Sentenze

Illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore

Cass., sez. Lavoro, sentenza 23 giugno 2023, n. 18070

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del  licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore. Ha condannato il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria liquidata in dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita oltre interessi legali dalla risoluzione del rapporto al soddisfo.
Il giudice di Appello, per quanto interessa, ha ritenuto che le violazioni contestate dal datore al dipendente, che aveva consapevolmente disatteso le procedure dettate per le operazioni eseguite, erano gravi non essendo consentito al lavoratore di contrastarle e modificarle e restando irrilevante il fatto che da tali comportamenti non era stato tratto alcun vantaggio personale essendo peraltro stato accertato che aveva comunque avvantaggiato dei terzi.
Tuttavia, ha accertato l’intempestività della contestazione di addebito, intervenuta a distanza di tempo dalla data in cui il fatto era stato pienamente accertato.
Il lavoratore ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, controricorso del datore.
La Corte adita, con giurisprudenza costante (cfr. tra le tante Cass., 20/06/2006 n. 14115, Cass., 12/05/2005 n. 9955 e anche recentemente Cass., n. 23068 del 2021), ha ritenuto che il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo non solo da rendere difficile la difesa del dipendente ma anche di perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto (che nello specifico è stato accertato che si era protratto per tutto il tempo senza alcuna iniziativa anche di  carattere cautelare).
Una nozione, quella dell’immediatezza della contestazione, da intendere in maniera relativa, correlata al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, procedendo ad un adeguato  accertamento e una precisa valutazione dei fatti (cfr. Cass., n. 29480 del 2008, n. 22066 del 2007, n. 1101 del 2007, n. 14113 del 2006 e n. 4435 del 2004) e da valutare con riferimento al tempo in cui i fatti sono conosciuti dal datore di lavoro, e non a quello in cui essi sono avvenuti.
La conoscenza deve tradursi nella ragionevole configurabilità dei fatti oggetto dell’inadempimento, inteso nelle sue caratteristiche oggettive, nella sua gravità e nella sua addebitabilità al lavoratore (cfr. al riguardo oltre alla già citata Cass., n. 16683 del 2015 le sentenze ivi richiamate Cass., 27/02/2014, n. 4724 e 26/03/2010, n. 7410).
In tale contesto ben può il datore di lavoro procedere a verifiche preliminari necessarie (cfr. Cass., 08/03/2010, n. 5546, 17/12/2008 n. 29480). La valutazione dei fatti del giudice di merito il quale, come nella specie è avvenuto, abbia accertato la tardività della contestazione di addebito tenendo conto dei  parametri sopra indicati e ancorando la sua decisione ad elementi oggettivamente riscontrati non è censurabile in Cassazione; a questa Corte è preclusa ogni ulteriore indagine.
La Corte di merito ha proceduto all’esame dei fatti contestati, pacifici nella loro materialità, e ne ha correttamente desunto la giusta causa di licenziamento sottolineando che, ai fini della sua gravità  specificatamente del notevole inadempimento), ciò che rileva non è tanto e soltanto il danno arrecato quanto piuttosto l’idoneità della condotta a ledere il vincolo fiduciario da valutare tenuto conto del tipo di mansioni svolte. In tale prospettiva il giudice di secondo grado ha esattamente valorizzato l’elemento soggettivo della condotta, consapevole e volontaria (dolo generico), e la circostanza della consapevolezza di agire in contrasto con specifiche e cogenti direttive datoriali.
In sostanza questi non solo era inadempiente ma con piena consapevolezza voleva esserlo.
La circostanza che il fatto tardivamente contestato comporti l’illegittimità del licenziamento non implica di per sé che lo stesso sia insussistente.
La tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4 citato è applicabile ove il fatto contestato sia insussistente. In tale nozione è compresa l’ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto che, pur sussistente, sia tuttavia privo del carattere di illiceità ma non anche il caso in cui difetti un elemento necessario per poter applicare una sanzione, qual è appunto l’inosservanza di un tempo ragionevole per intraprendere il procedimento disciplinare.
Come già ritenuto da questa Corte (cfr. Cass., 10/02/2020, n. 3076), infatti, la tutela applicabile va individuata solo una volta che sia stata accertata l’assenza di una giusta causa di licenziamento che si compendia anche dell’aspetto connesso alla tempestiva reazione all’inadempimento del lavoratore.
Nel caso in esame, l’esistenza di un ritardo notevole e non giustificato nell’avviare il procedimento disciplinare deve trovare applicazione l’art. 18, comma 5 della Legge n. 300 del 1970, così come modificata dal comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 (in questo senso si veda Cass., 27/12/2017, n. 30985). L’intempestività della contestazione connota il comportamento datoriale che viola i canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. i quali governano anche l’esercizio del potere disciplinare il quale deve essere improntato alla massima trasparenza poiché incide sulle sorti del rapporto e sulle relative conseguenze giuridiche ed economiche.
Per l’effetto la sentenza deve essere cassata con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione che rivedrà le conseguenze della tardiva contestazione alla luce dei principi sopra esposti.


Somministrazione illecita di manodopera e assenza di rischi d’impresa

Cass., sez. Lavoro, sentenza 4 maggio 2023, n. 18530

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Ancora un caso di somministrazione illecita di manodopera la cui illiceità è stata rilevata sulla base delle deposizioni dei testi escussi e dei verbali ispettivi.
A sua difesa la società fornitrice di manodopera  sosteneva l’apparente regolarità e adeguatezza di ogni attività posta in essere, nonostante in verità fosse emerso, durante le deposizioni dei testi e gli accertamenti ispettivi, che oltre a non aver titolo a fornire manodopera, la società aveva operato una concreta lesione dei diritti dei lavoratori, essendo stato rilevato che gli stessi erano stati sotto inquadrati,
che le denunce Inps riportavano dati imponibili inferiori rispetto a quelli esposti sul libro unico e che addirittura, in caso di cessazione del lavoratore, non veniva elaborato e pagato il cedolino paga relativo al trattamento di fine rapporto oltreché alle competenze finali.
Tutto questo aveva indotto i giudici del merito a ritenere sussistente l’elemento a fondamento della norma incriminatrice, ovvero la finalità dei contraenti di eludere norme inderogabili di legge o di  contratto collettivo.
Nessuna lettura alternativa poteva essere eseguita sul caso di specie, nonostante questa fosse la richiesta oggetto del ricorso per Cassazione promosso dalla società “somministratrice”.
In primo luogo perché non consentita in sede di legittimità una revisione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, ma poi perché l’apparato argomentativo non presentava profili di irrazionalità, e soprattutto perché la valutazione del materiale probatorio non poteva che condurre alla ricostruzione eseguita dai giudici di primo e secondo grado.
Per tale ragione il presente ricorso è stato cassato con addebito delle spese alla parte soccombente.


Licenziamento per giusta causa: i parametri contenuti nel Ccnl non sono vincolanti

Cass., sez. Lavoro, sentenza 30 maggio 2023, n.  15140

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Forlì con la quale erano state respinte le domande del lavoratore contro la Società cooperativa agricola, di cui era dipendente con contratto a termine, di accertamento della nullità del licenziamento per giusta causa e di condanna del datore di lavoro alla riassunzione e/o al risarcimento dei danni.
In particolare, il lavoratore, con mansioni di addetto all’eviscerazione presso il reparto macello tacchini, già dipendente della cooperativa con numerosi precedenti contratti stagionali, con mansioni di scaricatore di casse e successivamente di mulettista-carrellista, dichiarato poi parzialmente idoneo con limitazioni e ricollocato per tale ragione presso il reparto macello tacchini, era stato licenziato.
Il provvedimento espulsivo era stato adottato in conformità alle previsioni del Ccnl applicabile al rapporto di lavoro: “per non aver estratto correttamente il pacco intestinale ai tacchini”, previa  contestazione di recidiva specifica, essendo stato lo stesso addebito motivo di 3 precedenti sanzioni  disciplinari.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi: i giudici di merito avrebbero dovuto qualificare il licenziamento del lavoratore come licenziamento per scarso rendimento e non per giusta causa; un omesso esame della condotta delle parti alla luce delle prescrizioni mediche e della mancata ammissione di CTU; la violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità tra fatto contestato e provvedimento di licenziamento, con riguardo alle circostanze concrete e alle modalità soggettive della condotta del lavoratore.
La Suprema Corte non accoglie i motivi confermando la sentenza impugnata che aveva ritenuto di rilievo disciplinare, e dimostrate, le violazioni poste alla base della contestazione disciplinare, giustificando il
licenziamento, anche alla luce della recidiva specifica. Inoltre, non appare neppure dimostrata, prosegue la Suprema Corte, la violazione dell’art. 2087 c.c. in riferimento all’accertamento di conformità dell’assegnazione del lavoratore al reparto macello tacchini, sulla base delle risultanze delle valutazioni
sanitarie del medico competente e della descrizione dettagliata delle mansioni assegnate, in rapporto al peso del materiale da trattare, ai movimenti da svolgere e alla postura.

La Suprema Corte ha più volte affermato che rientra nell’attività “sussuntiva e valutativa del giudice di merito” la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del Ccnl. Il giudice non deve limitarsi a verificare la riconducibilità dei fatti concreti a fondamento del licenziamento alla fattispecie prevista dalla contrattazione collettiva, ma deve valutarne la gravità e proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro, ponendo altresì
attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.
Il ricorso è respinto.


La genuinità di un rapporto di collaborazione deve essere valutata sulla base della normativa vigente al momento della stipula del contratto

Cass., sez. Lavoro, 26 maggio 2023, n. 14744

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

È illegittimo giudicare un rapporto di collaborazione sulla base di una normativa successivamente  vigente rispetto al momento della sua stipula.
É a questo il principio a cui perviene la Corte di Cassazione nel caso di una collaboratrice che, dapprima in forma di collaborazione coordinata e continuativa, e successivamente di lavoro autonomo, ha ricevuto comunicazione di rescissione contrattuale da parte dell’azienda cooperativa per cui lavorava.
La vicenda prende avvio dal ricorso di una lavoratrice nei confronti dell’azienda per la quale aveva avuto una serie di rapporti di collaborazione (specificatamente contratti di collaborazione coordinata dal 28.5.2002 al 22.10.2004 e contratti autonomi a partita IVA dal 23.10.2004 al giorno 8.7.2014). La
lavoratrice chiede l’accertamento della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato, la illegittimità della risoluzione del rapporto ed il ripristino dello stesso con condanna della convenuta al pagamento della retribuzione globale di fatto spettante dalla messa in mora al ripristino.
In primo grado viene esclusa la subordinazione, il rapporto viene qualificato come collaborazione coordinata e continuativa regolata dal D.lgs. n. 276/2003 e viene applicato l’art. 69 del D.lgs. n.  276/2003 convertendo il rapporto in uno subordinato a tempo indeterminato sul rilievo che le prestazioni non fossero riconducibili ad un progetto. Si appella la società, ed in secondo grado, la Corte
d’Appello di Roma ha dichiarato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a far data dal 28 maggio 2002 ed ha condannato la società a ripristinare il rapporto e a pagare alla lavoratrice un’indennità, ex art. 32, co. 5, L. n. 183/2010.
Ricorre in appello la società basandosi su 3 motivi.
Nel primo, sostiene il principio del “tempus regis actum”, art.11 delle disposizioni di legge relative all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. Nel secondo motivo, ad avviso della ricorrente, erroneamente era stata ritenuta  inammissibile la censura con la quale in appello era stata denunciata l’erroneità della pronuncia
di primo grado che aveva escluso l’esistenza di un progetto sebbene i fatti sottostanti fossero stati tutti tempestivamente allegati sin dal primo grado e dunque, d’ufficio, anche in grado di appello, il giudice
avrebbe dovuto tenerne conto senza che possa ritenersi maturata alcuna decadenza.
Con il terzo motivo si sostiene il carattere innovativo dell’intervento normativo del 2012 che non si pone come interpretazione autentica della precedente disciplina avente effetto retroattivo ma piuttosto come disposizione proiettata al futuro ed applicabile solo ai nuovi contratti stipulati dal 18 luglio 2012 in poi.
Gli Ermellini rigettano il secondo ed il terzo motivo e ritengono ammissibile il primo. Infatti, risulta pacificamente accertato che tra le parti sono intercorsi due distinti rapporti. Uno che trae origine da un contratto di collaborazione coordinata e continuativa iniziato il 28.5.2002 e proseguito fino al  22.10.2004 quando era cessato. Un altro contratto di lavoro autonomo dispiegatosi nel periodo dal
23.10.2004 all’8.7.2014. La Corte ha qualificato entrambi i rapporti come collaborazioni coordinate e continuative ma ritiene tuttavia il Collegio che, per quanto concerne il rapporto iniziato nella vigenza
della Legge n. 196 del 1997 e proseguito nella vigenza del D.lgs. n. 276 del 2003, fino al 22 ottobre del 2004, la legittimità del contratto andava verificata alla luce delle disposizioni dettate per le  collaborazioni coordinate e continuative  dalla Legge n. 196 del 1997.
La Corte costituzionale ha ritenuto che riconoscendo il rapporto alla luce della L. n. 92/2012, si sacrificavano interessi che le parti avevano regolato nel rispetto della disciplina dell’epoca, irragionevolmente e contraddittoriamente con la ratio del decreto, che era quello di “aumentare i tassi di occupazione e di promuovere la qualità e la stabilità del lavoro”. Pertanto, viene ribadito che è al momento della genesi del contratto che si definisce il regime del rapporto con esso instaurato ed è in tale
regime contrattuale che il lavoratore può chiedere che si accerti comunque che il rapporto di lavoro autonomo, pur legittimamente istaurato come collaborazione continuativa e coordinata, si sia diversamente atteggiato come rapporto di lavoro subordinato stante l’inserimento stabile nell’ organizzazione del destinatario della prestazione, l’assoggettamento al suo potere disciplinare ed alle sue direttive, tratto tipico quest’ultimo della subordinazione che è riscontrabile anche quando il potere direttivo del datore di lavoro viene esercitato de die in diem, consistendo, in tal caso, il vincolo della subordinazione, nell’accettazione dell’esercizio del suddetto potere direttivo di ripetuta specificazione della prestazione lavorativa richiesta in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore stesso.

 

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Sentenze

Legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo fondato sul rifiuto del lavoratore di prestare lavoro straordinario

Cass., sez. Lavoro, sentenza 20 aprile 2023, n. 10623

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Ancona, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato la legittimità del licenziamento (“convertito” dal giudice del reclamo da licenziamento per giusta causa, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo) intimato al lavoratore e condannava la società al pagamento, in favore dello stesso, dell’indennità di mancato preavviso.

Il licenziamento era stato conseguente alla contestazione fatta al lavoratore per la mancata effettuazione del lavoro straordinario, nel periodo dal 9 al 27 maggio 2016, in spregio alla direttiva aziendale con la quale era stato stabilito l’aumento dell’orario di lavoro per ragioni produttive, considerando la recidiva nella quale era incorso il lavoratore per fatti puniti già con sanzione conservativa. Il dipendente ha proposto ricorso in Cassazione basandosi prevalentemente sulla deduzione di violazioni del Ccnl Industria e anche rispetto all’art. 5 del D.lgs n. 66/2003, con riferimento alla libertà datoriale di imporre prestazioni di lavoro straordinario. In particolare, il lavoratore contesta l’interpretazione del Ccnl nel senso di consentire alla società di disporre ad libitum delle prestazioni di lavoro straordinario nei confronti dell’indistinta platea dei lavoratori, anche se contenuta nel limite di 82 ore annue. Dall’esame dei motivi contenuti nel ricorso, la Suprema corte ricorda come l’art. 5 del D.lgs n. 66/2003 rimette espressamente alle parti collettive la regolamentazione dei limiti del ricorso al lavoro straordinario, confermando così la correttezza dell’interpretazione della Corte di Appello. Il datore di lavoro ha la possibilità di richiedere al lavoratore prestazioni di lavoro straordinario nei limiti della c.d. quota esente, senza preventiva consultazione o informazione alle organizzazioni sindacali, nel rispetto dei limiti di 2 ore giornaliere e 8 ore settimanali e con un preavviso di almeno 24 ore. La Suprema corte conferma l’operato e la valutazione di proporzionalità in relazione agli aspetti oggettivi e soggettivi del fatto accaduto, ritenendo giustificata la sanzione espulsiva anche a prescindere dalla contestazione della recidiva. Le stesse considerazioni sono riferite alle giustificazioni inviate dal lavoratore, in quanto inidonee ad incidere sui fatti accertati.

La Corte rigetta il ricorso.


Nel pubblico impiego privatizzato il termine per la conclusione del procedimento decorre dalla contestazione dell’addebito da parte dell’UPD

Cass., sez. Lavoro, 18 aprile 2023, n. 10284

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

Il termine per la conclusione del procedimento da parte dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari non decorre più dalla conoscenza dell’illecito in capo al responsabile della struttura di appartenenza, ma da quando l’ufficio predetto abbia ricevuto la segnalazione di tale illecito, sicché a tal fine i tempi intercorsi prima di quella trasmissione non hanno rilievo, se non quando ne risulti irrimediabilmente  compromesso il diritto di difesa del dipendente.
È questo il principio che gli Ermellini stabiliscono, in base alla Legge Madia, nell’esame del merito del caso di cui sono investiti. Venuto a conoscenza nel 2017 di un uso anomalo della carta carburante per il proprio dipendente, il Comune di C.S. procede intimando il licenziamento disciplinare nei suoi confronti.
La Corte d’Appello di Palermo, riformando la sentenza del Tribunale di primo grado, ha accolto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato dal Comune, ricostruendo il momento in cui doveva ritenersi che il responsabile del servizio cui era addetto il dipendente avesse avuto contezza dell’illecito, ha ritenuto che fosse stato violato il termine di dieci giorni per la comunicazione dei fatti all’Ufficio per i procedimenti disciplinari (di seguito, UPD) e, a seguire, i termini stabiliti per lo svolgimento e la conclusione del procedimento disciplinare, circostanze tutte da cui essa faceva derivare l’illegittimità del licenziamento, con condanna del datore alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Il Comune ha proposto ricorso per cassazione resistiti dal lavoratore con controricorso.
Gli Ermellini rilevano quattro motivi fondati ed il loro accoglimento manda assorbite le restanti censure.
L’illecito contestato, concernendo comportamenti sia anteriori, fin dal 2015 o comunque dal 2016, sia posteriori ad agosto 2017, e alle modifiche introdotte all’art. 55-bis, D.lgs. n. 165/2001, nell’ambito di un procedimento unitario riguardante il protratto uso anomalo di una carta carburante di servizio, ricade nella disciplina procedimentale successiva che prevede che la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività.
Vale dunque il consequenziale principio secondo il quale in tema di illeciti disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, la violazione del termine di dieci giorni per la trasmissione degli atti dal responsabile del servizio all’ufficio per i procedimenti disciplinari non comporta la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, a meno che ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente.
Ne consegue che il richiamo della norma al principio di tempestività va inteso nel senso che anche la rilevanza di eventuali violazioni del termine per la trasmissione degli atti va misurata in ragione della violazione del diritto di difesa, tenendosi conto che il pregiudizio rispetto a quest’ultimo è di regola più probabile quanto più ci si allontani nel tempo dal momento dei fatti.
È dunque errato il ragionamento della Corte territoriale che ha fatto discendere la decadenza dal solo mancato rispetto del termine  per la trasmissione degli atti, senza altra diversa verifica sulla violazione del diritto di difesa in ragione delle particolarità e specificità del caso concreto. Il termine per la contestazione, sia prima che dopo la riforma c.d. Madia, va calcolato dal momento in cui l’UPD riceve gli atti dal responsabile della struttura.
Mentre, tuttavia, prima della menzionata riforma,  il termine per la conclusione del procedimento aveva comunque decorrenza dalla conoscenza dell’illecito da parte del responsabile della struttura (art. 55-bis, co. 4, penultimo periodo), per effetto della riforma stessa, come detto qui applicabile, esso, della durata di centoventi giorni, decorre dalla contestazione dell’addebito da parte dell’UPD.
Gli Ermellini accolgono pertanto il ricorso del comune, e rimettono la causa alla medesima Corte territoriale che procederà alla disamina anche della questione sulla tempestività e decadenza.


Il lavoratore che rifiuta la trasformazione del rapporto a tempo parziale può essere licenziato?

Cass., Ord. 9 maggio 2023, n. 12244

Patrizia Masi, Consulente del Lavoro in Milano

Con questa ordinanza la Cassazione consolida l’importante principio che vuole che, in caso di rifiuto di trasformazione del rapporto da full-time a part-time, il dipendente può essere legittimamente licenziato se il recesso non è intimato a causa del diniego opposto, ma a causa dell’impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno.
A seguito della cessione del ramo d’azienda i tre soci della società cessionaria decidono di prestare direttamente attività lavorativa e, per far fronte all’esubero pari ad una unità, propongono ai tre dipendenti assunti a full time la disponibilità alla riduzione dell’orario lavorativo.
A seguito di rifiuto di due dei tre lavoratori, l’azienda sceglie di licenziare per giustificato motivo oggettivo per riduzione di personale, la lavoratrice impiegata nel reparto ortofrutta, mantenendo le altre due figure a tempo pieno. La lavoratrice impugna. In primo grado, il Tribunale dichiara illegittimo il licenziamento con condanna della società a riassumere la dipendente oppure a corrisponderle un’indennità liquidata in cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.
La lavoratrice impugna chiedendo alla Corte, in secondo esame, il riconoscimento della natura ritorsiva o in subordine l’inefficacia del licenziamento, oltre al diritto del risarcimento del danno.
La Corte d’Appello esclude il motivo ritorsivo e legge la scelta della società di mantenere full-time i due lavoratori in quanto addetti al reparto salumeria, sacrificando la lavoratrice addetta al reparto ortofrutta, oggettiva, nell’alveo di un bilanciamento delle esigenze organizzative, che spetta al datore di lavoro.
La lavoratrice impugna nuovamente basando l’istanza su cinque motivi i quali vengono tutti respinti.
Gli Ermellini rilevano che, benché l’articolo 8, co. 1, del Decreto legislativo n. 81/2015 statuisca che il rifiuto della trasformazione a tempo parziale del contratto di lavoro non costituisce un giustificato motivo di licenziamento, non viene preclusa la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part-time. In tal caso occorre che sussistano e siano dimostrate dal datore di lavoro:
– le effettive esigenze economiche ed organizzative tali da consentire il mantenimento della prestazione solo con l’orario ridotto;
– la proposta al dipendente di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale e il rifiuto del medesimo;
– l’esistenza di un nesso causale tra le esigenze di riduzione dell’orario e il licenziamento.
Per quanto sopra, la Cassazione respinge il ricorso della lavoratrice condannadola alla rifusione delle spese.

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Sentenze

Licenziamento disciplinare: la verifica in concreto della sussistenza di una giusta causa di licenziamento

Cass., sez. Lavoro, 28 marzo 2023, n. 8737

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Il dirigente impugnava il licenziamento in tronco irrogatogli deducendone la natura ritorsiva dello stesso, in quanto intimato a seguito e per effetto della rottura, all’inizio del luglio 2017, della relazione sentimentale che aveva intrattenuto sin dal luglio 2012 con la Presidente della Società, in subordine l’illegittimità del recesso per insussistenza dei fatti contestati e comunque per sproporzione della sanzione espulsiva. Il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso. In sede di opposizione, ritenuto ammissibile il ricorso, il Tribunale di Catanzaro ha affermato sussistenti, sulla base della prova testimoniale, gli episodi di insubordinazione contestati: è pertanto da escludersi la nullità ritorsiva del licenziamento, dal momento che la conflittualità esistente tra le parti, per ragioni di carattere meramente sentimentale, seppur poteva essere stata concausa del contegno assunto dalle parti e della conseguente
cessazione del rapporto di lavoro, non aveva costituito il motivo unico determinante del licenziamento, essendosi per contro venuto a creare in ambito lavorativo una situazione insostenibile.
Il Tribunale ha affermato, comunque, l’illegittimità del licenziamento sotto il profilo della proporzionalità, anche alla luce delle pregresse modalità di svolgimento della prestazione.
La Corte d’Appello, adita in sede di reclamo, ha accolto l’impugnazione incidentale proposta dalla Società nei confronti del lavoratore e ha dichiarato la legittimità del licenziamento irrogato allo stesso.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore, resiste con controricorso la Società. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta con cui ha chiesto rigettarsi il ricorso.
Il Tribunale ha affermato con esplicita statuizione che la conflittualità esistente tra le parti, per ragioni di carattere meramente sentimentale, seppur possa essere stata concausa del contegno assunto dalle parti e della conseguente cessazione del rapporto di lavoro, non ha costituito il motivo unico determinante del licenziamento, così peraltro escludendo il motivo ritorsivo.
Tale statuizione non risulta dalla sentenza di appello aver formato oggetto del reclamo principale proposto dal lavoratore, nè ciò è dedotto nell’odierno motivo di ricorso. Pertanto, sulla mancanza di motivo ritorsivo del si è formato giudicato interno.
La doglianza dell’imputabilità del licenziamento  alla relazione affettiva che sarebbe intercorsa tra il lavoratore e la Presidente del datore di lavoro già disattesa dal Tribunale, è inammissibile per il formarsi del giudicato interno e per il difetto di rilevanza.
È contestata poi la proporzionalità della sanzione espulsiva, atteso che la proporzionalità deve essere valutata avendo riguardo all’entità dell’inadempimento e della colpa, nonchè della grave incidenza di essi sull’elemento della fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre sul lavoratore ai fini della prosecuzione del rapporto.
Questa Corte ha più volte affermato (si v.,  Cass., n. 12789 del 2022) che l’art. 2119. c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto, precisando che l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass., nn. 1351 del 2016, 12069 del 2015, 6501 del 2013), poichè l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento.
La relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass., nn. 1977 del 2016, 1351 del 2016, 12059 del 2015).
I fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario e spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva,  ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente e dalla qualifica rivestita, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua particolare natura e tipologia (v. ad es. Cass. nn. 2013 del 2012).
Nella specie la Corte d’Appello, pur richiamando modalità di comportamento del lavoratore riguardanti le attività fissate per il mese di agosto, ha incentrato la sussistenza della giusta causa nella violazione dell’ordine di servizio del 24 luglio 2017, allorchè in data 31 luglio 2017, il lavoratore senza richiedere alcuna autorizzazione abbandona in via anticipata il posto di lavoro, nonostante fosse stato chiarito nella riunione di metà mese l’assoggettamento senza deroghe agli orari di entrata e di uscita indicati in contratto. Atteso che la Corte d’Appello ha dato atto che una modifica dell’orario di lavoro del ricorrente era intervenuta in modo chiaro e definitivo solo il 24 luglio, ne discende che la legittimità del recesso è stata affermato con riguardo al mancato rispetto dell’orario di lavoro in un limitato arco temporale di pochi giorni. Tale statuizione non ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati, che richiedono un più ampio vaglio di contesto oggettivo e soggettivo, ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di recesso.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo motivo nei sensi di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione.


Appalto di manodopera: quando è genuino e quando invece è illecito

Cass., sez. Lavoro, 16 febbraio 2023, n. 4828

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha confermato che, in tema di appalto avente ad oggetto la prestazione di servizi,  è fondamentale il requisito dell’autonomia di gestione e di organizzazione dell’appaltatore.
Il caso portato all’attenzione della Suprema Corte riguarda la valutazione dell’esistenza di una interposizione fittizia di manodopera tra una società appaltatrice del servizio di call center e l’appaltante con conseguente accertamento, per i dipendenti della società appaltatrice, dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della società appaltante.
Il Tribunale di Roma aveva rigettato la domanda mentre la Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto che tra le parti fosse esistente un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con le decorrenze e gli inquadramenti specificati per ciascun lavoratore.
Il Giudice di Appello aveva ritenuto che, dall’istruttoria espletata, fosse emerso che il servizio reso dai dipendenti della società appaltatrice era stato a beneficio esclusivo della società appaltante. La stessa società appaltante aveva conferito nell’appalto beni di rilevanza tutt’altro che marginale e dai quali non si poteva prescindere per il raggiungimento dello scopo dell’appalto. Inoltre, il compenso era stato parametrato alle giornate di lavoro effettuate, azzerando così il rischio economico per l’appaltatrice. I dipendenti poi, con accertamenti testimoniali, avevano confermato che il rapporto con la società appaltante aveva superato la mera collaborazione con gestione diretta da parte dell’appaltante di turni ed orari; il controllo era superiore al solo coordinamento.
Per la Suprema Corte la sentenza impugnata ha correttamente applicato i principi già affermati: l’appalto di manodopera vietato dall’art. 1 della Legge n. 1369 del 1960, va ricavato tenendo conto della previsione dell’art. 3 della stessa legge concernente l’appalto (lecito) di opere e servizi all’interno dell’azienda con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore.
L’appalto di manodopera è configurabile sia in presenza degli elementi presuntivi considerati dal terzo comma del citato art. 1 (impiego di capitale, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante), sia quando il soggetto interposto manchi di una gestione di impresa a proprio rischio e di un’autonoma organizzazione (da verificarsi con riguardo alle prestazioni affidategli) in particolare nel caso di attività esplicate all’interno dell’azienda appaltante, sempre che il presunto appaltatore non dia vita, in tale ambito, ad un’organizzazione lavorativa autonoma e non assuma, con la gestione dell’esecuzione e la responsabilità del risultato, il rischio di impresa relativo al servizio fornito. Peraltro, con riferimento agli appalti cosiddetti “endoaziendali”, che sono caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, è precisato che il richiamato divieto di cui all’art. 1 della Legge n. 1369 del 1960 opera tutte le volte in cui l’appaltatore mette a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore stesso i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa.
Ancora, la valorizzazione, al fine dell’esclusione della genuinità dell’appalto, dell’assenza di una organizzazione di impresa impiegata nello stesso e della riferibilità alla committente del concreto esercizio del potere direttivo sui lavoratori formalmente dipendenti dalla appaltatrice si pone in linea con l’insegnamento della Suprema Corte secondo il quale il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro previsto dall’art. 1 della  Legge 1369 del 1960 opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo (Cass. n. 7820 del 2013, n. 6343 del 2013, n. 19920 del 2011, n. 7898 del 2011, n. 11720 del 2009, n. 16788 del 2006).
In conclusione, il ricorso è rigettato.


È illegittimo il licenziamento del dipendente che durante i permessi ex L. 104 svolge attività a favore dei disabili, anche se non in modalità continuativa: licenziamento illegittimo 

Cass., sez. Lavoro, 13 marzo 2023, n. 7306

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La fruizione di permessi ex Legge n. 104 per l’assistenza a un familiare disabile riveste nell’ordinamento italiano una finalità ultima di rilievo costituzionale, basata sugli articoli 2 e 32 Cost. nonché sui principi di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.
Pertanto, nell’indicare che il diritto ai permessi retribuiti è riconosciuto al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, il nesso che il testo normativo pone non è di tipo strettamente temporale, cioè tra la fruizione del permesso e la prestazione di assistenza in precisa coincidenza con l’orario di lavoro, bensì funzionale, tra il godimento del permesso e le necessità, gli oneri, le incombenze che connotano l’attività di assistenza delle persone disabili in condizioni di gravità. Il contenuto dell’assistenza che legittima l’assenza dal lavoro (il permesso retribuito), quindi i tempi e i modi attraverso cui la stessa viene realizzata, devono individuarsi in ragione della finalità per cui i permessi sono riconosciuti, cioè la tutela delle persone disabili, il cui bisogno di ricevere assistenza giustifica il sacrificio organizzativo richiesto al datore di lavoro.
È a questo ultimo assunto a cui pervengono gli Ermellini investiti nel giudizio di merito sul caso di un dipendente, licenziato per avere fruito, a detta del datore di lavoro, indebitamente, dei giorni di permesso ex Legge n. 104 per assistere entrambi i genitori disabili.
La corte territoriale ha accertato durante il primo grado che il lavoratore aveva trasferito il padre presso la propria abitazione, stante l’aggravarsi delle condizioni della madre e che aveva usufruito dei giorni di permesso coordinandosi con la sorella, con cui condivideva l’onere della cura dei genitori, svolgendo si delle attività inerenti tale cura ma anche delle attività di svago personali, come la lettura di un libro per due ore, presso i giardini pubblici in orario considerato lavorativo (dalle ore 9 alle ore 17). Proprio a fronte di questi intervalli di svago si era mossa l’azienda procedendo con il licenziamento del lavoratore per giusta causa, per avere il dipendente usufruito dei permessi di cui all’articolo 33, comma 3, della Legge n. 104 del 1992, per finalità estranee all’assistenza dei genitori disabili.
Il giudice aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, sia in primo che in secondo grado, e tale interpretazione viene coerentemente confermata anche dalla Suprema corte.
La valutazione del giudice di appello ha confermato che fosse sostanzialmente garantita dal lavoratore l’assistenza ai genitori, nei sette giorni oggetto di investigazione, ed ha sottolineato come tale onere di assistenza dovesse valutarsi con la necessaria flessibilità, in modo da poter considerare anche i bisogni personali del dipendente e l’integrità del suo equilibrio psicofisico, sottoposto ad una gravosa prova per le incombenze legate alla cura dei familiari in difficili condizioni di salute; ciò secondo una interpretazione che tenga  conto dei principi costituzionali di tutela della salute e della solidarietà familiare.
Sulla base di tali premesse, escluso un utilizzo dei permessi in funzione “meramente compensativa” delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza fornita in orario extralavorativo, spetta al giudice di merito valutare se la fruizione dei permessi possa dirsi in concreto realizzata in funzione della preminente esigenza di tutela delle persone affette da disabilità grave, e nella salvaguardia di una residua conciliazione con le altre incombenze personali e familiari che caratterizzano la vita quotidiana di ogni individuo.
Nei casi in cui il lavoratore in permesso ex articolo 33, comma 3 cit., svolga l’attività di assistenza in tempi e modi tali da soddisfare in via preminente le esigenze ed i bisogni dei congiunti in condizione di handicap grave, pur senza abdicare del tutto alle esigenze personali e familiari altre rispetto a quelle proprie dei congiunti disabili e pure a prescindere dall’esatta collocazione temporale di detta assistenza nell’orario liberato dall’obbligo della prestazione lavorativa, non potrà ravvisarsi alcun abuso del diritto o lesione degli obblighi di correttezza e buona fede, quindi alcun inadempimento.


Comporto “secco” o “per sommatoria”, le differenti interpretazioni giudiziali

Cass., sez. Lavoro, 20 febbraio 2023, n. 5288

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Il tema del comporto “secco” o “per sommatoria” è stato più volte affrontato in sede giudiziale.
Il caso in esame aveva determinato la condanna alla reintegra nel posto di lavoro di un dipendente che – secondo l’interpretazione dei giudici del merito – non aveva superato nell’anno solare il periodo di comporto.
Il licenziamento veniva quindi dichiarato illegittimo e la società condannata al risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 18, Legge 20 maggio 1970, n. 300.
La Corte d’Appello era giunta alla suddetta conclusione applicando al caso di specie il concetto di “comporto secco” sulla base del combinato disposto degli articoli 175 e 177 del Ccnl Commercio del 18 luglio 2008 e giungendo alla conclusione che se ad un periodo di malattia, nello stesso anno, segue un’interruzione, comincia a decorrere un nuovo periodo di comporto.
Nello specifico, il lavoratore si era assentato per due periodi di malattia nell’arco del 2007, con soluzione di continuità tra i due eventi morbosi, e per nessuno dei due periodi si era verificato il superamento dei 180 giorni consecutivi. Per tale ragione la corte concludeva per l’illegittimità del licenziamento non essendosi determinato in nessuno dei due casi il superamento del comporto tale da giustificare il recesso dal rapporto lavorativo.
La società ricorre per cassazione ritenendo il ragionamento alla base dei giudici di merito non allineato con i criteri ermeneutici che  devono sottendere non solo alle norme di diritto, ma anche alle previsioni contrattuali contenute nei Ccnl, in particolare nel contratto collettivo citato.
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della società, afferma infatti che l’interpretazione operata dalla corte distrettuale, “ogni periodo di comporto ha durata di 180 giorni”, è una lettura isolata dal contesto delle previsioni contrattuali in cui è stata inserita.
In particolare tale previsione va ricollegata all’articolo 177 in cui si afferma che per malattia e infortunio valgono distinti ed autonomi periodi di comporto, ciascuno di 180 giorni cadauno. Ciò premesso, il concetto espresso non era certamente assimilabile al caso oggetto d’esame, in quanto nella specifica
fattispecie al lavoratore erano riferibili unicamente due periodi di assenza per malattia.
Ma la Corte di Cassazione fa ulteriori precisazioni.
In primo luogo, dall’analisi del Ccnl citato, non vi sono elementi a supporto per desumere in modo chiaro che in caso di interruzione della malattia decorra automaticamente un nuovo periodo di comporto, ed inoltre, non vi è neppure lo specifico riferimento contrattuale al carattere consecutivo, e quindi ininterrotto delle assenze per malattia.
Si aggiunga a questo che l’utilizzo del termine “periodo” in forma singolare non depone certo a favore di un’interpretazione che permetta la conservazione del posto di lavoro a fronte di più periodi di assenza per malattia che per sommatoria determino il superamento dei 180 giorni.
Per il caso in esame la Corte di Cassazione ha quindi concluso per il rinvio alla medesima Corte d’Appello in diversa composizione per una nuova pronuncia giudiziale.

 

 


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Sentenze

Onere della prova in caso di repêchage

Cass., sez. Lavoro, 12 gennaio 2023 n. 749

Clara Rampollo, Consulente del Lavoro in Pavia

La vicenda riguarda un lavoratore licenziato a causa della soppressione del magazzino, al quale era adibito, il quale impugna il licenziamento intimato dall’Istituto sanitario. Si riassume, brevemente, che la Corte d’Appello di Salerno, in sede di reclamo ed in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato il 14.11.2014 in considerazione della sussistenza della ragione organizzativa e della mancanza di residue mansioni ove adibire il lavoratore.

La Corte territoriale – pacifica la soppressione del magazzino – ha ritenuto che il concorso di diversi elementi deponeva per l’insussistenza di posti ove adibire il lavoratore posto che il datore di lavoro aveva dimostrato l’assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato, etc. etc. Il lavoratore propone, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a un motivo; l’Istituto ha depositato controricorso. In particolare, con l’unico motivo il ricorrente denuncia (per violazione degli artt. 3 e 5 della Legge n. 604 del 1966 e 2697 cod.civ. (ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.), che la Corte distrettuale ha erroneamente applicato il criterio della distribuzione dell’onere della prova, addossando al lavoratore la prova inerente all’impossibilità di reimpiego in azienda.      

Il ricorso non è fondato.

Infatti, così quanto riportano gli Ermellini – secondo orientamento oramai consolidato della Corte di Cassazione, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (a seguire GMO), incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del GMO, che include anche l’impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore; incombe sul datore di lavoro l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione o al funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte;

  • la impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse costituisce elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore (Cass., n. 24882 del 2017);
  • circa l’onere di allegazione di posti disponibili per una utile ricollocazione, è stato osservato che esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all’interno dell’azienda significa, se non invertire sostanzialmente l’onere della prova (che – invece – la legge n. 604 del 1966, art. 5, pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio; invece, alla luce dei principi di diritto processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte. Infatti, chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione; – si aggiunge che, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai fini del repêchage, ove il lavoratore medesimo non indichi posizioni lavorative alternative oppure indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili ma queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repêchage; si noti che tali principi operano sul diverso piano della ricostruzione del quadro probatorio.

Tanto premesso, gli Ermellini precisano che il passaggio argomentativo contenuto nella sentenza impugnata in cui si è affermato che spetta al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’esistenza di posti di lavoro effettivamente disponibili in cui poter utilmente inserire il lavoratore si colloca nell’alveo del suddetto orientamento interpretativo. Inoltre, così ancora si legge nella sentenza, la Corte territoriale ha ritenuto provata la carenza di posti residuali nei quali adibire il lavoratore, in forza di molteplici elementi probatori (l’Istituto aveva dimostrato, depositando il L.U.L., l’assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato; etc…): l’allegazione del lavoratore è valsa, quindi, a integrare il quadro della prova presuntiva nel quadro complessivo degli elementi acquisiti al processo che la sentenza impugnata, secondo l’accertamento di merito che le era demandato, ha ritenuto utilizzabili per giungere ad escludere, nel giudizio finale e complessivo, la possibilità di ricollocazione del ricorrente in azienda, accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità. In conclusione, il giudizio espresso dal giudice di merito deve essere ritenuto conforme a diritto in quanto condotto nell’ambito della prova presuntiva del fatto negativo acquisibile anche attraverso fatti positivi, tra i quali ben possono essere inclusi i fatti indicati dal lavoratore ed acquisiti al processo. Attenzione: il principio non vale invece ad invertire l’onere della prova di cui ai principi sopra indicati, peraltro espressamente richiamati anche dalla sentenza impugnata.

 


Licenziamento ritorsivo: onere della prova

Cass., sez. Lavoro, 24 gennaio 2023, n. 2117

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

 

Con questa sentenza la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sul tema del licenziamento ritorsivo ribadendo il principio, già affermato da numerose pronunce della stessa Corte e della giurisprudenza di merito, per il quale nel caso in cui il lavoratore licenziato, per motivi disciplinari od oggettivi, alleghi la nullità del licenziamento perché ritorsivo, grava sul lavoratore l’onere della prova che l’intento ritorsivo del datore di lavoro sia determinante, cioè tale da costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale. La peculiarità della sentenza in commento deriva dal fatto che nel caso sottoposto all’esame della Corte il licenziamento impugnato dal lavoratore era stato intimato dalla società per giustificato motivo oggettivo all’esito della procedura prevista dall’art. 7 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall’art. 1, co. 40, della L. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. legge Fornero) e il lavoratore aveva addotto, tra l’altro, la ritorsività del recesso proprio per il suo rifiuto di trovare un accordo nell’ambito di tale procedura (oltre che come reazione ad una causa avviata dal lavoratore per il pagamento di differenze retributive). Il Tribunale, in sede sommaria e all’esito dell’opposizione, aveva escluso il carattere ritorsivo del licenziamento e ritenuto sussistente il giustificato motivo oggettivo posto a base dello stesso rappresentato da difficoltà economiche della società. La Corte d’appello, invece, aveva accolto il reclamo del lavoratore, ritenendo il licenziamento ritorsivo in quanto surrettiziamente giustificato da difficoltà economiche che la società non era stata in grado di dimostrare ma, secondo la Corte d’Appello, intimato come reazione al contenzioso avviato dal lavoratore. La società ha impugnato la sentenza evidenziando che il Giudice del reclamo avrebbe erroneamente valorizzato i tempi di avvio della procedura ex art. 7, L. n. 604/66 e quelli di promozione dell’azione giudiziaria da parte del lavoratore, senza considerare che il ricorso del lavoratore era stato notificato alla società solo a procedura di licenziamento già avviata. La Suprema Corte ha cassato la sentenza d’appello evidenziando che “il procedimento per l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inizia … con quella manifestazione di volontà, già delineata nei suoi contorni, che è oggetto della comunicazione che deve essere inoltrata alla commissione territoriale per attivare la preventiva procedura di conciliazione ed è a quel momento che deve in primo luogo aversi riferimento per valutare se la scelta datoriale sia improntata o meno ad un intento ritrosivo”. Nel caso in esame, invece la Corte d’Appello non aveva esaminato il contenuto e i tempi della comunicazione di avvio della procedura di conciliazione ex art. 7, L. n. 604/66, ancorché depositata dalla società, comunicazione che, secondo la Corte, può essere decisiva per stabilire “se sussista o meno un nesso di consequenzialità tra la scelta datoriale di procedere al licenziamento – manifestata proprio con tale comunicazione e perfezionatasi con il licenziamento intimato per effetto della mancata conciliazione stragiudiziale – e la successiva e in parte parallela azione giudiziaria intrapresa dal lavoratore”.

In sede di giudizio di rinvio la Corte d’Appello dovrà, dunque, riesaminare la controversia tenendo conto del dato di fatto rappresentato dalla comunicazione di avvio della procedura di licenziamento e della sua incidenza ritrosiva o meno sulla scelta del datore di lavoro verificando, in ogni caso, l’effettività delle ragioni economiche poste a base del recesso che, se dimostrate, escluderebbero il carattere ritorsivo del recesso atteso che, come già evidenziato, l’intento ritorsivo del datore di lavoro – che può essere provato anche mediante presunzioni semplici – deve essere il motivo unico e determinante del recesso.


 L’assoluzione nel procedimento penale non pregiudica il procedimento disciplinare

Cass., sez. Lavoro, 10 gennaio 2023, n. 398

Clarissa Muratori, Consulente del lavoro in Milano

La sentenza in commento si allinea a diverse altre pronunce giudiziali in cui la Corte di Cassazione ribadisce che, in caso di assoluzione del lavoratore in sede penale, il procedimento disciplinare non necessariamente ne subirà pregiudizio.

Se un fatto può non costituire reato in un giudizio penale, questo stesso può ben rappresentare una fattispecie idonea ad integrare un inadempimento sotto il profilo disciplinare, pertanto l’assoluzione del lavoratore in sede penale non determina ipso facto l’annullamento della sanzione disciplinare.

Nel caso specifico un dirigente impugnava il  licenziamento per giusta causa, comminatogli per aver intrattenuto rapporti con persone condannate per reati ai danni della società, ed in particolare chiedeva la condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità di mancato preavviso e al risarcimento del danno patito, in virtù della sua assoluzione in sede penale.
Risultato soccombente sia in primo che in secondo grado, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione sulla base del fatto che penalmente era stato assolto.
La Cassazione nell’avallare la corretta condotta tenuta dai giudici di merito durante i due procedimenti civili che vedevano confermata la sanzione del licenziamento per giusta causa con rigetto delle richieste del dirigente, torna su un aspetto molto rilevante:
in primo luogo i procedimenti penale e civile godono di reciproca autonomia, ma soprattutto è ben possibile che una fattispecie non sia idonea ad integrare un fatto di reato, ma ciononostante rappresenti un fatto perseguibile disciplinarmente.
Secondo la Cassazione il caso era stato correttamente ricostruito ed analizzato dai giudici, anche alla luce di un ulteriore e imprescindibile aspetto in tema di procedimento disciplinare: il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
Laddove, a fronte di fatti concretamente accertabili e idonei a costituire un illecito disciplinare, si spezzi l’indispensabile vincolo fiduciario tra i soggetti in causa, la circostanza non può certamente essere sottovalutata, potendo portare ad irrogare quella più grave tra le sanzioni previste dal codice disciplinare.
Nel caso oggetto di analisi quindi la sanzione espulsiva deve essere ritenuta legittima.


Licenziamento per GMO con soppressione della posizione lavorativa: tutela reintegratoria 

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2022, n. 37949

Margherita Bottino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte d’Appello di Bologna, in conformità a quanto sancito dal Tribunale della medesima città, ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato al lavoratore a seguito di un calo di fatturato nel settore delle vendite.

Contrariamente ai Giudici di prime cure ha però, in parziale accoglimento del reclamo proposto dalla società datrice di lavoro, accordato il rimedio indennitario in luogo della reintegrazione disposta in prima istanza. Secondo la Corte d’Appello, infatti, considerati i margini di equivocità delle risultanze probatorie e la parziale dimostrazione del calo di fatturato, non ricorrendo una ipotesi di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, ha ritenuto non fosse corretto il riconoscimento della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, co. 7 e 4 dello Statuto dei lavoratori, in luogo di quella indennitaria prevista dai commi 7 e 5.

Il lavoratore, ritenendo erronea l’interpretazione dell’art.18 ad opera della Corte di merito, in quanto non in linea con i precedenti interventi dalla Corte Costituzionale, decideva di adire il giudizio della Corte Suprema. La Corte di Cassazione riprendendo l’apparato sanzionatorio delineato dall’art. 18 da applicare in caso di accertamento dell’illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, così come inciso dalle precedenti sentenze della Corte Costituzionale (cfr., C. Cost. n. 59/2021 e n. 125/2022), ha ribadito quanto segue: il giudice, una volta accertata l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina – in simmetria col regime dei licenziamenti soggettivi – la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica.

Pertanto, in parziale accoglimento del ricorso promosso dalla lavoratrice cassa la sentenza e rimettendo la causa alla Corte d’Appello di Bologna.


La declaratoria di nullità del licenziamento è un fatto autonomo

Cass., sez. Lavoro, 10 gennaio 2023, n. 404

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La Cassazione si è espressa riguardo al ricorso presentato dal lavoratore licenziato prima del trasferimento dell’azienda. La sentenza impugnata aveva ritenuto che il lavoratore -licenziato dalla società cedente- che aveva contestato il licenziamento nei confronti della stessa società entro il primo termine di 60 giorni, avrebbe dovuto entro il successivo termine di 180 giorni, alternativamente depositare il ricorso oppure promuovere il tentativo di conciliazione nei confronti della stessa società cedente e non nei confronti della società già subentrata nell’azienda e in tutti i rapporti giuridici ex art. 2112 c.c..

I giudici specificano che il licenziamento, quale atto unilaterale recettizio, produce i suoi effetti estintivi nel momento in cui perviene al destinatario. La risoluzione del rapporto di lavoro, se realizzata prima della cessione dell’azienda o di un suo ramo, impedisce di ritenere immediatamente operante il principio di continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario, di cui al primo comma dell’art.2112 c.c., che presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento della cessione d’azienda. La società cedente conserva pertanto il potere di recesso e il trasferimento della società non impedisce il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In caso di licenziamento ante cessione di azienda, la garanzia offerta dall’art. 2122 c.c. opera nei riguardi di una sentenza di illegittimità del recesso con tutela ripristinatoria. In sintesi, nel caso di un licenziamento intimato anteriormente al trasferimento dell’azienda, la garanzia dell’art. 2112 c.c. opera solo a condizione che vi sia la dichiarazione di nullità o illegittimità del licenziamento, con la conseguenza di ripristino del rapporto di lavoro alle dipendenze della società cedente pertanto, “la declaratoria di nullità del licenziamento o il suo annullamento costituiscono dunque un dato pregiudizievole ed autonomo – sul piano logico e sul piano giuridico – rispetto all’accertamento del trasferimento d’azienda e dei suoi effetti”, con la conseguenza che la contestazione del licenziamento resta sottoposta alle sue proprie regole.

Il ricorso è respinto.


Lavoro ed occupazione: il fenomeno del mobbing

Cass., sez. Lavoro, 3 febbraio 2023, n. 3361

Stefano Gugliemi, Consulente del lavoro in Milano

La lavoratrice ricorreva ai sensi del Decreto Legislativo n. 198 del 2006, articolo 38,
comma 3, chiedendo l’accertamento e la repressione del comportamento asseritamente
discriminatorio tenuto dalla parte datoriale connesso alla disdetta dal contratto di apprendistato professionalizzante intimata dal datore a fronte di circa duecento apprendisti assunti a tempo indeterminato ed alle modalità di svolgimento del periodo di apprendistato-formazione; il fattore di discriminazione era individuato con riferimento alle due gravidanze portate a termine dalla lavoratrice nel corso del rapporto di apprendistato.
Il giudice di primo grado ordinava al datore di cessare il comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti reintegrando la lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato.
La Corte di Appello ha respinto la originaria domanda per essere gli elementi addotti dalla lavoratrice a sostegno del carattere discriminatorio della condotta del datore privi dei necessari caratteri di precisione e concordanza tali da fondare una presunzione di comportamento discriminatorio superabile solo in presenza di prova negativa offerta dalla parte datoriale.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la lavoratrice.
Occorre muovere dai principi che regolano la materia come ricostruiti dalla giurisprudenza della Corte ed in particolare da Cass. n. 5476/2021, secondo la quale “in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, il Decreto legislativo n. 198 del 2006, articolo 40 stabilisce un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta
solo a dimostrare una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta”.
Alla luce di tali indicazioni la lavoratrice era onerata della sola dimostrazione di essere portatrice di un fattore di discriminazione e di avere subito un trattamento svantaggioso in connessione con detto fattore.
In corrispondenza con le richiamate coordinate ermeneutiche la Corte territoriale era quindi tenuta in primo luogo a verificare sulla base di un ragionamento presuntivo la esistenza di un possibile fattore di discriminazione in relazione alla disdetta dal solo contratto di apprendistato (atteso che la Corte di merito ha logicamente congruamente motivato circa la non ravvisabilità di un fattore di discriminazione con riferimento alle ripetute proroghe del periodo di formazione)
ed, in caso di esito positivo, se la parte datoriale avesse assolto al proprio onere di allegare e dimostrare circostanze destinate a superare la presunzione di discriminazione.
Tanto non è in concreto avvenuto.
In base alle considerazioni che precedono, assorbita ogni altra censura, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio per il riesame della concreta fattispecie alla luce delle indicazioni sopra formulate.


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Sentenze

Licenziamento per GMO per ragione organizzativa: nesso di causalità intercorrente tra il calo di volume di affari e il licenziamento e nuove assunzioni incoerenti con la contrazione del fatturato

Cass., sez. Lavoro, 12 gennaio 2023, n. 752

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Corte di Appello di Potenza, in riforma della sentenza del Tribunale di Matera, ha respinto la domanda di annullamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato dalla società alla lavoratrice, addetta a mansioni di estetista con orario part time pari a 24 ore settimanali, per esigenza di ridurre i costi di gestione e necessità di procedere alla riorganizzazione dell’azienda.
La Corte, esaminato preliminarmente il profilo della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo rispetto alla dedotta ritorsività del recesso, ha ritenuto sussistente la ragione organizzativa addotta dalla società.
Ha aggiunto che la scelta di licenziare la lavoratrice rispetto ad altre lavoratrici, a parità di carichi di famiglia e di qualifica professionale, appariva corretta e rispettosa dei principi di buona fede e  correttezza, a fronte del minor monte ore di lavoro svolto dalla stessa rispetto alle colleghe.
Per la cassazione di tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso. La società resiste con controricorso.
Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
La Corte distrettuale ha erroneamente valutato la prova documentale consistente nello stato  patrimoniale depositato dalla società  per gli anni 2016 e 2017: il dato da valutare per verificare l’effettiva sopravvenuta congiuntura sfavorevole era, invero, corrispondente alla comparazione degli utili ottenuti
nei due anni (sui quali influiscono i costi affrontati) e non già alla comparazione dei ricavi.
L’assunzione di tre lavoratrici, inoltre, spezza il nesso di causalità tra crisi economica e licenziamento della lavoratrice. Il ricorso è fondato per quanto di ragione.
La ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affermato che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni  inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro  sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost.; dove, però, il giudice accerti in concreto l’inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta (Cass., n. 10699 del 2017, Cass., n. 9468 del 2019).
La valutazione del nesso di causalità tra esigenze di riorganizzazione del personale riferibili alla contrazione del fatturato e il licenziamento della lavoratrice non risulta coerente con l’assunzione (aprile 2017) di due lavoratrici (di cui la Corte territoriale non precisa né il tipo di contratto stipulato, né la  qualifica rivestita, né l’orario di lavoro osservato, limitandosi a rilevare che “probabilmente” sostituivano la lavoratrice) avvenuta proprio durante l’anno (2017) che ha presentato il  calo dei ricavi (ossia del volume di affari sviluppato dalla società), assunzioni effettuate a pochi mesi dal rientro della lavoratrice in azienda (settembre 2017) e che hanno inevitabilmente determinato l’incremento dei costi del personale; le gravi lacune di indagine in ordine alla coerenza logica ed al nesso di causalità intercorrente tra l’accertato calo di volume di affari (posto che il riferimento ai ricavi rappresenta, pur sempre, un  indice per valutare l’andamento dell’impresa) e il licenziamento della lavoratrice, a fronte dell’assunzione di due lavoratrici (che, in un contesto di contrazione di attività, ha fatto lievitare i costi del personale) ha compromesso la corretta verifica della sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 3 della Legge n. 604 del 1966 che consentono al datore di lavoro di precedere al recesso.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Salerno, che provvederà altresì alle spese del giudizio di legittimità.


Riconoscimento del danno se la rotazione della CIGS è illegittima

Cass., sez. Lavoro, 16 dicembre 2022, n. 37021

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con l’ordinanza n. 37021 del 16 dicembre  2022, la Corte Suprema di Cassazione ha affermato che spetta il risarcimento del danno al lavoratore quando, in caso di accesso al procedimento di cassa integrazione
guadagni straordinaria (“Cigs”), il datore di lavoro decida discrezionalmente e senza definire i criteri di scelta la sospensione lavorativa senza un’adeguata rotazione.
I fatti di causa hanno visto un datore di lavoro ricorrere in appello dopo che, in primo grado, era stata ritenuta illegittima la sospensione in Cigs a “zero ore” di una lavoratrice.
In tale grado di giudizio, la società datrice di lavoro era stata condannata al pagamento delle differenze retributive dovute alla lavoratrice stessa per i periodi di fruizione della Cigs. Dette differenze consistevano nell’integrazione del trattamento erogato da Inps da parte della società, fino ad arrivare allo stipendio intero che la lavoratrice avrebbe dovuto ricevere se avesse prestato lavoro per tutto il periodo di sospensione a “zero ore”.
Data la conferma, da parte della competente Corte di Appello, della sentenza formatasi in primo grado, il datore di lavoro ricorreva per la sua cassazione attraverso diversi motivi di ricorso. Questi venivano tutti respinti dalla Corte di Cassazione, alla luce delle considerazioni seguenti.
In merito alla prescrizione breve delle somme richieste dal lavoratore, asserita dal datore di lavoro sulla base di quanto previsto dall’articolo 2948 c.c., i giudici di legittimità hanno ritenuto che “per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto all’ordinaria prescrizione decennale”.
Per quanto riguarda l’avvio stesso dei diversi periodi di Cigs e le motivazioni che lo hanno sorretto, la Cassazione ha osservato come gli accordi che, nel tempo, si sono succeduti propedeuticamente a ciascun avvio facessero riferimento a “esigenze tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi”.
Emergeva, dunque, come il criterio adottato dal datore di lavoro risultasse “totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnicoproduttive e, per certi aspetti, anche arbitrario”.
In sostanza, il datore di lavoro aveva “autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati – anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione”.
Nella sentenza della Suprema Corte viene chiaramente rappresentato come, durante un periodo di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale con conseguente ricorso alla Cigs, vengano in capo alla parte datoriale degli specifici obblighi in tema di indicazione e comunicazione agli organismi sindacali dei criteri di scelta del personale soggetto all’integrazione salariale, nei confronti del quale deve essere garantita un’adeguata rotazione. Se ciò non viene fatto o attuato, il provvedimento di Cigs risulta  illegittimo, in quanto al datore di lavoro non è consentita la scelta arbitraria dei lavoratori da sospendere.
Come noto, infatti, i criteri di scelta da considerare sono relativi ad anzianità aziendale, carichi di famiglia ed esigenze organizzative, e gli stessi devono essere parte integrante delle comunicazioni e dell’esame congiunto previsto dalla norma, come disposto dal comma 7 dell’articolo 1 della Legge n. 223/1991, al tempo vigente. Se questi criteri non vengono rispettati o nemmeno definiti da un accordo, il provvedimento di Cigs risulta inevitabilmente illegittimo.
In particolare, secondo gli Ermellini, il lavoratore sospeso senza che il datore di lavoro abbia attuato i criteri previsti dall’accordo sindacale ha diritto a rivendicare la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l’inadempimento della clausola di “rotazione”.
In questo caso, il datore di lavoro è responsabile secondo il principio della “mora del debitore”, ai sensi dell’art. 1218 c.c., a meno che questi dimostri che ciò non è avvenuto per cause di forza maggiore oppure per questioni organizzative a lui non imputabili.


Verbali di accertamento degli organi ispettivi: sono elemento di prova anche se presentano incolmabili lacune dimostrative

Cass., sez. Lavoro, 14 dicembre 2022, n. 36573

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Una Srl propone ricorso in Cassazione dopo che la Corte d’Appello di Catanzaro ha riconosciuto fondate le pretese dell’Inps, in relazione ad un verbale ispettivo che accertava un debito contributivo della società pari ad euro 369.519,67.
In Appello la Corte non aveva censurato la decisione del Tribunale anche se tale decisione fosse stata determinata da un verbale che in giudizio non era stato nemmeno prodotto dall’Inps, bensì dalla società stessa e i cui contenuti erano stati ritenuti efficacemente probatori.
La società, nel ricorso in Cassazione, denuncia che il giudice di merito avrebbe attribuito valore di prova legale ad un verbale ispettivo che presentava incolmabili lacune dimostrative e neppure era stato  confermato dall’Inps, che peraltro non si era neppure costituito.
Per la Suprema Corte però, può esserci la violazione dell’articolo 116 c.p.c. solo se il giudice nel valutare la prova o una risultanza probatoria, pretende di attribuire un altro o diverso valore, oppure la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione e il giudice dichiara di valutare la stessa prova secondo il suo “prudente apprezzamento”.
La Suprema Corte conferma quindi che i verbali di accertamento degli organi ispettivi, fanno piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante, come avvenuti in sua presenza e conosciuti. Detti verbali costituiscono elemento di prova che il giudice deve valutare in concorso con gli altri elementi e che può disattendere solo in caso di motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio.
In definitiva, il ricorso è dichiarato inammissibile perché il materiale istruttorio acquisito al giudizio, legittima comunque la pretesa dell’Ente previdenziale, indipendentemente dalla sua provenienza e tenuto conto degli altri documenti prodotti dall’Istituto: copia del libro matricola e scheda anagrafica aziendale.


Omissione dolosa di cautele infortunistiche

Cass., sez. Lavoro, 25 ottobre 2022, n. 40187

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

I giudici della Suprema corte di Milano si sono trovate a dirimere i motivi di un ricorso relativo alla sicurezza.
Il ricorrente, nella qualità di datore di lavoro di più società, veniva imputato per non aver adottato cautele antinfortunistiche atte a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, con riferimento a 14 autisti di più società di cui era amministratore.
In particolare, si contesta all’imprenditore di avere usato una calamita per manomettere i dati del cronotachigrafo, in un periodo dal 2010 al 2013, minacciando il loro licenziamento se si fossero rifiutati. Il giudice di primo grado aveva irrogato, all’esito di rito abbreviato, la pena di un anno e otto mesi di reclusione rigettando le richieste delle parti civili.
In secondo grado, il giudice dell’appello condanna il datore G.P.V., ma gli concede le circostanze attenuanti generiche, rideterminandone la pena irrogata in un anno, un mese e venti giorni di reclusione e concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento degli importi indicati entro tre mesi dall’irrevocabilità della sentenza.
Gli avvocati dell’imprenditore hanno presentato ricorso con alcuni argomenti sostanziali e formali, parzialmente rigettati dagli Ermellini, che ribadiscono infatti che la responsabilità dell’impresa non sia solo “commissiva”, ossia l’imposizione delle calamite, ma anche “omissiva”, evitando il controllo sul funzionamento del cronotachigrafo: il cronotachigrafo è un apparecchio per sua natura destinato alla prevenzione d’infortuni sul lavoro.
Quindi, il datore di lavoro che imponga l’alterazione di un apparecchio avente finalità di prevenzione degli infortuni, risponde del reato di cui all’articolo 437 codice penale, sulla base di numerose sentenze Europee su casi simili.
Tuttavia, a fronte di ampia riflessione condotta dalla Corte, deve essere rilevata l’intervenuta prescrizione del reato continuato ascritto.
Tenuto conto, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 157 e 160 c.p. della pena massima edittale per il reato indicato, e del fatto che esistono plurime cause interruttive del corso della prescrizione, il reato ascritto a G.P.V. è prescritto alla data del 30 novembre 2020, data alla quale deve essere aggiunto il periodo di sospensione del corso della prescrizione di 4 mesi e 30 giorni.
Deriva da quanto sin qui esposto l’annullamento senza rinvio, agli effetti penali, della sentenza  impugnata, posto che il reato continuato ascritto all’imputato è, come detto, estinto per intervenuta prescrizione.


Licenziamento per giustificato motivo e la questione dell’aliunde perceptum

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2022, n. 37946

Clara Rampollo, Consulente del Lavoro in Milano

La vicenda trae origine dal licenziamento di una lavoratrice, poi reintregrata nel posto di lavoro con conseguente condanna del datore di lavoro alla corresponsione della retribuzione globale di fatto nel frattempo maturata, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

In sede di Appello si registra una sostanziale coincidenza con la posizione espressa dal Tribunale: viene rilevato il difetto delle ragioni addotte dal datore di lavoro per giustificare il recesso e del conseguente nesso di causalità in quanto non è stata ritenuta configurabile la riorganizzazione.

In Cassazione, ove la società datrice di lavoro presenta ricorso (che viene respinto), in sintesi si riportano le seguenti posizioni che meritano di essere messe in rilievo:

– “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa: non essendo la scelta imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro, sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost. (sul punto la sentenza riprende plurime Cassazioni); sempre che, s’intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non risultando il recesso pretestuoso.”

Ciò premesso, la Corte di Appello aveva “dato conto della pretestuosità del giustificato motivo oggettivo addotto consistendo in una riduzione della figura del department manager (ovvero del responsabile di reparto) originariamente ricoperta dalla controricorrente, per effetto di una complessiva riorganizzazione aziendale intervenuta a far tempo dal febbraio 2015, ma nel punto vendita di via Borgognona, ove la lavoratrice era stata trasferita sin dall’1 luglio 2014, non era affatto presente la figura del responsabile di reparto – prevedendo l’organico di tale punto vendita esclusivamente la figura del direttore e del vice direttore, nonché di nove assistenti alla vendita. Il giudice di secondo grado ha, quindi, chiarito che la lavoratrice aveva ivi svolto l’attività di addetta alle vendite, con conseguente dequalificazione, aggiungendo che tale circostanza non era stata in alcun modo contestata dalla società, risultando, quindi, pacifica fra le parti ”;

– si riprende, infine, molto brevemente un altro passaggio della sentenza che riguarda il c.d. aliunde perceptum.

Sul punto la Cassazione ricorda che in tema di licenziamento illegittimo, il cd. “aliunde perceptum” non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, pertanto, “allorquando vi sia stata la rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata e se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato, nondimeno, gli elementi fattuali posti a fondamento dell’aliunde perceptum devono essere ritualmente allegati dalla parte che lo deduca”.

E nel caso in esame, il datore di lavoro non aveva dedotto o allegato, nella fase sommaria, ovvero in quella di opposizione, fatti o circostanze relativi a presunti redditi percepiti dalla lavoratrice dopo il licenziamento; inoltre, a tale mancata allegazione non possono supplire le istanze istruttorie avanzate dalla società (consistenti nell’interrogatorio formale e nella richiesta di documentazione all’Inps ed alla Agenzia delle Entrate), tenuto conto che le richieste istruttorie possono essere correttamente volte alla sola dimostrazione dei fatti ritualmente indicati ed allegati.


Tra subordinazione e autonomia …l’abito fa il monaco

Cass., sez. Lavoro, ordinanza 30 dicembre 2022, n. 38182

L’art. 2094 c.c. è come un abito su misura e nei dettagli risiede l’individualizzazione di uno status: con l’ordinanza n. 38182 del 30/12/2022 viene rigettato il ricorso presentato dalla ricorrente avente ad oggetto la riqualificazione in via giudiziale di un rapporto di lavoro autonomo in lavoro subordinato e la conseguente inefficacia del licenziamento orale intimato. In particolare, lo si anticipa, il ricorso viene rigettato in quanto lo stesso contiene censure che non riguardano la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, ma investono unicamente la valutazione delle risultanze processuali, attraverso ampi riferimenti alle prove testimoniali e non possono trovare ingresso in sede di legittimità. Gli elementi indiziari, così continua la Corte, evidenziati nel motivo di ricorso non sono astrattamente incompatibili con forme di lavoro diverse da quello descritto dall’art. 2094 c.c., come il lavoro accessorio, di cui agli artt. 48 e ss. D.lgs. n. 81 del 2015, nel testo ratione temporis applicabile.
Tanto premesso, l’ordinanza merita di essere annotata per aver sottolineato che l’art. 2094 c.c. individua gli elementi necessari per definire il concetto di subordinazione tra le parti, in cui un soggetto  lavoratore) presta la sua forza psico fisica ad un altro soggetto (datore di lavoro) a fronte di una controprestazione in denaro e/o in natura.
L’attività del lavoratore è parte integrante della struttura e del buon funzionamento dell’attività imprenditoriale del datore di lavoro, non un mero risultato di essa, come sottolineato dagli stessi Giudici. Tale assoggettamento, così sempre la Corte, non costituisce un dato di fatto elementare
quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze. E ove tale modalità di essere non sia agevolmente apprezzabile, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi (come, ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l’assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale),
che hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria (sul punto l’ordinanza rimanda a plurime Cassazioni). Questi elementi, lungi dall’assumere valore decisivo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, costituiscono indizi idonei ad integrare una prova presuntiva della subordinazione, a condizione che essi siano fatti oggetto di una valutazione complessiva e globale,
così conclude la Corte.

 

 


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Sentenze

E’ tenuto al pagamento dei debiti maturati nei confronti dei lavoratori cessati chi subentra per cessione di azienda nella proprietà

Cass., sez. Lavoro, 18 novembre 2022, n. 34036

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

Chi subentra nella cessione di azienda come proprietario e datore di lavoro è tenuto a farsi carico dei debiti dell’azienda ceduta, anche nei confronti dei dipendenti ormai cessati. È l’assunto ribadito dalla Suprema corte di Brescia nell’analisi del ricorso da parte della Società Cooperativa Sociale che è subentrata alla precedente Società cooperativa sociale per incorporazione. I dipendenti della precedente società hanno convenuto in giudizio la nuova proprietà, chiedendo il pagamento di differenze retributive, per mancato riconoscimento degli aumenti contrattuali nazionali e/o territoriali,  mancata applicazione degli aumenti periodici di anzianità e relativa incidenza sul calcolo delle ferie, dei permessi, dei congedi, delle festività, delle mensilità aggiuntive e dell’elemento retributivo territoriale, maturate nel periodo di lavoro alle dipendenze della cooperativa sociale incorporata dalla convenuta, quando i rapporti di lavoro in oggetto erano già cessati. Respinte le domande in primo grado, in appello i lavoratori si sono visti accordare, in parziale riforma della sentenza di primo grado, il pagamento delle somme in favore di ciascuno come in dispositivo indicate, oltre accessori, a titolo di differenze derivanti dal calcolo degli scatti di anzianità nei limiti della prescrizione.
Ricorre in Cassazione la nuova Cooperativa, con quattro motivi.
Con il primo motivo di ricorso addotto, la Società cooperativa sosteneva la violazione e falsa applicazione dell’art. 2504 bis del c.c. in combinato disposto con l’art.2112 c.c. adducendo che la fusione per incorporazione fosse regolata in tutti i suoi aspetti, anche in relazione ai rapporti di lavoro ed alle obbligazioni da essi derivanti. Tale motivo è considerato infondato.
Con il secondo motivo, anch’esso ritenuto infondato, sosteneva che mancava l’applicabilità alla fattispecie in esame, di fusione per incorporazione, del principio del rispetto dell’ordinamento comunitario da parte dei singoli ordinamenti nazionali.
Con il terzo motivo di ricorso censurava la sentenza impugnata per avere violato le disposizioni nazionali e comunitarie le quali stabiliscono la responsabilità del soggetto incorporante per i crediti del lavoratore  nell’ipotesi di rapporto di lavoro in essere al momento del trasferimento. Anche questo motivo, come i precedenti, è ritenuto infondato.
La cassazione dei primi tre motivi persegue la linea delle precedenti cassazioni, Cass. n. 30577/2021, dove si conferma che alla fusione sia collegato un generale subentro della società che da essa risulta in tutti i diritti e gli obblighi delle società ad essa partecipanti.
Il quarto motivo di ricorso, incentrato sulla violazione dell’art. 2560 c.c., è anch’esso infondato in quanto, come chiarito dalla Corte, la fusione di società realizza una successione a titolo universale, corrispondente a quella mortis causa, con la conseguenza che il soggetto risultante dalla fusione (per incorporazione) diviene l’unico e diretto obbligato per i debiti dei soggetti definitivamente estinti per effetto della fusione, debiti tra i quali vanno ricompresi quelli nascenti da rapporti di lavoro subordinato con le preesistenti società, a prescindere dai requisiti di conoscenza o conoscibilità dei debiti medesimi, sulla linea delle precedenti Cassazioni n. 13286/2015.
Pertanto, gli Ermellini respingono il ricorso e condannano la nuova cooperativa sociale alla rifusione delle spese di lite secondo soccombenza.


Comportamenti stressogeni a danno del lavoratore

Cass., sez. Lavoro, 11 novembre 2022,n. 33428

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte d’Appello di Genova ha riformato la sentenza del Tribunale di La Spezia e respinto tutte le domande proposte dal la[1]voratore contro il datore, di cui era stato dipendente da marzo 1985 al 30 aprile 2014 quale informatore scientifico del farmaco, e condannato il medesimo alla restituzione delle somme corrisposte in forza della sen[1]tenza di primo grado, nonchè alla rifusione delle spese di lite ed al pagamento delle spese della CTU espletata in primo grado. Il Tribunale spezzino, infatti, svolta ampia istruttoria testimoniale e tecnica, accertata la sussistenza di grave demansionamento e di comportamenti mobbizzanti in danno dell’informatore a decorrere da settembre 2012, in parziale accoglimento del ricorso aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno biologico temporaneo, del danno biologico permanente, del danno alla dignità ed all’immagine personali e professionali, oltre rimborso delle spese mediche sostenute ed accessori. La Corte genovese, in accoglimento dell’appello principale del datore, ha ritenuto che il Tribunale avesse assegnato rilevanza eccessiva alle attività di carattere commerciale svolte dall’originario ricorrente ai fini dell’accerta[1]mento del demansionamento, tenuto anche conto del fatto che tali mansioni erano state contestate solo con il ricorso introduttivo dopo quasi 30 anni di attività. Ha conseguentemente ritenuto assorbito l’appello incidentale del lavoratore diretto all’accertamento dell’interruzione del rapporto di lavoro alla fine del periodo di comporto per fatto e colpa del datore di lavoro, al connesso risarcimento dei danni, ad una liquidazione dei danni riconosciuti in misura maggiore e per ulteriori voci; avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione il lavoratore. La Corte d’Appello nella valutazione del demansionamento, a differenza del Tribunale, ha ricondotto all’area della percezione soggettiva la situazione lavorativa per cui è causa, venutasi a modificare da settembre 2012. Non ha, tuttavia, tenuto conto della rilevanza del fattore organizzativo – e delle connesse possibili situazioni di costrittività organizzativa – all’interno del perimetro rappresentato dal complessivo dovere di tutela della salute, anche psichica del lavoratore, ai sensi dell’obbligo datoriale di protezione di cui all’articolo 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di cui all’articolo 2103 c.c.. Il riconoscimento della rilevanza in tale ambito di tecnopatie da costrittività organizzativa è rinvenibile nella circolare Inail n. 71 del 17 dicembre 2003, intitolata “Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche”, con individuazione delle malattie derivanti da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro e riconduzione nei meccanismi propri della malattia professionale non tabellata, e nel Decreto Ministeriale 27 aprile 2004, adottato dal Ministero del lavoro, con il quale sono state inserite tra le malattie di possibile origine lavorativa per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 139, anche (Lista II – gruppo 7) le “malattie psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro”. Secondo gli orientamenti maturati nel suindicato percorso interpretativo questa Corte (come risulta da Cass. n. 15580/2022 punto 4.1 della motivazione), è pervenuta alle seguenti conclusioni: – è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass., 21 maggio 2018, n. 12437; Cass., 10 novembre 2017, n. 26684). – è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass., 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass., 29 marzo 2018, n. 7844), ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei la[1]voratori (Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291). Le nozioni di mobbing e straining hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici, e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’articolo 2087 c.c., e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291 e altre). È comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento che si ponga in nesso causale con un danno alla salute. Si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa. La causa deve essere cassata con rinvio per il riesame nel merito della domanda risarcitoria del lavoratore, tenendo conto, in diritto, del principio per cui rientra nell’obbligo datoriale di protezione di cui all’articolo 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di cui all’articolo 2103


Risarcimento del danno per licenziamento illegittimo: il trattamento pensionistico conseguito dal lavoratore non è decurtabile

Cass., sez. Lavoro, 31 ottobre 2022, n. 32130

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con la sentenza n. 32130 del 31 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione si è espressa in merito alla quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo che, a seguito del recesso, ha avuto accesso alla pensione di anzianità. In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore, dipendente con funzioni di dirigente presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, richiedere la declaratoria di illegittimità di un decreto di detto Ministero con il quale era stato risolto il suo rapporto di lavoro a far tempo dal 4 settembre 2009, sul presupposto dell’intervenuta maturazione del requisito contributivo massimo di quaranta anni a sensi dell’articolo 72, comma 11 del D.l. n.112/2008. Il giudice del rinvio, in merito, ha osservato, sulla base del principio di diritto enunciato dalla Cassazione, che il decreto ministeriale in esame (n. 342/2009) era illegittimo; quanto

to ai profili risarcitori derivanti dall’illegittima risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale, nell’operarne una quantificazione, il giudice escludeva il ristoro del danno biologico e, con riguardo al danno patrimoniale, faceva riferimento, da un lato, alle retribuzioni perdute nel periodo tra il 3 settembre 2009 e il 31 ottobre 2010, data di scadenza del biennio di trattenimento in servizio, e, dall’altro, alla “maggiore indennità di buonuscita”. I relativi importi venivano quantificati da un CTU opportunamente incaricato. A dire del giudice, non poteva invece essere riconosciuta, neanche sotto forma di perdita di chance, in difetto di esplicita domanda in tal senso, la retribuzione di risultato, atteso che essa “postula(va) una positiva verifica circa il conseguimento, da parte del dirigente, degli obiettivi prefissati”. Senonché, dal complessivo importo spettante a titolo di risarcimento andavano decurtate le somme che il lavoratore, nel medesimo arco temporale, aveva comunque percepito come pensione d’anzianità, e ciò in quanto, mancando nella specie un dictum giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro che avrebbe reso ripetibili le somme erogate dall’Inps, a dire del giudice si sarebbe verificata, in difetto di detrazione dell’aliunde perceptum, un’indebita locupletazione del lavoratore stesso. Rispetto alla sentenza di secondo grado sopra descritta, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, cui il Ministero resisteva con controricorso. Tra i vari motivi, il ricorso del dirigente verteva sulla indebita detrazione di quanto corrisposto medio tempore a titolo di pensione di anzianità dal risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, effettuata dal giudice di appello. Secondo il ricorrente, infatti, solo il compenso da lavoro percepito durante il c.d. periodo intermedio (i.e., intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di annullamento) può comportare la riduzione del risarcimento per il principio della compensatio lucri cum damno, mentre il trattamento pensionistico non sarebbe in alcun modo ricollegabile al licenziamento illegittimo e non sarebbe detraibile anche qualora vengano, come nella specie, a cristallizzarsi gli effetti del licenziamento per effetto della mancata reintegra in servizio. Detto motivo di ricorso è stato ritenuto fon[1]dato da parte dei giudici della Corte di Cassazione. In particolare, tra i motivi di accoglimento del ricorso, i giudici evidenziano di aver “più volte affermato il principio, da cui non v’è ragione di discostarsi, che non è detraibile come aliunde perceptum il trattamento pensionistico, potendosi considerare compensativo (quale aliunde perceptum) del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa”. La Corte di Cassazione evidenzia, altresì, come le Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 12194/02) abbiano, già in epoca risalente, precisato che “il diritto a pensione discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, prescinde del tutto dalla disponibilità di energie lavorative da parte dell’assicurato che abbia anteriormente perduto il posto di lavoro, né si pone di per sé come causa di risoluzione del rap[1]porto di lavoro (cfr. Cass. 28 aprile 1995, n. 4747), sicché le utilità economiche che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae dipendono da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo causalmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito e si sottraggono per tale ragione all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno”. Pertanto, le relative somme non possono configurarsi come “un lucro compensabile col danno”, ossia come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore, in quanto “a fronte della loro percezione sta un’obbligazione restitutoria di corrispondente importo”. Detta compensazione, inoltre, non può riconoscersi quando “il medesimo rapporto si ponga, invece, in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, giacchè in tali evenienze la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto che eroga la

più di recente, le Sezioni Unite (sent. n. 12564/2018) abbiano osservato che “quando la condotta del danneggiante costituisce semplicemente l’occasione per il sorgere di un’attribuzione patrimoniale che trova la propria giustificazione in un corrispondente e precedente sacrificio, allora non si riscontra quel lucro che, unico, può compensare il danno e ridurre la responsabilità”. Pertanto, pare sussistere una ragione giustificatrice che non consente il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall’illecito, poiché detto trattamento previdenziale “non è erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponde a un diverso disegno attributivo causale, che si pone quale causa del beneficio individuabile nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente”. La perdita di interesse del lavoratore alla ricostituzione del rapporto, anche de facto, mediante un provvedimento di reintegra e per effetto del raggiungimento del termine biennale di trattenimento in servizio, non esclude che vi sia la prosecuzione de iure dello stesso, considerato l’accertamento giudiziale dell’illecita risoluzione del rapporto. Dal ciò consegue – a dire della Suprema Corte e unitamente alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, sul quale permane l’obbligo contributivo – la ripetibilità delle somme erogate nel biennio di riferimento a titolo pensionistico da parte dell’Inps. È seguito, pertanto, l’accoglimento del motivo di ricorso avanzato dal lavoratore da parte della Corte di Cassazione.


Protezione del lavoratore contro i licenziamenti intimati per ragioni inerenti l’attività produttiva

Cass., sez. Lavoro, 18 novembre 2022, n. 3405

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

In riferimento alla domanda presentata dal lavoratore, intesa all’accertamento della nullità/illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice di primo grado aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro e aveva condannato l’Associazione/datrice di lavoro al pagamento dell’indennità risarcitoria, commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto nella misura di 16 mensilità, oltre accessori, respingendo le ulteriori domande di demansionamento e mobbing. La Corte di Appello di Roma, pronunciandosi sugli appelli proposti da entrambe le parti, rigettava quello della datrice di lavoro e accoglieva parzialmente quello del lavoratore. Il giudice, esclusa la natura discriminatoria del recesso, escluso il demansionamento e svuotamento di mansioni così come esclusa la configurabilità di una condotta mobbizzante (per essere gli episodi denunciati riconducibili all’ambito della fisiologica dinamica dei rapporti di lavoro), ha ritenuto effettiva e non simulata la riorganizzazione attuata dal nuovo Direttore Generale della società, espressione della libertà di iniziativa economica. In giudizio, la parte datoriale aveva fornito sufficiente ed adeguata dimostrazione dell’effettività di tale causale, rappresentata dal riassetto organizzativo del settore Comunicazioni, offrendo ulteriore, seppur non necessaria, dimostrazione dell’esigenza di ridurre i costi, attraverso la redistribuzione di una parte di attività tra altri soggetti mentre, le attività di relazioni istituzionali sarebbero state affidate ad una società esterna. In merito al “repêchage”, il giudice di appello aveva rilevato che le contestazioni presentate dalla datrice di lavoro erano del tutto generiche ed inadeguate a contrastare le prove presentate dal lavoratore circa l’assunzione di altri dipendenti, la presenza di altre società facenti capo all’Associazione/ datrice di lavoro. Il giudice, in parziale accoglimento dell’appello del lavoratore, confermando nel resto la decisione di primo grado, aveva condannato la società al pagamento dell’ulteriore risarcimento del danno, collegato alla modalità di risoluzione del rapporto, quantificato in via equitativa nella somma di 15.000 euro, oltre accessori. Per la cassazione della decisione propone ricorso il lavoratore; la parte intimata resiste con tempestivo controricorso con il quale propone ricorso incidentale. Il lavoratore deposita controricorso avverso il ricorso accidentale. Dall’esame dei motivi di ricorso principale ed incidentale, la Suprema Corte accoglie le censure sollevate dal lavoratore in merito alla tutela reintegratoria perché la società non aveva dimostrato l’impossibilità di un’utile ricollocazione lavorativa del lavoratore. La Suprema Corte rammenta che il testo dell’art. 8, comma 7, Legge n.300/1970, qua[1]le risultante all’esito degli interventi della Corte Costituzionale, comporta che, in ipotesi di insussistenza del fatto alla base del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il giudice deve applicare la tutela di cui al comma 4 dell’art.18 quale risultante dalla novella della Legge n.92/2012, implicante la reintegra del lavoratore ed il pagamento di un’indennità risarcitoria nei liniti definiti dal comma medesimo. Per orientamento consolidato della Suprema Corte, riaffermato anche nel vigore della modifica al testo dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, il fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo è rappresentato sia dalle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia all’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. repêchage ). La protezione del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi, con riferimento al licenziamento intimato per ragioni inerenti l’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, deve includere anche l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore.

La Suprema Corte accoglie pertanto il primo motivo di ricorso principale e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per il riesame della tutela applicabile per l’ipotesi di illegittimità del licenziamento.


Una volta contestato, il fatto di addebito può essere integrato?

Cass., Sez Lavoro, 19 ottobre 2022, n. 30850

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

A seguito dell’impugnazione da parte del lavoratore del licenziamento intimatogli, tanto il Giudice di primo grado, quanto la Corte d’Appello decidevano parallelamente nel rigetto delle doglianze del dipendente. Innanzitutto, veniva riconosciuto che, anche sulla base delle norme del Ccnl di settore, il provvedimento espulsivo era perfettamente efficace, non essendo maturata la decadenza per l’irrogazione del medesimo. Quanto alla pretesa genericità della contestazione disciplinare, la Corte d’Appello rilevava che essa fosse stata redatta per iscritto e nel rispetto del canone di specificità, peraltro coadiuvata dall’allegazione dei documenti richiamati. A tale lettera di addebito disciplinare non seguiva alcuna censura da parte del lavoratore, ragione per cui si poteva legittimamente ritenere che essa fosse coperta da giudicato. Inoltre veniva deciso che il requisito dell’immutabilità non poteva ritenersi violato dall’integrazione successiva della contestazione, volta a specificare adeguatamente i fatti addebitati nonché comunque pervenuta in momento precedente alla consegna dell’atto conclusivo della procedura disciplinare. Il lavoratore decideva quindi di proporre ricorso per Cassazione. Proprio in ragione della particolare posizione di soggezione del dipendente rispetto all’esercizio datoriale del potere disciplinare, la giurisprudenza ha da sempre valorizzato il diritto di difesa del lavoratore. Secondo tale prospettiva in via generale il datore dovrebbe procedere alla contestazione non appena abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, atteso che il ritardo nella contestazione lede il diritto di difesa del lavoratore e, in particolare, il suo affidamento sulla mancanza di rilievo disciplinare attribuito dal datore di lavoro alla condotta inadempiente. La tempestività e l’immutabilità della contesta[1]zione rappresentante le primarie garanzie che integrano il principio cardine di tutta la disciplina della contestazione dell’inadempimento, che dev’essere determinata, specifica e tempestiva. Con specifico riguardo, poi, al principio di immutabilità, la Suprema Corte è ferma nel ravvisare la funzione dello stesso di evitare una concreta menomazione del diritto di difesa dell’incolpato, qualora il datore di lavoro proceda negli atti successivi alla contestazione disciplinare a un diverso apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo. Coerentemente con detto orientamento giurisprudenziale la pronuncia in esame della Cassazione ha ritenuto che l’addebito iniziale integrato nelle successive occasioni di specificazione da parte del datore di lavoro rimane legittimamente contestato se non si registra una diversa qualificazione del fatto né un suo diverso apprezzamento. In dettaglio per la Suprema Corte “il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze in fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una effettiva menomazione del diritto alla difesa dell’incolpato”. Alla luce della giurisprudenza riportata, può concludersi che principio della immutabilità della contestazione non deve essere inteso in senso estremamente rigido. Per poter considerare che il suddetto canone sia stato rispettato dal datore di lavoro, è necessaria la piena identità tra la ricostruzione dell’addebito così come operata nella contestazione e l’addebito preso nel suo complesso che è sotteso alla sanzione applicata, così da non ledere, salvaguardandolo, il diritto di difesa del lavoratore resosi manchevole. Sono pertanto consentite tutte le modifiche dei fatti contestati che – non configurandosi come elementi aggiuntivi di una condotta, pur potenzialmente disciplinarmente rilevante, appartenga ad una fattispecie diversa e più grave quella contestata, risolvendosi quindi in nuove circostanze prive di valore identificativo della originaria fattispecie – non ostacolano la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa dallo stesso forniti a seguito della contestazione dell’addebito. Può quindi ritenersi opportuno – peraltro frequente nella prassi – che, nel corso di un procedimento disciplinare, la contestazione venga arricchita di circostanze che, non aggiungendo nuove imputazioni, si ritengono però idonee a suffragare la gravità o comunque a consentirne una più precisa valutazione.

 


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Sentenze

Lavoratore privo del permesso di soggiorno e infortunio sul lavoro: reato di lesioni personali e responsabilità per colpa del datore

Cass., sez. Penale, 30 agosto 2022, n. 31879

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Con sentenza emessa il Tribunale di Crema, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato l’imputato responsabile dei reati di cui agli artt. 22, comma 12, D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (capo A), e 590, secondo e terzo comma, c.p. (capo B), per avere, in qualità di legale rappresentante della E.A.C. Srl, occupato alle proprie dipendenze un cittadino
indiano privo di permesso di soggiorno e per avere cagionato allo stesso, per colpa consistita nella violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, lesioni personali dalle quali derivava una malattia
di durata superiore ai 40 giorni e l’indebolimento permanente della mano destra. C., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle circostanze aggravanti di cui all’art. 590 c.p., era
stato condannato alla pena – condizionalmente sospesa – di mesi tre, giorni dieci di reclusione ed euro 2.800,00 di multa per il reato di cui al capo A) e alla pena di mesi due di reclusione per il reato di cui al capo B), nonché al risarcimento dei danni patiti dall’Inail, parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio. Il Tribunale aveva individuato quale profilo di colpa specifica la violazione da parte dell’imputato  dell’art. 18, D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, norma che pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di formazione e informazione del dipendente, obbligo considerato non adempiuto nella specie, posto che il lavoratore era risultato impiegato in nero presso l’azienda da circa un mese, senza essere stato istruito in ordine ai rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa e, segnatamente, circa l’uso della macchina spaccalegna, la cui lama aveva cagionato  una grave lesione al braccio del lavoratore.
Dopo il verificarsi del fatto, il lavoratore era stato accompagnato presso il Pronto soccorso dell’Ospedale di Crema da un pick-up di colore nero, immediatamente dileguatosi. Il cittadino indiano presentava una significativa ferita al braccio e i suoi indumenti erano intrisi di “residui di materiale legnoso”.
All’esito della visione dei filmati delle telecamere del presidio medico, i Carabinieri risalivano al proprietario del pick-up, risultato appartenente alla E.A.C. Srl, il cui titolare aveva  poi ammesso di avere accompagnato la persona
offesa, la quale, secondo quanto dichiarato dall’imputato, sarebbe apparsa nel piazzale della ditta provenendo dai terreni dello zio dell’imputato. Quest’ultimo, tuttavia, aveva negato di conoscere il lavoratore infortunato,
aggiungendo che il nipote era solito assumere saltuariamente qualche indiano. A sua volta, la persona offesa aveva dichiarato di essere stato reclutato a lavorare presso l’azienda dell’imputato da circa un mese e che,
il giorno del fatto, egli stava tagliando un  pezzo di legno di grandi dimensioni avvalendosi dell’apposito macchinario ma, nel procedere alla sistemazione del pezzo, aveva premuto inavvertitamente il pedale della macchina,
provocando la discesa della lama, che gli aveva procurato lo schiacciamento della mano destra e l’amputazione di un dito.
La sentenza di primo grado era stata appellata dalla difesa dell’imputato, che aveva evidenziato la contraddittorietà delle dichiarazioni della persona offesa, la quale, al momento dell’ingresso in Pronto soccorso, era risultata
odorare di alcool, l’assenza di testimoni a riscontro della dinamica dell’infortunio, l’inverosimiglianza
della ricostruzione fornita dal lavoratore, nonché la mancanza di una prova certa circa il rapporto di lavoro intercorso tra quest’ultimo e la E.A.C. Srl. All’esito del giudizio di impugnazione, la Corte di Appello di Brescia, con la sentenza in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del datore di lavoro in ordine a entrambi i reati, per essersi i medesimi estinti per la sopravvenuta prescrizione, non accogliendo l’istanza di proscioglimento nel merito formulata dall’appellante,  ha confermato le statuizioni civili e ha condannato l’imputato al pagamento delle ulteriori spese in favore della parte civile.
Quanto all’evenienza degli elementi costitutivi del primo reato, nel respingere le doglianze difensive relative alla mancata prova del rapporto di lavoro, la Corte territoriale ha affermato che la sussistenza del suddetto rapporto poteva desumersi da plurimi elementi, primo fra tutti l’essersi verificato l’infortunio all’interno dello stabilimento dell’azienda. Inoltre, sono stati evidenziati la presenza di materiale legnoso sugli  indumenti del lavoratore al momento del suo arrivo in ospedale e il rilievo che, se la persona offesa fosse veramente sbucata improvvisamente
dai terreni dello zio dell’imputato, non ci sarebbero state ragioni per giustificare la fretta dell’imputato nell’abbandonare il lavoratore davanti al pronto soccorso. Inoltre, i giudici di appello hanno aggiunto
che, una volta assodata l’assenza della somministrazione della previa formazione al lavoratore, anche un’ipotetica disattenzione o imprudenza del lavoratore non avrebbe potuto comunque escludere la responsabilità del datore di lavoro, in questo caso del legale rappresentante della società datrice di lavoro. Avverso la suddetta pronuncia ricorre per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando due motivi.
Per ciò che concerne l’asserita insussistenza del rapporto di lavoro tra l’impresa societaria amministrata dall’imputato e la persona offesa, la Corte di Appello ha fatto riferimento – oltre che ai residui di “materiale legnoso” sugli indumenti del lavoratore – anche alle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo e al contributo dichiarativo del teste, dipendente dell’E.A.C. Srl. I giudici di appello – lungi dall’appiattirsi acriticamente sulle dichiarazioni della persona offesa – ne hanno operato un’accurata valutazione, motivando le ragioni di apparente contraddittorietà
nella successione delle sue affermazioni, segnalando il ragionevole timore che avvinceva il lavoratore, riconnesso alla sua condizione di immigrato privo di permesso di soggiorno, e traendo dalle medesime l’essenza genuina del relativo narrato con argomentazioni esenti da vizi logici. Sul tema, si ricorda che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da
sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni
di qualsiasi testimone, con la specificazione che, laddove la persona offesa si sia costituita
parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U., n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214 – 01; fra le successive, Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 – 01).
Nel caso di specie, la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società amministrata dall’imputato (e non con lo zio) è stata accertata anche in virtù delle convergenti dichiarazioni rilasciate dal teste, il quale ha riferito
di aver notato il lavoratore infortunato in azienda – non solo nel giorno dell’infortunio, ma – anche in precedenti occasioni, precisando, altresì, che il suddetto si trovava nei pressi della macchina spaccalegna proprio qualche istante prima del sinistro.  A conclusioni non dissimili deve pervenirsi per quel che concerne il profilo della colpa specifica dell’imputato e dell’eventuale interruzione del nesso di causalità conseguente a un asserito
comportamento abnorme del lavoratore. Sull’argomento, è, del resto, fondata l’osservazione svolta nella memoria della parte civile, laddove si osserva che la ritenuta configurazione della colpa specifica in capo all’imputato
espressa nella sentenza impugnata non presta il fianco a critiche, nel senso che, pur ipotizzando – per assurdo – che l’imputato non avesse occupato il lavoratore infortunato in qualità di lavoratore subordinato, l’averlo comunque
addetto a qualsiasi diverso titolo alla mansione del taglio del legname, senza fornirgli alcuna formazione e/o istruzione in merito ai lavori da eseguire con l’uso della macchina “sega spaccalegna”, che fossero volti a
salvaguardarne l’incolumità e la salute, determina in ogni caso la responsabilità del datore, atteso che il sistema prevenzionale tutela tutti  i lavoratori, a prescindere dalla tipologia contrattuale che li lega al datore stesso, ai sensi
dell’art. 3, D.lgs. n. 81 del 2008.
In concreto, quindi, il legale rappresentante della società datrice di lavoro è stato, secondo la motivata conclusione dei giudici di merito, raggiunto rettamente dall’accertamento di responsabilità, nulla avendo il medesimo predisposto a protezione del lavoratore, d’altronde assunto contra legem. Secondo il corretto riferimento operato nella contestazione, invero, l’art. 18, D.lgs. n. 81 del 2008 contempla fra gli obblighi del datore di lavoro quello, nell’affidare i compiti ai lavoratori, di tener conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro
salute e alla sicurezza, quello di prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico,
nonché quello di adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37 dello stesso D.lgs. (obblighi finalizzati ad assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente
ed adeguata in materia di salute e sicurezza). Per il resto, il datore di lavoro che non adempie gli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell’espletamento delle proprie mansioni, ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, né l’adempimento di tali obblighi è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore.
Per quanto attiene, poi, alla denunciata abnormità  della condotta della persona offesa, i giudici del merito hanno escluso tale evenienza formulando uno scrutinio adeguato e non illogico degli elementi di prova acquisiti
in merito alla mancata dimostrazione dello stato di alterazione alcolica del lavoratore. In conclusione, l’impugnazione deve essere, nel suo complesso, rigettata, restando intatta l’accertata responsabilità civile dell’imputato. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali.


Lavoro durante il congedo straordinario: è legittimo il licenziamento

Cass., sez. Lavoro,8 luglio 2022, n. 21773

Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con la sentenza n. 21773 dell’8 luglio 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente sorpresa, durante il periodo di congedo straordinario
concessole (per assistere la figlia portatrice di handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’art. 42, comma 5, D.lgs. n. 151/2001), a lavorare presso il negozio di cui era titolare il compagno, anch’egli dipendente della società.
In particolare, la Corte d’Appello di Bologna aveva respinto, in secondo grado, il reclamo proposto dalla lavoratrice, confermando la sentenza di primo grado con cui la donna si era vista rigettare l’impugnativa del licenziamento
per giusta causa intimato dal datore di lavoro per il motivo di cui sopra. La dipendente era stata colta sul fatto da parte di un investigatore privato, incaricato dalla società datrice di lavoro di pedinare il compagno della stessa, anch’egli proprio dipendente. Quest’ultimo, in particolare, era stato sorpreso a lavorare presso il medesimo negozio
– di cui era titolare – nel corso di un’assenza per malattia. A seguito del licenziamento e avverso le pronunce
dei primi due gradi di giudizio, dunque, la lavoratrice ricorreva in Cassazione con diversi motivi di doglianza.
Nel dettaglio, la dipendente riteneva che non fosse stato effettivamente individuato l’oggetto dell’onere probatorio in merito alla giusta causa di licenziamento, che la sentenza impugnata ha ritenuto essere stato assolto dal datore
di lavoro. Inoltre, la lavoratrice lamentava lo scarso approccio critico della Corte d’appello ai vari elementi di prova raccolti dal datore di lavoro: a dire della donna, infatti, la Corte d’appello avrebbe recepito “senza il necessario apprezzamento critico le relazioni investigative, le foto e i filmati alle stesse allegati, nonché le dichiarazioni
rese dagli investigatori escussi come testimoni, senza neppure rilevare le contraddizioni in cui questi ultimi sarebbero incorsi”.
Nell’ambito del terzo grado di giudizio, la Suprema Corte ha ritenuto inammissibili i motivi avanzati dalla lavoratrice e ha rigettato il ricorso. Nel dettaglio, i giudici hanno ritenuto che, in secondo grado, i giudici di merito non abbiano considerato gli elementi suddetti come facenti piena prova, bensì abbiano valutato gli stessi “unitariamente agli
altri dati probatori acquisiti”, ritenendo che fossero, nel complesso, adatti a dare dimostrazione della condotta contestata alla lavoratrice mediante il licenziamento.


Legittimo il licenziamento del dipendente che si rifiuta di effettuare le visite mediche obbligatorie

Cass., sez. Lavoro, 13 luglio 2022, n. 22094

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione di Bologna conferma la legittimità del licenziamento comminato ad una dipendente che si è rifiutata di sottoporsi alle visite mediche obbligatorie. La vicenda prende il via dal primo esame della Corte di Appello di Bologna, che confermava la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede.
L’azienda datrice di lavoro licenziava la lavoratrice dipendente, in forza presso la società dal 10.11.2000 con mansioni di impiegata amministrativa livello 4°.
Il recesso era stato adottato, con missiva dell’11.10.2007, per giusta causa con riferimento alla lettera di contestazione disciplinare del 20.9.2017 in cui le era stato ascritto di essersi rifiutata di effettuare la visita medica
nelle giornate del 12.9.2017 e del 19.9.2017, nella prima circostanza adducendo l’inidoneità del luogo di svolgimento del controllo e, nel secondo caso, omettendo di presentarsi nel luogo ed orario del previsto espletamento. La lavoratrice impugna il licenziamento e si rivolge agli Ermellini, denunciando in primis la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 20 e 41 del D.lgs. n. 81/2008, in relazione all’art. 32 Cost., all’art. 2103 c.c. e all’art. 1460
c.c., ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3, c.p.c., per avere la Corte distrettuale erroneamente interpretato le suddette disposizioni che impongono al datore di lavoro di sottoporre il dipendente ad accertamenti sanitari in ipotesi di
cambio di mansioni e al lavoratore di sottoporvisi.
Sostiene, in primo luogo, che la visita medica disposta dall’azienda aveva la sola finalità di accertare l’idoneità della lavoratrice non allo svolgimento delle mansioni già assegnate e in corso di svolgimento, come previsto dall’art. 5 della Legge n. 300/70, bensì l’idoneità a svolgere le nuove mansioni di addetta alle pulizie assegnatele illegittimamente.
In secundo, la lavoratrice adduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per non avere considerato la Corte di merito,
ai fini dell’accertamento della sussistenza della giusta causa, da un lato, l’elemento soggettivo del comportamento connotato da buona fede e, dall’altro, la sproporzione della sanzione inflitta rispetto alla condotta contestata.
La Suprema Corte, nell’analisi delle motivazioni portate dalla lavoratrice, ritiene il primo infondato, in quanto la sorveglianza sanitaria comprende l’obbligo, per il datore di lavoro e per il lavoratore, di visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l’idoneità alla mansione specifica.
Essendo quindi la visita medica di idoneità in ipotesi di cambio delle mansioni prescritta per legge, la richiesta di sottoposizione a visita, da parte del datore di lavoro, prima della assegnazione alle nuove mansioni, come correttamente sottolineato dalla Corte distrettuale, non è censurabile e, anzi un adempimento dovuto.
Pertanto, il rifiuto della lavoratrice a non sottoporvisi, perché rivolto a contrastare un illegittimo demansionamento, è stato illegittimo. Nel ragionamento esposto dagli Ermellini, viene infatti sottolineato che la visita medica disposta era preventiva e prodromica all’assegnazione delle nuove mansioni; l’omissione di detta visita avrebbe costituito un colposo e grave inadempimento di parte datoriale. La reazione della lavoratrice non è giustificabile ai sensi dell’art. 1460 c.c. perché, da un lato, il datore di lavoro si era limitato ad adeguare la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell’espletamento delle mansioni
loro assegnate e, dall’altro, la dipendente avrebbe ben potuto impugnare un eventuale esito della visita, qualora non condiviso, ovvero l’asserito illegittimo demansionamento, innanzi agli organi competenti.
Il secondo motivo è altresì giudicato inammissibile, in quanto la giusta causa di licenziamento, integra una clausola generale che richiede che l’interprete la renda concreta tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi
alla coscienza generale. La buona fede, nel rifiuto a sottoporsi a tali visite mediche, non è stata rilevata dalla ricostruzione dei fatti documentale, e soprattutto dall’illegittimità del comportamento omissivo della dipendente,
punito anche con sanzioni penali, e lo scopo della condotta del datore di lavoro, finalizzata alla prevenzione rispetto alla sicurezza e salubrità nei luoghi di lavoro.Pertanto, il licenziamento viene confermato.


Obbligo di repêchage e dichiarazione di illegittimità in ordine alla tutela reintegratoria

Cass., sez. Lavoro, 6 luglio 2022, n. 21470

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Brescia, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra la società M.A.s.r.l. ed il lavoratore S.M. . Secondo i giudici di appello il licenziamento, derivando dalla perdita di un appalto di servizi e dalla necessità quindi di un’operazione di riorganizzazione del personale in forza da parte dell’azienda, era stato correttamente intimato per giustificato motivo oggettivo. Tuttavia, sempre secondo i giudici del merito, la società non aveva utilmente adempiuto all’obbligo di repêchage del lavoratore.
Come noto la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo comporta per il datore di lavoro la necessità di provare la sussistenza delle ragioni che portano alla risoluzione del rapporto di lavoro e l’inutilizzabilità
del lavoratore in altre mansioni analoghe a quelle precedentemente svolte.
Se sul primo aspetto i giudici ammettevano la sussistenza dei motivi di licenziamento (perdita dell’appalto), sul secondo, l’obbligo del repêchage, ritenevano che la società non avesse tenuto una condotta sufficientemente adeguata. In primo luogo, vi erano state nuove assunzioni di personale ad un livello di inquadramento e di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte dal lavoratore, senza che al dipendente fosse stata fatta alcuna proposta di demansionamento  al fine di evitare il licenziamento, ma oltre tutto S.M., all’epoca del recesso, svolgeva mansioni
non soppresse dalla cessazione dell’appalto. Sulla base di analoghi precedenti di legittimità ed in conformità alla reale sussistenza della perdita dell’appalto veniva dichiarato legittimo il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, ma con la condanna della società al pagamento di 16 mensilità della retribuzione globale di fatto.
Propone ricorso il lavoratore per la cassazione della sentenza, ricorso che viene accolto con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in diversa composizione. L’accoglimento del ricorso deriva dal fatto che “con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo
comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42,  lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente  alla parola «manifesta»;”.
Nel giudizio di cassazione, la dichiarazione di illegittimità di una norma di legge deve essere tenuta in conto qualora il giudizio di cassazione si fondi su norme modificate o addirittura espunte dall’ordinamento nel periodo
temporale tra la deliberazione della decisione e la pubblicazione della sentenza.In ragione di ciò il capo della sentenza impugnata che aveva negato la tutela reintegratoria deve essere cassato, onde permettere al giudice
del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il nuovo quadro normativo.


Anche se manca il verbale di accertamento contributivo la cartella esattoriale per omissioni contributive e lavoro in nero è valida

Cass., sez. Lavoro, 30 giugno 2022, n. 20825

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Si tratta del ricorso proposto da una impresa individuale avverso il giudizio di opposizione alla cartella esattoriale per omissioni contributive, in riferimento ad un maggior numero di lavoratori rispetto a quanto intimato, ritenendo
sussistente l’obbligazione contributiva per le ore di straordinario retribuite in nero. La parte ricorrente richiede la nullità della sentenza sostenendo che la Corte di merito avrebbe erroneamente ammesso dall’opponente l’identificazione di alcuni lavoratori non accorgendosi che gli stralci del ricorso recavano in realtà riferimenti a soggetti diversi. La Corte di merito aveva ritenuto identificati i lavoratori sulla scorta di atti e attività ispettive,
omettendo tuttavia di esaminare le puntuali allegazioni, fin dall’atto introduttivo, dimostrative che mai i predetti lavoratori sarebbero stati sentiti e individuati. Ancora, la parte ricorrente deduce l’omesso esame di un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, avendo la Corte di merito ritenuto la pretesa contributiva pari a 21 ore straordinarie effettuate nell’aprile 2006, omettendo di esaminare le censure incentrate sulla deduzione che il
predetto lavoratore non avesse mai ricevuto somme in nero. Pertanto è da ritenersi nulla la sentenza, in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare il motivo principale del gravame, incentrato sulla contestazione in
toto dello svolgimento del lavoro in nero. Ciò premesso, la pronuncia della Cassazione, concentrata in modo spiccato su questioni processuali, si annota in quanto mette in evidenza che i Giudici di merito avevano (invece)
tenuto in debita considerazione gli atti compiuti da tutti gli operatori in fase di accertamento ispettivo. Infatti, così si legge nell’ordinanza, “in ogni caso, la Corte di merito ha dato atto della dichiarazione del finanziere che aveva
proceduto agli accertamenti ispettivi unitamente agli ispettori degli enti previdenziali e valorizzato, altresì, la documentazione da questi, per relationem, richiamata, contabile ed extracontablie, quale il registro presenze con solo nome e storico dei dipendenti richiesti ai centro per l’impiego,  dando forma, pertanto, all’apprezzamento proprio del giudice del merito e al relativo convincimento formatosi sul compendio probatorio, insindacabile
in questa sede di legittimità”. La corte pertanto rigetta il ricorso.

 

 

 

 

 

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Sentenze

Il licenziamento ritorsivo di un giornalista: aspetti presuntivi

Cass., sez. Lavoro, 27 giugno 2022, n. 20530

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Il fatto riguarda un giornalista professionista che ha rivendicato, in via stragiudiziale, la natura effettivamente subordinata del rapporto per tutta la sua durata e il proprio diritto all’inquadramento come redattore. Inoltre, dopo
aver ricevuto dalla società comunicazione di recesso dal contratto di collaborazione, senza alcuna motivazione, impugnava il recesso, qualificato come licenziamento, chiedendo che fosse dichiarata la natura ritorsiva del provvedimento espulsivo, con le conseguenze di legge.
Il Tribunale di Firenze ha riconosciuto la natura subordinata del rapporto ritenendo il licenziamento illegittimo, formalmente per difetto di motivazione. Ha condannato di conseguenza l’editore a corrispondere al giornalista il risarcimento dei danni nella misura di 12 mensilità, riconoscendogli anche l’indennità sostitutiva del preavviso nella misura di 8 mensilità. La Corte di Appello di Firenze, con la sentenza impugnata, ha qualificato il recesso intimato
dalla società come ritorsivo, oltre che illegittimo per mancanza delle dovute formalità, costituito dalla reazione della società all’affermazione da parte del giornalista del proprio diritto alla regolarizzazione del rapporto di lavoro. Ha condannato la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirlo del danno derivante dal recesso
nella misura di tante mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, dovuta al lavoratore quante ne saranno decorse tra la data del recesso e l’effettiva reintegrazione, detratto l’aliunde perceptum. La retribuzione, nella
misura di euro 2.057,38, viene quantificata considerando la maggiorazione per 13^ e le altre maggiorazioni previste e tenuto conto della media di 30 articoli al mese redatti, secondo il minimo tabellare previsto dal Ccnl.
Sia il giornalista che la società propongono ricorso per cassazione.
Il giornalista rivendica il riconoscimento della qualifica di redattore e la quantificazione della retribuzione dovuta ai fini reintegratori; la società rivendica l’inesistenza di una prestazione di lavoro subordinato al momento
della risoluzione.
Per la Cassazione i motivi, trattati congiuntamente in ragione dell’intima connessione, sono tutti infondati: l’inquadramento da attribuire al giornalista rimane quello del collaboratore fisso secondo criteri coerenti e logici. Nel procedere all’inquadramento hanno esaminato e accertato che le disposizioni del Ccnl di settore, i caratteri del collaboratore fisso nella continuità della prestazione non occasionale, il vincolo della dipendenza e la responsabilità di un servizio con riferimento all’impegno di redigere articoli su specifici argomenti, fanno inquadrare il lavoratore come collaboratore fisso. Quanto poi alla contestazione della presunzione del licenziamento ritorsivo in base al
solo elemento della sequenza temporale tra la rivendicazione della prestazione di lavoro dipendente e la risoluzione del rapporto di collaborazione, spetta al giudice di merito  valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni
semplici e nel caso in esame il ragionamento presuntivo si fonda sulla reazione della società avvenuta a soli 6 giorni di distanza dalla ricezione della lettera di rivendicazione della natura subordinata del rapporto.
Entrambi i ricorsi sono rigettati con compensazione delle spese.


Esposizione all’amianto e risarcimento ai familiari: rileva anche il danno morale subito dal lavoratore

Cass., sez. Lavoro, 17 giugno 2022, n. 19623

Andrea di Nino, Consulente del lavoro in Milano

Con la sentenza n. 19623 del 17 giugno 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di risarcimento del danno biologico e morale dovuto alla prolungata esposizione di un lavoratore all’amianto. Gli eredi del lavoratore – deceduto a causa di una patologia collegata all’esposizione al materiale tossico – hanno lamentato la responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro per non aver attuato le dovute misure di prevenzione e tutela sul luogo di lavoro.
Nel caso di specie, è stato rilevato che il lavoratore fosse soggetto a due agenti cancerogeni differenti: il tabagismo, in quanto fumatore abituale che per anni avrebbe fumato 15-20 sigarette al giorno, e l’esposizione all’amianto,
in quanto lo stesso prestava attività lavorativa di saldatura. Ai fini della determinazione del danno patrimoniale,
la Cassazione ha corroborato l’interpretazione della Corte d’Appello che, in seconda istanza, ha evidenziato come esistesse un concorso di cause lesive che ha cagionato un evento unico e indivisibile. Alla luce della presenza
di un duplice fattore scaturente, i giudici hanno ritenuto di dover applicare il principio dell’equivalenza delle concause ex artt. 40 e 41 c.p., in quanto non risultasse possibile “effettuare una ripartizione causale tra i due fattori
cancerogeni, entrambi egualmente responsabili della causazione dell’evento dannoso”. Pertanto, risultando impossibile effettuare una corretta ripartizione causale tra i due fattori cancerogeni, gli stessi devono essere ritenuti
egualmente responsabili dell’aver cagionato l’evento morboso, conseguendone che non venga intaccata la ripartizione della responsabilità tra le parti, ma che questo impatti in modo considerevole nella definizione
dell’entità del danno, notevolmente ridotta rispetto alle richieste della famiglia.
Quale secondo motivo di ricorso, gli eredi hanno insistito per il riconoscimento del risarcimento da danno morale, deducendo come il lavoratore fosse consapevole di essere esposto ad agenti morbigeni e come il rilevare che molti
colleghi continuassero a contrarre gravi patologie di natura oncologica di entità tale da causarne sovente la morte avesse ingenerato in lui un’incertezza sul proprio vivere, modificando in peius la sua vita quotidiana e inducendolo a
sottoporsi a numerosi e periodici controlli medici.
Ciò aveva originato, nella mente del lavoratore, un assiduo ripensare alla possibilità di ammalarsi e poi,  probabilmente, morire. In secondo grado, però, la Corte d’Appello ha negato agli eredi il riconoscimento del danno
non patrimoniale a fronte di una mancata sussistenza del danno morale e/o esistenziale, ritenendo inapplicabile il ricorso alle presunzioni anche semplici e ritenendo che, al fine di delineare il danno non patrimoniale, questo
dovesse essere debitamente provato. La Cassazione, tuttavia, come già chiarito dalla sezione Lavoro con la sentenza n. 24217 del 2017, ha cassato la decisione di secondo grado, ritendendo che “il danno derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita e del diritto alla libera e
piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, rafforzati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 8, sottolineando, ancora, che la prova del pregiudizio
subito può essere fornita anche mediante presunzioni”. Da tale orientamento deriva che il danno biologico
dovuto ad uno sconvolgimento della normale vita privata e costituendo “un sofferenza interna del soggetto” si concretizza come “lesione di diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale”: pertanto, se presente e dimostrato anche attraverso l’uso di presunzioni, costituisce oggetto di risarcimento del danno.


Azione di regresso dell’Inail per commistione degli spazi di lavoro tra azienda committente e ditta appaltatrice

Cass., sez. Lavoro, 21 giugno 2022, n. 20043

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in  Milano

Corte d’Appello di Catanzaro ha accolto l’appello dell’Inail e, in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato in solido il datore di lavoro e l’appaltatore dei lavori, a versare all’Istituto la medesima somma che l’Istituto aveva erogato in relazione all’infortunio accaduto. La Corte territoriale ha accertato: che la società
datrice si occupava dell’estrazione e distillazione dell’olio di sansa ed essiccazione; che nei luoghi di lavoro insistevano due capannoni con struttura in cemento armato e metallo e che su uno di essi la società aveva
commissionato ad altra ditta l’esecuzione di opere di carpenteria metallica; che, al momento dell’incidente, gli operai dipendenti della appaltatrice stavano ultimando il montaggio delle lamiere di copertura su una torretta montata a ridosso del capannone, quando accidentalmente il lavoratore sottostante veniva colpito da un’asse di legno della lunghezza di circa 2 metri e mezzo. Il lavoratore infortunatosi, dipendente della società committente, si trovava a transitare nella zona sottostante la struttura in oggetto; che nel sansificio non erano presenti cartelli atti a segnalare
i lavori in corso, né il cantiere era transennato, in modo da impedire che persone non addette ai lavori potessero introdursi nello stesso, e neppure vi era una rete metallica di protezione intorno alla struttura ove gli operai stavano lavorando.
La mancata adozione delle necessarie misure di sicurezza (reti protettive attorno alla torretta, transenne o  segnalazioni del cantiere), nonché la evidente commistione degli spazi di lavoro tra l’azienda committente e la ditta
appaltatrice fondavano, secondo i Giudici di appello, la responsabilità di entrambe le società per l’infortunio verificatosi. Dal che derivava l’accoglimento della domanda di regresso sanzionata dall’Istituto. Avverso tale sentenza
il datore di lavoro ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. Con il primo motivo di ricorso viene dedotto che la fattispecie non sarebbe disciplinata dal D.lgs. n. 626 del 1994, art. 7, in quanto entrato
in vigore il 27.11.1994, mentre l’infortunio per cui è stata esercitata l’azione di regresso risale ad epoca anteriore (21.3.1994).
Quindi, in base alla disciplina applicabile ratione temporis, cioè il D.p.r. n. 547 del 1955, art. 5, non sarebbe configurabile un obbligo della committente di incidere sull’attuazione delle misure di prevenzione dei rischi connessi
all’attività della appaltatrice, dovendosi affermare la responsabilità esclusiva di quest’ultima nella causazione dell’infortunio in oggetto. Il motivo risulta fondato. La Corte d’Appello  ha errato nell’individuare la norma regolatrice del caso concreto, avendo affermato la responsabilità  degli appellati per l’infortunio occorso
al lavoratore colpito dall’asse di legno caduto dalla copertura, ai fini dell’azione di regresso dell’Inail, in base al D.lgs. n. 626 del 1994, art. 7, non in vigore all’epoca dell’infortunio, risultando applicabili, ratione temporis, le disposizioni
di cui al D.p.r. n. 547 del 1955. In tali disposizioni, come costantemente interpretate, come quelle in cui siano presenti più imprese, ciascuna con propri dipendenti, ed in cui i rischi lavorativi interferiscono con l’opera di altri soggetti, dovrà essere valutata la responsabilità delle parti private ai fini dell’azione di regresso dell’Inail.
Per tale ragione, accolto il primo motivo di ricorso e dichiarato assorbito il secondo, la sentenza impugnata viene cassata, con rinvio alla medesima Corte d’Appello, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio.


Devono essere retribuite le ferie non godute che il datore di lavoro non mette in condizioni di godere

Cass., sez. Lavoro, 6 giugno 2022, n. 18140

Elena Pellegatta,  Consulente del Lavoro in Milano 

Al termine del rapporto di lavoro, un dirigente medico ha agito nei confronti dell’Azienda Sanitaria Provinciale presso cui lavorava rivendicando il diritto all’indennità per ferie non godute all’atto della cessazione del
rapporto, in misura di 258 giornate, dell’indennità per 152 turni notturni di effettivo servizio svolti in rianimazione, nonché per dieci turni mensili di pronta disponibilità/reperibilità dal 2005 al 2009, ed un indennizzo per lo
svolgimento dell’attività di gestore dell’elisuperficie. La sua domanda, parzialmente accolta in primo grado di giudizio relativamente a ferie e reperibilità, veniva invece rigettata dalla Corte di Appello con la motivazione che, rivestendo la qualifica di dirigente, il lavoratore poteva organizzare autonomamente le proprie ferie, organizzare la turnistica di reperibilità da cui in quanto dirigente sarebbe stato escluso.
Ricorre alla Suprema Corte il dirigente medico. Con il primo motivo, in relazione alle ferie non liquidate, gli Ermellini considerano accolto il motivo di ricorso e riconoscono il diritto al pagamento delle ferie non godute. Riprendendo una recente cassazione (Cass., 2 luglio 2020, n. 13613) che argomentava come il dirigente, il
quale al momento della cessazione del rapporto di lavoro non abbia fruito delle ferie, ha diritto a un’indennità sostitutiva, a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo messo nelle condizioni di esercitare il diritto in questione prima di tale cessazione, mediante un’adeguata informazione nonché, se del caso, invitandolo formalmente a farlo. La Suprema Corte argomenta come anche in questo caso il lavoratore debba essere stato messo effettivamente nelle condizioni di esercitare il proprio diritto alle ferie e quindi sta in capo al datore di lavoro
l’invito formale a fruirne, in modo da evitare che l’esercizio del diritto sia interamente posto in capo al lavoratore, e che sempre il datore debba poi dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore
le potesse fruire.
La Suprema Corte ritiene fondato anche il secondo motivo del ricorso, ossia l’avere erroneamente escluso il diritto del dirigente di struttura complessa ad essere remunerato rispetto ai turni di pronta disponibilità svolti presso la rianimazione, trattandosi di turni dai quali tale figura non era esclusa dal Ccnl. applicato e che erano stati da lui concretamente svolti con riferimento al servizio di camera iperbarica. Infatti, la norma collettiva, rispetto ai soli servizi di reperibilità “integrativa” ne prevede lo svolgimento anche da parte dei dirigenti preposti alle
strutture complesse, evidentemente per assicurare una maggiore platea di personale rispetto a situazioni che, proprio per necessitare di quella tipologia di servizio, manifestano a priori la possibilità concreta di un più corposo e
rapido intervento medico. Non sarebbe dunque vero quanto affermato dalla Corte territoriale, ovvero che al dirigente non potesse spettare il diritto alla remunerazione, entro i limiti massimi previsti dal Ccnl e nella misura in cui
vi sia prova o non sia stata contestata la prestazione del corrispondente servizio. Gli Ermellini ritengono invece infondato il terzo motivo di ricorso, con riferimento a disimpegno  di turni notturni di guardia attiva e del
compenso per la gestione dell’elisuperficie, in quanto i dirigenti sono espressamente esclusi  da tale servizio in base al Ccnl, ed inoltre il servizio è ricompreso nell’orario di servizio, ordinario o straordinario, dei dirigenti medici.

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Sentenze

Danno biologico differenziale, onere della prova e responsabilità oggettiva

Cass., sez. Lavoro, 30 giugno 2022, n. 20823

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda del lavoratore, condannava la datrice di lavoro al pagamento del danno biologico differenziale derivato dall’espletamento delle attività di lavoro svolte. La Corte di appello, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto le domande del lavoratore che ha condannato alla restituzione di quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado. La statuizione di rigetto è stata fondata sulle seguenti considerazioni:
a) la qualificazione della domanda sia in termini di responsabilità contrattuale che in termini di responsabilità  extracontrattuale comporta l’onere per il lavoratore della prova del danno alla salute, della nocività dell’ambiente
di lavoro, e della relativa connessione causale mentre sul datore di lavoro grava l’onere della prova dell’adozione delle cautele necessarie ad impedire il verificarsi del pregiudizio subito;
b) la verificazione del danno non è sufficiente a determinare l’insorgere dell’onere probatorio a carico del datore di lavoro in quanto la prova liberatoria a suo carico presuppone sempre che vi sia stata omissione da parte di questi nella predisposizione di misure di sicurezza suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno mentre non può essere estesa ad ogni ipotetica misura di prevenzione configurandosi in tal caso una responsabilità oggettiva;
c) i lavoratori, sui quali ricadeva il relativo onere, non avevano offerto prova di una specifica omissione datoriale nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza
e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il lavoratore, ha resistito con controricorso il datore e richiamato la domanda di manleva nei confronti della Compagnia assicuratrice la quale ha resistito con  controricorso. Tutte le parti hanno depositato memoria. Il lavoratore non aveva fornito sufficiente prova, della quale era onerato, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica necessarie ad evitare il danno oggetto della pretesa risarcitoria  azionata. In tale contesto, il riferimento alla estrema difficoltà per il datore di lavoro in ragione del lungo tempo trascorso di dimostrare il corretto adempimento degli obblighi di
prevenzione e sicurezza si configura quale argomentazione aggiuntiva ed ulteriore che non interferisce con il nucleo centrale del ragionamento decisorio fondato, in estrema sintesi, sul mancato assolvimento dell’onere probatorio asseritamente gravante sui lavoratori.

La Corte di appello, richiamati i principi in tecnica necessaria ad evitare il danno. Solo ove tale prova fosse stata offerta sorgeva per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato le cautele necessarie ad impedire il
verificarsi del pregiudizio subito; tale onere non era stato in concreto assolto.
Secondo la condivisibile e consolidata giurisprudenza di questa Corte infatti l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va
collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a
causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova
sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (ex plurimis: Cass. n. 15112 del 2020, Cass. n. 26495 del 2018, Cass. n. 12808 del 2018,
Cass. n. 14865 del 2017, Cass. n. 2038 del 2013, Cass. 12467 del 2003).
La Corte accoglie il terzo motivo, dichiara inammissibile il primo e rigetta il secondo assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello in diversa composizione cui
demanda di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.


Danneggiamento dei beni aziendali: il datore deve provare la condotta colposa del lavoratore e il lavoratore deve provare la sua non imputabilità

Cass., sez. Lavoro, 31 maggio 2022, n. 17711

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La vicenda prende avvio a seguito di un sinistro stradale che ha coinvolto un lavoratore, inquadrato nel 1° livello con mansioni di operatore ecologico anche con l’ausilio di veicoli, mentre si trovava alla guida di un mezzo aziendale lava-strade che, nei pressi di incrocio semaforizzato, perdeva il controllo del mezzo, che si ribaltava sul fianco destro. La Polizia Locale accertava l’assenza di fattori esterni che avessero potuto determinare il sinistro; il lavoratore riportava trauma cranico minore e poli-contusione con prognosi di 20 giorni e dichiarava di non ricordare nulla dell’incidente. L’azienda datrice di lavoro, dal momento che il preventivo di spesa per la riparazione dei danni era superiore al valore residuo del veicolo, rendendo così non conveniente la riparazione, poneva la macchina lava-strade definitivamente fuori servizio, irrogava al lavoratore la sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per 10 giorni e agiva in giudizio per il risarcimento dei danni sulla base di un rapporto dei propri uffici interni. In primo grado, il giudice rigetta la richiesta  dell’azienda datrice di lavoro, per difetto di prova del danno, in quanto il veicolo incidentato era stato messo definitivamente fuori servizio prima del giudizio e non erano stati chiariti i criteri in base ai quali gli uffici interni della società avevano quantificato il danno.
Di diverso avviso invece la Corte di Appello, secondo cui che la responsabilità del sinistro era da ricondurre a violazione dell’obbligo di diligenza di cui all’art. 2104 c.c.. La dinamica dell’evento, ossia la perdita di controllo del
mezzo da parte dell’autista, non era stata da questi contestata, e dal rapporto della polizia locale erano stati esclusi fattori esterni nella causazione del sinistro. Il sinistro doveva percio’  ritenersi avvenuto per imperizia del  lavoratore, che doveva pertanto risarcire l’azienda. Ricorre il lavoratore, ai sensi dell’art. 360, n. 3,
c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2104 c.c., adducendo che la perdita del controllo del mezzo è unicamente un dato oggettivo, non gli era stata elevata alcuna contravvenzione, era risultato negativo alla  presenza di alcool nel sangue e la rottamazione del mezzo incidentato prima del giudizio aveva impedito la possibilità di provare eventuali difetti meccanici o di manutenzione del veicolo.
Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729 c.c., 115 c.p.c., anche in relazione agli artt. 24, 111 Cost. per l’affermazione della sua responsabilità nella causazione
dell’incidente, sebbene la colpa non risultasse provata e con una motivazione generica. Il dato oggettivo della perdita di controllo del mezzo non avrebbe caratteristiche di prova presuntiva, essendo in contrasto con la mancanza di contravvenzioni elevate a carico del lavoratore. La suprema corte ritiene non fondati entrambi i motivi, e condanna il lavoratore a risarcire l’azienda.
La Corte di legittimità ha ribadito che, ai fini dell’affermazione della responsabilità del lavoratore verso il datore di lavoro per un evento dannoso, verificatosi nel corso dell’espletamento delle mansioni affidategli, il datore di
lavoro è tenuto a fornire la prova che tale evento sia riconducibile ad una condotta colposa del lavoratore per violazione degli obblighi di diligenza, mentre il lavoratore, a sua volta, è tenuto a provare la non imputabilità
a sé dell’inadempimento. Alla luce di tale  principio, i giudici di legittimità hanno, dunque, ritenuto condivisibile il ragionamento operato dalla Corte di merito, basato sulla valutazione delle prove raccolte, sull’apprezzamento degli elementi di fatto acquisiti agli atti, inclusi gli elementi presuntivi, valorizzando, nel caso in argomento, gli accertamenti della polizia locale.
In proposito la Corte non ha mancato di evidenziare che tra i compiti del giudice di merito rientra anche quello di valutare l’opportunità di fare ricorso a presunzioni, individuando i fatti da porre a fondamento della decisione,
una volta valutata la loro rispondenza ai requisiti di legge.
Quando il ragionamento decisorio, come nel caso di specie, non presenti assoluta illogicità e contraddittorietà, non occorre, quindi, che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile.

 


Dimissioni per fatti concludenti: il rapporto di lavoro si estingue anche in assenza della procedura telematica

Tribunale di Udine, 26 maggio 2022, n. 20

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Il Tribunale di Udine, con sentenza depositata il 26 maggio 2022, si è espresso in merito alla fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti e alla procedura di “dimissioni telematiche” di cui all’articolo 26 del
D.lgs. n. 151/2015.
In particolare, i fatti oggetto del contendere hanno visto una lavoratrice assentarsi dal lavoro per un periodo prolungato, in particolare dal 14 dicembre 2019 e per oltre i sei mesi successivi, senza alcuna giustificazione. A
fronte di tale circostanza, il datore di lavoro recapitava alla lavoratrice, tramite una lettera inviata il 12 giugno 2020, un invito formale a dimettersi. Dato il mancato riscontro della lavoratrice, l’8 luglio successivo veniva inviata al Centro per l’Impiego la comunicazione obbligatoria “Unilav” di cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni.
Detta risoluzione del rapporto di lavoro veniva però impugnata da parte della lavoratrice, in quanto mai erano state da lei rassegnate dimissioni, né comunque presentata la convalida in via telematica prevista dalla legge.
La stessa, inoltre, si dichiarava al contempo disponibile a riprendere l’attività lavorativa, previo risarcimento delle retribuzioni maturate e dei relativi contributi previdenziali dovuti per i mesi trascorsi dal momento dell’assenza fino al ripristino del rapporto di lavoro. L’assenza prolungata, in particolare, veniva motivata dallo stato di “prostrazione psicofisica” dovuto all’essere stata destinata alla “gravosa” attività di consegna delle vivande in determinati comuni, coerentemente all’attività economica svolta dal datore di lavoro. Dal canto suo, il datore di lavoro eccepiva come il rapporto di lavoro si fosse, in realtà, risolto per esclusiva volontà della lavoratrice, per evidenti fatti concludenti costituiti dall’assenza ingiustificata protrattasi per oltre sei mesi. Tale circostanza era avvalorata dalle confidenze esternate dalla stessa lavoratrice alla propria responsabile di unità, consistenti nell’intenzione di non rientrare più in servizio a seguito delle ferie, iniziate il 9 dicembre 2020, a causa
dell’insoddisfazione per il proprio lavoro. A dire del datore di lavoro, il dichiarato intento della dipendente era, dunque, quello di provocare il recesso datoriale e ottenere, di conseguenza, la Naspi.

In generale, ai giudici del tribunale è risultato innanzitutto incontroverso, nella vicenda in esame, il fatto che la lavoratrice si sia volontariamente assentata in via continuativa dal lavoro a decorrere dal 14 dicembre 2019, senza mai fornire, a riguardo, alcuna giustificazione e senza riscontrare, per un periodo di oltre sei mesi, le missive del datore di lavoro.
Difatti, nonostante la contestazione disciplinare del 31 dicembre 2019 – in cui alla dipendente veniva contestata l’assenza ingiustificata in essere dal 14 dicembre precedente – e la lettera del 12 giugno 2020 – in cui si prendeva atto della risoluzione in “in via di fatto” del rapporto di lavoro e si invitava la lavoratrice a “comunicare le sue dimissioni secondo la modalità telematica vigente” – la dipendente restava silente, confermando di non aver volontariamente dato riscontro a tali comunicazioni per dichiarata assenza di interesse.
La dipendente stessa aveva anche invitato la propria responsabile di unità a non metterla in turno nel periodo natalizio, poiché “non credeva di rientrare” e si aspettava che sarebbe stata la società, eventualmente, a “doverla licenziare”. Su queste basi, al giudice è apparso quindi evidente che la lavoratrice “abbia voluto porre fine al rapporto di lavoro con la società […] di sua iniziativa, avendo palesato tale intento […] alla propria responsabile e non essendo più rientrata a lavoro dopo le ferie”. Al di là della fondatezza delle motivazioni della lavoratrice, definite come “postume e piuttosto generiche”, il tribunale ha osservato “come proprio tali motivazioni siano un chiaro ed ulteriore indice dell’intenzione attorea […] di porre termine alla sua esperienza lavorativa”.

Il giudice osserva, inoltre, come, nonostante la modifica legislativa sopraggiunta nel 2015 in tema di dimissioni e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, lo scioglimento del contratto di lavoro per mutuo dissenso – e per
dimissioni in particolare – sia anzitutto fondato sugli artt. 2118 e 2119 c.c., i quali sanciscono la regola generale della “libera recedibilità” da parte del lavoratore, fatto salvo il periodo di preavviso. Tale libertà di recesso è rimasta immutata, pertanto la sentenza illustra che “le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015”.

Inoltre, il giudice evidenzia come la legge delega n. 183/2014 aveva previsto “modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore […]”.
Tale inciso – viene osservato – è rimasto totalmente inattuato nel D.lgs. n. 151/2015, il contenuto del quale, dunque, sembra poter essere disapplicato di fronte alla fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti

In definitiva, viene ritenuto irragionevole ritenere che, in caso di inerzia del lavoratore nel dimettersi, possa porsi fine al rapporto di lavoro soltanto mediante l’adozione di un licenziamento per giusta causa. In questo caso, infatti, verrebbe intaccata la “libera esplicazione dell’autonomia imprenditoriale” ex art. 41 della Costituzione, sia in termini di rischi (la giustificazione in un ipotetico giudizio) che di costi (c.d. ticket Naspi) e, non da ultimo, si
materializzerebbe una “ingiusta sottrazione di risorse” da destinarsi solo a vantaggio di quei lavoratori con effettivo diritto alla Naspi poiché disoccupati involontariamente. Sulla base di tutte le considerazioni commentate, il ricorso della lavoratrice veniva respinto e il rapporto di lavoro ritenuto cessato definitivamente.


 

Principio di effettività in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro: assume la posizione di garante colui che di fatto assume e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, se pur sprovvisto di regolare investitura

Cass., sez. Penale, 24 maggio 2022, n. 20127

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Il procedimento trae origine dall’infortunio occorso al lavoratore che formalmente era dipendente di una società cooperativa ma di fatto era impiegato presso un’altra società, in base ad un contratto di appalto stipulato tra le due società, con mansioni di facchinaggio e stoccaggio. Il lavoratore, azionando una macchina con grossi cilindri accoppiati (denominata masticatrice) che serviva per formare lastre sottili di para destinata alla produzione di mastice, rimaneva con la mano schiacciata tra i due organi in movimento, subendo di conseguenza l’amputazione del primo e del secondo dito della mano destra. Al lavoratore veniva riconosciuta una invalidità del 21% ed una
pensione di circa 330 euro mensili.
La sentenza aveva condannato il Presidente del CdA, il consigliere delegato alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e il responsabile della produzione, alla pena di reclusione (6 e 4 mesi) oltre al risarcimento dei
danni da liquidarsi in separato giudizio civile. La condanna degli imputati si è basata sui seguenti elementi:
1) il lavoratore aveva azionato il macchinario avente un quadro comandi distante 4 metri e arrestandolo con un dispositivo di sicurezza dal funzionamento non intuitivo per averlo imparato da altri, risultando impossibile che
lo stesso lo avesse appreso casualmente per averlo visto fare da altri;
2) da escludere una manovra abnorme in quanto non è noto il motivo per cui il lavoratore avrebbe dovuto mettere in moto la macchina per inserirvi la para;
3) il macchinario era vecchio e non conforme alla normativa vigente e si trovava all’esterno
ed il quadro comandi era posto a circa 4 metri di distanza;
4) il dispositivo di sicurezza di cui era dotato il macchinario era una corda a strappo azionabile solo con un movimento volontario, inoltre al momento del controllo il cordino era anche allentato.
Gli imputati propongo ricorsi separati.
La Suprema Corte, valutando complessivamente le motivazioni delle sentenze di merito, che costituiscono un unico apparato motivatorio, conferma che le posizioni sono state compiutamente analizzate e delineate nei ruoli. Il Presidente del CdA, con delega al compimento degli atti di ordinaria amministrazione aveva sottoscritto il contratto di appalto nonché il documento unico di valutazione dei rischi da interferenza e quindi aveva messo a
disposizione i lavoratori della società appaltatrice presso la società committente, impiegati peraltro per mansioni diverse da quelle previste ed in assenza di coordinamento da parte del personale della società appaltante.
La Suprema Corte ricorda che la giurisprudenza di legittimità è costante nell’interpretare l’art. 299 del D.lgs. n. 81/2008 nel senso che l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, deve fondarsi non  già sulla qualifica rivestita ma bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale.
Con riguardo alla condotta del lavoratore, che in base al contratto di appalto doveva essere adibito a mansioni di facchinaggio o al più di pulizia dei macchinari, è stata oggetto di discussione da parte dei difensori degli imputati: da considerare se la condotta del lavoratore potesse essere ritenuta, se non una condotta abnorme, quantomeno una condotta esorbitante, ovvero al di fuori dall’ambito delle proprie mansioni e delle disposizioni impartite nel contesto lavorativo del momento. La sentenza di appello, confermando le conclusioni del giudice di primo grado, aveva ritenuto che il lavoratore fosse stato di fatto adibito all’utilizzo del macchinario e che proprio per le caratteristiche dello stesso, dispositivo di sicurezza dal funzionamento non intuitivo (un cordino posto in alto non attivabile con movimento involontario) ed un quadro comandi distante 4 metri non fosse possibile ipotizzare che si trattasse del primo approccio al macchinario.
In conclusione, i ricorsi sono rigettati con condanna al pagamento delle spese processuali.

 

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Sentenze

Prestazione con elevato contenuto intellettuale: qualificazione del rapporto di lavoro

Cass., sez. Lavoro, 22 aprile 2022, n. 12919

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

 

Con sentenza n. 181/2018 la Corte di Appello di Trieste ha confermato la sentenza (non definitiva) con la quale in accoglimento della domanda del lavoratore era stata accertata, con decorrenza dal gennaio 2005, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze delle convenute (in virtù di cessione del ramo di azienda con i connessi rapporti di agenzia), con mansioni riconducibili alla categoria quadri. La Corte di merito ha ritenuto confermata la natura dipendente della collaborazione instaurata dal lavoratore che era risultata pienamente inserita nell’organico aziendale non come mero agente ma come direttore vendite.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il datore di lavoro, la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso. In ordine alla qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, in presenza di prestazione con un elevato contenuto intellettuale – alla quale è riconducibile l’attività prestata dal lavoratore quale ricostruita in sentenza – la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che è necessario verificare se il lavoratore possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione dell’assetto organizzativo aziendale (cfr. Cass., n. 18414/2013, Cass., n. 7517/2012, Cass., n. 3594/2011), potendosi ricorrere altresì, in via sussidiaria, a elementi sintomatici della situazione della subordinazione quali l’inserimento nell’organizzazione aziendale, il vincolo di orario, l’inerenza al ciclo produttivo, l’intensità della prestazione, la retribuzione fissa a tempo senza rischio di risultato; in particolare, ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale – nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente – il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli
obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata aziendale (Cass., n. 3640/2020, Cass., n. 9463/2016, Cass,. n. 7517/2012).
La decisione di appello risulta coerente con tale impostazione sia laddove, rispetto alla qualificazione operata dalle parti, riconosce come prevalenti le concrete modalità di svolgimento della prestazione sia perché la valorizzazione dei c.d. indici sussidiari è frutto della specifica considerazione delle caratteristiche dell’attività dedotta la quale, per i suoi elevati contenuti intellettuali, non si prestava ad essere oggetto di penetranti poteri conformativi della parte datoriale; in tale contesto, la valorizzazione del pieno inserimento del lavoratore nella compagine organizzativa della società, dell’affidamento alla stessa dell’ulteriore compito di c.d. area manager, implicante un rapporto di sovra ordinazione in particolare con i dipendenti al settore commerciale, del fatto che sia prima che dopo il ruolo rivestito dal lavoratore veniva occupato da lavoratori dipendenti, sono elementi idonei alla luce del parametro normativo dell’art. 2094 c.c. a giustificare la qualificazione del rapporto in controversia come di natura subordinata.
La specifica questione della riconducibilità dell’attività prestata dal lavoratore alla qualifica di quadro così come quella del corretto livello di inquadramento in base alla classificazione collettiva, ritualmente devoluti alla Corte di  merito dalla odierna ricorrente non sono stati in alcun modo trattati tramite specifico raffronto con la norma collettiva dal giudice di appello che ha incentrato il proprio accertamento esclusivamente sulla verifica della natura subordinata o meno del rapporto oggetto di causa.
Tanto determina la necessità di cassazione della decisione con rinvio alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione, per l’esame delle questioni omesse.


 

Sicurezza sul lavoro: le funzioni di datore di lavoro e di RSPP non possono essere confuse

Cass., sez. Penale, 9 aprile 2022, n. 16562

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16562 del 29 aprile 2022, si è espressa in merito alle responsabilità del datore di lavoro circa gli obblighi di valutazione del rischio e di formazione dei lavoratori sotto il profilo della sicurezza sul lavoro.
In particolare, la vicenda trae origine dalla condanna – confermata in sede di appello – alla pena di un anno di reclusione per un datore di lavoro privato a causa del delitto di “omicidio colposo aggravato”, dovuto alla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni in ambito lavorativo. A detta della Corte territoriale, tali violazioni avevano cagionato la morte di un operaio, incaricato di effettuare la manutenzione e la pulizia di un particolare macchinario. Nell’impugnare la sentenza di secondo grado, l’imputato ha presentato una serie di motivi di ricorso. Nel dettaglio, questi ha contestato la qualifica di “datore di lavoro” assegnatagli nelle sentenze, adducendo di avere attribuiti compiti meramente amministrativi (“ordinaria amministrazione”) da parte del C.d.A. dell’azienda.
Inoltre, l’imputato riteneva di aver delegato le funzioni attinenti all’ambito della sicurezza sul lavoro ad un terzo, e di non dover rispondere del mancato aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (“DVR”), considerata l’assenza della qualifica di datore di lavoro. Tanto rappresentato da parte della persona imputata, i giudici della Corte di Cassazione hanno comunque individuato in questa la figura del datore di lavoro, considerato il suo ruolo di legale rappresentante della società e le sue prerogative in merito all’esercizio dei poteri decisionali e di spesa. In dettaglio, è stata rigettata la tesi dell’imputato vertente sull’esclusione delle responsabilità in merito alla sicurezza dei lavoratori, dovuta ai compiti di mera natura ordinaria formalmente assegnati allo stesso. Secondo la Corte, infatti, le attribuzioni dell’imputato erano tali da garantirgli l’esercizio di “potestà funzionali organizzative, decisionali, gestionali e di spesa inclusa la realizzazione delle misure di sicurezza previste per legge”, così da “costituire in capo
al medesimo soggetto un coacervo di tutti gli obblighi che convergono in materia di valutazione del rischio, di posizione di garanzia, di adempimenti datoriali”.
La confusione tra il ruolo di datore di lavoro e di “responsabile del servizio di prevenzione e di protezione” (“RSPP”) ha inoltre deposto per “una colpevole opacità e disfunzione organizzativa”, a dire della Suprema Corte, che ha aggravato la posizione dell’imputato.
I poteri de facto esercitati dall’imputato, viene altresì osservato, “sebbene formalmente limitati all’ordinaria amministrazione, comunque comprendevano ogni profilo gestorio e organizzativo sulla produzione, sul controllo degli impianti, sulle procedure lavorative, sulla formazione e informazione che in concreto hanno svolto un determinante ruolo causale dell’evento mortale”.
Da tale piena qualifica datoriale emerge conseguentemente la responsabilità per gli altri due obblighi contestati sul piano della colpa specifica e della causalità materiale. In primo luogo, a dire della Suprema Corte, l’omessa completa ed esauriente valutazione del rischio connesso all’impianto presso il quale operava la vittima è attività che “sul piano operativo, cognitivo, progettuale”, rientrava pienamente nei compiti dell’imputato. Ciò sia innanzitutto come soggetto titolare del servizio di prevenzione e protezione, ruolo interpretato in termini meramente formali e,
contemporaneamente, come soggetto apicale con poteri decisionali e organizzativi su tutta l’attività produttiva.
Sul punto, i giudici hanno osservato che “l’imputato avrebbe dovuto in particolare valutare rischi e misure di  prevenzione sull’uso del macchinario dove ha trovato la morte (omissis), in relazione specifica alle mansioni e ai compiti attribuiti alla vittima dallo stesso imputato”.
Nella sua qualità di titolare del ruolo datoriale, l’imputato avrebbe dovuto inoltre tenere aggiornato il DVR anche con la mansione cui era addetto il lavoratore infortunato in relazione all’uso del macchinario che lo ha travolto.
Sul punto, la Corte ha osservato che “è proprio dalla duplice qualifica di responsabile del servizio di prevenzione e protezione e di datore di lavoro che emerge comunque il compito in capo alla medesima persona di valutare, elaborare, prevenire e gestire il rischio, ivi compreso l’aggiornamento del documento di valutazione del rischio che peraltro è compito indelegabile del datore di lavoro”.
In conclusione, secondo i giudici della Cassazione, alla qualifica di datore di lavoro corrisponde “l’obbligo di formazione e informazione dei lavoratori” che, nel caso in esame, risulta omesso da parte dell’imputato. Anche
su questo punto ascrivere ad altro soggetto il dovere di informazione, formazione ed addestramento del lavoratore deceduto, costituisce “una mera asserzione che non trova riscontro in alcun atto formale di delega o comunque
di incarico specifico alla formazione”.
Anche a voler ritenere di avere sostanzialmente incaricato altri di adempiere all’obbligo di formare e addestrare il lavoratore deceduto, la Suprema Corte ha evidenziato che “l’omessa cura dell’addestramento e dell’istruzione professionale del lavoratore avrebbe potuta e dovuta essere controllata e corretta dall’imputato qualora altri soggetti eventualmente incaricati non vi avessero utilmente provveduto”.
I motivi di ricorso dell’imputato venivano dunque integralmente respinti, acclarata la mancanza dell’esercizio del ruolo di vigilanza, di controllo e di cura dell’istruzione professionale sull’uso della macchina e degli impianti correlati in relazione ai rischi del caso di speciel

 


Violazione delle norme antinfortunistiche e mancato controllo del datore di lavoro

Cass., sez. Penale, 1 aprile 2022, n. 13720

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano 

Con sentenza dello scorso aprile la Cassazione conferma quanto stabilito dai giudici di merito in relazione ad un fatto accaduto in violazione delle norme antinfortunistiche all’interno di uno stabilimento della società Ilva di Taranto.
Nello specifico un operaio, sprovvisto di specifico titolo abilitativo sull’uso dei carrelli elevatori, metteva in moto il muletto e, inavvertitamente, provocava ad altro lavoratore che si trovava vicino al mezzo, lesioni gravissime.
Nel corso del dibattimento era emerso, grazie alle deposizioni testimoniali, che era prassi invalsa in quell’area di lavorazione permettere agli operai, sprovvisti di specifica abilitazione, di porsi alla guida di carrelli elevatori,
prassi tollerata dalla dirigenza.
Nonostante il ricorso presentato dal datore di lavoro la Cassazione conferma quanto stabilito dai giudici di prime cure e cioè che “qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi
“contra legem”, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, debba rispondere dell’infortunio occorso”.
Non assolve da responsabilità il datore di lavoro il fatto che i propri preposti non sorveglino lo svolgimento delle attività, né che i propri dipendenti agiscano senza l’ordine di alcuno.
Il datore di lavoro è tenuto a sorvegliare la condotta dei propri sottoposti e ove necessario e’ obbligato ad intervenire  affinché cessino immediatamente eventuali condotte rischiose, perché laddove ciò non avvenga, potrebbe trovarsi a rispondere penalmente di “culpa in vigilando” come nel caso di specie.


Licenziamento e reintegra per interpretazione estensiva delle clausole generali della contrattazione collettiva

Cass., sez. Lavoro, 26 aprile 2022, n. 13065

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Poste Italiane propone ricorso in Cassazione dopo che la Corte di Appello di Bologna aveva confermato la  pronuncia di primo grado, annullando il licenziamento per giusta causa di una dipendente. Il fatto contestato, alla base del licenziamento, è che la dipendente si trovava in villeggiatura il 14 agosto del 2017, in un giorno di
permesso ex lege n. 104 del 1992, concesso per assistere la madre disabile, mentre la madre si trovava in altro luogo. Tale comportamento aveva cagionato, con l’assenza dal servizio della dipendente, disagi e disservizi dell’organizzazione del lavoro oltre che una violazione dei principi di correttezza, buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.
La dipendente non ha negato l’effettività del fatto contestato, si è scusata dell’errore commesso di cui ha riconosciuto la gravità, adducendo quali motivi l’improvvisa indisponibilità della madre a raggiungerla nel luogo di villeggiatura, espressa dalla madre soltanto in tarda serata del giorno prima. Inoltre, la dipendente non aveva fatto un tempestivo rientro in quanto le sue condizioni di salute non le avevano permesso di guidare di notte per un lungo tragitto trafficato. La dipendente aveva però disdettato l’albergo ed era rientrata in treno nel pomeriggio del 14 agosto stesso.
A fronte di tali motivazioni, la Corte di Appello aveva condiviso la sentenza di primo grado, riconducendo il caso nell’ipotesi d’insussistenza della giusta causa di licenziamento perché il fatto rientrava tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, sulla base delle previsioni della contrattazione collettiva.
La società denuncia alla Suprema Corte che nella lettera di contestazione disciplinare era addebitato alla dipendente non già l’assenza ingiustificata o arbitraria dal servizio, bensì la fruizione abusiva del permesso retribuito ex
lege n. 104/92, con conseguente applicazione della giusta causa di licenziamento, anche in conformità con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedono il licenziamento in caso di violazioni dolose.
La Suprema Corte ritiene inammissibili le motivazioni della società perché l’accertamento di una volontà, anche quando è espressione di una autonomia negoziale, si sostanzia in un accertamento di fatto riservato all’esclusiva competenza del giudice di merito.
La Suprema Corte ricorda il principio di diritto già affermato dalla Cassazione: in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, comma 4 e 5 della Legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012, è consentito al giudice ricondurre la condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che
punisca l’illecito con una sanzione conservativa, anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche.
La contestazione della società era da intendersi come contestazione di assenza ingiustificata per un giorno e non come comportamento fraudolento e preordinato all’abuso della fruizione del permesso ex lege n. 104/92.
Per la Suprema Corte la società si limita a rivendicare un’alternativa interpretazione plausibile più favorevole. Quando di un testo negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che è stata privilegiata l’altra.
Bene hanno fatto i giudici della Corte di Appello: attraverso una valutazione del grado di gravità della condotta, che tenesse conto di tutte le circostanze del caso concreto, hanno ricondotto quest’ultimo ad una ipotesi omologabile all’assenza arbitraria per un giorno lavorativo.
Il ricorso è respinto

 

 


Licenziamento ex L. n. 223/1991: occorre considerare il possesso di professionalità equivalente ad altri lavoratori in altre realtà organizzative dell’azienda

Cass., sez. Lavoro, Ord. 28 aprile 2022, n. 13352

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

L a vicenda in oggetto riguarda il licenziamento di una lavoratrice a seguito della procedura ex L. n. 223/1991. La Corte di Appello di Napoli aveva infatti ritenuto legittima la limitazione del numero dei lavoratori da licenziare della società datrice di lavoro alla sola platea degli addetti all’appalto per la VIII Municipalità, cessato pacificamente, considerando le diverse offerte di proposte ricollocative da parte delle organizzazioni sindacali in differenti comuni, rifiutate dalla lavoratrice.
La lavoratrice impugna nel merito la sentenza basandosi su quattro motivi. Con il primo motivo, non accolto, deduce la falsa applicazione e violazione dell’art. 41, co. 2, Cost. in relazione all’art. 360, co. 1, nn. 3 e 4 c.p.c. in quanto i giudici non hanno effettuato il controllo sulla sussistenza del reale motivo posto a base del licenziamento e su alcuni fatti decisivi ai fini della decisione; nello specifico sosteneva che i dipendenti erano tutti cuochi e che la perdita  dell’appalto non aveva cagionato un danno economico tale da rendere necessario il licenziamento.
Con il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della L. n. 223/1991.
La lavoratrice sostiene infatti che non siano stati esaminati fatti controversi e decisivi sotto il profilo della mancanza di collegamento tra la assunzione della lavoratrice e l’appalto presso la VIII Municipalità; sostiene che il giudice del reclamo aveva errato nel ritenere legittimo, in difetto di accordo sindacale, quale unico criterio di selezione del personale quello rappresentato dall’adibizione dei lavoratori licenziati all’appalto cessato e non anche degli altri criteri legali di scelta. In questa prospettiva afferma che gli elementi fattuali acquisiti escludevano che il posto di lavoro della lavoratrice fosse intrinsecamente legato all’appalto cessato in quanto l’adibizione alla preparazione dei relativi pasti era dovuto ad una mera organizzazione interna.
Con il terzo e quarto motivo, non accolti, si deduce il mancato esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti rappresentato dalla assunzione di nuovi lavoratori in epoca successiva al licenziamento e la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5  della legge n. 223/1991 per avere il giudice di appello erroneamente ritenuto correttamente applicati i principi richiamati in tali disposizioni in merito all’obbligo di ricollocazione lavorativa;  denunzia inoltre omesso esame di fatti controversi e decisivi in relazione alla verifica relativa alla configurabilità tra le varie società del gruppo di un unico centro di imputazione.
Accolgono gli Ermellini solo il secondo motivo, adducendo che la Corte di merito, nel rigettare la impugnazione della lavoratrice aveva valutato la correttezza della scelta datoriale di procedere al licenziamento della  lavoratrice nell’ambito della procedura collettiva, facendo riferimento esclusivo al criterio delle esigenze tecnico organizzative della società e non ai carichi di famiglia e all’anzianità. Ma soprattutto, sostengono che la decisione non è conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Per applicare correttamente il criterio delle esigenze tecnico- produttive  dell’azienda, per l’individuazione dei lavoratori da  licenziare, la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., ed il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se detti lavoratori sono idonei, per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda, ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti.
Di conseguenza, non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.

 

 

 

 

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