazione.

La vertenza, in sostanza, avrebbe potuto trovare una rapida soluzione già in sede amministrativa, solo che l’amministrazione avesse inteso considerare i termini del caso. Chiamato invece a intervenire, il Tar Lombardia, sede di Milano, con la sentenza del 31.07.2023, n. 1984, non poteva che riconoscere l’“ovvio” diritto dell’azienda ricorrente.

Il diniego dell’I.N.P.S. non appare legittimo, poiché non era necessario, in sede di presentazione della domanda per fruire dell’ulteriore settimana da parte dell’azienda, avviare un nuovo confronto sindacale e stipulare un nuovo accordo con le parti sociali, essendo stato già previsto, nell’ambito dell’accordo con i sindacati, che “il periodo massimo di sette settimane di Intervento di Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria verrà fruito in maniera non consecutiva, ad ogni effetto di legge”. Quindi, essendo stata prevista la possibilità di fruizione non consecutiva della C.I.G.O., non poteva ritenersi esaurito l’accordo posto a fondamento della stessa. Nemmeno potrebbe ritenersi, in assenza di una norma di carattere cogente, che gli accordi con le rappresentanze sindacali abbiano un limite di validità temporale, oltre il quale perdono la propria efficacia, visto che “le integrazioni salariali ordinarie sono corrisposte fino a un periodo massimo di 13 settimane continuative, prorogabile trimestralmente fino a un massimo complessivo di 52 settimane”, come stabilito dall’art. 12, comma 1, del D. Lgs. n. 148 del 2015.

Infine, non assume alcun rilievo nella presente sede processuale, l’asserzione contenuta nella memoria della difesa dell’I.N.P.S., secondo la quale la mancanza di un nuovo accordo avrebbe impedito il coinvolgimento di tutte le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative …  in ogni caso, l’art. 14 del D. Lgs. n. 148 del 2015 non impone il raggiungimento dell’accordo con tutte le sigle sindacali, ma soltanto che si proceda alla comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali, nonché alle articolazioni territoriali delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, delle cause di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile e il numero dei lavoratori interessati, cui deve seguire, su richiesta di una delle parti, un esame congiunto della situazione, avente a oggetto la tutela degli interessi dei lavoratori in relazione alla crisi dell’impresa (cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, I, 1° agosto 2016, n. 1080).

Dalla decisione del Tar -resa percio’ necessaria dall’inspiegabile assenza di un’ordinaria dialettica tra le parti-, emerge in modo dirimente che, con riguardo all’informativa delle organizzazioni sindacali, da tempo si è formato un univoco orientamento giurisprudenziale, per cui si ritengono sufficienti alla dimostrazione dell’assolvimento dell’adempimento di legge le provate comunicazioni alle organizzazioni sindacali. E ci , anche nel caso in cui non sopraggiunga alcun accordo successivo.

Va tuttavia rimarcato come, nella vicenda, a tutela della propria posizione, l’Inps giungesse anche ad affermare che sarebbe stato necessario un accordo con tutte le organizzazioni sindacali interessate, come peraltro già escluso da tempo dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sentenza 9.9.2022, n. 2547 e n. 2557). La quale giurisprudenza ritiene del resto sufficiente a soddisfare il requisito di legge, anche l’accordo intercorso con l’unica sigla sindacale che si sia semmai attivata (cfr. Tar Lombardia, Brescia, Sentenza 11.6.2018, n. 557).

In definitiva, vale l’auspicio che cresca l’attenzione pubblica, quantomeno alla preservazione di quei diritti conclamati che, spesso, cittadini e contribuenti non hanno la forza di rivendicare.

 

 

 

* L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

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INPS, INAIL E APPALTI ILLECITI. L’obbligazione del datore di lavoro formale*

di Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano  

Per i versamenti di contributi e premi in caso di appalto e somministrazione illeciti, oltre alla nota responsabilità del datore di lavoro sostanziale, concorre ora anche quella solidale del datore di lavoro formale. In tale ultimo senso, l’interessante sentenza n. 102/2023 della Corte di Appello di Milano costituisce un revirement rispetto a quello che è stato finora l’uniforme orientamento della Suprema Corte e della stessa prassi degli Istituti.

Uno degli assunti più noti e finora certi in materia di appalti e somministrazioni illeciti concerne la circostanza per cui, delle obbligazioni contributive e assicurative che discendono dal rapporto di lavoro effettivo, risponde l’utilizzatore della manodopera.
Dunque, nel caso di fornitura illegittima di personale formalmente dipendente da altro datore di lavoro e in ipotesi di elusione della normativa, Inps e Inail dovrebbero pretendere dal committente/utilizzatore quanto dovuto a titolo di contributi e premi.
Una verità talmente consolidata da essere anche oggetto di un’uniforme prassi degli Istituti e dello stesso Ispettorato Nazionale del Lavoro. Proprio quest’ultimo, accogliendo le consolidate ragioni creditizie di Inps e Inail, ha chiarito nel tempo, in modo inequivocabile, che gli obblighi di natura pubblicistica in materia di assicurazioni sociali gravano esclusivamente nei confronti dell’utilizzatore, datore di lavoro sostanziale, ex art. 2094 c.c.. In tale senso, per la Circolare Inl n. 10 del 2018, l’unico rapporto di lavoro rilevante verso l’ente previdenziale [è] quello intercorrente con il datore di lavoro effettivo (Cass. civ. 20/2016 e Cass. civ. 463/2012).
Una posizione fatta propria e chiarita alle medesime sedi dell’Inps, tra l’altro, con una direttiva interna del 18.3.2019, per cui, nelle predette fattispecie di fornitura illecita, i recuperi contributivi vanno operati “nei confronti del solo datore di lavoro effettivo, a favore del quale sono state fornite prestazioni di opera da parte di lavoratori in forza ad un datore meramente apparente”.
Apparentemente tutto molto chiaro, perciò, anche alla luce di un’univoca giurisprudenza della Suprema Corte.
La materia delle responsabilità contributive conosce però oggi un interessante revirement da parte della Corte d’Appello di Milano, la quale, con sentenza n. 102/2023 del 15/02/2023, chiarisce che gli Istituti di previdenza possono chiamare indifferentemente in causa, per la corresponsione di contributi e premi, tanto l’utilizzatore -datore di lavoro effettivo-, quanto il fornitore -datore di lavoro formale-. Entrambi, infatti, sarebbero, comunque sia, obbligati in solido per i medesimi importi. In particolare,
qualora il datore di lavoro formale venga chiamato ad adempiere agli obblighi contributivi, questi non può liberarsi del proprio debito opponendo la fattispecie della somministrazione irregolare nei confronti degli Enti previdenziali-assistenziali (che non abbiano agito per far accertare la diversa titolarità
del rapporto di lavoro) in quanto, in tali casi, il datore formale rimane comunque solidalmente responsabile con l’utilizzatore sostanziale del pagamento dei contributi tant’è che quest’ultimo può avvalersi dei versamenti effettuati  dal somministratore (ex artt. 27 e 29 D.lgs. 10.9.2003, n. 276 nonché art. 38, c. 2, D.lgs. 15.6.2015, n. 81).
Il sistema non ha concesso al datore di lavoro formale che si voglia liberare dell’obbligo contributivo la facoltà di agire nei confronti dei lavoratori e degli enti previdenziali per far accertare in via incidentale la somministrazione irregolare. Tale iniziativa, infatti, non è in grado di sortire alcun effetto estintivo poiché –come già detto– il somministratore irregolare rimane comunque corresponsabile del pagamento
dei contributi a prescindere dall’accertamento positivo dell’illiceità dell’appalto.
Una posizione senza dubbio innovativa, quella della Corte d’Appello di Milano, che pare superare il suddetto noto orientamento, nel tempo sempre confermato dalla Cassazione, per cui l’unico rapporto di lavoro rilevante rispetto all’Istituto previdenziale è quello intercorrente con il datore di lavoro effettivo. Con la conseguenza che gli obblighi di natura pubblicistica in materia di assicurazioni sociali  graverebbero per intero sul datore di lavoro di fatto. Tali obblighi, per la S.C., sorgono solamente in capo all’effettivo datore, a prescindere dall’avvenuta o meno richiesta giudiziale, da parte del lavoratore somministrato, di accertamento di un rapporto di lavoro con l’effettivo utilizzatore.
Ciò, in base al principio ermeneutico generale di effettività, per cui la sostanza del rapporto prevale sulla forma. Quale effetto, la disciplina applicabile in tali ipotesi di fornitura  illecita di manodopera sarebbe quella prevista per la tipologia del rapporto di lavoro posto in essere materialmente, anziché quella adottata in frode a leggi e contratti.
Tra le molte conferme, in tale senso si esprimeva la Suprema Corte, con la sentenza del 4.1.2016, n. 20, che affermava il principio secondo cui in ipotesi di interposizione nelle prestazioni di lavoro, non è configurabile una concorrente obbligazione del datore di lavoro apparente con riferimento ai contributi dovuti agli enti previdenziali, rimanendo tuttavia salva l’incidenza satisfattiva di pagamenti eventualmente eseguiti da terzi, ai sensi dell’articolo 1180 c.c., comma 1, nonché dallo stesso datore di
lavoro fittizio, senza che abbia rilevanza la consapevolezza dell’altruità del debito.
La medesima pronuncia ribadiva in definitiva il principio, ritenuto incontrovertibile, che “l’unico rapporto di lavoro rilevante verso l’ente previdenziale è quello intercorrente con il datore di lavoro effettivo”.
Un orientamento considerato pacifico finora, per cui “in tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro, non è configurabile una obbligazione concorrente del datore di lavoro apparente per i contributi dovuti agli enti previdenziali” (Cass., Sez. Lav., Ordinanza 26.5.2020, n. 9782).
Appare chiaro come l’adesione all’una o dell’altra delle incompatibili tesi giurisprudenziali esposte permetta all’Inps e all’Inail una maggiore o minore libertà di azione nel recupero di contributi e premi. Infatti, il principio espresso dalla Corte d’Appello di Milano consente agli Istituti di rivolgersi in maniera indifferente a datori di lavoro sostanziali e formali, mentre l’orientamento preminente fino a oggi concentra la propria attenzione sulle responsabilità dei soli committenti degli appalti illeciti.

* L’articolo è anche sul sito www.verifichelavoro.it della rivista Verifiche e Lavoro.

 

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Senza filtro – Puliti dentro, brutti fuori: gli altarini del dumping delle aziende dal volto umano

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

 

Sembra giusto cominciare questo articolo dall’obbiettiva considerazione che Cristina Chiabotto, Laura Chiatti ed Elena Santarelli sono tre belle figliole; così quando, con o senza Del Piero, ci assicurano che l’assunzione regolare di determinate acque minerali lascia “puliti dentro e belli fuori” siamo del tutto disposti a credergli. E tanto dovevamo per aver parafrasato, nel titolo, il fortunato slogan pubblicitario propinatoci da sì avvenenti testimonial delle quali, purtroppo, smetteremo subito di occuparci ma senza abbandonare il mondo dorato della pubblicità e della comunicazione.

E sì perché a distanza di qualche secondo, ecco che appaiono in TV gli spot dei supermercati dal volto umano (quelli che si occupano di persone o più semplicemente di te o ancora “della tua libertà”), dei produttori che destinano parte del loro ricavato a questo o quel progetto umanitario, oppure di quelli che rispettano la filiera naturale per farci vivere in un mondo più pulito, o ancora del commerciante che ti strappa gridolini di gioia per il prodotto sottocosto, ma che più sottocosto non si può, recapitato a casa tua.

Poi però cambi canale e ti imbatti in qualche servizio (sono scherzi del telecomando, una volta quando dovevi alzarti e maneggiare coi tasti della TV per cambiare canale non lo facevi così di frequente – anche perché di emittenti al massimo ce n’erano tre o quattro ) da cui scopri che le cose non sono proprio così “rose e fiori”, che dietro molte di queste realtà “perbene” ci sono catene di distribuzione e di subappalto in cui le condizioni di lavoro ed i trattamenti riservati a chi vi è occupato sono di quelli che è meglio non far sapere troppo in giro.

Ma anche fuori dal mondo della pubblicità, tanto ormai anche la comunicazione è spesso puro advertising, ecco apparire l’imprenditore esasperatamente innamorato del “made in Italy”, l’azienda che chiama lo chef di grido ad inaugurare la propria mensa per i dipendenti, l’impresa che rimodella il proprio opificio o i propri uffici ricorrendo all’archistar famoso, la ditta che si impegna per la gestione della diversity, la compagnia che è tutta un asilo nido, uno smart working, una flessibilità che concilia tempi di lavoro ed esigenze di vita, l’ufficio dove si persegue il welfare, anzi il wellness, l’azienda nella top twenty del “best place to work”, l’impresa con un codice etico più lungo dei Promessi Sposi… E anche qui, fuori della patina dorata e (forse anche) delle oneste buone intenzioni, girata la pagina sul mondo dorato degli insider, ecco apparire gli outsider, quelli degli appalti al ribasso, quelli dell’indotto strozzato, quelli dei lavori sporchi ma tanto necessari, quelli dei lavoretti. Un mondo fatto di pulizie, di trasporti, di logistica, di guardiani armati e non, di distribuzione, di assistenza sanitaria e personale, di call center, di consegne, ma anche di catene di sottoproduzione o di seconda lavorazione.

Insomma, da tanto nitore e letizia interiori, da tanta cura alle persone interne, da tanta nobiltà di intenti si dipanano non di rado catene di esternalizzazione dal volto disumano, caratterizzate dalla precarietà e da condizioni al di sotto del minimo, da carenza non già di chissà quali attenzioni e coccole ma spesso anche solo delle tutele minime.

È il dumping interno, bellezza … Quella condizione di gran parte del nostro tessuto produttivo a cui nessun governo sembra finora aver posto dovuta attenzione, e che prolifera fin nelle più bieche offerte della somministrazione illecita, fra uno Stato impotente ed un’attività ispettiva che (dichiaratamente, è questo il bello) preferisce tartassare il piccolo, con cui fa la voce grossa, che non invischiarsi a tentare di fermare il grande. Ridicoli, poi, i richiami alla contrattazione maggiormente rappresentativa, quando nessuno sa indicare quale sia e quando anche i “maggiormente rappresentativi” si guardano bene dal contarsi veramente e dal darsi regole serie (e talvolta qualche interesse non del tutto immacolato ce l’hanno pure loro).

L’importante è trattare bene i propri – sempre meno numerosi – dipendenti. E poi esternalizzare il più possibile, risparmiare sui costi, strangolare chi lavora al di fuori e non è direttamente collegabile alla tua immagine, al tuo brand di successo. E magari con tanto di prestanome a fare da testa di legno, meglio se straniero e con un nome improbabile, così anche qualcuno dall’altra parte si fa complice organizzando, guadagnandoci, queste catene di sfruttamento, erodendo anche risorse pubbliche (ah, se un giorno qualcuno facesse due conti, con l’evasione sistematica di certe cooperative, di certi consorzi, di certi soggetti, si potrebbe tranquillamente recuperare l’equivalente economico di tre o quattro leggi di bilancio …).

Intendiamoci, non siamo contro l’esternalizzazione per partito preso, la terziarizzazione dei servizi e dei meccanismi produttivi è un’esigenza dei moderni sistemi economici. Solo diventa poco comprensibile ed inaccettabile pensare che non si possa realizzare senza ricorrere spesso allo sfruttamento indiscriminato delle risorse e delle persone.

Non sarà un caso che si parla sempre meno di concreta responsabilità sociale delle imprese e che fra gli stakeholder dei nuovi codici etici gli appaltatori (e i loro lavoratori) sono sempre meno considerati. Forse non sarà un caso nemmeno se nel rating di legalità, tanto considerato da AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), non si fa cenno (forse solo un distratto collegamento indiretto) a condizioni di lavoro nelle catene del subappalto che si dipanano dall’azienda principale. E che legalità è mai questa?

Ecco allora che tali aziende mi ricordano un po’ la signora Pina (c’è in ogni condominio una signora Pina, anche con un altro nome) che aveva il balcone ed i davanzali tanto puliti, perché buttava rifiuti e detriti ai piani di sotto, ed altrettanto pulito il pianerottolo davanti a casa, però spazzando lo sporco davanti all’uscio dei vicini.

Forse è sbagliato lo slogan che abbiamo messo a titolo, non puliti dentro e sporchi fuori, no al contrario, belli fuori (nel senso di immagine offerta all’esterno) e sporchi dentro, nell’interno di invisibili processi decisionali con cui si risparmia sulla pelle degli altri. Purchè poco o nulla collegabili. Tanto la gente dimentica presto, hai visto il nuovo sottocosto? E l’offerta speciale? Che qui, tra l’altro, scatta una riflessione parallela; chiediamolo, a ciascuno di noi: per realizzare un po’ più di giustizia sociale, saremmo disposti a pagare di più (magari, il prezzo corretto)?

Sì, forse “belli fuori e sporchi dentro” meglio rende l’immagine della più bieca ipocrisia che Qualcuno duemila anni fa descriveva benissimo con queste parole: “rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità”.

Ma non c’è solo tanta ipocrisia, c’è anche una grande miopia. Il manager che guarda al risparmio di oggi (e al bonus conseguente che si porterà casa) non sa o finge di non sapere che l’impresa per cui lavora e che ricorre all’esternazione selvaggia è seduta su una polveriera. Stolido e squallido sperare che non scoppi (perché a volte, sapete, scoppiano…) o che lo faccia il più in là possibile, forse solo in un domani di cui “non v’è certezza” (mentre del bonus di oggi, sì).

Un tessuto sociale ed un’imprenditoria che oggi pensano di risparmiare, stanno in realtà minando le fondamenta del vivere civile: se lasciamo crescere ed imperversare gli squali, alla fine domineranno loro, anzi dominerà proprio chi sarà “più squalo degli altri”.

La distruzione delle filiere serie, conseguente alla proliferazione di strutture selvagge e fetide, è un vulnus per tutti: si perdono professionalità, capacità e competenze.

Si perde le qualità del lavoro, della socialità e della vita; per gli sporchi interessi di quattro canaglie (e magari fossero solo quattro) che ieri forse sembravano servire, domani comanderanno il mercato. Anzi, lo stanno già condizionando oggi.

Ecco, forse solo il desiderio finale è che non ci siano più maschere ed infingimenti. Non siete i manager illuminati del mondo apparentemente bello e dorato che volete farci apparire sotto gli occhi, siete i complici consapevoli di un marciume che già ora non riuscite più a nascondere ed il cui accumulo finirà per travolgere anche voi.

E, soprattutto, non è ancora troppo tardi per fermarvi.

 

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Una proposta al mese – Appalto privato: vogliamo cambiare una situazione esplosiva?

Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

 

In Italia, quando si sente parlare di appalto da parte di politici o di opinion maker – e se ne sente parlare troppo poco – con rare eccezioni o si sentono discorsi a vanvera (se preferite, ad effetto) o si sente parlare di appalti pubblici: sembra che solo questi ultimi (che indubbiamente rappresentano una fetta di una certa rilevanza nell’economia italiana) abbiano la necessità di una tutela regolatoria.

Eppure l’esternalizzazione produttiva è fenomeno trasversale e diffuso in ogni ambito dell’economia, e spesso si combina con meccanismi perversi di somministrazione e sfruttamento, di cui abbiamo dato conto più volte in questa Rivista (ed anche in questo numero). Non solo: i meccanismi di controllo sono poco efficaci e pericolosi, con il doppio rischio di avere norme e attenzioni troppo lasche per gli scienziati dell’illegalità e troppo penalizzanti per i normali operatori economici. Come amava dire Flaiano: la situazione è grave, ma non è seria.

Nella sintesi di anni di attenzione che il nostro Centro Studi ha dedicato al fenomeno (non perdetevi il Quaderno sull’Appalto di imminente pubblicazione – edizione 2018 di aggiornamento della prima del 2012) abbiamo elaborato una serie di proposte – che malgrado la forma utilizzata – devono intendersi in ogni caso prospettiche, aperte e programmatiche.

Oltre ad esporle in forma più articolata nel predetto quaderno, abbiamo ritenuto di diffonderle qui, per stimolare un dibattito ed un’attenzione che riteniamo cruciali e non più rimandabili per chiunque abbia a cuore il futuro del nostro Paese.

1. La modifica dell’art. 29: una piccola legge-quadro

Abbiamo ritenuto di rivedere interamente la norma sull’appalto, pur lasciandola all’interno dell’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003 e non cambiandone la struttura di base. Lo scopo è quello di non dover riaggiornare tutti i riferimenti giurisprudenziali, dottrinali e di prassi, ma di costruire un piccolo articolo-quadro sulle esternalizzazioni.

Invariato il co. 1, vedremmo utile inserirvi, con altri commi, un obbligo generale per il committente, sanzionato penalmente, di individuare appaltatori e sub-appaltatori affidabili. L’obbligo è già contenuto nell’art. 26 del D.lgs. n. 81/2008 ma in tal modo rimane confinato agli aspetti meramente tecnici più che ad aspetti più sistematici. Volendo si potrebbe prevedere anche in questo caso un decreto attuativo con attività codificate che, una volta realizzate, diventerebbero esimenti per il committente (non l’abbiamo scritto perché argomento molto delicato e perché quello previsto dal D.lgs. n. 81/2008 lo stiamo ancora aspettando dopo 10 anni). La centralità dell’opera di selezione dell’appaltatore e della estraneità a processi di intermediazione illecita è ribadita dal richiamo alla norma sulla responsabilità amministrativa delle imprese (D.lgs. n. 231/2001) nel cui modello di organizzazione e gestione ben può essere inserito utilmente anche questo aspetto.

Nella seguente esposizione abbiamo raggruppato i commi della norma in senso discorsivo e non secondo l’ordine numerico ad essi assegnato, che come detto tende a non modificare i commi attualmente esistenti.

1-bis Ogni committente o subcommittente è tenuto ad assicurarsi, anche mediante il sistema di qualificazione delle imprese, della affidabilità, della idoneità tecnico-professionale e della capacità finanziaria dell’esecutore a cui affida un’opera o un servizio, nonché degli eventuali sub-appaltatori, per tutta la catena della esternalizzazione da sé dipendente; il committente o sub committente è tenuto ad accertare che al personale impiegato in appalto e subappalto venga riservato un trattamento economico non inferiore a quello individuato dai contratti collettivi di settore sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale. In caso di violazione degli obblighi di cui al periodo precedente, il committente è punito con un’ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Se la violazione interessa un contratto in cui sono impiegati più di 20 dipendenti in un arco temporale di un anno solare la sanzione di cui al periodo precedente è triplicata1.

1-ter All’art.25 del D.lgs. n. 231/2001 è aggiunto il seguente comma:

Art. 25 ter-decies

1. In relazione ai reati in materia di esternalizzazione previsti dal co. 1-bis dell’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie: a) se il reato riguarda fino a 20 dipendenti, la sanzione pecuniaria da cento a duecento quote; b) se il reato riguarda oltre 20 dipendenti, la sanzione pecuniaria da trecento a seicento quote c). In caso di recidiva, gli importi di cui alle lettere a) e b) che precedono sono raddoppiati:

2. In relazione ai reati in materia di esternalizzazione previsti dal co. 3-bis lett. c) dell’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003, si applicano all’ente (sia fornitore che utilizzatore di manodopera) le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) se il reato riguarda fino a 20 dipendenti, la sanzione pecuniaria da cento a duecento quote; b) se il reato riguarda oltre 20 dipendenti, la sanzione pecuniaria da trecento a seicento quote; c) se il reato riguarda oltre 100 dipendenti, la sanzione pecuniaria da settecento a mille quote,d) In caso di recidiva, gli importi di cui alle lettere a, b e c, che precedono sono raddoppiati2.

Proseguendo, riteniamo che il meccanismo della responsabilità solidale possa costituire un valido deterrente per il contrasto ad azioni di dumping e/o di sfruttamento, ma vada meglio inquadrato, eliminando ogni ridondanza o dualità, riservandolo ad aspetti di un certo rilievo e ove il committente abbia effettiva possibilità di controllo, e aprendo la porta alla istituzione di buone prassi in merito, con lo scopo, in concomitanza con gli obblighi visti in precedenza, di istituire norme premiali ed esimenti per gli operatori virtuosi.

Inoltre si è posta l’attenzione su una più ampia qualificazioni delle esternalizzazioni produttive, agendo in senso estensivo, così come a livello giurisprudenziale è stato più volte fatto (si veda più avanti il co. 5).

La delicatezza dell’argomento è data anche dalla necessità di arginamento di fenomeni di concorrenza sleale fra imprese.

2. Il committente di un’opera o un servizio è responsabile in solido con l’appaltatore per tutti i suoi obblighi retributivi, diretti e/o indiretti, nei confronti dei lavoratori di cui sia obbligatoria la registrazione sul Libro Unico del Lavoro che siano stati utilizzati nell’appalto per almeno un quarto del loro orario normale di lavoro; è inoltre responsabile inoltre, relativamente alle retribuzioni dei medesimi lavoratori, per tutti gli obblighi contributivi ed assicurativi nei confronti degli Enti previdenziali competenti, con esclusione delle sanzioni civili ad amministrative. In caso di uno o più subappalti, la responsabilità solidale si estende secondo la successione della catena dell’appalto dal committente sino all’ultimo sub committente. L’obbligazione solidale può essere fatta valere dai creditori entro il termine di decadenza di due anni dalla cessazione dell’appalto. Il committente è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente coobbligato solidale può eccepire, nella prima difesa o in fase amministrativa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’obbligato principale. In tal caso il giudice o l’Ente accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti dei coobbligati solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio del creditore originario. Il coobbligato che ha eseguito il pagamento può esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali. In caso di intervento economico del coobbligato su debiti ad Enti Previdenziali, l’obbligato originario è considerato in via permanente debitore ai fini del DURC, tranne che se provi il rimborso dell’intero importo al coobbligato.

La responsabilità solidale su retribuzioni indirette matura (per la quota unicamente relativa all’appalto) solo se il prestatore di lavoro abbia prestato la propria attività nell’appalto per un periodo superiore a 3 mesi ovvero, se periodo inferiore, per almeno la metà del suo rapporto di lavoro)3.

2-bis. Ferma restando l’azione di cui dispongono in ogni caso i dipendenti dell’appaltatore nei confronti del committente a norma dell’art. 1676, la disposizione del co. 3 non si applica al committente persona fisica o all’ente privato non imprenditore o professionista che conferiscano un appalto estraneo all’esercizio di una attività commerciale, professionale o imprenditoriale. La disposizione del co. 2 non si applica altresì agli appalti di opere o servizi di valore inferiore ad euro 5.000,00 per anno solare, a quelli che vengano svolti in locali o con modalità autonomi dall’azione di controllo del committente o a quelli in cui l’appaltatore non versi in situazione di dipendenza economica dal committente. I cantieri, anche mobili, si considerano sempre sotto il controllo del committente ai fini della presente disposizione per qualsiasi tipo di lavorazione in essi svolto4.

2-ter Il Ministro del Lavoro, anche per il tramite dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, può produrre un decreto di natura non regolamentare o, su istanza degli Ordini Professionali nazionali competenti, protocolli di intesa al fine di stabilire termini e modalità di asseverazione, certificazione e controllo della regolarità degli appalti anche al fine di considerare assolti gli obblighi di cui al comma 1-bis ed escludere la responsabilità solidale di cui al co. 3. Le procedure di asseverazione e controllo potranno essere svolte – nei termini previsti del predetto decreto o dei protocolli stipulati – unicamente sotto la direzione di almeno un professionista di cui all’art. 1 della Legge n. 12/19795.

5. Le disposizioni relative ai commi 1-bis e 1-ter, 2, 2-bis e 2-ter, che precedono si applicano in ogni caso in cui si realizzi un decentramento produttivo, alle condizioni di cui ai predetti commi, ed in particolare nei seguenti casi:

– affidamento o assegnazione di opere o servizi nell’ambito di attività consortili o di reti di impresa, con responsabilità solidale del consorzio o della rete verso i lavoratori del consorziato impiegati nella lavorazione;

– associazione in partecipazione fra imprese ed altri contratti di tipo associativo, con responsabilità solidale dell’impresa associante o della capofila o della mandataria verso i lavoratori dell’impresa associata o mandante;

servizi integrati o globali di trasporto e logistica;

“nolo a caldo”;

– fornitura di materiale o beni con posa in opera o installazione, per il personale del fornitore ivi materialmente impiegato;

– somministrazione di beni o servizi, per il personale del somministratore materialmente impiegato nel servizio;

– contratti di lavorazione c/terzi e subfornitura6.

Abbiamo voluto disciplinare il fenomeno dei cambi di appalto tuttora vero buco normativo malgrado dopo le recenti modifichedellegislatore (anzi forse anche a causa di esse).

3. L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, in assenza di altri indici significativi di continuità quali il trasferimento di beni, mezzi o competenze, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda7.

4. In caso di cambio di appalto di servizi in cui siano coinvolti più di 4 lavoratori, il committente e l’appaltatore uscente sono obbligati a darne comunicazione almeno 40 giorni prima ai lavoratori occupati nell’appalto, alle OO.SS. comparativamente più rappresentative del settore relativo all’attività appaltata ed all’Ufficio Provinciale del Lavoro territorialmente competente. Nell’ambito dei 20 giorni successivi alla comunicazione, su richiesta delle OO.SS. vengono esperite, con la presenza anche dell’appaltatore subentrante, consultazioni al fine di verificare le condizioni di subentro nell’appalto e le misure volte ad attenuare l’eventuale impatto occupazionale negativo, fermo restando il diritto di precedenza dei lavoratori occupati continuativamente nell’appalto da almeno 4 mesi all’assunzione presso l’appaltatore subentrante e nell’ambito delle lavorazioni oggetto del cambio di appalto, per un periodo di 6 mesi dalla data del cambio appalto. In caso di mancato accordo relativo alla acquisizione del personale ed ai criteri di dismissione dell’eventuale personale eccedente, nei 20 giorni successivi il direttore dell’Ufficio provinciale convoca le Parti ai fini di un ulteriore esame della materia e del raggiungimento di un accordo. In caso di mancato accordo, i lavoratori eccedenti vengono licenziati dall’appaltatore disdettato con preavviso decorrente dalla comunicazione iniziale di cui al primo periodo e termine della prestazione con l’ultimo giorno di esercizio dell’appalto. L’onere del contributo iniziale di finanziamento ASPI è posto a carico dell’appaltatore uscente, con responsabilità solidale del committente.8

Riteniamo infine centrale ripristinare la norma penale sui fenomeni di appalto illecito, laddove la somministrazione, il distacco siano effettuati con la specifica finalità di agire in frode di legge ed il fenomeno si presenti massivo e sistematico (nel restante caso vale la depenalizzazione attuale), dando anche all’intervento ispettivo il potere di ricostituire il rapporto con l’utilizzatore in detti casi di frode.

3-bis Quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal co. 1:

a) il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo a partire dalla data accertata della irregolarità. In tal caso, i pagamenti effettuati dal datore di lavoro originario a titolo retributivo e previdenziale liberano sino a concorrenza l’utilizzatore e tutti gli atti compiuti dal datore di lavoro originario si intendono come compiuti dall’utilizzatore;

b) l’ITL, su segnalazione degli organismi di vigilanza che accertino l’irregolarità o del giudice che riceve il ricorso di cui alla precedente lettera a), dispone l’immediata sospensione delle prestazioni dei lavoratori interessati;

c) la violazione del co. 1 è punita ai sensi dell’art. 18 del D.lgs. n. 276/20039.

3-ter Il contratto di appalto che sia costituito solo formalmente come tale , senza la sussistenza di alcuno dei requisiti di cui ai co. 1 e 2 che precedono ovvero che costituisca somministrazione illecita di fatto indipendentemente dalla fattispecie contrattuale formale posta in essere, comprese quelle di cui al co. 5, comporta la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, anche da parte dell’organo accertatore o di vigilanza, alle condizioni di cui al co. 3-bis lett. a) del presente articolo, oltre all’applicazione delle sanzioni previste.

3-quater L’art. 18 co. 5-bis del D.lgs. n. 276/2003 è sostituito dal seguente:

5-bis Nei casi di appalto privo dei requisiti di cui all’art. 29, co. 1, e di distacco privo dei requisiti di cui all’art. 30, co. 1, l’utilizzatore e il somministratore sono puniti con la pena della ammenda di euro 50,00 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione. Se vi è sfruttamento dei minori la pena è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo; la medesima pena si applica nei casi in cui la violazione riguardi più di 1000 giornate/uomo ad anno solare, da calcolarsi, per l’utilizzatore, riguardo a tutti i contratti posti in essere anche con più somministratori, e, per il somministratore, riguardo a tutti i contratti posti in essere anche con più utilizzatori”10.

Per finire, invitiamo i lettori a consultare il nostro Quaderno11 su Appalto ed esternalizzazioni, che contiene altri spunti sulla materia, ed ad indirizzarci le loro impressioni ed osservazioni sulle proposte avanzate.

1 Il co. 1-bis prevede l’obbligo di accertare in via preventiva la regolarità ed affidabilità dell’appaltatore e si configura come ipotesi di reato.

2 Il comma 1-ter prevede l’inserimento di apposito richiamo nel D.lgs. n. 231/2001 inerente la materia della responsabilità amministrativa degli Enti, prevedendo una specifica sanzione in caso di mancato controllo della affidabilità di colui a cui il committente affida un’opera o un servizio (qui introdotto come ipotesi di violazione penale) oppure in caso di somministrazione fraudolenta.

3 Viene rivisitato il meccanismo della responsabilità solidale, con una minor incidenza degli obblighi in caso di appalto di breve durata, e con l’incidenza del TFR solo in caso di appalto di medio-lunga durata. Viene introdotto il beneficium excussionis, con una penalizzazione dell’obbligato principale in cado di insolvenza.

4 Viene introdotta l’esclusione della responsabilità solidale per non imprenditori né per appalti di importo minimo, ne per appalti in cui non vi sia alcuna possibilità di ingerenza del committente. In quest’ultimo caso si tratta della commissione di opere o servizi nella normale attività imprenditoriale , per eseguire i quali l’esecutore agisca in completa autonomia, in spazi di cui ha la piena disponibilità e senza alcuna possibilità di controllo da parte del committente.

5 Il co. 2-ter prevede la possibilità da parte del Ministro del lavoro o dell’Ispettorato Nazionale, di realizzare procedure di controllo ed audit preventivo al fine di normalizzare il ricorso alel esternalizzazioni. La fonte di garanzia sarà data, oltre che dalle regole di tali decreti o protocolli, dalla caratura deontologica dei soggetti, professionisti ordinistici, a ciò abilitati.

6 Con il co. 5 viene effettuata un’estensione degli obblighi in tema di affidabilità dell’esecutore e di responsabilità solidale a tutte le attività di esternalizzazione oggi conosciute. L’inserimento delle attività di trasporto e logistica comporterebbe l’abrogazione dello speciale regime di responsabilità solidale oggi vigente per tale settore (vedi cap. 3).

7 Il co. 3 viene ripresentato nella forma originale, con una modifica che apre all’eventuale fattispecie del trasferimento d’azienda ma che è più equilibrata rispetto a quella della Legge n. 122/2016.

8 Con il co. 4 viene introdotta una disciplina legislativa per il cambio appalto che stabilisce obblighi e procedure. Gli effetti delle c.d. clausole sociali vengono mitigati ma vengono introdotti specifici obblighi anche per il committente, tenuto a governare il processo di cambio appalto e le sue conseguenze senza sfilarsene.

9 Nel co. 3-bis si intende confermare meglio la procedura in caso di appalto che abbia perso i requisiti di genuinità, per distinguere la fattispecie dalla somministrazione in frode di legge, di cui al comma 3-ter. In sostanza, nel secondo caso – a cui viene data rilevanza penale in caso di particolare estensione del fenomeno, con una riscrittura dell’art. 18 co. 5-bis a cura del co. 3-quater – l’organo di vigilanza può costituire il rapporto in capo all’utilizzatore, oltre alla facoltà che tale azione provenga dal lavoratore. La facoltà prevede un margine di discrezionalità dell’organo ispettivo nei casi un cui la costituzione di un rapporto con il committente risultasse nei fatti una penalizzazione per il lavoratore.

10 Vedi nota precedente. È introdotta un’ipotesi nuova di reato, in caso di somministrazione in frode di legge che superi una certa estensione.

11 Reperibile sul sito www.consulentidellavoro.mi.it.

 

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