VIDEOSORVEGLIANZA SUL LAVORO: gli ultimi orientamenti*

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro studi unitario Ordine dei consulenti del lavoro provincia di Milano – Ancl Up Milano 

 

Zambelli & partners, Angelo Zambelli, Alberto Buson Bens si confrontano sul tema dei controlli a distanza

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota n. 2572 del 14 aprile 2023, ha fornito una serie di indicazioni in merito ai provvedimenti con cui sono autorizzate, ai sensi dell’art. 4, Legge n. 300/1970, le installazioni di strumenti da cui derivi anche la possibilità di controlli a distanza dei lavoratori. L’espresso riferimento alle disposizioni del Garante per la protezione dei dati personali è frutto della convergenza tra norme giuslavoristiche e norme data protection.

CODETERMINAZIONE TRA DATORE DI LAVORO E RAPPRESENTANZE SINDACALI -INSUFFICIENZA DEL SOLO CONSENSO DEI LAVORATORI

In primis, l’accordo con le organizzazioni sindacali è la via prediletta dal legislatore per autorizzare il datore di lavoro (e titolare di trattamento) a installare gli impianti/strumenti da cui derivi anche la possibilità di controlli a distanza delle attività dei lavoratori. In secondo luogo, è l’affermazione che il consenso non supplisce alla mancanza di accordo con la componente sindacale, in quanto “il bene giuridico tutelato dalla disposizione (…) ha natura collettiva e non individuale”. Nella richiamata giurisprudenza penale si afferma che è per la “maggiore forza economicosociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore”, che la procedura co-determinativa è da reputare inderogabile, potendo essere sostituita dall’autorizzazione amministrativa nel solo caso di mancato accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, mentre il consenso dei singoli lavoratori, “in qualsiasi forma prestato (…), non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice”.1

AZIENDE MULTI-LOCALIZZATE E INTEGRAZIONI ALLE AUTORIZZAZIONI GIÀ RILASCIATE

Quando le varie unità produttive sono ubicate nell’ambito di competenza di un medesimo Itl (Ispettorato territoriale del lavoro), è possibile per il datore di lavoro presentare (in caso di mancato accordo o in assenza delle rappresentanze sindacali) una sola istanza di autorizzazione “in presenza di medesime ragioni legittimanti e avuto riguardo allo stesso sistema”. Attenzione dunque: è necessario che sia accertata una corrispondenza fattuale tra le fattispecie concernenti le unità produttive. In caso contrario, il criterio generale preponderante rimane quello di presentazione di una istanza per ciascun impianto o strumento rilevante ai sensi dell’art. 4.

Quando le unità produttive sono dislocate in diverse province, il datore può stipulare gli accordi con le controparti sindacali di ciascuna unità produttiva ma pu  anche scegliere di stipulare un accordo generale con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Mentre ove necessiti l’autorizzazione amministrativa, in alternativa alla presentazione delle istanze ai vari Itl territorialmente competenti, potrà essere richiesta all’Inl, sede centrale. L’Inl parla di “istanza di integrazione” per una unità produttiva ulteriore rispetto a quella per cui sia stato già ottenuto provvedimento autorizzativo.

Istanza integrativa è un termine che potrebbe fuorviare, se dovesse essere inteso come un adempimento ridotto.

L’agevolazione è de facto: se la ragione legittimante e l’impianto da istallare sono identici a quelli della prima unità produttiva, l’avvio del procedimento sarà attenuato dalla opportunità di predisporre un’istanza in cui cambiano pochissimi elementi/informazioni.

E, dal punto di vista dell’esito, l’Itl valuterà una fattispecie del tutto analoga a quella già autorizzata.

NUOVE AZIENDE E ASSUNZIONI SUCCESSIVE ALL’ISTALLAZIONE

L’impresa neocostituita che intenda assumere dei lavoratori dovrà avere ottenuto l’autorizzazione amministrativa prima dell’installazione dell’impianto e indicherà nell’istanza il numero dei lavoratori che ha programmato di assumere e risulteranno alle sue dipendenze all’avvio della attività.

Segue il caso dell’impresa senza dipendenti che si sia dotata di un impianto legittimamente installato e funzionante. Cosa fare dovendo procedere alla assunzione di personale?

Per l’Inl l’impresa presenterà l’istanza di autorizzazione in un momento successivo “ma dovrà produrre contestualmente attestazione che lo stesso impianto sarà disattivato non appena il personale sarà adibito al lavoro e che sarà messo nuovamente in funzione soltanto dopo l’eventuale provvedimento autorizzativo dell’Ispettorato del Lavoro”.

L’indicazione appare in contrasto con il divieto legale (che è riferito alla installazione dell’impianto, a prescindere dalla sua messa in funzione) nella misura in cui è richiesta la sua disattivazione in attesa del provvedimento positivo. È auspicabile che l’Inl corregga prontamente l’indicazione: se non cambia il precetto legale, l’autorità amministrativa non può  che attuarlo.

SISTEMI DI GEOLOCALIZZAZIONE

Con particolare riguardo ai sistemi di geolocalizzazione, l’Inl sottolinea la necessità di contemperare le finalità di sicurezza del lavoro, della tutela del patrimonio aziendale e della più efficiente organizzazione dell’attività produttiva, con la tutela dei diritti e delle libertà dei lavoratori, anche alla luce della normativa in materia di trattamento dei dati personali. Infatti, i suddetti sistemi  consentono la raccolta e l’elaborazione di dati di varia natura in modo da permettere una verifica continua e puntuale, anche a posteriori, della localizzazione dei mezzi (o comunque dei dispositivi) e del loro tracciamento e

quindi, direttamente o indirettamente, anche del lavoratore che li utilizza. Tali sistemi per fornire idonee garanzie nel trattamento devono:

  • consentire la visualizzazione della posizione geografica da parte di soggetti autorizzati solo se strettamente necessario rispetto alle legittime finalità perseguite;
  • consentire la disattivazione del dispositivo durante le pause e al di fuori dell’orario di lavoro così da escludere il monitoraggio continuo del lavoratore;
  • trattare i dati mediante pseudonimizzazione, escludendo dati direttamente identificativi agli interessati (es. il codice dispositivo o del veicolo assegnato);
  • prevedere la memorizzazione dei dati solo se necessario e con tempi di conservazione proporzionati rispetto alle finalità perseguite.

Il personale ispettivo dovrà quindi valutare l’opportunità di prevedere provvedimenti autorizzativi il rispetto delle disposizioni normative sulla privacy2.

 

CASI DI OBBLIGATORIETÀ DEGLI IMPIANTI DI VIDEOSORVEGLIANZA

In presenza di disposizioni normative che impongono l’adozione di impianti di videosorveglianza (a tutela dei minori e degli anziani, nelle sale scommesse) le garanzie dell’art. 4 restano incomprimibili. Unitamente alla disciplina in materia di trattamento dei dati personali, quelle garanzie non possono “subire limitazioni nei casi di sistemi di videosorveglianza imposti da normative di settore”.

LAVORATORI ETERO ORGANIZZATI CHE ESEGUONO PRESTAZIONI LAVORATIVE TRAMITE PIATTAFORME DIGITALI

La procedura imposta dall’art. 4 vale anche “per le tipologie di lavoro in relazione alle quali sono normativamente estese, nei confronti del lavoratore, le medesime tutele del lavoro subordinato in ragione delle caratteristiche del rapporto (l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015 prevede l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato alle collaborazioni (…) che si concretano in prestazioni prevalentemente personali, continuative ed eseguite secondo modalità etero organizzate, anche qualora organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

Inoltre, in base al comma 1 dell’art. 47-quinquies, D.lgs. n. 81/2015, alle prestazioni lavorative sviluppate tramite piattaforme digitali si applicano la disciplina antidiscriminatoria e quella a tutela della libertà e dignità del lavoratore previste per i lavoratori subordinati, per cui l’operatività dell’art. 4 è da estendere anche a tali categorie di lavoratori autonomi.

 

TUTELE EX ART. 4 NON ESTESE AI VOLONTARI

Al di fuori delle tipologie di lavoro sopra indicate resta fermo il divieto di interpretazione analogica della disciplina penale ricollegata alla previsione dell’art. 4, con riferimento a tutte le realtà

associative che si avvalgano di volontari di cui al D.lgs. n. 117/2017 (Codice del Terzo settore).

Per l’art. 17, comma 5, “la qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di lavoro retribuito con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività volontaria”. Non sono pertanto applicabili ai volontari le tutele accordate dall’art. 4, mentre restano applicabili le disposizioni in materia di privacy e protezione dei dati personali.

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in Modulo24 Contenzioso Lavoro, 28 aprile 2023, n. 4/ p. 7-14 dal titolo Controllo a distanza dei lavoratori sotto la lente dell’Ispettorato.

1. Cass. Penale, sez. 3, 17 gennaio 2020, n. 1733.

2. In particolare, gli art. 5; 6; 13; 14 e 35 del Reg. UE 2016/679.

 

 

 

Preleva l’articolo completo in pdf  

CASSAZIONE: quando la reperibilità va considerata orario di lavoro?*

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro studi unitario Ordine dei consulenti del lavoro provincia di Milano – Ancl Up Milano 

 

Maria Laura Picunio si confronta con la giurisprudenza su reperibilità e orario di lavoro

Con l’ordinanza in commento (Cass. Civ., Sez. lav., 23 maggio 2022, n. 16582) l’Autrice riepiloga i passaggi e le motivazioni che hanno portato, nella giurisprudenza comunitaria e in un secondo tempo in quella nazionale, a superare l’impostazione per cui il servizio di reperibilità era da considerarsi necessariamente escluso dall’orario di lavoro. L’organismo giudicante, al contrario, è chiamato oggi a compiere una verifica che ha come oggetto il fatto che dallo svolgimento di tale servizio, per le sue modalità, residui o meno la possibilità del lavoratore di gestire liberamente il tempo in cui non sono richiesti i suoi servigi.

REPERIBILITÀ, DISPONIBILITÀ E TEMPI DI NON LAVORO

Il tema che viene in rilievo è quello del trattamento dei tempi di reperibilità, tempi contrassegnati dal fatto che il lavoratore si mette a disposizione del datore di lavoro impegnandosi a recarsi nel luogo di lavoro a svolgere la propria prestazione.

La fattispecie va distinta da quella della disponibilità, nella quale il lavoratore pone egualmente a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative, ma lo fa permanendo nel luogo di lavoro.

In entrambi i casi la questione riguarda il trattamento delle ore prestate nell’uno o nell’altro regime quando non sia stata ricevuta una richiesta di svolgere attività lavorativa. Caratteristica comune alle fattispecie della disponibilità e della reperibilità passiva è costituita dal fatto che in ambedue il lavoratore subisce, a prescindere dallo svolgimento della prestazione lavorativa, una limitazione alla propria libertà e alla possibilità di godere senza vincoli del proprio tempo libero.

Esse vanno infatti incluse nei tempi di “non lavoro” ossia in tempi caratterizzati dal fatto che il lavoratore, pur non svolgendo attivamente una prestazione di lavoro, non possa godere del tutto liberamente del proprio tempo.

LA POSIZIONE DELLA GIURISPRUDENZA EUROPEA Nonostante la parziale comunanza di caratteristiche tra la fattispecie della reperibilità e quella della disponibilità, l’impostazione della giurisprudenza comunitaria è stata, per molti anni, nel senso di differenziare nettamente le due figure, qualificando solo il tempo di disponibilità quale orario di lavoro.

Nell’ordinamento dell’Unione Europea la Direttiva 2003/88/CE definisce l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali” (art. 2, punto 1) e il periodo di riposo come “qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro”.

Secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia dell’Unione europea, il “tempo di guardia” o di “prontezza in regime di reperibilità” di un lavoratore deve essere qualificato o come orario di lavoro o come periodo di riposo ai fini dell’applicazione della Direttiva 2003/88/CE, posto che quest’ultima non prevede alcuna categoria intermedia, un “tertium genus” 1.

 Negli ultimi anni, tuttavia, l’impostazione del giudice comunitario ha subito un ripensamento2: così, da un momento che può essere fatto coincidere con quello in cui è stata emessa la pronuncia Matzak3 si è consolidata una differente interpretazione della direttiva, secondo la quale il criterio per verificare l’ambito di applicazione della stessa non può più essere rappresentato unicamente dal fatto che il lavoratore deve permanere, nei periodi di attesa, nel luogo di lavoro.

In particolare, la CGUE ha evidenziato che il “periodo di prontezza in regime reperibilità”, per essere qualificato nella sua pienezza come orario di lavoro, non implica necessariamente l’obbligo del lavoratore di restare sul suo luogo di lavoro, essendo sufficiente che i vincoli imposti al dipendente siano di natura tale da compromettere in modo oggettivo e assai significativo la facoltà, per quest’ultimo, di gestire liberamente, nel corso dei periodi in questione, il tempo durante il quale le sue prestazioni non sono richieste e di dedicare questo tempo ai propri interessi personali e sociali.

Viceversa, qualora i vincoli imposti al lavoratore nel corso di un periodo di guardia determinato non raggiungano un siffatto grado di intensità e gli permettano di gestire il proprio tempo e di dedicarsi ai propri interessi senza limitazioni significative, soltanto il tempo connesso alla prestazione di lavoro che viene, se del caso, effettivamente realizzata nel corso di tale periodo costituisce orario di lavoro.

LA SOLUZIONE DELLA PRONUNCIA IN COMMENTO

Anche la Cassazione, Sez. lav., con l’ordinanza n. 16582 del 23 maggio 2022, ha affermato che il periodo di guardia va necessariamente considerato come orario di lavoro ai fini della Direttiva 2003/88/CE “qualora il dipendente sia soggetto, durante i suoi servizi in regime di reperibilità, a vincoli di un’intensità tale da incidere, in modo oggettivo e molto significativo, sulla sua facoltà di gestire liberamente il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicare detto tempo ai propri interessi”. Per operare tale valutazione, secondo gli Ermellini, è necessario prendere in considerazione due elementi:

  1. il termine di cui dispone il lavoratore, nel corso del periodo di guardia, per riprendere le proprie attività professionali a partire dal momento in cui il datore di lavoro lo richieda;
  2. la frequenza media degli interventi che il lavoratore è effettivamente chiamato a garantire durante detto periodo.

In merito al termine concesso al lavoratore per la ripresa del servizio, la CGUE ha precisato che laddove tale termine, durante un periodo di guardia, sia limitato a qualche minuto, esso deve, in linea di principio, essere considerato, nella sua integralità, come orario di lavoro. Tuttavia, occorre in ogni caso stimare l’impatto di tale termine di reazione tenendo conto, eventualmente, da un lato, degli altri vincoli imposti al lavoratore, dall’altro, delle agevolazioni accordate durante la reperibilità.

Nel caso di specie esaminato dalla Corte, quattro lavoratori pubblici dipendenti del Comune di Milano, assegnati alla direzione “Protezione civile”, erano tenuti (sulla base della disciplina prevista dal contratto collettivo del comparto “Regione e autonomie locali”) in caso di chiamata durante il periodo di guardia a raggiungere il posto di lavoro assegnato nell’arco di trenta minuti, senza che fosse previsto l’utilizzo di un veicolo di servizio che consentisse loro di fare uso di diritti in deroga al Codice della Strada e di diritti di precedenza.

Tale disciplina era riferibile a tutte le aree di pronto intervento e, dunque, anche a quelle soggette a frequenti richiami in servizio e a interventi di durata media significativa. Sulla base di tali considerazioni, la Cassazione ha riconosciuto il diritto dei lavoratori al computo del periodo di guardia nell’orario di lavoro, nonché il diritto alla concessione di un riposo compensativo quando il servizio di reperibilità cada nel giorno di riposo settimanale.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

La soluzione offerta si iscrive quindi perfettamente nel recente filone di pronunce susseguente al cambio di orientamento della giurisprudenza e al superamento della precedente chiusura. Oggi la Cassazione afferma che dal fatto di aver prestato servizio di reperibilità, ove questo debba essere considerato parte dell’orario di lavoro, deriva il diritto al risarcimento del danno, dando luogo a una ipotesi di danno in re ipsa, che non necessita che il lavoratore dimostri e alleghi il pregiudizio effettivamente subito. Si assiste a una conferma dell’impatto del nuovo orientamento giurisprudenziale anche sul piano dei diritti conseguenti all’eventuale inadempimento datoriale: se in precedenza si affermava che l’eventuale danno derivato al lavoratore dall’aver prestato servizio di reperibilità senza godere del riposo compensativo fosse estraneo alla tutela dell’art. 36 Cost.4 (e pertanto soggetto a rigorosa dimostrazione, nei suoi elementi, da parte del lavoratore) oggi tale affermazione non sembra più valida in ogni ipotesi5; nei casi in cui il servizio di reperibilità venga qualificato come orario di lavoro, infatti, la tutela spettante al lavoratore dovrà ritenersi coperta dall’ombrello dell’art. 36 Cost. In tale eventualità, pertanto, sembra difficile dubitare che, così come nelle altre ipotesi di lesione del diritto al riposo settimanale, ricondotte all’art. 36 Cost.6 sussista una presunzione assoluta di lesione della salute psico-fisica del lavoratore che, in quanto tale, vada risarcita senza necessità di fornire ulteriori dimostrazioni dell’entità della stessa.

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato ne LG, 3/2023 dal titolo Il servizio di reperibilità può essere orario di lavoro: la Cassazione conferma il nuovo orientamento.
1. Nel sistema della Direttiva UE 93/104 tale nozione va intesa in opposizione al periodo di riposo, poiché ognuna delle due nozioni esclude l’altra, cfr. Corte di Giustizia UE 3 ottobre 2000, C-303/98, Simap. Sul fatto che la direttiva non preveda nozioni intermedie: Corte di Giustizia UE 10 settembre 2015, C-266/14, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras, in particolare punti
25 e 26 e la giurisprudenza ivi citata, nonché Corte di Giustizia UE 21 febbraio 2018, C-518/15, Matzak.

2. Sull’inversione di tendenza: G. Ricci, La “scomposizione” della nozione di orario di lavoro nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Riv. giur. lav., 2021, II, 327; M. Ferraresi, Problemi irrisolti dei tempi di disponibilità, cit., 423 ss.; S.M. Corso, La “pronta” reperibilità tra “orario di lavoro” e “periodo di riposo”: una questione che rimane aperta, in Var. temi dir. lav., 2020, 1, 185 ss.; M. Marinelli, Orario di lavoro e periodo di riposo, in Arg. dir. lav., 2018, 4-5, 1178 ss.
3. Corte di Giustizia UE 21 febbraio 2018, C-218/15, Matzak, in Arg. dir. lav., 2018, 4-5, II, 1178. Va detto che, come evidenziato da S. Bellomo – L. Rocchi, Orario di lavoro, reperibilità, fruizione del tempo libero. La Corte di Giustizia e il parziale superamento della sentenza Matzak del 2018, in Riv. it. dir. lav., 2021, II, 343 ss., la fattispecie su cui la Corte di Giustizia è stata chiamata a giudicare era del tutto peculiare, avendo ad oggetto la posizione di un lavoratore cui era sostanzialmente inibita la libertà di movimento,
in quanto condizionato a presentarsi presso il luogo di lavoro nel brevissimo termine di otto minuti.

4. Cass. Civ., 19 ottobre 2015, n. 21068, cit.; Cass. Civ., 28 giugno 2011, n. 14288, cit.; Cass. Civ., 15 maggio 2013, n.11727, cit.
5. Va rilevato, tuttavia, che in una delle sentenze che hanno inaugurato il nuovo corso, Cass. Civ., 27 ottobre 2021, n. 30301, cit., si fa applicazione della precedente impostazione, riportando le motivazioni
che venivano utilizzate nella giurisprudenza più risalente, senza nemmeno troppo soffermarsi sul punto.
6. Secondo Cass. Civ., SS.UU., 3 aprile 1989, n. 1607, in Riv. giur. lav., 1990, 2, 481, in tali casi sussiste una “presunzione assoluta di danno alla salute psico-fisica”; in tal senso, espressamente, anche Cass.
Civ. 27 aprile 1992, n. 5015, (…).

Preleva l’articolo completo in pdf  

UE E SALARIO MINIMO: cosa cambia?*

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro studi unitario Ordine dei consulenti del lavoro provincia di Milano – Ancl Up Milano 

 

Prime valutazioni di G. Sigillò Massara sulla direttiva ue in tema di salario minimo legale

 

L’Autore esamina la recente Direttiva relativa ai salari minimi adeguati nell’Unione Europea.

In particolare, dopo aver analizzato i contenuti, si propone di valutarne l’impatto sull’ordinamento italiano.

PREMESSA

Da tempo si registra un retrivement del dibattito circa la necessità di una regolamentazione legale del salario minimo.  Le ragioni del rinnovato interesse politico e sindacale per il tema vanno ascritte innanzitutto alla crescente diffusione di forme di lavoro “povero”, alle crisi finanziarie dello scorso decennio, all’aumento delle diseguaglianze sociali, alla diffusione di forme di occupazione precarie, per le quali deve registrarsi la difficoltà per la contrattazione collettiva di offrire una garanzia retributiva allineata alla sufficienza costituzionale. La crisi del modello della retribuzione sindacale sufficiente, costruito in oltre cinquant’anni di storia repubblicana, è riconducibile soprattutto alla frammentazione del quadro della rappresentanza sindacale, all’arretramento del tasso reale di copertura contrattual-collettiva della forza lavoro, oltreché all’endemico tasso di diffusione del lavoro irregolare che colpisce maggiormente le forme di lavoro discontinue. E tutto ciò non vale solo in riferimento ai sindacati minori e meno rappresentativi: la crisi ha finito con l’investire anche le organizzazioni appartenenti alla “triplice”1, che appaiono non attrezzate di fronte alla diffusione del lavoro digitale, freelance o su piattaforma e alla concorrenza sempre maggiore di forme più o meno esplicite di contrattazione pirata2.

LE “ITALICHE VIE” AL SALARIO MINIMO LEGALE: TIMORI E VINCOLI

Il tema è articolato e investe il delicato rapporto tra gli artt. 36 e 39, Cost., in particolare, in relazione ai profili di libertà di azione collettiva anche nella determinazione della misura minima della retribuzione.

Il timore, espresso principalmente dalle organizzazioni sindacali, è quello per cui la determinazione legale di una misura minima di salario finisca con l’appiattire l’attività di contrattazione salariale sul livello fissato dal legislatore o, in difetto, con il favorire una fuga dalla applicazione del contratto collettivo acquisitivo che diventerebbe eccessivamente oneroso. Sul piano sistematico, poi, ci si interroga circa la legittimità di un intervento di normazione primaria che fissi il livello della retribuzione sufficiente prescindendo dal settore di riferimento e, quindi, dal coinvolgimento delle parti sociali. Sicché, hanno riscontrato maggior consenso quelle proposte che prospettano un utilizzo sinergico della fonte legale e della fonte contrattuale. In questa prospettiva l’attenzione si dovrebbe spostare sulla selezione degli attori sindacali, che, nella permanente inattuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost., suggerisce la necessità di una nuova legge sindacale capace  di rendere credibili gli attori collettivi ed esigibile il dettato contrattuale3.

Restano, comunque, irrisolti i dubbi di opportunità avanzati da più parti4. In particolare, si sottolinea come le proposte di salario minimo legale che si sono ammassate negli ultimi cinque anni avrebbero un impatto assai ridotto soprattutto sui rapporti di lavoro esclusi dalla copertura dei contratti collettivi e maggiormente a rischio di povertà: tirocinanti, collaboratori autonomi, lavoratori occasionali, lavoratori in nero e freelance5. Si contesta, inoltre, che la determinazione legale di una retribuzione oraria minima, a dispetto degli slogan politici, non avrebbe alcun effetto sulla necessità di recupero del potere di acquisto delle retribuzioni e di adeguamento delle stesse ai livelli comunitari. La finalità del salario minimo non può certamente essere quella di innalzamento dei salari medi, bensì quella del contrasto al lavoro povero.

LE PROPOSTE IN DISCUSSIONE

Tra queste deve senz’altro segnalarsi la delega legislativa contenuta nell’art. 1, comma 7, lett. g), Legge 10 dicembre 2014, n. 183, con cui si demandava al Governo l’emanazione di un decreto legislativo volto all’introduzione di un compenso minimo orario, valevole per i lavoratori subordinati e, ai fini del loro superamento, per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa. La determinazione della misura del salario minimo orario sarebbe dovuta passare per una consultazione con le parti sociali. Il modello declinato nella delega, in sostanza, mirava a realizzare un modello duale, nel quale i contratti collettivi avrebbero continuato a regolare in modo autonomo la materia salariale, ma, a chiusura del sistema, sarebbe stato previsto una sorta di “trattamento di garanzia” destinato ai settori privi di riferimenti contrattual-collettivi.

Sotto altro profilo, poi, la delega legislativa appariva lacunosa anche in ordine alle modalità di determinazione della misura legale della retribuzione oraria, completamente rimesse alla volontà dell’esecutivo.

Non stupisce, quindi, che la delega non abbia avuto alcuna traduzione nella realtà giuridica. Il tema è stato, poi, ripreso nel corso della corrente legislatura.

In particolare, si sono confrontate due ipotesi regolative: la prima presentata dall’on. Catalfo (DDL n. 658/2018), l’altra da parte dell’on. Nannicini (DDL n. 1132/2019)6.

Il primo, nelle intenzioni introduttive, rappresenta un intervento che non intende sostituire il ruolo della contrattazione collettiva, bensì affiancarla, interiorizzando il rimedio giurisprudenziale di cui al combinato disposto degli artt. 2099 c.c., e 36 Cost. La scelta, dunque, è quella di ribadire il ruolo della contrattazione collettiva nella determinazione della retribuzione costituzionalmente sufficiente  mediante un rinvio mobile. Peraltro, in questa operazione si rinviene già un principio innovativo rispetto alla giurisprudenza7: se questa, infatti, ha sempre fatto riferimento ai minimi tabellari per la individuazione del salario sufficiente, il disegno di legge indica espressamente che la misura minima deve essere rinvenuta nel “trattamento economico complessivo”, che, in assenza di altre indicazioni legali, ben potrebbe coincidere con il “TEC” di cui al Patto per la fabbrica del 9 marzo 20188.

Il rinvio all’autonomia collettiva è completato da una previsione di chiusura che impone una sorta di floor alla misura minima del salario, fissato in 9 euro l’ora al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali, e che dovrebbe interessare solo i (limitati) casi in cui la determinazione sindacale si colloca sotto quella soglia9. Differentemente, per le retribuzioni determinate dal contratto collettivo, il DDL Catalfo introduce un metodo di adeguamento dei salari di natura totalmente automatica, per cui gli stessi sono legati alle variazioni annuali dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea (IPCA), in un disegno che riecheggia i meccanismi di “scala mobile” già conosciuti nel nostro passato ormai remoto. Il disegno di legge fa riferimento ai contratti sottoscritti dalle associazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative. Nel caso contrario, laddove, cioè, non vi sia alcun contratto collettivo direttamente applicabile, il disegno di legge, richiamandosi all’art. 2070, c.c., impone di rinvenire il minimo retributivo nel contratto collettivo relativo alla attività effettivamente esercitata dall’imprenditore, con conseguente compressione – almeno in relazione al profilo retributivo – della libertà di applicare un contratto collettivo previsto per differenti categorie di lavoratori, pur astrattamente ricompreso nell’ambito di operatività dell’art. 39, Cost. Al DDL Catalfo, come si è detto, nel corso della Legislatura corrente è stato contrapposto il DDL n.1132/2019 a firma dell’on. Nannicini. Anche questa proposta si colloca nell’alveo del modello complementare e non alternativo10, sostenendo il ruolo essenziale dell’autonomia collettiva.

La principale differenza sta nel fatto che il DDL Nannicini non stabilisce a priori una misura minima del salario ma rinvia tale determinazione a un meccanismo istituzionale che vede il coinvolgimento di una apposita commissione tecnica paritetica in seno al Cnel senza, dunque, alcun pericolo di contaminazione tra la fonte sindacale e quella amministrativa. Anche in questo caso la misura minima avrebbe una applicazione residuale ai soli settori non coperti dal contratto collettivo. L’altra fondamentale differenza, poi, riguarda la selezione del contratto deputato alla determinazione del minimo: il DDL Nannicini non contiene un riferimento espresso al TU della rappresentanza e, invece, demanda alla già menzionata commissione presso il CNEL l’individuazione dei criteri e dei parametri di misurazione della rappresentatività, oltreché degli ambiti della contrattazione nazionale.

LA DIMENSIONE COMUNITARIA

Il dibattito italiano, ovviamente, non si è svolto nel “vuoto pneumatico”.

Anche l’Unione Europea si interrogava circa la possibilità di un intervento di coordinamento salariale: già il 17 luglio 2019, in occasione del suo insediamento, la Presidente della Commissione Europea aveva preannunciato l’intenzione di allestire un quadro generale finalizzato alla garanzia a favore dei lavoratori di un salario minimo11.

Alle intenzioni aveva, quindi, fatto seguito un vivace dibattito in ordine alla competenza comunitaria atteso che l’art. 153, par. 5, TFUE, esclude la possibilità per il diritto eurounitario di emanare direttive aventi a oggetto la misura dei compensi garantiti negli Stati membri12. La competenza sulla base della quale la Commissione ha inteso proporre la propria Direttiva è contenuta nell’art. 153, par. 1, lett. b), del TFUE, laddove si stabilisce che l’Unione sostiene e completa l’azione degli Stati membri nel settore delle condizioni di lavoro, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Sulla proposta della Commissione si è formato subito il consenso del Parlamento europeo che, il 25 novembre 2021 ha approvato il mandato concordato dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali per procedere a negoziare con il Consiglio l’adozione della direttiva sulla base della proposta della Commissione. Tra il 6 e il 7 giugno scorsi è stata raggiunta una intesa tra Consiglio e Parlamento sul testo della Direttiva, il 4 ottobre 2022 il Consiglio ha approvato in via definitiva la proposta già concordata con e approvata dal Parlamento lo scorso 14 settembre; il Testo è stato poi pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Ue il 25 ottobre 2022 e manca ora il successivo adempimento nella legislazione statale.13

IL QUADRO DELLE DISPOSIZIONI COMUNI

La Direttiva non include direttamente la fissazione della misura del salario minimo ma mira a stabilire un quadro di riferimento unitario, allo scopo certamente di contrastare fenomeni di dumping salariale tra gli Stati membri, ma anche e soprattutto di assicurare migliori condizioni di vita e di lavoro, anche attraverso salari minimi adeguati. La Commissione ha individuato due principali strumenti di attuazione degli obiettivi indicati: il primo rappresentato dalla promozione della contrattazione collettiva, che, laddove sufficientemente diffusa, è ritenuta idonea a produrre salari minimi più elevati e adeguati e ridurre le disuguaglianze.

L’altra modalità è invece riferita agli Stati che hanno già fissato per via legislativa minimi salariali, per i quali sussiste un timore di inadeguatezza dei livelli predeterminati: prevale, in questa prospettiva, la lettura della Direttiva come strumento per evitare la concorrenza sleale tra i Paesi comunitari. Si tratta, dunque, di una regolamentazione a “geometria variabile”14 in cui, tuttavia, è dato riscontrare alcuni elementi di comunanza, primo tra tutti il campo di applicazione. Infatti, la regolamentazione del salario minimo è destinata a incidere sulla situazione dei workers, intesi non solo come lavoratori dipendenti ma tutti coloro lavoratori che, a prescindere dal nomen iuris, garantiscono a favore di un altro soggetto alla cui direzione soggiacciono prestazioni in contropartita di una retribuzione, e quanto sono stabilmente integrati, per la durata del  rapporto, nell’impresa nel cui interesse svolgono la propria attività.

Questa sembra anche l’accezione che è rinvenibile nello spirito della Direttiva che ne richiama l’applicabilità tra gli altri ai lavoratori domestici, a chiamata, ai lavoratori intermittenti, ai falsi lavoratori autonomi, ai lavoratori tramite piattaforma digitale, i tirocinanti e gli apprendisti, secondo un modello che apprezza il reale atteggiarsi della fattispecie.

INCENTIVI E SOSTEGNO ALL’AUTONOMIA COLLETTIVA

La Direttiva, con un approccio minimalista di soft law, mira a diffondere la contrattazione collettiva, nella consapevolezza che uno tra i principali fini della stessa è proprio quello della determinazione della misura del salario. Ne deriva una disciplina differenziata in ragione del tasso di diffusione (o di copertura) della forza lavoro da parte dei contratti collettivi: per tutti gli Stati membri, infatti, si prescrive l’adozione di strumenti promozionali della capacità delle parti sociali di partecipare alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari a livello settoriale o intersettoriale, nonché di procedure che favoriscano le negoziazioni in materia salariale tra i soggetti collettivi.

A ciò si aggiunge l’obbligo di introdurre misure di protezione contro le discriminazioni e le interferenze eventualmente attuate in ragione delle negoziazioni volte alla determinazione della misura delle retribuzioni. Tuttavia, due ulteriori questioni non sono state direttamente affrontate dalla Direttiva: la prima è relativa al fatto che, nei Paesi in cui la garanzia è rimessa unicamente alla contrattazione collettiva, alcuni lavoratori non riescono ad accedere al salario minimo sindacale, in quanto esclusi dalla copertura sindacale vuoi in ragione del principio di libertà  sindacale, vuoi perché occupati irregolarmente, vuoi ancora in quanto impiegati con contratti di lavoro non subordinato.

L’altra osservazione attiene alla corretta selezione degli agenti negoziali poiché la contrattazione collettiva è capace di assicurare effettivamente salari adeguati solo quando è condotta da soggetti collettivi effettivamente e genuinamente rappresentativi degli interessi riferibili a un determinato gruppo di lavoratori. Di maggiori, ma pur sempre incerti, obblighi, invece, sono destinatari gli Stati membri nei quali il tasso di copertura da parte della contrattazione collettiva è inferiore al 80%. Per questi, in aggiunta alle già ricordate prescrizioni, si stabilisce l’obbligo di predisporre un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva in materia salariale e di definire un piano d’azione – da condividere con i partner comunitari e la Commissione e rivedere, almeno, ogni cinque anni – per promuovere la contrattazione collettiva, che ponga una chiara e verificabile timeline di interventi, finalizzati ad incrementare il tasso di copertura e diffusione della contrattazione collettiva. Anche in questo caso, dunque, le imposizioni agli Stati membri appaiono ispirate a un approccio più promozionale di buone pratiche che prescrizionale.

I PAESI CON SALARI MINIMI LEGALI

La circostanza per cui l’inadeguatezza dei salari minimi investe quegli Stati in cui la misura dei salari minimi è fissata ex lege ha fatto sì che proprio a questi fossero

destinate le misure più corpose e più puntuali (rectius prescrittive) della Direttiva.

In particolare, si chiede a questi Paesi di approntare meccanismi di determinazione e aggiornamento della misura delle retribuzioni minime basate su criteri stabili e chiari, coerenti con gli obiettivi di garanzia di condizioni di vita e lavoro dignitose, promozione della coesione sociale, della convergenza verso l’alto dei compensi e riduzione delle discriminazioni di genere.

La Commissione ha inteso anche indicare i criteri nazionali che devono essere considerati nella determinazione dei salari minimi (il potere d’acquisto dei salari minimi, il livello generale dei salari lordi e la loro distribuzione, il tasso di crescita dei salari lordi e l’andamento della produttività del lavoro) disponendo, in particolare, che il valore indicativo per la determinazione del salario minimo possa essere fissato nel 60% del salario mediano e nel 50% del salario medio.

Si tratta, invero, di una indicazione che, nel rispetto delle prerogative degli Stati membri, prende la forma di una “possibilità-parametro”. Infine, a sostegno dell’effettività della tutela retributiva minima, la Direttiva contiene alcune disposizioni in materia di rafforzamento dei controlli e delle ispezioni da parte delle pubbliche amministrazioni.

LE DISPOSIZIONI ORIZZONTALI

Tra queste va segnalata certamente la previsione della Direttiva che fa riferimento all’obbligo di conformazione ai salari minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva o ai salari minimi legali, ove esistenti, imposto agli operatori economici che intendono partecipare ad appalti pubblici.

Si diceva non innovativa per il panorama normativo italiano ma certamente utile in quanto risolve in modo chiaro e definitivo la questione della compatibilità della disposizione nazionale rispetto al diritto comunitario, messa in dubbio in riferimento alle note pronunce nei casi Rüffert (C-346/2006), Bundesdruckerei GmbH (causa C-549/2013) e RegioPost GmbH & Co. KG (C-115/2014)15. Maggiore impatto hanno, invece, le previsioni in tema di monitoraggio della copertura sindacale e della adeguatezza dei salari minimi eventualmente regolati.

A questo scopo, la Direttiva impone agli Stati membri di comunicare annualmente alla Commissione alcuni dati ritenuti essenziali e finalizzati all’accertamento dell’efficacie attuazione della regolamentazione europea. Tra questi, almeno per l’Italia, assume una specifica rilevanza la previsione che impone una raccolta di dati relativi ai lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva, da riferire in forma disaggregata per genere, età, condizioni di salute, dimensioni dell’impresa e settore. Probabilmente sul CNEL, invece, ricadrà l’improbo compito di assicurare le informazioni in merito al salario minimo contenute nei contratti collettivi siano rese pubbliche e comunicate con trasparenza.

Tra le disposizioni di enforcement, infine, vanno segnalate quelle che impongono agli Stati membri l’adozione di un sistema di protezione dei lavoratori che rivendicano il diritto al giusto salario e di un apparato sanzionatorio adeguato a garanzia dell’effettività delle tutele salariali previste.

CONCLUSIONI

L’impressione è che “la montagna abbia partorito un topolino”. L’approccio soft adottato dalla Commissione, in effetti, sembra lasciare così largo spazio alle determinazioni nazionali da risultare assai poco incisivo. Pesa in questo quadro la mancata definizione a livello comunitario della nozione di adeguatezza del salario minimo: la Direttiva e la Relazione di accompagnamento, infatti, fanno riferimento a tale adeguatezza solo in termini di comparazione rispetto alla situazione dei lavoratori nazionali. Si tratta, dunque, di un concetto evanescente e per lo più rimesso alla buona volontà degli Stati membri. Quella della Commissione, dunque, appare una iniziativa a valenza più politica che giuridica, la cui portata potrà essere valutata solo a valle dell’attuazione che intenderanno darne i Paesi coinvolti. Un’ultima notazione, infine, riguarda la inapplicabilità della Direttiva nei confronti dei lavoratori autonomi e il problema del lavoro irregolare. Si tratta di due enormi limiti a una qualunque regolamentazione legale dei minimi salariali.

Occorrerebbe dunque escogitare, anche per questi lavoratori, strumenti di garanzia dell’adeguatezza reddituale anche per il tramite di un intervento pubblico, stante la preclusione di fatto della strada dell’imposizione di minimi legali di tariffa.

Infine, come è stato osservato, la garanzia di un salario adeguato passa inevitabilmente per il contrasto al lavoro irregolare, visto che è proprio la non applicazione o l’applicazione non corretta dei contratti collettivi a determinare l’ampia diffusione di lavori a bassa paga oraria16.

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in MGl, 2022, n. 3, pp. 603-620 dal titolo Prime osservazioni sulla direttiva europea sul salario minimo, Editore Giappichelli. Si segnala che l’articolo è stato pubblicato poco prima della pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale UE, della dir. 2022/2041 sul salario minimo.
1. T. Treu, Diritto e politiche del lavoro tra due crisi, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2020, p. 242; M. Miracolini, La funzione anticoncorrenziale della contrattazione collettiva nazionale di categoria. Nodi critici e prospettive, in Var. temi dir. lav., 2021, pp. 367-368.
2. A. Lassandari, Oltre la grande dicotomia? La povertà tra subordinazione e autonomia, in Lav. dir., 2019, p. 81. Cfr. anche i contributi di P. Passalacqua-N. Rossi-S.M. Corso, presenti nel n. 2/2021 della rivista Var. temi dir. lav., p. 231 ss.

3. M. Rusciano, Legificare la contrattazione per delegificare e semplificare il diritto del lavoro, in Lav. dir., 2016, p. 953.
4. S. Spattini-M. Tiraboschi, Questione salariale: guardare la luna, non il dito. A proposito di dinamiche retributive, salario minimo e dei presunti 1.000 contratti collettivi nazionali di lavoro, in Boll. ADAPT, 18, 2022.
5. G. Proia, La proposta di direttiva sull’adeguatezza dei salari minimi, in Dir. rel. ind., 2021, p. 40.
6. Oltre a quelle indicate, invero, vi sono state ulteriori proposte depositate in Parlamento: d.d.l. n. 862/2018, a firma dell’on. Pastorino; d.d.l. n. 947/2018, dell’on. Delrio; d.d.l. n. 1542/2019 dell’on. Rizzetto; d.d.l. n. 1259/2019, on. Laforgia.
7. V. Bavaro, Note sul salario minimo legale nel disegno di legge n. 658 del 2018, in ildiariodellavoro.it, 2019, p. 3.
8. A. Garnero-C. Lucifora, L’erosione della contrattazione collettiva in Italia e il dibattito sul salario minimo legale, in Giorn. dir. lav., 2020, p. 295; A. Lassandari; Retribuzione e contrattazione collettiva, in Riv. giur. lav., 2019, p. 210; N. De Marinis, Dal caso FIAT al Patto di Fabbrica. La contrattazione collettiva nello spazio economico globale, in Lav. prev. oggi, 2018, p. 152.

9. A quanto risulta, solo i settori della vigilanza, del multiservizi e del terziario avrebbero una retribuzione oraria minima inferiore, pari, rispettivamente, a 7,07, 7,59 e 8,64. Cfr. L. Birindelli-S. Leonardi-M. Raitano, Salari minimi contrattuali e bassi salari nelle imprese del terziario privato, Roma 2017.
10. B. Caruso, Il sindacato tra funzioni e valori nella “grande trasformazione”. L’innovazione sociale in sei tappe, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT, 2019, p. 394.
11. Il discorso d’insediamento di Ursula von del Lyen in https://www.politicheeuropee.gov.it/media/4816/discorso-al-parlamento-ursula-von-der-leyden.pdf.
12. M. Barbieri, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati. L’Europa sociale ad una svolta, in Dir. rel. ind., 2021, p. 387.

13. A. Lo Faro, La proposta europea per “salari minimi adeguati” nella prospettiva dell’ordinamento italiano: vincoli e prospettive, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. INT, 2022, p. 157; che ricostruisce il passaggio dalla proposta originaria della Commissione alla formulazione attuale.
14. G. Proia, La proposta di direttiva, cit., p. 28; v. anche A. Lo Faro, L’iniziativa della Commissione per il salario minimo europeo, p. 539.

15. F. Gori, Le clausole di costo del lavoro negli appalti pubblici e il diritto UE, in Boll. ADAPT, 2 maggio
2017; I. Alvino, Clausole sociali, appalti e disgregazione della contrattazione collettiva nel 50° anniversario dello Statuto dei lavoratori, in https://www.lavorodirittieuropa.it, 2 luglio 2020.

16. F.Segnezzi-M. Tiraboschi, I bassi salari non scompariranno, se non aggrediamo le cause, in Boll.
ADAPT, 2020, p. 5

Preleva l’articolo completo in pdf  

PARITÀ DI GENERE: grazie al PNRR una realtà sempre più vicina

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro studi unitario Ordine dei consulenti del lavoro provincia di Milano – Ancl Up Milano 

 

Enrica De Marco analizza il Pnrr sotto il profilo della parità di genere

 

All’interno di un progetto ambizioso come quello tratteggiato dal PNRR presentato dal governo Draghi, l’uguaglianza di genere è la priorità e lo dimostra la scelta di campo di destinare ingenti risorse, del valore di sette miliardi di euro, alla promozione di un’effettiva cultura della parità in ognuna delle missioni del Piano stesso1.

Considerando il contrasto al divario di genere quale necessità comune a ciascun ambito di intervento, il Piano è un passo in avanti significativo in una cultura come la nostra nella quale le perduranti disparità di genere hanno origini profonde e non sono mai state recise nel percorso normativo2.

Il nostro ordinamento è infatti contraddistinto da stereotipi culturali di netta dicotomia dei ruoli all’interno del nucleo familiare, nella quale all’uomo spetta il compito di sostenere economicamente la famiglia e alla donna quello di occuparsi della cura domestica, e nella quale il tentativo di armonizzare il ruolo di donna lavoratrice con quello di madre è stato per lungo tempo declinato soltanto al femminile. Oggi, anche su impulso dell’esperienza maturata da remoto nel corso della pandemia, è

fondamentale caldeggiare efficaci forme di conciliazione dei tempi di vita-lavoro, per favorire anche nel nostro ordinamento i valori di inclusione e uguaglianza di genere perseguiti dalla Generation Equality Campaign delle Nazioni Unite e dalla Strategia Europea per la parità di genere 2020/2025.

Obiettivo dell’Autrice è sondare le modalità attraverso cui, nella normalità post Covid, le organizzazioni pubbliche e private, i lavoratori e i sindacati valorizzeranno l’opportunità offerta dal PNRR per contrastare le disuguaglianze di genere e la marginalizzazione del lavoro femminile e per promuovere la parità genitoriale nei compiti di cura della famiglia3.

LA DISPARITÀ TRA GENERI COME EMERGENZA NAZIONALE

L’evoluzione di una nuova cultura della parità è indubbiamente determinata dal contesto economico e occupazionale in cui la stessa è destinata a svilupparsi.

In tema di politiche per la parità di genere l’Italia si colloca attualmente al quattordicesimo posto, tra i 27 Paesi dell’Unione Europea, con un punteggio pari a 63,8 su 100 dell’indice sull’uguaglianza di genere calcolato dallo

European Institute for Gender Equality (c.d. EIGE). Questi dati incidono in maniera significativa anche sulla situazione occupazionale nazionale, dalla quale emerge che lavorano circa 53 donne italiane su 100 nella fascia tra i 20 ed i 64 anni (a fronte di una media europea che si attesta su 67 lavoratrici su 100) e che il tasso di occupazione totale si ferma a 62 lavoratori su 100, mentre la media europea si aggira intorno a 734.

Il percorso verso la parità è dunque ancora lungo e tortuoso: i divari di genere persistono nel mondo del lavoro, a livello di retribuzioni, di assistenza e di pensioni, nonché nell’accesso alle discipline STEM5 e nelle posizioni dirigenziali. D’altra parte, sotto il profilo giuslavoristico, il legislatore nazionale nel corso dell’ultimo ventennio è sovente intervenuto per garantire tutele sempre più ampie alla parità di genere, prendendo atto dell’inevitabile mutamento nella concezione di famiglia e riscoprendo la centralità del ruolo del padre lavoratore, un diritto autonomo del padre, aggiuntivo e indipendente rispetto a quello della madre, a godere di un periodo obbligatorio di astensione dal lavoro. Si sta a poco a poco affermando una visione di famiglia più moderna e paritaria, in cui la madre ha uguali chance lavorative rispetto al padre, il quale, a sua volta, riveste un ruolo di primo piano all’interno della famiglia, in cui i compiti di cura e le relative tutele toccano in misura equa entrambi i genitori.

In questo contesto, la previsione della parità di genere quale priorità trasversale del PNRR può senza dubbio rappresentare un’opportunità unica per l’empowerment economico e sociale delle donne, e in particolare di quelle lavoratrici.

Infatti, i progetti a ciò deputati riguardano: la promozione delle materie STEM, contenuta nella missione “Istruzione e ricerca”, l’introduzione di un sistema nazionale di certificazione della parità di genere a titolarità del Dipartimento per le Pari Opportunità e la creazione di impresa femminile nell’ambito della missione “Inclusione e coesione”, in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico. Sono i primi embrionali, ma importanti, interventi tesi verso una nuova cultura della parità di genere che, a partire dal contrasto al divario retributivo tra uomini e donne, promuovono quella valorizzazione del lavoro femminile e, contestualmente, quella condivisione dei ruoli familiari che in Italia, molto più che in altri Paesi, stenta ancora ad affermarsi.

 

PNRR E STRATEGIA PER LA PARITÀ DI GENERE 2021-2026

I propositi e le misure in tema di parità di genere contenuti nel PNRR hanno come obiettivo che l’Italia, entro il 2026, raggiunga un incremento di circa 5 punti percentuali del tasso di occupazione femminile, così come previsto dalla Strategia per la parità di genere 20212026, di cui il PNRR sviluppa le priorità con le sue sei Missioni, al fine di collocare l’Italia in linea con le statistiche occupazionali degli altri Paesi membri dell’Unione Europea. In particolare, la Strategia per la parità di genere, adottata su impulso della Gender Equality Strategy 2020-2025 dell’Unione Europea, si inserisce tra gli interventi del PNRR finanziato dal programma Next Generation EU, in cui l’emancipazione femminile e il contrasto alle discriminazioni di genere non sono affidati a singoli interventi, ma sono obiettivi trasversali di tutte le sei Missioni.

All’interno della Strategia, la priorità “Lavoro” mira a creare un mondo del lavoro maggiormente equo tramite misure di supporto alla partecipazione femminile, quali la promozione delle forme di conciliazione dei tempi di vita-lavoro e la valorizzazione dell’imprenditoria femminile, utilizzando precisi indicatori di riferimento al tasso di occupazione femminile, specialmente quello riguardante le lavoratrici con figli, e all’implementazione del numero di imprese femminili. Vengono così previsti importanti obiettivi: incremento del tasso di occupazione femminile, attraverso la riduzione di almeno 3 punti percentuali del divario con quello maschile; contrazione, a meno di 10 punti percentuali, della differenza tra il tasso di occupazione delle donne con figli rispetto a quello delle donne senza figli (attualmente pari a 12 punti, a fronte di una media europea di 9-9,5 punti); aumento fino al 30%, rispetto all’attuale 22%, della percentuale di imprese femminili rispetto al totale delle imprese attive. Le misure contenute nella Strategia sono inoltre connesse al progetto di riforma contenuto nella Legge n. 32/2022, il c.d. Family Act, di delega al Governo per l’adozione di misure di sostegno e valorizzazione della famiglia quali: il potenziamento del sistema del Welfare, l’introduzione dell’assegno unico e universale, la revisione dei congedi parentali e il sostegno ai percorsi educativi dei figli, nonché le misure di sostegno al lavoro femminile e di sicurezza lavorativa.

IL TENTATIVO DI RECUPERO DEL RITARDO STORICO NELLE “POLITICHE PER LE DONNE”

Affinché gli obiettivi individuati nella Strategia per la parità di genere 2021-2026 vengano raggiunti, e le relative misure adottate, il PNRR riprende e sviluppa le priorità lungo due direttrici: da un lato, la valorizzazione della partecipazione femminile al lavoro e, dall’altro, l’implementazione della formazione, sin dall’età scolastica, nella prospettiva delle pari opportunità. Le misure previste in favore della parità di genere sono in prevalenza dirette a promuovere una maggiore partecipazione della componente femminile al mondo del lavoro attraverso, da un lato, interventi diretti a sostegno dell’occupazione e dell’imprenditorialità femminile e, dall’altro, interventi rivolti in particolare al potenziamento dei servizi educativi per i bambini e ad alcuni servizi sociali, che potrebbero incoraggiare un aumento dell’occupazione delle donne. La pandemia ha inoltre svelato tutti i danni che le tradizionali riluttanze culturali alla parità di genere hanno provocato: basti pensare che in Italia nel 2020 il calo occupazionale si è concentrato quasi esclusivamente sulle lavoratrici, con una diminuzione di 101 mila unità lavorative di cui 99 mila ricoperte dalle donne6.

Per questo, nel corso della pandemia il legislatore dell’emergenza si è mostrato particolarmente attento alla necessità di realizzare un migliore equilibrio tra vita professionale e vita familiare e personale, riconoscendo centralità al principio della bigenitorialità e di cura della famiglia (in particolare dei figli), attraverso il lavoro da remoto.

Al medesimo scopo mirano anche le previsioni contenute nel PNRR che, facendo tesoro dell’esperienza maturata nel corso del lockdown, ha introdotto trasversalmente una serie misure, di potenziamento del Welfare ma anche di supporto alle famiglie, nelle diverse missioni di cui si compone.

Grazie a tali misure, nella prospettiva di lungo periodo (terminato il quinquennio di finanziamenti richiesti all’Unione Europea in attuazione del Next Generation EU), l’Italia dovrà dimostrare di aver raggiunto una crescita economica e una progressione sociale quanto meno allineate a quelle degli altri Paesi più virtuosi7.

PROMOZIONE DELL’OCCUPAZIONE FEMMINILE E CLAUSOLE DI CONDIZIONALITÀ

Tra gli interventi normativi sulle pari opportunità tesi a condizionare l’esecuzione dei progetti del Piano all’assunzione di (giovani e) donne, di particolare rilievo è l’art. 47 del D.l. n. 77/2021, convertito con modifiche nella Legge n. 108/2021, di disegno del sistema di governance del PNRR, che prevede importanti misure “per perseguire le finalità relative alle pari opportunità, generazionali e di genere e per promuovere l’inclusione lavorativa delle persone disabili”. Sono interventi accomunati dall’introduzione di obblighi, anche di assunzione, a carico degli operatori economici che operino nell’ambito delle procedure di gara relative agli investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse del PNRR e del Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR, il c.d. PNC, di cui all’art. 1, D.l. n. 59/2021. Innanzitutto, al comma 2, si prevede che gli operatori economici tenuti alla redazione del rapporto sulla situazione del personale, ai sensi dell’art. 46 del D.lgs. n. 198/2006 , debbano produrre a pena di esclusione, al momento della presentazione della domanda di partecipazione e dell’offerta, il rapporto sulla situazione del personale di sesso maschile e femminile, mentre i successivi commi 3, 3 bis e 4 prevedono a carico degli altri operatori con specifiche dotazioni di organico l’obbligo di consegnare alla stazione appaltante, entro sei mesi dalla conclusione del contratto, la relazione di genere per ciascuna professione, nonché la certificazione relativa all’adempimento di quanto disposto dalla normativa vigente in materia di collocamento obbligatorio. Di particolare interesse è il comma 4 dell’art. 47, in virtù del quale, al fine di perseguire gli obiettivi attesi in termini di occupazione femminile entro il 2026, le stazioni appaltanti sono tenute a prevedere nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti specifiche clausole dirette all’inserimento di criteri orientati a promuovere, tra l’altro, la parità di genere, con l’obbligo (come requisito essenziale dell’offerta), di assicurare, in caso di aggiudicazione del contratto, una quota pari ad almeno il 30% delle assunzioni, necessarie per l’esecuzione, all’occupazione (giovanile e) femminile. L’introduzione di una quota percentuale, seppur realizzi una misura positiva “volta ad accelerare la realizzazione di una partecipazione e rappresentanza equilibrate in termini di genere tramite la definizione di una proporzione (percentuale) o di un numero prestabiliti di posti”, solleva alcune criticità8.

Una su tutte, l’insufficienza della previsione di vincoli con riferimento alla composizione del personale dipendente dall’operatore economico datore di lavoro, trascurando così tutte quelle ipotesi in cui il numero di lavoratrici già assunte sia tale da consentire comunque all’operatore economico di eseguire le attività oggetto della gara.

Per porre rimedio, si potrebbe interpretare estensivamente la disposizione, sino a ritenere rispettato il requisito obbligatorio di condizionalità anche nelle ipotesi in cui l’operatore economico virtuoso sia in grado di assicurare la quota del 30% di lavoratrici adibite all’esecuzione del contratto pur in assenza di nuove assunzioni. Il mancato rispetto delle previsioni di cui all’art. 47, commi 3, 3 bis e 4, è punito con l’applicazione di penali commisurate alla gravità della violazione e proporzionali all’importo o alle prestazioni del contratto, nel rispetto di un tetto massimo complessivo previsto nell’art. 51.

Nel caso in cui invece la violazione si sostanzi nel mancato rispetto di consegnare, entro sei mesi dalla conclusione del contratto, la relazione di genere, è prevista la sanzione aggiuntiva dell’impossibilità di partecipare per un periodo di dodici mesi a ulteriori procedure di affidamento afferenti a investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse del PNRR e del PNC.

Vi sono poi le ipotesi in cui il legislatore ha preferito premiare l’operatore economico che rispetti alcune condizioni (individuate nel successivo comma 5 dell’art. 47), tramite l’assegnazione di un punteggio aggiuntivo, cioè qualora: nei tre anni antecedenti la data di scadenza del termine di presentazione delle offerte non risulti destinatario di accertamenti relativi ad atti o comportamenti discriminatori); utilizzi specifici strumenti di conciliazione tra vita-lavoro per i propri dipendenti, anche tramite innovative modalità di organizzazione del lavoro; si impegni ad assumere una quota eccedente il 30% di donne, e altre categorie indicate, per l’esecuzione del contratto; abbia adottato nell’ultimo triennio specifiche misure di promozione della parità di genere e generazionale; presenti per ciascun esercizio finanziario una dichiarazione volontaria ai sensi dell’art. 7, D.lgs. n. 254/2016. Infine, il comma 8 dell’art. 47 prevede, tra le misure di contrasto alle disuguaglianze di genere, l’adozione di specifiche linee guida, avvenuta con Decreto del 7 dicembre 2021, contenenti gli orientamenti necessari in merito alle modalità e ai criteri applicativi di quanto previsto nei precedenti commi dell’art. 47, insieme all’indicazione delle misure premiali e dei modelli di clausole da inserire nei bandi di gara, differenziati per settore, tipologia e natura del contratto o del progetto.

L’OCCASIONE MANCATA DEL LAVORO DA REMOTO

Stupisce l’assenza di riferimenti significativi al lavoro da remoto, l’unica modalità di lavoro in grado di coniugare, nel contesto emergenziale, le esigenze di continuità produttiva delle aziende con quelle di tutela della salute delle lavoratrici e dei lavoratori.

Eppure, l’emergenza Covid ha contribuito in maniera significativa a valorizzare, anche tramite il ricorso al lavoro da remoto, il principio di parità di genere nello svolgimento dei compiti di cura della famiglia: la legislazione di emergenza in tema di smart working ha riconosciuto in favore di entrambi i genitori un vero e proprio diritto al lavoro agile, oltre a un congedo specifico finalizzato a soddisfare le esigenze di cura familiari imposte dall’emergenza sanitaria9.

Un’adeguata programmazione degli interventi finalizzati a “normalizzare” il ricorso al lavoro da remoto avrebbe potuto contribuire a implementare la parità retributiva e a diffondere una nuova cultura del risultato, superando quelle prassi, principalmente legate ai tempi di permanenza in azienda, che hanno storicamente favorito gli uomini e nociuto alle donne, incaricate anche dei compiti di cura della famiglia.

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in Giurisprudenza Italiana, 11, 1 novembre 2022, p. 2528 dal titolo PNRR e lavoro: prospettive di trasformazione per l’Italia, domani – PNRR e contrasto alle disuguaglianze di genere.
1. Sugli interventi in tema di lavoro contenuti nel PNRR si veda M. Martone, Il lavoro nel PNRR, in questo numero di Giurisprudenza Italiana.
2. Per approfondimenti sull’evoluzione normativa a tutela della lavoratrice vedi M.V. Ballestrero, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Il Mulino, Bologna, 1979 nonché i contributi di R. Pessi, Lavoro e discriminazione femminile, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 1994, 3,
413 e segg.; M. Brollo, Misure per l’occupazione femminile tra tutele e incentivi, in Lav.
Giur, 2013,2,113 e segg.; R. Del Punta, La nuova disciplina dei congedi parentali, familiari e formativi, in Riv. It. Dir. Lav., 2000, I, 149 e segg.
3. Sul punto si rimanda a E. De Marco, Congedo di paternità e riduzione del premio di risultato alla prova della bigenitorialità, in Arg. Dir. Lav., 2021, 5, 1249 e segg.
Dir. Lav., 2021, 5, 1249 e segg.
4. I dati riportati sono stati raccolti ed elaborati da Eurostat con riferimento al 2021 e sono disponibili sul sito https://ec.europa.eu/eurostat

5. Acronimo per Science, Technology, Engineering e Mathematics.

6. L’Istat ha rilevato che, nel mese di dicembre 2020, gli occupati in Italia sono calati di 101 mila
unità, di cui 99 mila donne. Per ulteriori approfondimenti si rinvia alle statistiche sull’occupazione pubblicate sul sito https://www.istat.it.
7. Sul punto si rinvia a D. Gottardi, Recovery plan e lavoro femminile, in Diritti, lavori, mercati, 2021,
2, 261 e segg.

8. La definizione di “quote di genere” è reperibile su https://eige.europa.eu/it/taxonomy/term/1203. Sulla tecnica della condizionalità come azione positiva e sulla sua innovatività rispetto alle dinamiche tradizionali del mercato del lavoro si veda V. Cardinali, PNRR. La clausola di condizionalità all’occupazione di giovani e donne: azione positiva o azione mancata? in INAPP WP, 2022, 92, 4 e segg

9. Per ulteriori approfondimenti sul ricorso al lavoro da remoto nel contesto emergenziale si rinvia al volume collettaneo curato da M. Martone, Lavoro da remoto e bigenitorialità: come cogliere nella crisi epidemiologica un’opportunità di modernizzazione sociale, in Id. (a cura di), Il lavoro da remoto. Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza, Piacenza, La Tribuna, 2020.

 

Preleva l’articolo completo in pdf  

LE TUTELE CONTRO I LICENZIAMENTI e l’impatto delle sentenze costituzionali**

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro studi unitario Ordine dei consulenti del lavoro provincia di Milano – Ancl Up Milano 

 

Dario Bernardi riepiloga e analizza il percorso della Corte costituzionale in tema di licenziamenti

 

L’Autore ripercorre il ciclo di decisioni della Corte Costituzionale nel quinquennio 2018-2022 per appurare l’esistenza di tensioni tra le riforme dei licenziamenti (2012 e 2015) e la Costituzione, anche in prospettiva di una revisione complessiva futura della disciplina.

 

IL SISTEMA ATTUALE DI TUTELA CONTRO I LICENZIAMENTI ILLEGITTIMI: CENNI

Un sistema rimediale in materia di licenziamenti si compone sostanzialmente di due momenti differenti ma tra loro collegati: il primo riguarda l’individuazione dei limiti posti al recesso datoriale dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato; il secondo attiene all’impianto sanzionatorio nel caso in cui il datore di lavoro contravvenga ai limiti posti dall’ordinamento. Circa il primo aspetto non vi sono particolari dubbi. Il problema si pone sul regime delle sanzioni a tutela del lavoratore.

Il sistema, fino al 2012, è stato contrassegnato dal dualismo tra tutela indennitaria per la piccola impresa e tutela reintegratoria oltre la soglia numerica di lavoratori indicata dallo Statuto.

Il legislatore, a partire dal 2012, ha applicato pienamente il principio per cui vi è “ discrezionalità del legislatore in materia… quanto alla scelta dei tempi e dei modi”.

Il sistema è stato progressivamente modificato1 quando il legislatore, ispirato dalle dottrine della law & economics, ha intrapreso l’abbandono della sanzione ripristinatoria in favore della sanzione monetaria, passando per la scelta di diversificare e graduare le tutele in base ai vizi, percorso ancora embrionale nella L. n. 92/2012 (riforma Monti/Fornero), ben più radicale nel D.lgs. n. 23/2015 (riforma Renzi). Una delle principali linee di movimento al riguardo è stata la distinzione tra motivi soggettivi e motivi economici al fine della concessione della reintegra.

Altra direttrice fondamentale (del solo Decreto n. 23), fondante la disciplina dell’altro rimedio rimasto sul tavolo (monetario), è stata l’eliminazione della discrezionalità giudiziale nella quantificazione dell’indennizzo predeterminato da licenziamento illegittimo.

 

LE CARATTERISTICHE DI UN SISTEMA DI TUTELE COSTITUZIONALMENTE ADEGUATO

Dalla giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni emerge una direttrice precisa: il sistema deve essere ispirato a principi di razionalità e uguaglianza.

In primis, dal punto di vista generale il sistema deve prevedere meccanismi ragionevoli di sanzione: l’idoneità della piattaforma a consentire un adeguato ristoro al lavoratore e l’idoneità della stessa a dissuadere il datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.

Il sistema deve inoltre garantire l’uguaglianza, disciplinando allo stesso modo fenomeni omogenei e diversificando il trattamento di situazioni differenti.

 

SISTEMI IRRAGIONEVOLI E INGIUSTAMENTE DISUGUALI

La serie di sentenze rilevante in materia è la seguente: Corte Cost., n. 194/2018; Corte Cost., n. 150/2020; Corte Cost., n. 59/2021; Corte Cost., n. 125/2022 e Corte Cost., n. 183/2022, tutte a firma dello stesso redattore.

Tutto parte dalla sentenza Corte Cost. n. 194/2018 che ha ritenuto che la previsione di una tutela economica, calcolata sulla base di un principio matematico, potrebbe non costituire adeguato ristoro del danno prodotto dall’illegittimo licenziamento, né tantomeno un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente.

È quindi rimessa al giudice la quantificazione dell’indennità, che seppur nel rispetto dei limiti minimo e massimo individuati dal Jobs Act (come modificati dalla L. 9 agosto 2018, 96), dovrà tenere conto dell’anzianità di servizio, nonché di altri criteri individuabili nel numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti.

Analogamente, con la sentenza Corte Cost. n. 150/2020 è stato ritenuto illegittimo, sempre a motivo di irragionevolezza, il meccanismo di liquidazione dell’indennità del tutto simile a quello dell’art. 3, co. 1, previsto dall’art. 4, D. lgs. n. 23/2015 in materia di vizi formali: la sentenza spiega che le prescrizioni formali, relative all’obbligo di motivazione del licenziamento e al principio del contraddittorio, “rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica” e “sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost.”, in quanto si prefiggono di tutelare la dignità del lavoratore.

 

Con la sentenza Corte Cost. n. 59/2021 è stato ritenuto irragionevole il potere totalmente discrezionale di scelta di reintegra in capo al giudice previsto dall’art. 18, comma 7, Stat. lav. come modificato dalla L. n. 92/2012 in relazione al licenziamento per M.E. (ovvero licenziamento per G.M.O. economico) laddove si fosse accertata l’insussistenza (all’epoca) manifesta del fatto che lo caratterizzava.

In particolare, la Corte ha censurato la norma nella parte in cui prevede che il giudice, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare”, invece che “applica altresì” la c.d. “tutela reintegratoria attenuata” (ossia la reintegrazione nel posto di lavoro oltre ad un’indennità non superiore a 12 mensilità, detratto l’aliunde perceptum e l’aliunde percipiendum).

 

La facoltatività della reintegrazione è, infatti e innanzitutto, in contrasto con il principio di uguaglianza, dal momento che, per il caso di insussistenza del fatto nella fattispecie di licenziamento disciplinare, è invece prevista l’obbligatorietà della reintegrazione.

Non ci sarà tempo per arrovellarsi troppo sul punto, dato che un anno dopo, la Consulta con la sentenza Corte Cost. n. 125/2022 bollava sempre di irragionevolezza proprio la particella letterale “manifesta” che precede l’espressione “insussistenza del fatto” posta a base del licenziamento per ragioni economiche, produttive e organizzative.

Al fatto si deve “ricondurre ciò che attiene all’effettività e alla genuinità della scelta imprenditoriale”.

Su questi aspetti il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità che non può sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità.

Il requisito della manifesta insussistenza è, anzitutto, indeterminato e si presta, proprio per questo, a incertezze applicative, con conseguenti disparità di trattamento.

Inoltre, la sussistenza di un fatto è nozione difficile da graduare, perché richiama “un’alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”. Il criterio della manifesta insussistenza – ha precisato inoltre la Corte – “risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento”.

Nelle controversie in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo si è in presenza di un quadro probatorio articolato: oltre ad accertare la sussistenza o insussistenza di un fatto – di per sé un’operazione ragionevole complicazione sul fronte processuale. A ben vedere, un sistema così congegnato vanifica l’obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finisce per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell’impiego (art. 1, co.1, lettera c, della Legge n. 92 del 2012), che ha in tali caratteristiche della tutela giurisdizionale il suo caposaldo. In tale scenario, dopo poco più di un mese dalla sentenza n. 125, giunge la sentenza Corte Cost. 183/2022 che definisce in termini di irragionevolezza intrinseca il sistema di sanzione contro i licenziamenti per le “piccole imprese”.

La sentenza riconosce che l’esiguo divario tra un minimo di 3 e un massimo di 6 mensilità “vanifica l’esigenza di adeguarne l’ importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza” ribadendo che il licenziamento deve essere considerata l’ultima soluzione.

Ammette poi la Corte che “ il numero dei dipendenti (…) non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario”.

Conclude quindi riconoscendo “ l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente” e affermando “ la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti”.

 

IL TEMA DELLA DIFFERENZA DI TRATTAMENTO TRA L’ART. 18 E IL D.LGS. N. 23/2015

Il discrimine applicativo tra i due sistemi sanzionatori è la data del 6 marzo 2015 in relazione al momento dell’assunzione del lavoratore. Tale differenza di tutele è stata oggetto di critiche che si sono tradotte in due ordinanze di rimessione alla Consulta2. La prima è quella che ha dato luogo alla pronuncia di incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, D.lgs. n. 23/20153.

Questione simile (in tema di licenziamento collettivo) è stata sottoposta ma non esaminata nel merito, attesa l’inammissibilità del ricorso per ritenuto difetto motivazionale4.

Sono rimasti fuori dalle valutazioni della Consulta due aspetti.

Il primo aspetto riguarda la ragionevolezza della sostanza della tutela del Decreto n. 23 in rapporto alla tutela dell’art. 18 St. Lav. in relazione alle differenze sostanziali che caratterizzano le due discipline.

Il secondo aspetto, connesso con il primo, è dato dall’idoneità del mezzo prefissatosi dal legislatore al raggiungimento dello scopo5.

Il divario iniziale tra la versione nuova dell’art. 18 post-riforma Monti/Fornero e il Decreto n. 23 si è considerevolmente acuito in seguito alle modifiche apportate al primo dalla Corte Costituzionale per mezzo delle sentenze Corte Cost. 59 del 2021 e Corte Cost. n. 125 del 2022. Maggiore è il divario, maggiore è la possibilità di invocare una ingiustizia di trattamento tra situazioni identiche poiché discriminate esclusivamente da una soglia temporale di applicabilità.

 

IL D.LGS. N. 23/2015: LE CRITICITÀ DEI LICENZIAMENTI NULLI

Resta aperta la questione se la struttura complessiva (residua) della piattaforma rimediale delineata dal Decreto n. 23 presenti da questo punto di vista crepe nelle quali è possibile insinuare dubbi di costituzionalità.

Le problematiche residue possono essere divise in tre gruppi, quelle relative alla tutela contro i licenziamenti nulli, quelle relative ai licenziamenti per motivi soggettivi e quelle- relative ai licenziamenti per motivi economici. Circa i primi rispetto all’art. 18, comma 1, Stat. lav. vi è una serie di distinzioni strutturali e letterali che apparentemente può dare l’impressione di un restringimento in questo ambito già confinato di tale area di tutela nella normativa successiva rispetto a quella precedente.

Principalmente il tema più rilevante è quello relativo all’elencazione delle ipotesi di nullità sanzionabili con la reintegra, problema superabile dalla semplice constatazione che tra “gli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” di cui all’art. 2, co. 1 rientrano sia tutte le ipotesi di licenziamento discriminatorio positivizzate, nonché più in generale le altre ipotesi di nullità previste espressamente dall’art. 18, co. 1, compreso l’art. 1345 c.c. relativamente al licenziamento ritorsivo e più in generale ancora l’art. 1418 c.c. relativo alle nullità virtuali6, disposizione che consente di sanzionare al massimo livello anche la violazione del disposto di cui all’art. 2110 c.c. a tutela del periodo di comporto, trattandosi quest’ultima di norma imperativa7.

 

IL D.LGS. N. 23/2015: LE CRITICITÀ DEI LICENZIAMENTI PER MOTIVI SOGGETTIVI

Circa i motivi soggettivi va premesso che la struttura del meccanismo sanzionatorio prevede la sanzione monetaria generalizzata per i casi di licenziamento illegittimo non per motivi formali, ad eccezione esclusiva dell’ipotesi in cui “sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. L’utilizzo del “direttamente” e “materiale” rappresentano tentativi di limitare l’area di operatività della reintegra.

Tentativi di fattura non eccelsa8.

Laddove ciò non fosse ritenuto in ultima analisi possibile, le temute censure di legittimità costituzionale fondate sui principi di uguaglianza e ragionevolezza avrebbero sicuramente una loro dignità9.

Al momento la maggiore problematica relativa alla tutela assegnabile a fronte di un licenziamento disciplinare è quella relativa all’esclusione della reintegra nell’ipotesi di condotte “punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.

Il tema è sensibile ed è già stato oggetto di critiche multilivello.

Innanzi tutto, la previsione dell’art. 12, L. n. 604/1966 dovrebbe di per sé condurre a escludere un definitivo atto espulsivo in presenza di ipotesi per le quali il Ccnl prevede che il rapporto non si estingua.

Inoltre, a livello costituzionale, una interpretazione non estensiva potrebbe condurre alla violazione dell’art. 39 Cost.

Risulterebbe, inoltre, poco ragionevole privare in questa materia la contrattazione collettiva del potere di migliorare le condizioni di impiego dei lavoratori ed in particolare con riferimento alla reintegra.

 

IL D.LGS. N. 23/2015: LE CRITICITÀDEI LICENZIAMENTI PER MOTIVI ECONOMICI

Tentando di applicare al D.lgs. n. 23/2015 i principi già espressi dalla sentenza Corte Cost. 59/2021 e dettati in tema di art. 18 Stat. lav. si ritiene che gli stessi dovrebbero avere incidenza invalidante anche sull’esclusione radicale della reintegra nel M.E. nell’impianto del Decreto 23.

Dovrebbe infatti affermarsi un principio di indisponibilità delle conseguenze del fatto inesistente10, a tutela non solo delle norme inderogabili in tema di licenziamento, ma anche della stessa ripartizione dei poteri (scompaginata imponendo a chi deve accertare i fatti e ricondurne gli effetti previsti dalla legge di operare non in base al dato reale accertato bensì ad astratte ed indisponibili qualificazioni di parte).

In conclusione, all’esito degli interventi della Consulta, alla luce di adattamenti interpretativi e di possibili ulteriori questioni di legittimità costituzionale (M.E.), la disciplina del Decreto 23 potrebbe riallinearsi a quella dell’attuale art. 18 (restando ovviamente da risolvere il tema del piccolo imprenditore) che a questo punto potrebbe diventare, riveduto e mitigato, il paradigma di un futuro, e costituzionalmente adeguato, modello sanzionatorio in tema di licenziamenti illegittimi sopra una determinata soglia organizzativa e/o economica.

IL TEMA DELL’ESCLUSIONE DI UNA DOVEROSITÀ COSTITUZIONALE DELLA REINTEGRA NELLE IMPRESE DI MEDIO-GRANDI DIMENSIONI; RIFLESSI SUL RIMEDIO RISARCITORIO

Come accennato, la Consulta ha ripetutamente escluso che la sanzione della reintegra sia costituzionalmente imposta al legislatore11: bene se la usa (così facendo attua la Costituzione), ma può scegliere anche di non usarla, avendo discrezionalità in punto a tempi e modi di tutela. Occorre quindi chiedersi se sia possibile ipotizzare un sistema completamente privo di reintegra, anche nelle imprese maggiormente strutturate e organizzate, anche in relazione ai motivi di licenziamento di più qualificata insussistenza12. E immaginare la compatibilità di tale modello con la Costituzione, soprattutto rispetto al canone di uguaglianza il quale, imponendo di diversificare il trattamento riservato a situazioni diverse tra loro, potrebbe condurre a censurare di illegittimità un sistema derogatorio delle regole civilistiche generali (art. 2058 c.c.) e fondato su un esclusivo rimedio monetario, anche nei licenziamenti ingiustificati perché basati su presupposti inesistenti, anche nelle tipologie di imprese nelle quali (per motivi dimensionali ed economici) non vi sono problematiche di eccessiva onerosità del rimedio in forma specifica e in relazione alle quali può quindi avanzarsi l’idea che tra i limiti di cui al comma 2 dell’art. 41 Cost. vi sia anche quello di consentire la stabilità del rapporto. Laddove poi il modello anti-reintegratorio generalizzato dovesse infine prevalere, lo strumento rimediale residuale quello monetario nella prospettiva indennitaria nella quale lo abbiamo da ultimo conosciuto (ossia con forbice edittale ed un tetto massimo), potrebbe entrare irrimediabilmente in crisi13, aprendosi pertanto la strada alla invocazione di risarcimenti pieni in relazione ai quali il tetto massimo14 potrebbe rappresentare una compressione alla tutela dei diritti costituzionali del lavoratore, non ragionevolmente giustificata dalla necessità di bilanciare un contro-interesse di rilievo costituzionale latitante in casi di risoluzione di rapporti di lavoro in mancanza della giustificazione imperativa di legge per giunta a fronte di condotte dolose o gravemente colpose15 e nonostante dimensioni (organizzative/economiche) di rilievo del debitore e tali da consentirgli di rispondere pienamente dei propri illeciti16.

Tuttavia, uno degli effetti collaterali delle cinque sentenze della Consulta da cui si sono prese qui le mosse è stato proprio quello di consentire un recupero valoriale in chiave costituzionale, in antitesi con il precedente break delle teorie economiche più neoliberiste.

 

 

*Sintesi dell’articolo pubblicato in LG, 10/2022, pag. 905 dal titolo Il principio di Archimede, le riforme dei licenziamenti (2012-2015) e la Corte costituzionale (2018-2022).

  1. Per l’analisi completa si rimanda a C. Cester, Le tutele, in E. Gragnoli (a cura di), L’estinzione del rapporto di lavoro subordinato, Padova, 2017, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da M. Persiani – F. Carinci.
  2. Oltre che con due ordinanze di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE, che in un caso (su rinvio di Corte d’Appello Napoli, che aveva contemporaneamente adito anche la Consulta) si è dichiarata manifestamente incompetente a rispondere alle questioni sollevate, mentre nell’altro caso (su rinvio del Tribunale di Milano) riteneva non violata la clausola comunitaria in materia di divieto di discriminazione tra rapporti a termine e rapporti stabili: per tutti i riferimenti v. R. Cosio, La sanzione dissuasiva nei licenziamenti collettivi. La risposta della corte di giustizia, in questa Rivista, 2021, 8-9, 815.
    3. In parte qua soggetta a considerazioni critiche da S. Giubboni, Il licenziamento nel contratto di lavoro a tutele crescenti dopo la sentenza n. 194 del 10\8 della Corte costituzionale, in Foro it., 2019, I, 24; M. Persiani, La residua tutela reale del lavoratore illegittimamente licenziato e la recente giurisprudenza, in Arg. dir. lav., 2020, 319.
    4. Sulla questione V. Speziale, La sentenza della Corte costituzionale n. 254 del 2020 sui licenziamenti collettivi: una forma di “leale e costruttiva collaborazione” con la Corte di giustizia europea? in Lavoro Diritti Europa, fasc. 1, 2021.
    5. Perulli, Il valore del lavoro in Il libro dell’anno del diritto, 2019, Roma, 346; S. Giubboni,
    Anni difficili, 11-12: “Senza un controllo di congruità causale-sostanziale tra le finalità
    enunciate dal legislatore e gli strumenti all’uopo impiegati, le differenze di trattamento giuridico introdotte dalla legge – salvo i casi piuttosto improbabili di irrazionalità manifesta per evidente incoerenza logica – rischiano così di diventare tutte pressoché automaticamente giustificate, alla stregua di un ragionamento che appare tuttavia viziato da una palese circolarità. L’enunciazione del fine finisce, in pratica, per assorbire in sé la giustificazione dei mezzi”..

6. M. Persiani, Noterelle su due problemi di interpretazione della nuova disciplina dei licenziamenti, in Arg. dir. lav., 2015, 2, 394.

7. V. Speziale, Il contratto, ed i riferimenti alla nt. 38; conferma la natura di norma imperativa dell’art. 2110, comma 2, c.c. la recentissima Cass. Civ. n. 27334/2022 facendone derivare l’importante conseguenza di sanzionare – nel sistema ante D.Lgs. n. 23/2015 – con la reintegra di cui al comma 4 dell’art. 18 (richiamato dal comma 7) tale licenziamento “ontologicamente” nullo (ma con regime sanzionatorio “speciale” rispetto alle conseguenze altrimenti previste dal comma 1) anche nelle
imprese sottosoglia.
8. S. Giubboni, Anni difficili, cit., 15, parla di “dilettante di sensazione” e ricostruisce più giurisprudenziale la genesi della terminologia in questione.
9. S. Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in WP
C.S.D.L. “Massimo D’Antona”. IT, 1, 2015, 298; R. Riverso, La nuova disciplina dei licenziamenti disciplinari nel cd Jobs Act, in Questione Giustizia.
10. In un parallelismo con il principio di indisponibilità del tipo – per il quale v. Corte cost. n. 121/1993 e Corte cost. n. 115/1994 – che sostanzialmente esclude, analogamente a quanto avviene nel caso di specie, che il legislatore possa disporre a proprio piacimento della realtà fenomenica e disciplinarla in difformità con la natura delle cose, laddove ne derivi un contrasto con le norme inderogabili a tutela del lavoratore.

11. Cester (a cura di), I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, Padova, 2013, 6.
12. Evidentemente un siffatto modello eliminerebbe sul nascere qualunque ipotesi di censura per disuguaglianza rispetto ad un modello che sanzionasse con la reintegra i soli motivi soggettivi e non oggettivi, quale quello tentato dai legislatori del 2012 e del 2015.
13. Dovendo essere sicuramente approfondita la questione dei limiti al risarcimento del danno – patrimoniale e non patrimoniale – alla persona in ambito lavorativo, questione che non può certamente essere ritenuta definitivamente risolta dal riferimento nella sentenza Corte cost. n. 194/2018 a principi generali civilistici e alla fugace patente di “adeguatezza” di cui alla nota precedente; al contrario per l’ambito propriamente lavoristico va dato atto che il prototipo rappresentato dal rimedio indennitario puro (e “di modico valore”) di cui all’art. 8, L. n. 604/1966, finora sempre promosso (sentenze Corte cost. n. 46 del 2000; Corte cost. n. 44 del 1996 e Corte cost. n. 194 del 1970), sembra ora alle corde, alla luce dei principi espressi – su una normativa pressoché sovrapponibile – da Corte cost. n. 183/2022.
14. Ricondotto – in La disciplina, cit. – da A. Perulli, allorquando non accompagnato dalla reintegra, né dal risarcimento pieno, ad un tertium genus di ristoro, deteriore rispetto ai principi civilistici generali, che ben può essere qualificato nei termini di una deroga in peius ai criteri rimediali comuni a favore del datore di lavoro; analogamente v. S. Giubboni, Il ritorno, cit., con i riferimenti contenuti nella nt. 10.
15. Quali si caratterizzano ordinariamente i licenziamenti fondati su motivi accertati come inesistenti.
16. Qualifica attribuita dalla sentenza Corte cost. n. 194/2018 al licenziamento in violazione dell’art. 1, L. n. 604/1966, ritenuta norma imperativa.

 

Preleva l’articolo completo in pdf  

Quale differenza tra TELELAVORO E SMART WORKING?*

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro studi unitario Ordine dei consulenti del lavoro provincia di Milano – Ancl Up Milano

 

Michela Bani mette a confronto lavoro agile e telelavoro

 

L’obiettivo dell’Autore è quello di fornire un quadro d’insieme delle tematiche connesse al tempo della prestazione, al controllo e al diritto alla disconnessione del lavoratore in smart working, evidenziando alcune differenze di tipo strutturale con il telelavoro.

 

IL TELELAVORO: SOLO UNA PRESTAZIONE REMOTIZZATA

Il telelavoro è definito come una forma di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto di lavoro o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta fuori dai locali della stessa. In ambito privato la disciplina dell’istituto è di fonte contrattuale attraverso l’implementazione dell’Accordo Interconfederale 9 giugno 2004 (per il recepimento dell’Accordo Quadro Europeo sul telelavoro del 16 luglio 2002). In particolare, l’Accordo Interconfederale detta una disciplina generale a livello nazionale e lascia ampio spazio di intervento alla contrattazione collettiva di categoria o aziendale, per integrare e adeguare i principi e i criteri in esso definiti.

In estrema sintesi, gli elementi caratterizzanti della fattispecie sono:

  • la natura volontaria della modalità;
  • la delocalizzazione dell’attività rispetto al luogo in cui si trova il datore di lavoro;
  • la flessibilità dei tempi di lavoro;
  • lavorativa da remoto in collegamento con il datore di lavoro
  • l’utilizzo di tecnologie che consentono di fatto l’espletamento della prestazione.

L’art. 2 dell’Accordo specifica che il telelavoro è espressione di una scelta volontaria dei contraenti.

Sotto questo profilo non si riscontra alcun vincolo in termini di esercizio di poteri datoriali di disporre la prestazione in telelavoro così come non è configurabile come un diritto soggettivo del lavoratore allo svolgimento della prestazione con questa modalità. Ai sensi dell’art. 3 dell’Accordo, qualora il telelavoro non sia ricompreso nella descrizione iniziale della prestazione lavorativa, la decisione di passare al telelavoro è reversibile per effetto di accordo individuale o collettivo. La reversibilità può comportare il ritorno all’attività lavorativa nei locali del datore di lavoro su richiesta di quest’ultimo o del lavoratore. Le modalità di tale reversibilità sono fissate mediante accordo individuale o collettivo. Con riferimento al contratto di lavoro agile assume rilevanza quanto previsto all’articolo 6 dell’Accordo laddove affronta il tema degli strumenti di lavoro: il rapporto con gli strumenti non è appannaggio del lavoratore ma è il datore di lavoro a farsi carico di regola della “ fornitura, dell’istallazione e della manutenzione degli strumenti necessari ad un telelavoro svolto regolarmente, salvo che il telelavoratore non faccia uso di strumenti propri”. Allo stesso modo, sulla base di quanto previsto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro si fa carico dei costi derivanti dallo svolgimento della prestazione in telelavoro. Sotto il profilo più strettamente legato al tema dei controlli, la disciplina dell’Accordo sul telelavoro non fornisce alcun tipo di specificazione ulteriore se non richiamare la disciplina generale, il cui riferimento è evidentemente l’articolo 4 Stat. Lav.

La disciplina prevede, esclusivamente e in modo assolutamente generico, che eventuali strumenti di controllo debbano essere proporzionati all’obiettivo perseguito e comunque nel rispetto della disciplina relativa alla sicurezza sul lavoro.

Questo approccio minimalista trova probabilmente il proprio fondamento anche nei tempi in cui la disciplina è stata implementata, in cui il rapporto con lo strumento tecnologico non era percepito nei termini della propria capacità di generare forme di controllo. Occorre ulteriormente specificare che non si rinvengono particolari arresti giurisprudenziali in materia tenuto conto lo scarso utilizzo del citato istituto.

LAVORO AGILE: ARTICOLAZIONE FLESSIBILE DEL LAVORO SUBORDINATO NEI TEMPI E NEI LUOGHI

Il lavoro agile, diversamente dal telelavoro, costituisce una diversa modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, con collegamento da remoto e possibile utilizzo degli strumenti tecnologici, che si caratterizza per l’assenza di vincoli di orario e di luogo. La fattispecie lavoro agile non è, o quanto meno non solo, una modalità di esecuzione della medesima prestazione da remoto ma una modalità di rendere la prestazione il cui fine è quello di conciliare per un verso i tempi di vita e di lavoro ma anche quello di incrementare la competitività. In questo contesto attraverso l’accordo individuale tra le parti la prestazione potrà essere organizzata in “ fasi, cicli e obiettivi” senza precisi vincoli di orario – se non quelli fissati per la durata massima della prestazione ai sensi D.lgs. n. 66/03 – e nemmeno di luogo. Secondo la posizione maggioritaria, però, il lavoro agile rappresenterebbe una mera attenuazione

del vincolo di subordinazione in cui l’accordo individuale varrebbe a esprimere un’estrinsecazione dell’esercizio del potere direttivo1 senza comprometterne la sua struttura unidirezionale2 o la sua densità3. Come detto, il contratto di lavoro agile si caratterizza per un elevato grado di flessibilità nella gestione del tempo e del luogo in cui la prestazione va eseguita il tutto con l’unico limite della durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale.

In questo contesto, l’esperienza mostra come l’accordo, spesso, ricalchi l’orario di lavoro degli altri lavoratori presenti in azienda. Tale tipo di impostazione, per quanto assolutamente legittima, snatura largamente il concetto stesso di lavoro agile in cui il vincolo delle dell’orario di lavoro è per definizione largamente attenuato.

Più di recente gli accordi aziendali4 tendono invece a individuare un numero massimo di giornate ovvero una percentuale nel tempo di riferimento5 in cui il lavoratore presta la propria attività al di fuori dell’azienda e delle fasce orarie nelle quali rendere la prestazione.

DIRITTO ALLA DISCONNESSIONE

La Legge n. 81 del 2017 disciplina, al primo comma dell’articolo 19, il diritto a non essere sempre raggiunti da comunicazioni e richieste lavorative tramite gli strumenti informatici. Tale diritto è, ancora una volta, connesso alla premessa da cui muove l’intero complesso normativo sullo smart working laddove all’articolo 18, oltre che richiamare un principio di recupero di competitività, richiama la necessità di agevolare “la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”. In questo quadro diventa fondamentale che sia disciplinato il diritto a disconnettersi al fine di evitare di confondere e sovrapporre i piani della vita personale con quelli del lavoro.

In ambito comunitario il tema del diritto alla disconnessione è particolarmente sentito anche in considerazione dell’aumento improvviso legato alla pandemia delle fattispecie di lavoro a distanza.

In questo contesto il 21 gennaio 2021 è stata emanata la Risoluzione 2019/2181 con cui l’Europarlamento invita la Commissione a elaborare una Direttiva sul punto. In particolare, la Risoluzione muove dalla rilevazione che nell’attuale quadro legislativo dell’UE non esiste una fonte che definisca e disciplini direttamente in modo omogeneo il diritto alla disconnessione. In questo quadro la commissione per l’occupazione e gli affari sociali ha approvato una relazione in cui invita la Commissione europea ad adottare una proposta legislativa di direttiva sul diritto alla disconnessione. La relazione mira a riaffermare il diritto di non ricevere sollecitazioni professionali al di fuori dell’orario di lavoro nel pieno rispetto della legislazione sull’orario di lavoro e delle disposizioni in materia nei contratti collettivi e nelle disposizioni contrattuali.

Stabilisce, inoltre, requisiti minimi sull’uso degli strumenti digitali a scopi lavorativi al di fuori dell’orario di lavoro, con l’obiettivo di creare, nel tempo, una cultura che eviti i contatti lavorativi al di fuori dell’orario di lavoro. La relazione sottolinea, infine, il ruolo importante delle parti sociali nell’attuazione del diritto alla disconnessione e la necessità di soluzioni su misura che rispondano alle necessità e ai vincoli specifici delle aziende.

ANALOGIE E DIFFERENZE CON IL TELELAVORO

Nel corso del tempo alcuni interpreti hanno evidenziato, probabilmente in una visione non del tutto corretta, una sorta di continuità tra la disciplina del telelavoro e quella del lavoro agile ma, a una più attenta analisi, vi sono differenze strutturali evidenti. Mentre il telelavoro può essere sintetizzato in un “svolgo la stessa attività ma la svolgo da un luogo diverso” e implica l’assegnazione di una postazione fissa, nel lavoro agile è la struttura complessiva dell’obbligazione del rapporto di lavoro a essere parzialmente diversa, più tendente verso una forma di subordinazione attenuata in cui si individua con maggior forza l’elemento del raggiungimento dell’obiettivo e della responsabilità nella gestione della prestazione. Si rammenta inoltre che la prestazione lavorativa nell’ambito del rapporto di lavoro agile viene eseguita in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa. Allo stesso modo elemento distintivo è ulteriormente ricavabile dall’attenzione al diritto alla disconnessione, nemmeno menzionato nell’Accordo Interconfederale regolativo del telelavoro. Ulteriore differenza evidenziata in dottrina6 fra la fattispecie del lavoro agile e quella del telelavoro è rappresentata dalla circostanza che quest’ultimo è caratterizzato dalla regolarità con cui la prestazione viene resta da remoto. Tale elemento non si riscontra necessariamente nel lavoro agile.

Da ultimo, appare rilevante evidenziare che, mentre nel contratto di lavoro agile l’utilizzo degli strumenti tecnologici è puramente eventuale, nel caso del telelavoro lo strumento tecnologico non solo è necessario per rendere la prestazione ma è lo stesso datore di lavoro che ne è responsabile ed è anche colui il quale ne sopporta il costo.

CONCLUSIONI: FRA CONTROLLO DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA, ESIGENZE DI RISERVATEZZA E MISURAZIONE DEI RISULTATI

La vera differenza la si deve ricercare altrove, muovendo dal diverso rapporto che si instaura fra il lavoratore agile e il datore di lavoro e, conseguentemente, sul diverso tipo di controllo. Occorre superare la visione classica del rapporto di lavoro subordinato per cui il sinallagma è limitato alla mera messa a disposizione di energie lavorative contro il pagamento della retribuzione a favore di una forma di subordinazione attenuata in cui il punto di arrivo è – per usare le espressioni del legislatore – un’organizzazione per “ fasi, cicli e obiettivi”. Se la prestazione non è più connessa alla sola messa a disposizione di energie lavorative ma si pone sul piano del risultato, è del tutto evidente che anche i poteri di organizzazione e controllo saranno esercitati in forma differente. In quest’ottica si avrebbe uno spostamento del paradigma del controllo dal controllo diretto dell’attività lavorativa al controllo sui risultati dell’attività lavorativa.

Se questa è la prospettazione il passo è breve per comprendere che il controllo non dovrà più essere valutato come controllo diretto ma come controllo indiretto legato alla performance. Tale trasformazione, se non arginata, avrebbe conseguenze pericolose e a oggi inesplorate ai fini dell’individuazione dell’esatto adempimento della prestazione lavorativa, con la possibile obiettivazione e quantificazione dei criteri di individuazione dello “scarso rendimento” 7. In attesa di una scelta di politica legislativa coraggiosa che si occupi realmente del lavoro agile nel suo complesso e più in dettaglio del controllo del lavoratore agile nonché di sperimentare sul piano giurisprudenziale la questione del controllo su questa categoria di lavoratori, oggi e nell’immediato futuro il tema è quello di individuare nell’ambito della regolamentazione individuale criteri di valutazione della prestazione del dipendente che, seppur indirettamente, consentano al datore di esercitare il proprio potere di controllo sulla prestazione senza violare i limite posti dall’ordinamento.

Infine, si evidenzia come gli strumenti di valutazione della prestazione dello smart working successivamente connessi all’erogazione di politiche retributive premiali8 sia un tema su cui tutte le aziende dovrà interrogarsi e trovare soluzioni dedicate il tutto avendo anche a mente la necessità di fornire informazioni anche alla luce del D.lgs. n. 104/2022 sugli strumenti, laddove automatizzati, utilizzati per la valutazione stessa.

 

 

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in Modulo24 Contenzioso Lavoro, 16 settembre 2022, n. 6, pp. 103-118 dal titolo Smart working: un mondo diverso dal telelavoro fra la necessità di un cambio di paradigma, i controlli ed il diritto alla disconnessione.

 

1. A. Levi op Cit. 35 “Nella disciplina del lavoro agile, peraltro, il potere direttivo non viene soltanto attenuato, ma, addirittura ne viene messa in discussione la tradizionale natura unilaterale, seppure ab externo. Esso cioè subisce un ridimensionamento del tratto dell’unilateralità, se non in ordine all’esercizio in sé delle relative prerogative almeno alla manifestazione”.
2. G. Proia, L’accordo individuale e le modalità di esecuzione e di cessazione della prestazione di lavoro agile, in Il Jobs Act del lavoro autonomo e del lavoro agile, a cura di L. Fiorillo – A, Perulli, Giappichelli, 2018,179.
3. Per un’analisi complessiva delle posizioni si segnala G. Ricci, La nuova disciplina- del “lavoro agile”, NLCC 3/2018.
4. Accordo Poste Italiane del 1° marzo 2022.
5. Accordo GSK S.p.A. 14 dicembre 2021; Accordo Enel Italia 21 marzo 2022.

6. Timellini C. In che modo oggi il lavoro è smart? Sulla definizione di lavoro agile, in Lav. Giur. 2018, 3, 229.

7. Domenico Iodice, Il “testo unificato” delle dieci proposte di legge in tema di lavoro agile Un potpourri legislativo di dubbia coerenza e di scarsa utilità Working Paper Adapt n. 7/2022.
8. F. Rotondi, La Produttività a distanza va misurata L’economia 6 aprile 2020; Bottini A. Paciello
D. Premi di risultato su misura per lo smart working in Il sole 24 ore 31 dicembre 2020.

Preleva l’articolo completo in pdf

LA RIFORMA DEL 2015: riattualizzazione delle categorie legali previste dall’art. 2095 c.c. e nuova configurazione del potere datoriale di modificare le mansioni del lavoratore*

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro Studi e Ricerche

Domenico Garofalo analizza le novità su ius variandi e mansioni

 

La riforma dell’art. 2103 c.c., attuata con l’art. 3, D.lgs. n. 81/2015, ha coinciso con l’esplosione del fenomeno della Gig Economy 1, con innovazioni di processo e di prodotto sempre più rapide e con riflessi sulla vita sociale ed economica ancora non del tutto espressi.2

Il passaggio dalla società industriale a quella telematica3 incide soprattutto sul lavoro4, non tanto e non solo sul suo quid, ma anche sul quomodo, e probabilmente in futuro anche sullo stesso an, basti pensare all’intelligenza artificiale quale fattore di sostituzione delle prestazioni manuali labour intensive e di quelle intellettuali di tipo esecutivo.

L’Autore, con il presente contributo, analizza la riattualizzazione delle categorie legali previste dall’art. 2095 c.c. ad opera del novellato art. 2103 c.c., soffermandosi poi sulla nuova configurazione del potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore,

LA RISCOPERTA DELLE CATEGORIE LEGALI NEL NOVELLATO ART. 2103 C.C.

La disciplina previgente concedeva il mutamento orizzontale di mansioni a patto che le mansioni precedenti e quelle nuove fossero equivalenti: la nozione di equivalenza era stata sviluppata negli anni dalla giurisprudenza in termini restrittivi e andava intesa sia nel senso di pari contenuto e valore professionale delle mansioni sia come coerenza con il background professionale acquisito, come attitudine delle nuove mansioni a consentire l’arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore realizzato nella pregressa fase del rapporto.

Il concetto di professionalità, dunque, includeva non solo il complesso di nozioni e perizie già acquisite, ma anche il diritto di professionalizzarsi lavorando.

Nella vigenza della precedente norma, dunque, in caso di contestazione da parte del lavoratore, il giudice, per accertare la legittimità della modifica unilaterale da parte del datore di lavoro, non si limitava a verificare l’eguaglianza retributiva e la riconducibilità delle nuove mansioni al medesimo livello di inquadramento contrattuale, ma verificava anche l’equivalenza professionale.

Nella sua attuale formulazione, frutto delle modifiche apportate dal D.lgs. n. 81/2015, l’art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. Elemento di novità è, dunque, l’espunzione del requisito dell’equivalenza tra le ultime mansioni svolte e quelle di nuova assegnazione: al datore di lavoro è attribuita la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni a condizione che le nuove siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento e categoria legale5. Ciò significa che, se in base al contratto collettivo il mutamento di mansioni non comporta alcuna variazione di livello e categoria, non sussiste alcun limite nell’assegnazione di nuove mansioni ad eccezione della non discriminazione.

Il sistema di classificazione del personale, indicato nel contratto collettivo applicato dal datore di lavoro assume così un ruolo primario, poiché costituisce l’unico parametro di riferimento per valutare la legittimità del provvedimento di modifica delle mansioni. In sostanza, la mobilità orizzontale è legittima nel rispetto di un criterio di equivalenza formale con la conseguenza che il lavoratore potrà essere assegnato a tutti i compiti ricompresi nel livello di inquadramento, per quanto espressione di una competenza eterogenea. In tal modo, si passa dalla tutela dello specifico bagaglio di conoscenze ed esperienze acquisite ad una tutela della professionalità intesa in senso più generico, tarata sulla posizione formale occupata dal lavoratore in azienda, in virtù del sistema di inquadramento. Ne consegue che il giudice non può più valutare l’equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti, ma deve limitarsi a verificare che il mutamento rimanga all’interno dello stesso livello e categoria6. La scelta normativa sottesa alla nuova formulazione sembra essere quella di garantire un maggiore grado di certezza del diritto e di limitare al massimo lo spazio interpretativo lasciato alla giurisprudenza in quanto il livello di inquadramento costituisce un parametro più sicuro rispetto a quello di equivalenza della professionalità.

DEMANSIONAMENTI UNILATERALI E PATTI DI DEMANSIONAMENTO

La riforma dell’art. 2103 c.c. ha introdotto espressamente alcune fattispecie giustificatrici del demansionamento, che si sostanziano in una serie di deroghe al divieto di assegnare mansioni non inquadrate nello stesso livello e nella stessa categoria delle precedenti. Le ipotesi previste dal nuovo 2103 c.c. sono tre: le prime due sono qualificabili come casi di demansionamento unilaterale, mentre la terza coincide con il c.d. demansionamento consensuale.

Per quanto riguarda le ipotesi di demansionamento unilaterale, è consentito lo spostamento a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore in caso di modifica degli assetti organizzativi dell’azienda, purché siano rispettati alcuni limiti quali la immodificabilità della categoria legale, l’appartenenza delle nuove mansioni al solo livello di inquadramento contrattuale immediatamente inferiore e la conservazione della retribuzione. Tralasciando gli aspetti che interessano l’inquadramento immediatamente inferiore e la categoria legale di appartenenza, è opportuno esaminare il termine incide, sia in considerazione della sua portata, sia in riferimento alla valutazione che il giudice può operare in sede giudiziale nelle ipotesi di demansionamento. L’utilizzo del verbo incidere allude, in definitiva, alla possibilità del datore di lavoro “di retrocedere il lavoratore a una mansione inferiore se adotta una riorganizzazione (di più ampio respiro oppure anche circoscritta, al limite, al lavoratore interessato) che incide in modo diretto sulla posizione del lavoratore. L’indagine che può svolgere, in tale circostanza,  il giudice, ha ad oggetto la veridicità della scelta aziendale a monte e l’esistenza di un nesso di causalità fra tale scelta e il demansionamento del lavoratore”.7

Palesi, dunque, risultano essere i profili sui quali è possibile, per mezzo del potere direttivo, fondare un atto legittimo di variazione in pejus delle mansioni, ovvero la veridicità della scelta aziendale e il nesso di causalità fra la tale scelta e il demansionamento del prestatore di lavoro.

Oltre alla suddetta ipotesi di demansionamento unilaterale, il Legislatore della riforma prevede, con gli stessi limiti e condizioni sopra evidenziati, che ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni corrispondenti al livello inferiore possano essere previste dai contratti collettivi: le “ulteriori ipotesi” devono comunque essere tali da contemperare l’interesse dell’impresa con l’interesse del lavoratore alla professionalità “la cui lesione ha un rilievo che oltrepassa quello puramente economico, come risulta anche dalla giurisprudenza in tema di danno alla professionalità”.8

Per quanto riguarda, invece, il demansionamento consensuale, il nuovo art. 2103 c.c. consente al datore di lavoro e al lavoratore di accordarsi per modificare in pejus le mansioni, la categoria, il livello di inquadramento e la relativa retribuzione.

 

Tale ipotesi di demansionamento è dunque consentita senza i limiti previsti per quelle unilaterali: il lavoratore può essere adibito a mansioni appartenenti a una categoria legale inferiore e anche a più livelli inferiori di inquadramento e ricevere una retribuzione inferiore. Tuttavia, l’accordo è legittimo solo se raggiunto nelle sedi cosiddette protette di cui all’art. 2113, comma 4 c.c. (Dtl, sede sindacale e giudiziaria, commissioni di certificazione) e a condizione che la modifica abbia uno dei seguenti scopi:

  • salvaguardare il posto di lavoro del dipendente (es. per evitare un licenziamento per motivo oggettivo); la giurisprudenza più recente annovera in questa previsione l’inidoneità sopravvenuta del lavoratore allo svolgimento di mansioni precedenti9;
  • acquisire una diversa professionalità; • migliorare le sue condizioni di vita (es. per ottenere il trasferimento in una unità produttiva più vicina alla propria abitazione, il lavoratore accetta una diversa categoria di inquadramento pur di veder realizzato il proprio obiettivo di una migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro)10.

In sostanza, con la previsione espressa di un’ipotesi di demansionamento consensuale il Legislatore sembra fare proprio l’orientamento della giurisprudenza ante Jobs Act che, in nome del diritto alla conservazione del posto di lavoro, considerato preponderante rispetto a quello della salvaguardia della professionalità, consentiva i patti di demansionamento come extrema ratio per evitare il licenziamento. La sostanziale differenza tra il patto di demansionamento riconosciuto dalla giurisprudenza e quello disciplinato dal Jobs Act risiede nel fatto che mentre per i giudici l’accordo era legittimo a condizione che fosse finalizzato solo ed esclusivamente alla conservazione del posto di lavoro, il patto previsto dal Legislatore della riforma ha un oggetto più ampio: è legittimo non solo se fatto per tutelare il posto di lavoro, ma anche se finalizzato all’acquisizione di una diversa professionalità11 o al miglioramento delle condizioni di vita.

LO IUS VARIANDI VERSO L’ALTO

Anche la nuova formulazione dell’articolo 2103 c.c. prevede il diritto del lavoratore all’assegnazione a mansioni superiori in caso di svolgimento delle medesime protratto nel tempo12. Tuttavia, il Legislatore del 2015 ha introdotto alcune importanti novità, tra le quali rileva in particolare la definitività dell’assegnazione dopo sei mesi continuativi, e non tre come in precedenza, dando così più tempo al datore per valutare l’idoneità del lavoratore al superiore incarico.

Non solo: la contrattazione collettiva può prevedere un termine anche più lungo dei sei mesi.13 È evidente, dunque, che anche in materia di adibizione a mansioni superiori si è verificato un significativo allargamento dei margini di flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro a cui si accompagnano, tuttavia, alcune preclusioni:

  • la “diversa volontà del lavoratore” che può, dunque, rinunciare al diritto all’assegnazione definitiva delle mansioni superiori; anche il riconoscimento di un superiore inquadramento, infatti, potrebbe comportare conseguenze non sempre favorevoli quali, ad esempio, la perdita del diritto alle maggiorazioni per lavoro straordinario (che non spettano agli impiegati direttivi, ai quadri e ai dirigenti) o la mancata applicazione della tutela legale contro i licenziamenti illegittimi (non spettante ai dirigenti, che sono licenziabili ad nutum);
  • la sostituzione di altro lavoratore in servizio: mentre il vecchio 2103 c.c. faceva riferimento alla “sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto”, così includendo i lavoratori in malattia o le lavoratrici in maternità, ma escludendo i lavoratori in ferie, il nuovo 2103 c.c. parla di “ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio”, ampliando in tal modo il ventaglio di casi in cui non è possibile maturare il diritto alla promozione automatica.

Dal punto di vista letterale il riferimento all’assegnazione a mansioni superiori appare poco coerente con quello sottostante all’intera disposizione, ove il termine di comparazione è rappresentato dai livelli di inquadramento e dalle categorie legali, anche se si è giustamente evidenziato che “una interpretazione coerente con il comma 1 della medesima disposizione impone di intendere tale assegnazione come quella riferita a mansioni riconducibili al livello di inquadramento superiore a quello di appartenenza” 14 e, ricorrendone i presupposti, alla diversa categoria legale.

Ovviamente la novella non ha rimosso l’ipotesi di cumulo di mansioni, alcune della quali riconducibili ad un livello di inquadramento superiore rispetto a quello di appartenenza, operando tutt’ora il criterio della prevalenza declinato in senso quantitativo.

 

 

 

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in MGL, 1/2022, pag. 107 ss dal titolo Lo ius variandi tra categorie e livelli.

1. Si rinvia a D. Garofalo, Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative, in AA.VV., Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e collettivi. Atti delle Giornate di studio di diritto del lavoro AIDLASS, Cassino 18-19 maggio 2017, Milano, 2018, p. 17 ss., nonché ai riferimenti bibliografici ivi contenuti.
2. M. Brollo, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in Arg. dir. lav., 2015, p. 1156; Ead., Capitolo XXI. Inquadramento e ius variandi, in G. Santoro Passarelli (a cura di), Trattato di diritto del lavoro, Torino, 2017, pp.
768-772.
3. G. Santoro Passarelli, Trasformazioni socioeconomiche e nuove frontiere del diritto del lavoro. Civiltà giuridica e trasformazioni sociali nel diritto del lavoro, in Dir rel. ind., 2019, p. 417 ss

4. Cfr. M. Weiss, La sfida regolatoria per i nuovi mercati del lavoro: verso un nuovo diritto del lavoro? in Professionalità Studi, 2018, II, n. 1, Professionalità e contrattazione collettiva, p.9 ss.

5. F. Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disci- plina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n.
81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislati- va in materia di rapporto di lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, 2015, spec. p. 9.
6. Parla di riscoperta delle categorie legali L. Paolitto, La nuova nozione di equivalenza delle mansioni. La mobilità verso il basso: condizioni e limiti, p. 155 ss

7. R. Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè Francis Lefebvre, XII edizione, 2020, pag. 505.
8. R. Del Punta, F. Scarpelli (a cura di), con la collaborazione di M. Marrucci e P. Rausei, Codice commentato del lavoro, Commentari Ipsoa, I edizione, 2019, pag. 445.
9. Così M. Brollo, Capitolo XXI. Inquadramento e ius variandi, p. 837.

10. Sul punto v. B. Caruso, The bright side of the moon: politiche del lavoro personalizzate e promozione del welfare occupazionale, in Riv. it. dir. lav., 2016, I, p. 177 ss.
11. Cfr. Cass., Sez. lav., 19 novembre 2015, n. 23698.

 

12. Cfr. Cass., Sez. lav., 11 ottobre 2019, n. 25673, secondo cui l’assegnazione a mansioni diverse da quelle di assunzione determina il diritto del lavoratore all’inquadramento superiore di cui all’art. 2103 c.c., anche quando le prime siano solo prevalenti rispetto agli altri compiti affidatigli, non richiedendo la predetta norma lo svolgimento di tutte le mansioni proprie della qualifica superiore, ma solo che i compiti affidati al lavoratore siano superiori a quelli della categoria in cui è inquadrato.
13. Ritiene la contrattazione collettiva fonte privilegiata e libera, M. Brollo, Capitolo XXI. Inquadramento e ius variandi, p. 842. Sul punto v. anche F. D’Addio, La tutela e lo sviluppo della professionalità nella più recente contrattazione collettiva, p. 82.
14. Così M. Falsone, La professionalità e la modifica delle mansioni: rischi e opportunità dopo il Jobs Act, p. 36, nota 18.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

Divieto emergenziale dei licenziamenti applicabile anche ai dirigenti? UNA PRONUNCIA POCO PERSUASIVA *

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro Studi e Ricerche

Rossana Detomi analizza l’ordinanza n. 96447 del Tribunale di Roma

In relazione a un tema tuttora ostico e nebuloso quale l’operabilità o meno del blocco dei licenziamenti anche ai lavoratori apicali, la giurisprudenza è di nuovo intervenuta con l’ordinanza del Tribunale di Roma del 16 ottobre 2021, n. 96447.
Quest’ultima si inserisce in un quadro alquanto complesso e contraddittorio: la questione in esame era già stata portata all’attenzione del giudice capitolino il quale, a distanza di un paio di mesi, era addivenuto a due conclusioni
di segno opposto.

IL CASO
L’ordinanza in esame riguarda il licenziamento intimato a un dirigente per motivi oggettivi consistenti nella soppressione della sua posizione lavorativa a seguito di un processo di riorganizzazione che avrebbe determinato
non solo la chiusura della sede presso la quale svolgeva le sue funzioni, ma anche la distribuzione di queste ultime tra gli altri dipendenti.
Impugnando il licenziamento, il dirigente ne contesta l’illegittimità sotto diversi profili, tra i quali emerge la violazione del divieto dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ex art. 3, L. n. 604/1966, introdotto con l’art. 46, D.l. n. 18/2020 e vigente, alla data del licenziamento, ai sensi dell’art. 14, D.l. n. 104/2020.
Nonostante siano intervenute successive pronunce di segno opposto, il giudice si ricollega all’orientamento introdotto dal Tribunale di Roma1 e ritiene il licenziamento nullo per contrasto con il divieto, disponendo la reintegrazione del dirigente ex art. 18, comma 1, L. n. 300/1970.
Il caso risulta interessante poiché il dubbio interpretativo sussiste tuttora: il legislatore, nei tanti decreti-legge adottati, non l’ha mai sciolto.

IL LICENZIAMENTO DEI DIRIGENTI AL TEMPO DEL COVID-19
Dall’inizio dell’emergenza sanitaria sono stati adottati molti provvedimenti straordinari, il più innovativo dei quali è stato il divieto di licenziamento introdotto dall’art. 46, D.l. n. 18/20202.
La norma, di volta in volta procrastinata in ragione del perdurare dello stato di crisi disponeva che il divieto riguardava i licenziamenti collettivi ai sensi degli artt. 4, 5 e 24, L. n. 223/1991 e quelli individuali per giustificato
motivo oggettivo ex art. 3, L. n. 604/1966. Il dubbio relativo all’applicabilità del divieto di licenziamento anche al dirigente è sorto già dalla formulazione letterale dell’art. 46 secondo cui il dirigente è escluso dall’ambito soggettivo
di applicazione della L. n. 604/1966.
Il licenziamento del dirigente è infatti incardinato su un criterio di “giustificatezza”, introdotto dalla contrattazione collettiva che, secondo la giurisprudenza consolidata e pacifica3, non collima (concettualmente, oltre che lessicalmente con il giustificato motivo oggettivo. In particolare, la giustificatezza non coincide con l’impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di  grave crisi aziendale tale da rendere impossibile
o onerosa tale prosecuzione4 ma presuppone  solo l’esigenza, economicamente apprezzabile in termini di risparmio, della soppressione della figura dirigenziale in attuazione di un riassetto aziendale, purché non emerga, in base a elementi oggettivi, la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione5.

L’ESTENSIONE DEL DIVIETO DI LICENZIAMENTO AL PERSONALE DIRIGENTE: LO SPUNTO INTERPRETATIVO DEL TRIBUNALE DI ROMA
Come anticipato, nell’ordinanza in esame il giudice si ricollega all’impostazione introdotta dal Tribunale di Roma con la pronuncia del 26 febbraio 2021, riesponendo le medesime argomentazioni.
Il Giudice del Lavoro fornisce una soluzione positiva in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata e a una lettura di tipo teleologico del dato normativo a sua disposizione, individuando la ratio del divieto “nell’evitare che le conseguenze economiche della  pandemia si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro” 6 e ritenendo tale esigenza comune anche ai dirigenti che addirittura “sono più esposti a tale rischio data la
maggiore elasticità del loro regime contrattualcollettivo di preservazione dai licenziamenti arbitrari rispetto a quello posto dall’art. 3” 7. Pertanto, la loro esclusione dall’ambito applicativo del divieto rappresenta una soluzione in
aperto contrasto con l’art. 3 Cost.8, distonica e poco razionale rispetto all’intento solidaristico di difesa sociale del legislatore emergenziale. La seconda direttrice argomentativa è incentrata su un criterio logico di ragionevolezza,
imposto dalla considerazione per cui i dirigenti risultano pacificamente inclusi nel divieto dei licenziamenti collettivi ex art. 24, Legge n. 223/19919.
Infine, viene valutata la distanza concettuale tra giustificato motivo oggettivo e giustificatezza oggettiva in maniera non dogmatica: il  concetto di giustificato motivo oggettivo, enunciato in quest’ultima norma, condivide la medesima essenza con la giustificatezza oggettiva del licenziamento del dirigente, posto che anch’essa “attiene comunque a ragioni inerenti  all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di esso”.
Questa pronuncia sembra trasformare il licenziamento ad nutum del dirigente in un licenziamento “titolato”, riconducendolo nell’alveo dell’art. 3, L. n. 604/1966 10.
Tuttavia, non sono presi in considerazione due ostacoli che inevitabilmente si frappongono a tale estensione.
Il primo, letterale, dell’applicazione di una norma (l’art. 3, L. n. 604/1966) fondata su un concetto non applicabile al dirigente 11; il secondo, oggettivo, rappresentato dal risultato  pratico di scardinare il binomio “divieto di licenziamento-trattamento di integrazione salariale”, posto che il costo del lavoro del dirigente in esubero non trova adeguato bilanciamento in alcuna misura di sostegno ed è, pertanto, imposto a carico del datore, costringendolo
ad adoperarsi con soluzioni innovative per il recupero dell’equilibrio gestionale 12.

REVIREMENT DEL TRIBUNALE DI ROMA: IL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI NON SI APPLICA AI DIRIGENTI
In totale contrapposizione si è espresso il Tribunale di Roma a due mesi di distanza con la sentenza n. 3605 del 19 aprile 202113. Le motivazioni di tale decisione, all’interno di un ben strutturato iter argomentativo, si basano fondamentalmente su due pilastri.
In primo luogo, viene in rilievo il dato letterale dell’art. 46 del Decreto legge n. 18/2020 a norma del quale il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti,  non può recedere dal contratto per giustificato
motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della Legge n. 604/1966. Sul punto, il Tribunale ricorda come quest’ultima
disposizione “non si applica ai dirigenti sia per espressa previsione normativa sia per consolidato principio giurisprudenziale”.
In secondo luogo, il Giudice pone in evidenza un ulteriore elemento fondamentale, che tuttavia non era stato considerato nell’ordinanza del 26 febbraio.
Infatti, per il Tribunale di Roma “il dato letterale, e cioè l’esclusione della figura del dirigente  convenzionale dal blocco dei licenziamenti, risulta coerente con lo spirito che sorregge l’eccezionale ed emergenziale previsione del blocco dei licenziamenti” e che ha portato a un pressoché generalizzato ricorso agli ammortizzatori sociali.
Il sistema di tutele adottato in fase emergenziale si fonda infatti sulla simmetria tra il blocco dei licenziamenti e l’utilizzo di ammortizzatori sociali attraverso i quali il costo del lavoro è posto a carico della collettività.
Ebbene, il Giudice chiarisce che “con riguardo ai dirigenti detto binomio non può stare in piedi, poiché a questi ultimi non è consentito, almeno in pendenza del rapporto di lavoro, di accedere agli ammortizzatori sociali”. Di conseguenza, laddove il blocco dei licenziamenti fosse esteso anche ai dirigenti, il datore di lavoro non sarebbe in grado di adottare una soluzione alternativa idonea a garantire, come agli altri dipendenti, il reddito e la tutela occupazionale senza costi aggiuntivi.
Si determinerebbe così una “incoerenza costituzionale” tra l’estensione del blocco dei licenziamenti ai dirigenti e il principio di libertà dell’iniziativa economica sancito dall’art. 41 della Costituzione.
La sentenza smentisce infine le argomentazioni di chi, ritenendo il blocco dei licenziamenti applicabile anche ai dirigenti, considera irragionevole la scelta di proteggerli nell’ambito dei licenziamenti collettivi e non nell’ambito
dei licenziamenti individuali. Il Tribunale di Roma giustifica tale diversità di trattamento in ragione della diversità delle due fattispecie ovverosia, da un lato, il dirigente coinvolto in una procedura collettiva unitamente ad altri dipendenti protetti e dall’altro il dirigente destinatario del licenziamento economico individuale.

ULTERIORI ELEMENTI A SOSTEGNO DELL’ESCLUSIONE DEI DIRIGENTI DAL CAMPO DI APPLICAZIONE DEL DIVIETO

L’ordinanza in commento se dapprima conferma che “la disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi n. 604 del 1966 e St. lav. non è applicabile” ai dirigenti, subito dopo, nel constatare che il primo divieto posto
dall’art. 14, comma 1, D.l. n. 104/2021 concerne le procedure di mobilità e che “pertanto, il blocco dei licenziamenti collettivi riguarda senza alcun dubbio anche il personale con qualifica dirigenziale”, evidenzia come “il riferimento al
giustificato motivo oggettivo, sebbene completato dal riferimento ad una legge non applicabile ai dirigenti, non deve necessariamente essere inteso come richiamo complessivo alla legge 604/66”. Quest’ultima affermazione merita un’analisi  alla luce della norma guida dell’interpretazione giuridica: vale a dire l’art. 12, comma 1, prel. c.c.
Tale disposizione prevede, infatti, che “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato  proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.

L’interprete – come fatto, in parte, dal giudicante – dovrebbe considerare due importanti articoli della L. n. 604/1966 per risolvere l’arcano  circa l’applicazione del blocco di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo anche al dirigente: gli artt. 10 ed 11. Il primo esclude esplicitamente l’applicazione della L. n. 604/1966 alla categoria dei dirigenti. Il secondo – questo è il punto dirimente – dispone che “la materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale è esclusa dalle disposizioni della presente legge”.
Quod lex excludit, addere non potest 14.

L’INCIDENZA DEL DIVIETO CONDIZIONATO DELL’ART. 14, D.L. N. 104/2020 E DEL SUO CONTROVERSO AMBITO DI APPLICAZIONE

Nell’ordinanza in esame si legge che, alla data del licenziamento del dirigente, era ancora in vigore il divieto di licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 14, comma 1, D.l. n. 104/2020, “sia pure condizionato alla fruizione integrale dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili  all’emergenza epidemiologica da Covid- 19 ovvero in alternativa all’esonero dal versamento dei contributi previdenziali”.
Secondo l’orientamento che il giudice sembra accogliere, il termine “fruizione” utilizzato dal Legislatore, accompagnato per di più dall’avverbio “integralmente”, richiama la condizione del datore di lavoro non già che è teoricamente  legittimato, bensì che si avvale delle integrazioni o dell’esonero e, conseguentemente, viene assoggettato al divieto di licenziamento 15.
Pertanto, il fatto costitutivo del divieto va intercettato nella fruizione delle integrazioni o dell’esonero in forza delle condizioni previste dal legislatore, la cui mancanza sarà sufficiente affinché il datore di lavoro non vi sia assoggettato 16.
Il risultato è un divieto di licenziamento più malleabile rispetto a quello dell’art. 46, perché non opera in modo generalizzato e indistinto, oltreché mobile in quanto la sua durata è variabile e coincide con l’arco temporale
all’interno del quale si esaurisce l’integrale utilizzo delle integrazioni o dell’esonero 17. In conclusione, anche se la rilevanza della discussione è stata ridimensionata dai successivi provvedimenti di proroga (i quali, forse
proprio per evitare incertezze interpretative, non hanno replicato la formula dell’art. 14), qualora nel caso in esame abbracciassimo la tesi del divieto flessibile, a maggior ragione  apparirebbe difficile sostenere l’estensione
del divieto al dirigente.
Infatti, dovrebbe considerarsi che l’art. 14 individuava come destinatari del divieto solo i datori di lavoro che decidessero di avvalersi, ricorrendone i presupposti, del trattamento di integrazione salariale o in alternativa dell’esonero contributivo, mentre erano immuni dal divieto i soggetti non aventi diritto a fruire di tali istituti 18 e anche coloro che, pur potendone fruire, scegliessero di non farlo, assumendo da subito “la decisione di modificare la
struttura organizzativa della propria azienda, procedendo alla soppressione in via definitiva di posti di lavoro (e quindi licenziando)” 19.

 

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato ne LG, 4/2022, pag. 403 dal titolo Il problema dell’applicabilità del divieto di licenziamento individuale per g.m.o. al personale dirigente.
1. Trib. di Roma, ord., 26 febbraio 2021, in Cassazione.net, 1° marzo 2021, con nota di D. Ferrara.
2. Sul tema v. G. Proia, Divieto di licenziamento e principi costituzionali, in G. Proia (a cura di), Divieto di licenziamento e libertà d’impresa nell’emergenza Covid. Principi costituzionali, Torino, 2020, 3 ss.; M. Miscione, Il diritto del lavoro ai tempi orribili del coronavirus, cit., 221 ss.; A. Ripa – S. Garzena, Coronavirus e divieti
di licenziamento: più dubbi che indicazioni, in Dir. prat. lav., 2020, 14, 871 ss.

3. Sul tema v.: Cass. Civ. 22 giugno 2006, n. 14461, secondo cui “Il rapporto di lavoro dei dirigenti, anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 108/1990 , non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli art. 1 e 3 , legge n. 604/1966 , non avendo la suddetta legge n. 108 inciso sull’art. 10 della legge n. 604,
con la conseguenza che nel suddetto rapporto di lavoro la stabilità può essere assicurata soltanto mediante l’introduzione ad opera dell’autonomia collettiva o individuale di limitazioni alla facoltà di recesso del datore di lavoro.”. In senso analogo anche Cass. Civ. 11 giugno 2008, n. 15496 e Cass. Civ. 15 dicembre 2009, n. 26232.

4. Cass. Civ. 13 gennaio 2020, n. 396; Cass. Civ. 3 dicembre 2019, n. 31526; Cass. Civ. 2 ottobre 2018, n. 23894.
5. Cass. Civ. 5 aprile 2019, n. 9665; Cass. Civ. 3 dicembre 2019, n. 31526; Cass. Civ. 17 gennaio 2005, n. 775; Cass. Civ. 8 marzo 2012, n. 3628; in tutte si precisa che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare  la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost. Sulla nozione di giustificatezza v. R. Riccardi, Licenziamento del dirigente – La nozione di  giustificatezza” in caso di licenziamento del dirigente, in Giur. it., 2015, 1456 ss.; E. Menegatti, La “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, in Arg. dir. lav., 2010, 1, 212 ss.; Il licenziamento dirigenziale tra giustificatezza e
recesso ad nutum, in questa Rivista, 2010, 8, 229 ss.

6. Trib. di Roma, ord., 26 febbraio 2021, cit.
7. Trib. di Roma, Ibidem.
8. Evidenza M. De Luca, Blocco dei licenziamenti al tempo del Covid-19: alla ricerca delle tipologie, cit., che la differenziazione di trattamento dei dirigenti in punto di soggezione al blocco dei licenziamenti, risulta incoerente con una lettura “costituzionalmente orientata” della disciplina in relazione al principio di uguaglianza, anche sotto
il profilo della ragionevolezza; in particolare, l’autore ricorda che nel difetto di “situazioni idonee a giustificare un regime eccezionale (…)” (v. Corte cost. 22 maggio 1987, n. 180, in Foro it., 1987, 1, 939), la particolare condizione del dirigente non è, da sola, sufficiente a giustificarne differenziazioni di trattamento.
9. Con sentenza Corte di Giustizia UE 13 febbraio 2014, la ha accertato la violazione da parte dell’Italia della Dir. del Consiglio europeo 98/59/CE per la mancata previsione dell’obbligo di applicare anche ai dirigenti le tutele per i licenziamenti collettivi; pertanto, l’art. 24, L. n. 223/1991, così come novellato dall’art. 16 , L. n. 161/2014, prevede
oggi al comma 1-quinquies, l’applicazione delle maggior parte delle disposizioni di cui all’art. 4, L. n. 223/1991 anche al caso in cui “l’impresa o il datore di lavoro non imprenditore […] intenda procedere al licenziamento di uno o
più dirigenti”; a riguardo v. M. Miscione, I dirigenti per la Corte europea equiparati ad operai ed impiegati solo per i licenziamenti collettivi – Il commento, in questa Rivista, 2014, 3, 233 ss.
10. M. Agostini – M. Ercoli, Il licenziamento del dirigente ai tempi del Covid – nota a Tribunale di Roma, sez. Lav. 26.2.2021, cit., 12.
11. Cass. Civ. 2 ottobre 2018, n. 23894.
12. Sul punto vedi G. Piglialarmi, Percorsi di giurisprudenza – Il divieto di licenziamento sotto la lente dei giudici: le prime pronunce, in Giur. it., 2021, 2249 ss. e M. Agostini – M. Ercoli, Il licenziamento del dirigente ai tempi del Covid – nota a Tribunale di Roma, sez. Lav. 26.2.2021, cit., 2 ss.

13. Per una ricostruzione delle motivazioni della sentenza v. P.E. Pedà, Sull’applicabilità del blocco dei licenziamenti
ai dirigenti: prime decisioni di merito, in Mass. Giur. lav., 2021, 3, 769 ss.

14. M. Verzaro, Il blocco dei licenziamenti si applica  anche ai dirigenti? Forse, no. In Labor, 17 dicembre 2017.
15. A. Maresca, Il divieto di licenziamento per Covid è diventato flessibile (prime osservazioni sull’art. 14, DL n. 104/2020), in Labor, 29 settembre 2020), 6.
16. A. Maresca, Ibidem. In tal senso anche M. Verzaro, La condizionalità del divieto di licenziamento, 5 ss., che aggiunge: “Il Governo limita, così, l’efficacia dell’art. 14 ai datori di lavoro privati che sono in crisi a causa di eventi riconducibili all’emergenza Covid-19 e che possono, pertanto, beneficiare di una delle due misure previste per gli stessi al fine del mantenimento dell’occupazione. Sono, pertanto, esclusi dalla sospensione e dal divieto di  licenziamento tutti quei datori di lavoro che avviano procedure di licenziamento collettivo ovvero licenziamento
per g.m.o. per eventi – si badi – non riconducibili all’emergenza Covid-19. Ciò apre, naturalmente, ampi problemi di prova a carico del datore per sostenere la legittimità del licenziamento poiché dovrà, quindi, dimostrare l’estraneità dell’eziologia della riduzione o trasformazione di attività o di lavoro ovvero del giustificato motivo oggettivo
all’attuale situazione di crisi intra-pandemica.
E, a tal proposito, non e sarà, a mio avviso, facile nemmeno per il giudice valutare tale estraneità vista l’immane permeabilità del fenomeno Covid- 19 nelle logiche aziendali e di mercato.”
17. A. Maresca, Il divieto di licenziamento per Covid è diventato flessibile, cit., 2.
18. Ipotesi, quest’ultima, che “si fonda su una lettura pregnante del requisito causale della CIG-Covid ex art. 1, ovvero della necessità di una sospensione o riduzione dell’attività lavorativa ’per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica’” (F. Scarpelli, I licenziamenti economici come (temporanea) extrema ratio: le proroghe del blocco dal d.l. 104/2020 alla Legge di Bilancio 2021, cit., 5 ss.).
19. A. Maresca, Il divieto di licenziamento per Covid è diventato flessibile, cit., 9. Secondo l’autore non configura sospensione o riduzione del lavoro, quindi “causale Covid-19”, la decisione del datore di lavoro di dare un diverso assetto alla struttura della propria impresa, con una modifica dell’articolazione organizzativa che comporti la definitiva chiusura di un’unità  produttiva a cui sono addetti dei dipendenti oppure la soppressione di alcune posizioni di lavoro (come avviene nell’ordinanza in esame); non trattandosi né di una temporanea sospensione
di attività né di una riduzione di orario di lavoro, ma bensì della definitiva soppressione del posto di lavoro conseguente ad una decisione organizzativa del datore, questi non avrà diritto  di fruire delle integrazioni e, pertanto,
non sarà soggetto al divieto di licenziamento.

Preleva l’articolo completo in pdf

PROCEDURE DELLA COMPOSIZIONE NEGOZIATA DELLA CRISI D’IMPRESA: profili di diritto sindacale e del lavoro *

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro Studi e Ricerche

G. R. Simoncini si interroga circa la sorte del rapporto di lavoro nella composizione negoziata della crisi d’impresa

 

Con il presente contributo l’Autrice esamina l’istituto della composizione negoziata della crisi, evidenziando i profili di diritto sindacale e di diritto del lavoro che caratterizzano la procedura.

L’INNOVATIVA PROCEDURA DI COMPOSIZIONE NEGOZIATA DELLA CRISI

Il D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico il c.d. “Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza” 1 ma attualmente il numero delle norme del Codice (di seguito CCII) già vigenti è assai limitato, mentre l’entrata in vigore della maggior parte delle disposizioni, prevista per lo scorso 16 maggio 2022, è stata più volte posticipata. L’elemento saliente di tale provvedimento è il tentativo di far emergere in maniera anticipata la crisi dell’impresa, allo scopo di risolvere – ben prima della fase insanabile di liquidazione giudiziale – le problematiche connesse all’esercizio di impresa, con conseguente tutela degli interessi dei creditori e dei posti di lavoro dei prestatori di lavoro e non solo dei loro crediti. Quest’ultimo aspetto merita un’ulteriore precisazione in quanto la conservazione dei rapporti in essere, interpretata come continuità aziendale, rappresenta la forma più compiuta di protezione che pu  essere garantita al lavoratore, non disperdendo il bagaglio professionale acquisito, come invece avviene nel caso di altre soluzioni operative e giuridiche (licenziamento individuale o collettivo, in particolare) che, pur consentendogli una stabilità economica, attraverso strumenti di sostegno al reddito2, lo allontanano dal mercato del lavoro. Peraltro, l’obiettivo di armonizzare le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza del datore di lavoro, grazie al ricorso a forme di tutela dell’occupazione del reddito, è richiesto sia dalla Carta Sociale Europea che dalla Dir. EU n. 2019/1023, riguardante i “quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione” (c.d. Direttiva Insolvency), il cui termine di recepimento del nostro ordinamento è previsto per il 17 luglio 2022.

Il Legislatore – in attesa di recepire nel nostro ordinamento la suddetta direttiva e ritenuta l’opportunità di disporre il rinvio dell’entrata in vigore del CCII attraverso la disposizione di cui all’art. 1, D.l. 24 agosto 2021, n. 1183  –  ha contestualmente optato per l’introduzione con il medesimo decreto-legge della innovativa procedura di composizione negoziata della crisi.

 

IL SUPERAMENTO DELLE CONDIZIONI DI SQUILIBRIO PATRIMONIALE O ECONOMICO-FINANZIARIO

Il D.l. 24 agosto 2021, n. 118 ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico l’istituto della composizione negoziata per la soluzione della crisi di impresa, quale strumento finalizzato al risanamento delle imprese in difficoltà finanziaria.

Al riguardo, è opportuno rilevare come il punto di contatto tra il “Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza” e la “Composizione negoziata della crisi” sia la tutela dell’impresa che si trovi in una situazione di squilibrio finanziario serio, tale da ingenerare il rischio di insolvenza, al fine di salvaguardare per quanto possibile l’attività aziendale.

La grande diversità invece risiede nel dato cronologico: il CCII è stato concepito prima della pandemia quale sostegno alle imprese con difficoltà, basandosi su una situazione di mercato stabile e cioè caratterizzata da oscillazioni fisiologiche. Ma vi è di più.

Il CCII risulta essere poco utilizzabile nella fase pandemica, in quanto gli indicatori che lo caratterizzano non solo non riuscirebbero nell’intento di svolgere alcun ruolo selettivo4, ma addirittura genererebbero effetti potenzialmente sfavorevoli5.

Di contro, la composizione negoziata della crisi è stata progettata durante la pandemia e ci  ha fatto sì che essa nascesse come procedura snella e immediata attraverso la quale viene garantita la possibilità6 all’imprenditore che si trovi in una situazione di squilibrio patrimoniale, o economico-finanziario, di chiedere la nomina di un esperto indipendente se risulta perseguibile il risanamento dell’impresa7. L’esperto – nelle vesti di facilitatore – assume il compito di agevolare le negoziazioni tra l’imprenditore, i creditori e gli “eventuali altri soggetti interessati”, quali i lavoratori, allo scopo di individuare una soluzione idonea allo sbilanciamento dell’impresa, proponendo anche accordi volti al trasferimento d’azienda e/o di alcuni rami della stessa8.

La necessità è che egli sia terzo rispetto a tutte le parti, sancendo quindi la necessità di una limpidezza procedimentale, slegata da ipotetici (ma probabili) conflitti di interessi, che miri al risanamento aziendale attraverso una modalità operativa professionale e imparziale. L’esperto va quindi inteso come figura che “serve a dare forza e credibilità alla posizione dell’impresa”, conferendo alle trattative “un elevato livello di sicurezza ed elimina il dubbio dell’esistenza di possibili atteggiamenti dilatori e poco trasparenti tenuti dalle parti coinvolte” 9. Una volta accettato l’incarico, l’esperto deve convocare senza indugio10 l’imprenditore per valutare la concreta prospettiva di risanamento, anche sulla base delle informazioni assunte dall’organo di controllo o dal revisore legale. A seguito del confronto, si possono quindi aprire due strade: qualora sussista una prospettiva di risanamento, l’esperto incontrerà le parti interessate, indicando le strategie di intervento11; nel caso in cui, invece, la situazione aziendale sia già compromessa verrà informato sia l’imprenditore che la Camera di Commercio territorialmente competente, allo scopo di disporre l’archiviazione della domanda di composizione negoziata. La composizione negoziata è, peraltro, una procedura esclusivamente volontaria, attivabile dalle sole imprese che decidano di farvi ricorso, incentivate da una serie di misure protettive, cautelari e premiali12. In effetti, l’auspicio che un imprenditore affidasse a un terzo sconosciuto dati sensibili della propria azienda, non avrebbe di certo potuto riscuotere consensi senza adeguati vantaggi economici e giuridici. A fronte del sintetico quadro appena tratteggiato, emerge come nella procedura di composizione negoziata della crisi si registri – rispetto all’impostazione del CCII – un rilevante indebolimento della figura del giudice, il quale ha la possibilità di entrare in gioco solo in una fase successiva, su istanza del debitore, rappresen- ! tando una mera eventualità rispetto alla procedura di composizione negoziata.

L’esperto, da un lato, non ha l’obbligo di riferire ad alcuna autorità e, dall’altro, l’intervento giudiziale è meramente eventuale nell’ipotesi in cui la composizione negoziata funzioni. Di contro, l’agilità procedimentale che caratterizza l’impianto del D.l. n. 118/2021 pu  solo dirigersi verso un tentativo di salvaguardia dell’impresa che non sembra imporre la realizzazione di un sistema efficiente13 e anzi potrebbe avallare il c.d. rischio di selezione avversa14: in altre parole, la composizione negoziata della crisi “potrebbe consentire alle imprese meno efficienti di beneficiare di misure e risorse (queste ultime per definizione scarse, ed insufficienti) che dovrebbero essere destinate altrove” 15. In sintesi, stiamo parlando di uno strumento di regolazione della crisi di tipo negoziale16 e cioè di una tipologia del tutto opposta rispetto alla natura concorsuale del CCII.

 

I DIRITTI DEI LAVORATORI E IL RUOLO DEI RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI NEL D.L. N. 118/2021

a) Le misure protettive del patrimonio e l’esclusione da esse dei diritti di credito dei lavoratori

L’imprenditore pu  chiedere, con l’istanza di nomina dell’esperto o con successiva istanza, l’applicazione di misure protettive del patrimonio17: dal giorno della pubblicazione dell’istanza, i creditori non possono acquisire diritti di prelazione se non concordati con l’imprenditore, né possono iniziare, o proseguire, azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l’attività d’impresa.

Tuttavia, sono esclusi dalle misure protettive i diritti di credito dei lavoratori18.

In altri termini, i lavoratori potranno far valere i loro crediti senza limitazioni avvalendosi del privilegio generale di cui all’art. 2751 bis c.c., con cio’  a dire che restano esclusi dalle misure protettive i diritti di credito dei lavoratori così come i contributi previdenziali, sebbene titolari di tali crediti siano gli enti previdenziali.

b) La rinegoziazione dei contratti ad esecuzione continuata o periodica

All’esperto è data la possibilità di invitare le parti a rideterminare il contenuto dei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero quelli a esecuzione differita, qualora la prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa proprio a causa della pandemia19. Nel caso in cui, invece, non vi sia l’accordo tra le parti, il tribunale su domanda dell’imprenditore, sentito il parere dell’esperto e le ragioni di diniego dell’altro contraente, pu  rideterminare equamente le condizioni del contratto quale misura indispensabile per garantire la continuità aziendale.

Ma in un’ottica di salvaguardia e tutela del lavoratore, viene altresì sancita l’esclusione della rinegoziazione per le prestazioni oggetto di contratti di lavoro dipendente20.

 

c). L’obbligo di informazione sindacale

L’art. 4, comma 8, D.l. n. 118/2021 prevede un’ipotesi specifica di informazione sindacale nell’ambito della composizione negoziata della crisi.

La norma stabilisce che il datore di lavoro che occupa complessivamente più di 15 dipendenti21 è tenuto a informare le organizzazioni sindacali se nel corso della procedura debbono essere assunte “rilevanti determinazioni che incidono sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori” come nel caso di modifiche che riguardino l’organizzazione di lavoro o lo svolgimento delle prestazioni di lavoro. Tale obbligo di informazione con comunicazione scritta, trasmessa anche tramite PEC, deve essere assolto prima dell’adozione delle misure suscettibili di incidere a vario titolo sui rapporti di lavoro.

Ai soggetti sindacali, quindi, è attribuita la facoltà di chiedere un incontro entro tre giorni dalla ricezione della comunicazione-informativa, con obbligo di iniziare la consultazione con la presenza dell’esperto entro cinque giorni dal ricevimento dell’istanza, dovendosi esaurire tale confronto nell’arco di soli dieci giorni dal suo inizio. Il tutto caratterizzato da un vincolo di riservatezza rispetto alle informazioni “qualificate come tali dal datore di lavoro” ed emerse nella consultazione, e ci  in virtù di un “legittimo interesse dell’impresa”.

In tale ambito, peraltro, l’esperto non pare assumere in modo esplicito un ruolo particolarmente rilevante e infatti non sono presenti indicazioni sulle modalità di gestione dell’incontro, cioè sul ruolo che egli assume come parte della procedura, se non la sola previsione dell’importo del compenso per il lavoro svolto purché risultante dai rapporti redatti dallo stesso facilitatore22.

La composizione negoziata quindi, da un punto di vista giuslavoristico, ruota attorno a quelle rilevanti determinazioni che possono essere assunte nel corso della procedura, ex art. 4, comma 8, rivolte nei confronti di una pluralità di lavoratori e in grado di modificare l’organizzazione del lavoro o le modalità di svolgimento delle prestazioni. È il caso, ad esempio, dell’assegnazione a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, ma rientranti nella medesima categoria legale23, quale conseguenza della modifica degli assetti organizzativi aziendali, o come previsione dei contratti collettivi24.

Inoltre, potrebbe essere valutata una pluralità di accordi individuali25, realizzati dinnanzi alle commissioni di certificazione, finalizzati a prevedere modifiche delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento, nonché della retribuzione in ragione dello stato di crisi in cui versa l’impresa e in modo tale da assicurare al lavoratore la conservazione dell’occupazione.

Altre rilevanti determinazioni potrebbero riguardare la necessità di operare il trasferimento individuale o collettivo dei lavoratori, la cui condizione di legittimità risiede per l’appunto nell’esistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttivi26. Queste modifiche che, peraltro, nascono su iniziativa unilaterale del datore, per poi essere sottoposte anche alla valutazione dei soggetti sindacali, incontrano due evidenti nodi e cioè l’eccessiva celerità con cui deve svolgersi la consultazione e, poi, l’esistenza di un vincolo di riservatezza che, in tutta evidenza, incide esclusivamente sulla posizione dei soggetti sindacali. Un’osservazione: sebbene la composizione negoziata sia un procedimento stragiudiziale rafforzato e voglia discostarsi dagli strumenti di regolazione della crisi di tipo giudiziale, è ben comprensibile che possa caratterizzarsi per la celerità ma, in concreto, tempi stretti non possono che defluire in una tutela disequilibrata per i lavoratori nei confronti del datore di lavoro. In altre parole, la consultazione meriterebbe una tempistica più dilatata, perché funzionale alla conoscenza della reale situazione che coinvolge i lavoratori.

In merito poi al vincolo di riservatezza, è necessario sollevare un secondo opinabile aspetto. Dall’informativa sindacale potrebbero essere attivati anche dei contratti collettivi di prossimità27 al fine di realizzare specifiche intese finalizzate alla gestione della crisi aziendale, potendo operare anche in deroga sia alle disposizioni di legge che disciplinano le materie inerenti all’organizzazione del lavoro che alle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro.

Tale ipotesi, nella prassi, dovrebbe realizzarsi a seguito del confronto con i lavoratori, il che mal si concilia con la previsione28 secondo cui le informazioni rese dal datore di lavoro sono soggette al vincolo di riservatezza perché idonee a tutelare l’interesse dell’impresa. Pare affiorare un’aporia interpretativa del Legislatore perché non considera che la partecipazione informata e attiva delle parti sociali è lo strumento dedicato alla realizzazione dei diritti dei lavoratori, e cioè dei diritti sindacali connessi al rapporto di lavoro. A corollario, si aggiunga che la mancata o inesatta informazione dei soggetti sindacali circa le rilevanti determinazioni assunte dall’imprenditore, potrebbe comportare come diretta conseguenza l’attivazione della procedura relativa alla repressione della condotta antisindacale in capo al datore di lavoro29, per aver posto in essere un comportamento idoneo a impedire, o limitare, l’effettivo esercizio dell’attività sindacale.

d) Le procedure sindacali “prevalenti” rispetto a quelle previste dall’art. 4, comma 8, D.l. n. 118/2021

L’art. 4, comma 8, D.l. n. 118/2021, soffre per  di un’applicazione residuale e lo dimostra il fatto che non opera nei molteplici casi in cui il nostro Legislatore abbia previsto specifiche e diverse procedure di informazione e consultazione sindacale.

Di conseguenza non si applica laddove sussistano precisi obblighi di informazione e consultazione, a patto che essi siano già codificati, come nel caso dei licenziamenti collettivi30, della cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, o ancora, del trasferimento d’azienda di cui all’art. 2112 c.c.

Si constata quindi che la composizione negoziata della crisi configura una sorta di debolezza sistemica nei confronti delle organizzazioni sindacali chiamate a fornire un contributo “ridotto” in relazione alle eventuali modifiche che, a vario titolo, incidono sui rapporti di lavoro.

e) Il caso del trasferimento d’azienda

Il trasferimento di azienda rientra tra gli atti di straordinaria amministrazione e, da un punto di vista giuslavoristico, rappresenta una delle possibili soluzioni alla crisi aziendale. Al riguardo, l’art 47, L. n. 428/1990, prevede che nel caso di trasferimento d’azienda o di una parte di essa, in cui siano occupati più di quindici lavoratori ed effettuato ai sensi dell’art. 2112 c.c., il cedente ed il cessionario debbano darne comunicazione per iscritto almeno venticinque giorni prima ai soggetti sindacali. In particolare, dovranno informare le rappresentanze sindacali unitarie o quelle aziendali costituite, a norma dell’art. 19, L. n. 300/1970, nelle unità produttive interessate, nonché i sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle imprese interessate al trasferimento. Come rilevato, questa specifica procedura comporta l’inapplicabilità dell’art. 4, comma 8, D.l. n. 118/2021. Peraltro, nell’ambito della composizione negoziata della crisi, all’imprenditore è concesso trasferire l’azienda, o uno o più dei suoi rami, tramite due precise modalità: 1) in maniera autonoma31, cioè senza richiedere l’autorizzazione del tribunale, dando notizia all’esperto 2) o, nel caso più usuale, muovendosi con l’autorizzazione del tribunale32 ove si sancisce che “il tribunale, su richiesta dell’imprenditore e previa verifica della funzionalità degli atti rispetto alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori, pu (…) autorizzare l’imprenditore a trasferire in qualunque forma l’azienda o uno o più suoi rami senza gli effetti di cui all’articolo 2560 , secondo comma, del codice civile, dettando le misure ritenute opportune, tenuto conto delle istanze delle parti interessate al fine di tutelare gli interessi coinvolti; resta fermo l’articolo 2112 del codice civile”.

 

IL PAGAMENTO DELLE RETRIBUZIONI DOVUTE PER LE MENSILITÀ ANTECEDENTI AL DEPOSITO DEL RICORSO PER CONCORDATO PREVENTIVO IN CONTINUITÀ

L’art. 20, comma 1, lett. d), D.l. n. 118/2021, ha ampliato l’art. 182- quinquies33 della Legge fallimentare34, prevedendo che il tribunale possa autorizzare il pagamento delle retribuzioni dovute per le mensilità antecedenti al deposito del ricorso ai lavoratori addetti all’attività di cui è prevista la continuazione. Tale modifica mette in luce come i lavoratori possano essere considerati a pieno titolo dei “creditori strategici dell’impresa”, tanto più che il dato letterale della norma, nel momento in cui si riferisce alle c.d. retribuzioni dovute per le mensilità antecedenti, non prevede alcun tipo di vincolo temporale. Assistiamo quindi a un’estensione del regime di intangibilità dei crediti dei lavoratori che, presumibilmente, sarà esteso nelle varie procedure concorsuali, in quanto l’art. 20, comma 1, lett. d), D.l. n. 118/2021 ha avuto il pregio di estendere il campo applicativo dell’art. 182- quinquies della Legge fallimentare, con la conseguenza che debbano essere incorporati anche i crediti dei lavoratori, non più soggetti alla disciplina generale dettata per il pagamento degli altri creditori.

 

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

La composizione negoziata della crisi rappresenta una procedura che tende a valorizzare e tutelare quei diritti dei lavoratori35 che rischiano di essere compromessi a causa dello squilibrio patrimoniale o economico-finanziario dell’impresa e manifesta un’attenzione rinnovata all’occupazione come elemento attivo nel superamento della crisi. Inoltre, l’impianto del D.l. n. 118/2021 è destinato a coordinarsi e integrarsi con la Direttiva Insolvency di prossima attuazione ed è possibile constatare come non emergano deroghe o deviazioni dall’applicazione delle norme del diritto del lavoro, per così dire, ordinario.

Per quanto riguarda, invece, le soluzioni di carattere collettivo, si ravvisa la possibilità di avvalersi dell’art. 8, D.l. n. 138/201136  che permette di realizzare specifiche intese, con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, finalizzate alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali37. Tali intese possono derogare alla legge e ai Ccnl, a condizione di essere sottoscritte da parte delle “associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda”. Inoltre, la procedura di composizione negoziata della crisi potrebbe fare ricorso anche a soluzioni pratiche e operative di carattere individuale38 vale a dire singoli accordi con i lavoratori interessati: la conciliazione in sede protetta potrebbe essere anche intesa come adempimento ulteriore rispetto all’accordo collettivo e avrebbe altresì il pregio di inibire le possibilità di impugnazione39. Coordinare l’istituto della composizione negoziata della crisi (e la relativa procedura di informazione e consultazione sindacale) con gli altri strumenti noti al giuslavorista puo’  rappresentare la corretta modalità per tutelare ogni diritto, derivante dalla prestazione di lavoro, in capo al lavoratore.

 

 

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato ne LG, 4/2022, pag. 353 ss. dal titolo Profili di dritto sindacale e del lavoro nella composizione negoziata della crisi.
1. In attuazione della L. delega 19 ottobre 2017, n. 155.
2. Il riferimento è alle disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso
di disoccupazione involontaria, di cui al D.lgs. n. 22/2015, su cui è recentemente intervenuta con alcune
modifiche la L. n. 234/2021 (Legge di Bilancio 2022).
3. Convertito con modificazioni nella L. 21 ottobre 2021, n. 147.

4. Cfr. Ambrosini, La “ falsa partenza” del codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, in www.ilcaso.it.

5. Ambrosini, op. cit., 3, il quale ri-prende le considerazioni della Relazione Illustrativa al Codice della Crisi per evidenziare che “il “siste ma” non era (e non è tuttora) pronto ad affrontare e gestire un’innovazione di tale portata, foriera di effetti oggettivamente incerti, di là dalla bontà della scelta di fondo”.
6. A norma dell’art. 2, D.l. n. 118/2021.
7. L’imprenditore può chiedere la nomina dell’esperto indipendente al Segretario generale della Camera di
commercio, industria, artigianato ed agricoltura nel cui ambito territoriale si trovi la sede legale dell’impresa. L’istanza di nomina dell’esperto indipendente, presentata dall’imprenditore attraverso la piattaforma
telematica di cui all’art. 3 del decreto-legge, deve contenere le informazioni e la documentazione utile ai
fini dello svolgimento dell’incarico da parte del professionista nomina- to, incluso il certificato dei debiti
contributivi e per premi assicurativi di cui all’art. 363, comma 1, D.lgs. n. 14/2019 (in questo senso l’art. 5,
comma 3, lett. g), D.l. n. 118/2021).
8. Cfr., I. Pagni – M. Fabiani, La transizione dal codice della crisi alla composizione negoziata (e viceversa),
in L. De Simone – M. Fabiani – S. Leuzzi (a cura di), Le nuove misure di regolazione della crisi di impresa, Numero Speciale di Diritto della Crisi, novembre 2021, 12, secondo i quali il trasferimento d’azienda sarebbe
un “conveniente exit per conservare valore all’impresa e mantenere ric-chezza nel mercato, alla condizione
che il ricavato consenta all’imprenditore di gestire l’indebitamento
con accordi col ceto creditorio”; sul
trasferimento d’azienda in sede giudiziale, si legga anche L. De Simo- ne, Le autorizzazioni giudiziali, in L. De Simone – M. Fabiani – S.Leuzzi (a cura di), op. cit., 65 ss..
9. L’art. 3, D.l. n. 118/20021, al fine di verificare la ragionevole perseguibilità del risanamento dell’impresa istituisce una piattaforma telematica, accessibile dal sito Internet  della competente CCIAA, utilizzabile da parte dell’imprenditore e del professionista incaricato. Nella piattaforma sono riportate le indicazioni operative per la redazione del piano di risanamento, ed è prevista la possibilità di effettuare un test di auto-diagnosi che consenta
di verificare la situazione dell’impresa e l’effettiva perseguibilità del risanamento stesso.
10. Art. 5, comma 5, D.l. n. 118/2021.
11. Nel caso in cui, decorsi 180 giorni dall’accettazione dell’incarico, non siano individuate soluzioni adeguate alla risoluzione delle condizioni di squilibrio, l’incarico dell’esperto si considera concluso. Si badi, però, che l’incarico potrebbe proseguire sia su istanza delle parti sia nel caso in cui l’imprenditore richieda al Tribunale l’applicazione di misure protettive del patrimonio, autorizzazioni a contrarre finanziamenti o a trasferire l’azienda.

12. Artt. 6, 7 e 14, D.l. n. 118/2021.

13. Cfr. L. Stanghellini, La legislazio- ne d’emergenza in materia di crisi d’impresa, in Riv. Società, 2020, 357.
14. Il concetto di “selezione avversa” è stato teorizzato da G. Akerlof, The market for Lemons: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, The Quarterly Journal of Economics, Vol. 84, No. 3 (Aug., 1970), 488-500.
15. Ciò perché il nostro legislatore in- tende realizzare la conservazione dell’impresa in un contesto di tipo
privatistico, in cui l’autorità non abbia funzioni di controllo. Le perplessità dell’autore sono altresì evidenziate dal seguente rilievo: il “nuovo” diventa così autoreferenziale; tutto ciò che si distacca dal passato così si autolegittima, addirittura presentandosi come “necessario”, così D. Galletti, Breve storia di una (contro)riforma annunciata, ne Il Fallimentarista, Focus del 1° settembre 2021, 7.
16. Così si esprime ancora D. Galletti, Breve storia di una (contro)riforma, cit., 1; l’autore precisa come “D’altro
canto non è certo un segreto come  interi strati del tessuto economico italiano avessero “preso di mira” da
tempo il CCII, considerato “indigesto” per un’imprenditoria da sempre “allergica” ad ogni forma di intromissione negli interna corporis dell’impresa, ed incline a considerare qualsiasi forma di controllo come un puro
costo, e mai uno strumento per investire in termini di efficienza”.
17. Art. 6, comma 1, D.L. n. 118/2021.
18. Art. 6, comma 3, D.L. n. 118/2021.
19. Art. 10, comma 2, D.l. n. 118/2021.
20. Interessante il rilievo sollevato da F. Aprile, Osservazioni chiaroscurali sui risvolti giuslavoristici della
procedura di composizione negoziata, in Diritto della Crisi, 3 novembre 2021, il quale nota che “lavoro di- pendente” è espressione poco rilevante rispetto al concetto giuridico di “lavoro subordinato”, chiedendosi se “in tale novero stanno pure quei rapporti collaborativi (anche “digitalizzati”) ai quali, a norma dell’art. 2, comma 1, D.lgs. n. 81/2015, si ap- plica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato”.
21. F. Aprile, Osservazioni chiaroscurali …, cit., secondo il quale “L’avverbio “complessivamente” sa un po’ di
pleonastico se, come è lecito ipotizza- re, rimanda implicitamente all’art. 18, comma 8, Statuto dei Lavoratori
(cui può riconoscersi una portata indicativa generale), secondo il quale i quindici dipendenti rilevano qualora
occupati “in ciascuna sede, stabili- mento, filiale, ufficio o reparto auto- nomo” in cui si articola l’impresa interessata, oppure quando quest’ultima li occupa nell’ambito dello stesso comune […], anche se ciascuna unità
produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti”.

22. Art. 16, comma 4, D.l. n. 118/2021.
23. Art. 2103 c.c., comma 3.
24. Art. 2103 c.c., comma 4.
25. Art. 2013 c.c., comma 6.
26. Art. 2103 c.c., comma 8.
27. Ai sensi dell’art. 8, D.l. n. 138/2011.

28. Art. 4, comma 8, D.l. n. 118/2021.
29. Art. 28, L. n. 300/1970.
30. Ai sensi della L. n. 223/1991.
31. Art. 9, D.L. n. 118/2021 .
32. Art. 10, comma 1, D.L. n. 118/2021.

33. Tale norma, nell’ambito del concordato con continuità aziendale, ammette la possibilità di pagare crediti anteriori per pre- stazioni di beni o servizi, previa autorizzazione del Tribunale ed a condizione che un professionista,
a sua volta in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett.d), l.fall. , attesti che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori.
34. R.D. 16 marzo 1942, n. 267.
35. Cfr. A. Farolfi, Brevi osservazioni sui profili giuslavoristici del d.l. n. 118/2021, in Lavoro Diritti Europa, 4, 2021, 14.
36. L’art. 8, D.L. n. 138/2011, ha introdotto una “riforma equilibrata” che permette alla contrattazione di effettuare “scambi negoziali virtuosi”, così M. Tiraboschi, L’articolo 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138: una prima attuazione dello “Statuto dei lavori” di Marco Biagi, in Dir. rel. ind., 2012, 1, 90.

37. A tale fine, merita attenzione l’ipotesi di F. Aprile, Osservazioni chiaroscurali …, cit., secondo il quale le intese di prossimità “po- tendo essere finalizzate “alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali”, offrono il duplice e
innegabile vantaggio di disporre di estesa efficacia derogatoria – anche peggiorativa – sugli eventuali vincoli legislativi e collettivi sussistenti nelle materie oggetto della determinazione datoriale e di svolgere efficacia vincolante, se sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle rappresentanze sindacali, “nei confronti di tutti i lavoratori interessati”, e quindi anche di coloro che non aderiscono ai sindacati firmatari”.
38. Art. 2113 c.c., comma 4.
39. Più precisamente, fra le conciliazioni sottratte al regime di invalidità di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 2113 c.c., rientra anche la conciliazione avanti le Commissioni di certificazione  di lavoro.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

Analisi delle problematiche che nascono dall’USO IMPROPRIO DELLA TASTIERA*

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro Studi e Ricerche

Alessandro Bordin esamina le norme di sicurezza che regolano l’uso del pc e della tastiera 

 

Faceva sorridere, negli anni ’80, una frase del giovane Bill Gates: “porteremo un computer su ogni scrivania e in ogni casa”. La profezia invece si è avverata, con tutti i benefici che ne sono derivati.

Ma se da un lato l’impiego del PC offre illimitate opportunità, dall’altro un uso continuativo espone inevitabilmente a dei rischi. Proprio per questo è stata introdotta nella legislazione, in materia di sicurezza, la problematica dell’utilizzo dei videoterminali. L’Autore, con questo contributo, si sofferma in particolare su un tema specifico ancora poco sviscerato, quello dell’uso della tastiera, con l’intento di gettare le basi per eventuali approfondimenti futuri.

LEGISLAZIONE VIGENTE

La sicurezza dei lavoratori nell’uso dei videoterminali1 è affrontata dal Titolo VII del D.lgs. n. 81/2008 e s.m.i. e dall’Allegato XXXIV.

Essa va considerata con riguardo a (art. 174):

‒ rischi per la vista e per gli occhi;

‒ problemi legati alla postura e all’affaticamento fisico o mentale;

‒ condizioni ergonomiche e di igiene ambientale.

Nell’Allegato XXXIV sono contenute le indicazioni da seguire al fine di tutelare il videoterminalista dall’esposizione dei rischi connessi all’utilizzo del computer, sia PC che portatile. Esistono delle avvertenze per la postazione di lavoro, il tavolo, la sedia e i diversi componenti hardware (video, mouse, etc.) e software.

Tra gli elementi hardware ritroviamo la tastiera. Rammentando che la tastiera controlla alcuni comandi del sistema operativo e dei programmi installati attraverso “tasti funzione” e “combinazioni di tasti”, anche i software devono essere a loro volta concepiti in modo ergonomico.

UTILIZZO DELLA TASTIERA E RISCHI PER LA SALUTE

In generale, per ridurre l’esposizione dei lavoratori videoterminalisti, è bene assicurarsi una postazione di lavoro ergonomica (fonte luminosa, altezza della poltrona e inclinazione dello schienale, giuste distanze dalla tastiera e dallo schermo, corretta posizione del corpo, etc.). Tanto premesso, i rischi per la salute riconducibili all’utilizzo della tastiera sono collegati a problemi muscolo-scheletrici2 dell’arto superiore, in particolare all’avambraccio, al polso e alle mani, comprendendo le dita, soprattutto quelle più deboli (mignoli).

L’esposizione dei lavoratori ai fini della sicurezza e della salute è riconducibile a una pluralità di fattori.

In primo luogo, all’ergonomia dell’attività che va vista nel suo complesso e non legata unicamente alla tastiera.

La posizione degli arti superiori rispetto alla tastiera (altezza della sedia e del tavolo) è il secondo elemento da prendere in considerazione. Durante la digitazione è necessario che gli avambracci, i polsi e le mani siano allineati in posizione diritta.

Le posizioni del videoterminalista, improprie e corrette, sono indicate in Figura 1.

Non dimentichiamo, fra gli aspetti che condizionano l’ergonomia del lavoratore, la forma della tastiera e la disposizione dei tasti, che ricadono sulla posizione delle mani e sull’operatività delle dita.
Infine, per l’uso delle dita, assumono rilievo la ripetitività delle operazioni (pressione e battitura dei tasti) e le posizioni assunte in seguito a specifiche istruzioni del software, ad esempio il simultaneo impiego di più tasti
per eseguire un comando.

ALCUNE SOLUZIONI
Il problema dell’impiego della tastiera presenta alcune difficoltà, soprattutto nella diagnosi differenziale rispetto a patologie e sintomatologie affini, più conosciute, che sono determinate da altri ausili del PC come il mouse che comporta la nota sindrome del tunnel carpale. L’esposizione riconducibile all’utilizzo della tastiera in un lavoratore quando mostra i sintomi, proprio perché meno studiata, è ancora lontana dall’essere catalogata come malattia professionale.
Non per questo però va sottovalutata dal punto di vista medico e professionale ma è necessario, al contrario, avanzare delle soluzioni per risolvere o almeno limitare i rischi,  in un’ottica di prevenzione e sicurezza sul lavoro e non solo di terapia. Alcune basi per l’ergonomia nell’impiego della tastiera erano state poste nel passato per il predecessore del PC, ossia la macchina da scrivere.
La dattilografia, materia ormai desueta, applicava i principi dell’ergonomia della scrittura, usando in
modo efficace i tasti con le dita, come indicato in Figura 2.

Nelle macchine da scrivere più datate, essendo a funzionamento meccanico, la pressione dei tasti richiedeva
uno sforzo notevole; successivamente, l’elettrificazione e l’automazione, quindi le macchine più moderne, hanno risolto o, quanto meno, attenuato questa problematica.
Adesso l’attenzione si sposta e si concentra sulla tastiera del PC.  Un aspetto importante, ai fini dell’ergonomia, è la sua forma.
A tale scopo, i progettisti hanno disegnato tastiere che consentono alle mani e alle dita – più in generale all’arto superiore – di operare più comodamente, riducendo la tensione muscolo-tendinea.
Ai fini della ricerca delle soluzioni per limitare l’esposizione dai rischi dell’utilizzo della  tastiera, possono essere utili le prescrizioni che provengono direttamente dal mondo lavorativo  del PC e dai professionisti implicati
in prima persona, in primis gli informatici.
Leonardo Finetti, consulente Web e programmatore, in alcuni articoli3 suggerisce diverse modalità per potenziare il comfort nell’utilizzo della tastiera. Particolarmente importante, secondo l’informatico, è il layout
dei tasti distribuiti nella tastiera4 .
I layout che sono stati progettati nel tempo sono diversificati e cercano di rispondere alle esigenze del momento.
Il primo fra tutti, il più antico, è il “Modello Qwerty” del 1860, che non teneva in considerazione, visto il periodo storico, l’ergonomia.
Poco o nullo era l’interesse a bilanciare l’utilizzo delle dita, anche a fronte di una loro diversa forza. Il mignolo, ad esempio, è più corto e debole rispetto all’indice; pertanto, i moderni studi consigliano di assegnare a tale
dito la battitura delle lettere meno adoperate.
Il “Modello Colemak”, più recente (2006), presenta un layout che ottimizza l’uso della tastiera rispetto al “Modello Qwerty” 5, in quanto razionalizza la posizione dei tasti maggiormente usati. Oltre ai modelli citati esistono altre tipologie di layout delle tastiere riportate in Figura 3.
Un ulteriore miglioramento delle prestazioni ergonomiche si ha con la variante “Modello Colemak – DHm”.
In essa la distribuzione delle lettere in base alle dita (D, H e M) è più bilanciata così da affaticare meno le dita più deboli ma, allo stesso tempo, senza sforzare eccessivamente le dita più forti (Figura 4).

L’ultimo aspetto da vagliare è l’impiego combinato dei tasti.
Molti programmi di uso comune si sono riallineati in molte funzioni, come i noti comandi “taglia, copia e incolla” di ampio utilizzo, solo per fare un esempio.
Analoghe considerazioni si possono fare per caratteri speciali presenti nella tastiera (bigrammi) che richiedono l’uso combinato del tasto “Maiusc” oppure “Alt Gr” (trigrammi).
Fra le modifiche dell’uso combinato dei tasti menzioniamo altresì l’integrazione delle funzioni dei tasti modificatori (Alt, Ctrl, etc.) in quelli della home row (con le lettere A, R, S, etc.).
Secondo lo schema di Figura 5, alla lettera R viene anche associato/integrato il comando Alt, alla S il comando Ctrl e così via.
Le funzioni dei tasti modificatori vengono attivate con una lunga pressione. Esemplificando, il tasto della lettera R, che viene assumere così una duplice funzione, comanda la lettera se si applica una pressione breve, mentre in seguito a una pressione lunga viene attivato il tasto di funzione, nella fattispecie Alt.
Si può notare come la soluzione prospettata valga sia per la mano destra che per la sinistra, in modo da permettere agevolmente tutte le combinazioni di tasti.
Nelle tastiere tradizionali, infatti, i modificatori come Ctrl e Shift sono normalmente premuti dal mignolo che è il dito più debole della mano. Inoltre, questi tasti richiedono un allungamento eccessivo delle dita, ad esempio per eseguire alcune combinazioni speciali.
Questi movimenti sono tra i più dannosi durante la digitazione. La soluzione prospettata da Finetti va quindi a migliorare l’ergonomia. Si ricorda però che queste modalità richiedono una programmazione di software operativi o
relativi alla configurazione dell’hardware.
È ovvio che, per opportune necessità, si possano creare delle “stringhe di programma” per modificare le funzioni, ma una simile attività spetta agli addetti ai lavori, per non inficiare il funzionamento e l’impiego del  PC.

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in Igiene & Sicurezza del Lavoro, n. 12, 1° dicembre 2021, p. 613 dal titolo Ergonomia nell’uso della tastiera del computer.

1.In ambito aziendale e anche nel “telelavoro” in ambito domestico, quest’ultimo aumentato considerevolmente durante la pandemia del Coronavirus. Per adempiere all’esercizio dell’attività prevenendo i rischi, i lavoratori a distanza sono informati dal datore di lavoro circa le politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, specialmente in ordine alle esigenze relative ai videoterminali e applicano correttamente le direttive aziendali di sicurezza.

2.Non vanno dimenticati gli annessi nervo–tendinei e le articolazioni di tali porzioni del corpo.

3. L. Finetti, “Ottimizzare la posizione dei tasti modificatori nella home row”, Sito web, 2021;
L. Finetti, “5 motivi per passare ad una tastiera con layout Colemak DHm”, Sito web, 2020.

4. Anche sotto il profilo dell’impilamento, obliquo (sfalsato) oppure verticale (incolonnato). Quest’ultimo sembra più ergonomico rispetto alla distribuzione sfalsata.

5. Modelli alternativi della tastiera Qwerty sono i seguenti: Dvorak; Colemak e Colemak DHm, di cui si riferirà nel testo; Workman; Norman; Carpalx e Beakl.

Preleva l’articolo completo in pdf