IL CONTRATTO A TERMINE E I SUOI DODICI MESI. Cosa cambia col decreto Lavoro

Andrea Morzenti, Curatore e autore di intornoallavoro.com

 

Lasciatemi innanzitutto dire che sono molto contento di tornare a scrivere su Sintesi, rivista piena di spunti interessanti e che leggo sempre con grande interesse e con piacere. Colpevolmente assente qui da troppo tempo, provo a dare ora il mio contributo in merito alle recenti novità introdotte al contratto a termine (tanto diretto quanto a scopo di somministrazione) dal decreto Lavoro e dalla sua legge di conversione.

Forse ci si aspettava di più da questo decreto. Puo’ darsi. Anche perché le anticipazioni diffuse dalla stampa nei primi mesi dell’anno facevano pensare ad un superamento totale del decreto dignità con un sostanziale ritorno al Jobs Act (salvo la conferma, ormai consolidata, della riduzione da trentasei a ventiquattro mesi della durata massima contrattuale). Si dava infatti ormai per certa l’eliminazione delle causali, con un conseguente ritorno pieno alla acausalità dei contratti a termine. Ma sappiamo non è stato così. Cosa sia avvenuto nei palazzi romani non è dato sapersi con esattezza. I ben informati dicono di un governo preoccupato di non innervosire troppo la CGIL vista l’abrogazione del reddito di cittadinanza, questa sì avvenuta ad opera del decreto Lavoro con la sua sostituzione mediante il diverso istituto dell’assegno di inclusione, che a Maurizio Landini non è piaciuta per nulla.

Ma torniamo al punto. Dopo aver accantonato (Deo gratias) l’impraticabile idea della certificazione dei contratti, il governo Meloni decide di riscrivere completamente il meccanismo delle causali introdotto dal decreto Dignità.

Nessun ritorno alla acausalità sempre e comunque, come detto, ma un primo colpo al decreto Dignità è servito (l’altro arriverà con la legge di conversione, vedremo dopo). Ricordate cos’era necessario per prorogare un contratto oltre i dodici mesi o, semplicemente, per rinnovarlo? Non era sufficiente, ad esempio, un incremento dell’attività ordinaria, ma era necessario che tale incremento fosse i) temporaneo, ii) significativo e iii) non programmabile, con specifica declinazione dei tre aggettivi. Insomma, una prova diabolica a cui era possibile assolvere solo – forse – a seguito di un allineamento di tutti i pianeti del nostro sistema solare. Pensiamo a un gelataio che registra un incremento della produzione di gelato alla crema (attività ordinaria), in pieno inverno (non programmabile), per un mese o poco più (temporaneo), pari al triplo, anzi facciamo al quadruplo, della produzione media di quel periodo (significativo). Che poi, chissà, se questo allineamento planetario avrebbe anche trovato accoglimento da parte dei nostri giudici del lavoro.

Ora tutto questo non c’è più. E, lasciatemelo dire, io lo trovo un profondo senso di liberazione. Il governo col decreto Lavoro decide, infatti, di assegnare in prima battuta (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1, novellata lettera a)) ai contratti collettivi, di ogni livello anche aziendali, l’individuazione in via normale dei “casi” per cui, vedremo meglio dopo, è possibile “andare oltre i dodici mesi” di contratto/i (pur sempre entro i ventiquattro mesi). E anche la scelta del termine “casi” va letta con favore, in quanto molto ampia. Non più “specifiche esigenze” come fece in epoca Covid il governo Draghi col decreto Sostegni bis, ma “casi” appunto. Aprendo in questo modo alla contrattazione nazionale (che con “specifiche esigenze” era forse un po’ sacrificata) oltre che confermare, certo, quella aziendale. E avvalorando ora, senza dubbio alcuno, la possibilità di avere causali (rectius casi) anche soggettive e quindi rivolte a particolari tipologie di lavoratori e non solo, oggettive, legate all’organizzazione aziendale. In seconda battuta (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1, novellata lettera b), solo se e finché i contratti collettivi nulla dicono in tema di causali, sono le parti individuali del contratto di lavoro, datore di lavoro e lavoratore, a poter individuare una esigenza tecnica, organizzativa o produttiva a “far da causale”. Una funzione suppletiva pero’ a tempo, in quanto esercitabile solo sino al 30 aprile 2024. Poi, dall’1 maggio 2024, o i contratti collettivi saranno intervenuti oppure, salvo l’utilizzo della causale sostitutiva laddove possibile, il limite dei dodici mesi diverrà un limite temporale invalicabile.

In molti hanno osservato come, per un anno, potremmo essere in presenza di un ritorno al cosiddetto “causalone”. Un balzo indietro sino al 2001, al decreto legislativo n. 368, con tanto di pesante contenzioso giudiziale che ne è seguito? Sul punto, personalmente, preferisco l’interpretazione che porta a dare una risposta negativa a tale equiparazione. Perché, se da un lato la formulazione testuale è pressoché identica a quella del 2001, dall’altro lato molto diverso è l’impianto normativo in cui è oggi inserita rispetto a quello del passato. Se infatti il causalone di allora era sostanzialmente l’unica misura prevista per contrastare l’abuso derivante dalla successione di più contratti a termine (che è quanto chiede la direttiva europea) e quindi la causale oltre ad essere specifica doveva anche far emergere il necessario requisito della temporaneità, ora – fermo l’onere della specificazione in capo al datore di lavoro – la presenza di un limite temporale alla successione dei contratti che nel 2001 non era presente, i ventiquattro mesi, potrebbe da solo essere sufficiente per soddisfare la prerogativa della temporaneità. Vedremo se i giudici del lavoro terranno conto di questa possibile lettura nel valutare la bontà di una causale individuata dalle parti individuali.

Ci si è anche domandati se le causali introdotte dalla contrattazione collettiva prima del decreto Lavoro siano ancora utilizzabili oppure no. E, se sì, quali gli effetti sulla possibilità per le parti individuali di procedere con il causalone che, come detto, risulta precluso in caso di intervento della contrattazione collettiva. Personalmente ritengo che le “specifiche esigenze” introdotte dai contratti collettivi in attuazione del decreto Sostegni bis siano certamente ancora valide, per due ordini di motivi.

Il primo attiene al fatto che si tratta di norma successiva al decreto Dignità, nel tentativo di allargarne le maglie. Per lo stesso motivo, ri- ! tengo quindi che non abbiano più valore le causali collettive introdotte prima del decreto Dignità, dato che quest’ultimo aveva fatto tabula rasa di tutto quanto introdotto e normato prima della sua entrata in vigore. Il secondo ordine di motivi attiene al dato letterale. E cioè se le parti collettive erano state così brave nell’individuare una “specifica esigenza”, di certo questa previsione puo’ ora avere cittadinanza anche come “caso” che indubbiamente ha una accezione molto più ampia. Sono anche del parere, pero’, che queste causali collettive ante decreto Lavoro non siano, come lo saranno invece le post per espressa previsione di legge, impeditive della causale individuale (causalone). E questo perché, a ragionare diversamente, si assegnerebbe alla fonte collettiva ante decreto Lavoro una funzione che certo il Legislatore dell’epoca non aveva previsto. In altri termini, quando, ad esempio, nel 2022 le parti sociali intorno al tavolo hanno di comune accordo individuato le causali, l’hanno fatto per allargare le maglie del decreto Dignità e non certo, neppure, potendo immaginare che quell’allargamento, da lì a poco, avrebbe comportato al contrario un restringimento, essendo di fatto l’unico impianto causale possibile. Ora, dopo aver analizzato il primo colpo che il decreto Lavoro ha inferto al decreto Dignità (la completa riscrittura e semplificazione delle causali, come visto), proviamo ad analizzare il secondo colpo infertogli dalla legge di conversione. Premessa doverosa. Il decreto Dignità prevede(va) che la causale fosse necessaria in tre situazioni: i) contratto di durata iniziale superiore a 12 mesi, ii) proroga che porta la durata del contratto a superare i dodici mesi, iii) rinnovi, cioè riassunzioni del lavoratore a termine, indipendentemente dalle durate.

Questa impostazione era rimasta immutata con l’entrata in vigore, il 5 maggio 2023, del decreto Lavoro. La legge di conversione, in vigore dal 4 luglio 2023, ci consegna invece una novità importante: anche coi rinnovi la causale non serve sempre e a prescindere ma, invece, è necessaria solo quando “il termine complessivo eccede i dodici mesi” (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 4, ultimo periodo). Quindi, d’ora in avanti – riporto il testo novellato del D.lgs. n. 81/2015, art. 21, comma 01, primo periodo – “Il contratto puo’ essere prorogato e rinnovato liberamente nei primi dodici mesi”. Sul punto si sono già confrontate almeno due diverse interpretazioni. La prima afferma che i dodici mesi sono di calendario cioè, in altre parole, un contratto sottoscritto ad esempio il 1° settembre 2023 potrà essere (oltre che prorogato anche) rinnovato per dodici mesi, tenendo pero’ come ultimo giorno di contratto sempre e comunque il 31 agosto 2024. Una seconda e diversa, a mio parere più aderente alla lettera della norma (“termine complessivo”) e che credo collimi anche con la ratio della novella in commento, considera invece i dodici mesi non come anno solare ma come sommatoria delle durate dei vari contratti (il primo e i successivi rinnovi). Aderendo alla prima interpretazione, tra l’altro, i dodici mesi complessivi potrebbero non raggiungersi mai in considerazione della necessità di rispettare uno stacco (il cosiddetto stop & go) tra un contratto a termine e il successivo (previsione che, ricordo, non si applica in caso di contratti a termine a scopo di somministrazione). Anche in base a questo assunto, oltre al fatto di voler riconoscere al rinnovo una distinta connotazione rispetto al diverso istituto della proroga, la mia preferenza va appunto all’interpretazione che considera i dodici mesi raggiungibili per sommatoria in forza di diversi contratti stipulati anche in un arco temporale superiore all’anno. Ma non è finita qui. Perché la legge di conversione del decreto Lavoro introduce anche un’ulteriore novità. Si prevede infatti una sorta di franchigia che, in sostanza e ai soli fini dei dodici mesi sopra trattati, azzera tutti i contratti sottoscritti prima dell’entrata in vigore del decreto Lavoro (5 maggio 2023). Riporto testualmente: “Ai fini del computo del termine di dodici mesi previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, del decreto legislativo n. 81 del 2015, come modificati dai commi 1 e 1-bis del presente articolo, si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Quindi, tanto ai fini delle proroghe (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1) quanto ai fini dei rinnovi (D.lgs. n. 81/2015, art. 21, comma 01), i dodici mesi superati i quali si rende necessaria una causale, decorrono solo a partire dalla stipula dei contratti (attenzione, non proroga che non è un contratto ma la sua prosecuzione) dal 5 maggio 2023 in avanti.

Concludendo sul punto, possiamo dire che la legge di conversione introduce un nuovo e diverso contatore, di dodici mesi, necessario per sapere se e quando è necessario apporre una causale. Conteggio che si affianca (non sostituisce e non modifica) a quello dei ventiquattro mesi di durata complessiva di uno o più (salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi) contratti a termine.

Chiudo questo mio scritto con una domanda: alla luce della seconda novità introdotta dalla legge di conversione sopra descritta (computo dei dodici mesi solo a partire dai contratti post 5 maggio 2023), è possibile sostenere che il causalone (ricordo utilizzabile entro il 30 aprile 2024 in assenza della contrattazione collettiva) sia stato in sostanza ora definitamente abbandonato dal Legislatore, pur senza una abrogazione esplicita, in quanto fatto rivivere solo per i due mesi intercorrenti tra l’entrata in vigore del decreto lavoro e la sua conversione in legge?

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Contratti&Co.: Il comparto delle agenzie per il lavoro si cuce su misura regole di durata massima e di proroghe dei contratti. Quando la contrattazione collettiva funziona

di Andrea Morzenti – Curatore e autore di intornoallavoro.com

Il 21 dicembre 2018 è stata sottoscritta l’“Ipotesi rinnovo Ccnl per la categoria delle Agenzie di somministrazione di lavoro”. Dopo ormai due anni dalla scadenza del precedente contratto collettivo, datato 27 febbraio 2014, una “era giuridica” fa, le Parti hanno quindi – e finalmente – raggiunto un accordo.

Un accordo molto importante e innovativo, frenato prima e accelerato poi dall’entrata in vigore del Decreto cosiddetto Dignità (che, di seguito, chiamerò solo DD).

Importante perché si rivolge a quasi cinquecentomila lavoratori ogni giorno in missione presso le aziende, di cui oltre quarantamila assunti a tempo indeterminato.

Innovativo sul versante delle tutele e del welfare, sul sostegno al reddito, sulla formazione, sulla qualificazione e riqualificazione professionale, sulla assunzione e gestione dei lavoratori con contratto di lavoro  a tempo indeterminato, sulla conferma  della somministrazione con monte ore retribuito garantito.

L’Ipotesi di rinnovo,con tutta la sua portata innovativa, entrerà però in vigore solo  dopo l’approvazione definitiva degli organi deliberativi e/o assembleari delle Parti stipulanti (Assolavoro, Felsa-Cisl, Nidil Cgil,  Uiltemp), nei termini previsti dai rispettivi  statuti associativi. Una volta ottenuto questo “via libera”, le Parti, recependo i contenuti dell’Accordo di rinnovo, avvieranno una revisione e armonizzazione del testo contrattuale del 27 febbraio 2014. Tutto quello che direttamente o indirettamente non è stato modificato dall’Accordo di rinnovo resterà invece in vigore.

Ma, dicevo, l’Ipotesi di rinnovo è stata raggiunta anche a seguito dell’entrata in vigore, e sotto la spinta, del DD. Due infatti erano i punti di massima attenzione e di preoccupazione: i) la durata massima della successione dei contratti di lavoro a termine delle  Agenzie per il Lavoro; ii) il regime delle proroghe.

Per entrambe le nuove disposizioni su tali punti, le Parti ne hanno quindi previsto la loro immediata entrata in vigore, con decorrenza dalla data di sottoscrizione dell’Ipotesi di rinnovo (21 dicembre 2018).

Vediamo i due punti, nel dettaglio.

DURATA MASSIMA E SUCCESSIONE DEI CONTRATTI (ART. 19, COMMA 2, D.LGS. N. 81/2015)

Cos’era accaduto? Il DD, per la prima volta in venti anni, ha introdotto una durata massima legale della successione di contratti di lavoro a termine delle Agenzie. Anche le Agenzie, infatti, dal 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del DD), applicano una norma che per i datori di lavoro “ordinari” esiste (seppur in testi normativi diversi e con durate diverse, ieri erano 36 mesi, oggi sono 24 mesi) fin dal 1° gennaio 2008.

Sulla nuova applicabilità di tale norma alle Agenzie per il lavoro, gli interpreti si sono fin da subito interrogati sul quando doveva iniziare il conteggio utile a determinare la durata massima (fissata, come noto, in 24 mesi). Due, e molto diverse tra loro, sono state le letture:

  1. Il conteggio inizia dai contratti di lavoro a termine stipulati tra le parti (Agenzia e lavoratore) a far data dal 14 luglio 2018;
  2. Il conteggio deve considerare tutti i contratti, anche se stipulati prima del 14 luglio 2018.

Senza entrare nel merito della fondatezza dell’una o dell’altra lettura (la prima contenuta e argomentata dettagliatamente in una Circolare di Assolavoro, la seconda fatta propria – in modo non certo chiarissimo – dalla Circolare del Ministero del Lavoro n. 17 del 31 ottobre 2018), che ho già affrontato sul numero di novembre di questa Rivista, è evidente come diverse sarebbero le conseguenze nel seguire la prima o la seconda lettura. In particolare, sulla possibilità o meno per decine di migliaia di lavoratori di avere una continuità occupazionale con la stessa Agenzia, magari a favore di diverse aziende. Questo quadro ha quindi generato, per mesi, una forte incertezza per l’intero settore delle Agenzie e, di riflesso, per le aziende.

Le Parti, quindi, recependo una delega di legge (l’articolo 19, comma 2, del D.lgs. n. 81/2015, fa salve infatti le “ diverse disposizioni dei contratti collettivi”) hanno messo un punto fermo su questo tema di rilevante importanza.

Fermo restando che nulla cambia – e nulla può cambiare in applicazione del contratto collettivo delle Agenzie – per quanto riguarda il conteggio della durata massima della successione di contratti (a termine e di somministrazione a tempo determinato) per le aziende (che segue le norme di legge o, eventualmente, quelle dei loro contratti collettivi), vediamo cosa hanno pattuito le Parti:

  1. A far data dal primo gennaio 2019, la du rata massima dei periodi di lavoro derivanti dalla successione di contratti a termine tra Agenzia e lavoratore si articola su due “contatori” paralleli e non alternativi:
  2. in caso di medesimo utilizzatore, la durata massima – de relato– è individuata dal contratto collettivo applicato dall’Azienda. In assenza, è fissata in 24 mesi;
  3. in caso di diversi utilizzatori,la durata massima è fissata in 48 mesi.
  4. Prima del 1° gennaio 2019, e nel solo periodo compreso tra il 1° gennaio 2014 e il 31 dicembre 2018, si conteggiano al massimo 12 mesi.

Ecco quindi che l’Ipotesi di rinnovo interviene con una triplice finalità:

  • in caso di mono utilizzatore, parametrando la durata massima in funzione di quanto il settore dell’utilizzatore o l’Azienda con le sue organizzazioni sindacali hanno previsto per la propria flessibilità. Solo in assenza di tali pattuizioni, opera il requisito legale di 24 mesi;
  • salvaguardando la tipicità e la funzione del lavoro in somministrazione, elevando a 48 mesi (il doppio del limite legale) la durata massima nel caso in cui il lavoratore presti attività lavorativa a favore di più utilizzatori;
  • assicurando una continuità occupazionale, definendo un conteggio solo “parziale” e comunque mai superiore a 12 mesi, per i periodi di lavoro ante1° gennaio 2019.

Tra le pieghe dell’Ipotesi di rinnovo si legge anche che unicamente il punto 2 sopra riportato (conteggio ante 1° gennaio 2019) è cedevole in caso di diversi interventi normativi e/o interpretazioni di fonte ministeriale che dovessero stabilire di non considerare, ai fini del superamento dei limiti di durata, alcuni periodi di lavoro intercorsi tra lavoratore e Agenzia. Il riferimento è all’Istanza di Interpello che Assolavoro ha presentato, il 5 novembre 2018, al Ministero del Lavoro “volta a richiedere chiarimenti in merito alle modalità applicative del limite di durata di 24 mesi alla successione di contratti di lavoro a tempo determinato a scopo di somministrazione”.

REGIME DELLE PROROGHE (ART. 34, CO. 2, D.LGS. N. 81/2015)

Anche sul tema della prorogabilità dei contratti di lavoro a termine delle Agenzie, il DD ha generato diverse interpretazioni, dubbi e preoccupazioni. Per la prima volta in venti anni, infatti, non è più prevista una esclusione esplicita del regime ordinario delle proroghe (dal DD fissata nel limite massimo di 4, nell’intera vita lavorativa tra datore e lavoratore) ai contratti di lavoro a termine stipulati dalle Agenzie.

Questa non esclusione, però, deve necessariamente tener conto del secondo periodo dell’art. 34, co. 2, del D.lgs. n. 81/2015, rimasto invariato anche a seguito dell’entrata in vigore del DD (a differenza del primo periodo, fortemente modificato), che demanda(va) alla contrattazione collettiva applicata dall’Agenzia la regolamentazione della prorogabilità dei loro contratti di lavoro a termine. E il Ccnl del 27 febbraio 2014, in essere all’entrata in vigore del DD, prevedeva il limite massimo di 6 proroghe per ogni contratto (limite non operante in caso di sostituzione di lavoratori assenti, per cui il contratto può essere prorogato sino al rientro del dipendente assente).

Sul punto, la dottrina maggioritaria, nonché Assolavoro con una propria Circolare interpretativa, ha ritenuto ancora in vigore la norma del Ccnl del 27 febbraio 2014, nonostante la successiva entrata in vigore del DD.

In considerazione del fatto che si erano però sollevate alcune voci in disaccordo con la dottrina maggioritaria e che davano prevalenza alla norma di legge a discapito della norma della contrattazione collettiva, risulta senza dubbio opportuna e dirimente l’Ipotesi di accordo in oggetto che, come sul tema della durata massima, mette un punto fermo anche su questa (minore) diatriba.

Fermo restando l’inderogabile limite legale di 24 mesi di durata massima del singolo contratto (derogabile solo con accordo di prossimità e non con una norma di Ccnl), le Parti hanno infatti previsto:

  1. il limite generale delle proroghe dei contratti a termine delle Agenzie è fissato in un numero massimo di 6 proroghe per ogni singolo contratto (con l’eccezione dell’ipotesi sostitutiva vista sopra);
  2. il limite massimo, sempre per ogni singolo contratto, è elevato a 8 proroghe per queste ipotesi (riporto le più rilevanti):
  3. diverso limite di durata, exart. 19 co. 2 del D.lgs. n. 81/2015, individuato dal contratto collettivo applicato dell’Azienda;
  4. per alcuni “lavoratori svantaggiati”:
  5. senza diploma di scuola media superiore o professionale (ISCED 3);
  6. oltre i 50 anni di età;

iii. in professioni o settori caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna in tutti i settori economici, se il lavoratore interessato appartiene al genere sottorappresentato;

  1. per i lavoratori privi di un impiego regolarmente retribuito da almeno 12 mesi;
  2. per le tipologie di lavoratori individuati dalla contrattazione collettiva di secondo livello e/o territoriale finalizzata ad assicurare forme di continuità occupazionale;
  3. per i lavoratori con disabilità di cui alla Legge n. 68/1999.

Da ultimo, l’Ipotesi di accordo prevede che (resta inteso) sono esclusi dalla durata massima i contratti di somministrazione a tempo determinato con lavoratori assunti a tempo indeterminato dall’Agenzia.

Norma, questa, che non fa che ribadire un principio pacifico. E cioè che, per l’Agenzia, i limiti di durata massima e di prorogabilità (e io aggiungo anche di causale) non operano per le proprie assegnazioni a termine, in caso di assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato. In tali ipotesi, infatti, le Agenzie possono assegnare i propri lavoratori alle aziende senza limiti.

Conseguentemente, questo dice l’Ipotesi di rinnovo, nessun limite si pone neppure sul contratto commerciale di somministrazione.

Tale assenza di limiti, con esclusivo riferimento alla durata massima della successione di contratti, non necessariamente può però ritenersi operante de plano anche a favore di chi, Azienda, riceve la prestazione del lavoratore in somministrazione (seppur) assunto a tempo indeterminato dall’Agenzia.

In altri termini, in caso di assegnazione a termine di lavoratore assunto dall’Agenzia a tempo indeterminato, mentre il limite massimo di proroghe (e causale) non opera, senza dubbio alcuno, tanto per l’Agenzia quanto per l’Azienda, non può invece che restare nella valutazione della singola Azienda (in termini non solo strettamente giuridici, ma anche di gestione ed effetti di una assunzione a tempo indeterminato dell’Agenzia e successiva ricollocazione del lavoratore) se ritenere o meno operante il limite massimo di durata a sé applicabile in applicazione dell’art. 19, co. 2, del D.lgs n. 81/2015. E questo, in assenza ad oggi di giurisprudenza, in quanto la norma di legge richiamata dice di “periodi di missione […], svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determi nato”, senza cenno alcuno alla tipologia assuntiva sottostante.

Queste – durata massima della successione di contratti e regime delle proroghe – le nuove e principali disposizioni già in vigore per il comparto delle Agenzie per il lavoro (non ho trattato, perché non ha impatti sulle aziende, il SAR, la nuova misura di sostegno al reddito dei lavoratori in somministrazione, anch’essa già in vigore).

Una risposta delle parti sociali, sindacali e datoriali, alle stringenti norme del DD; uno scatto in avanti della contrattazione collettiva. Altre risposte e soluzioni stanno arrivando, sempre più copiose, nella forma dell’accordo di prossimità, istituto praticamene dormiente dal 2011 ad oggi, che sta prendendo forma e vitalità. Insomma, dove la Legge chiude all’impresa e ai lavoratori, le parti sociali provano ad aprire.

 

 

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Decreto dignità: più della Legge poté la Circolare

di Andrea Morzenti – Curatore e autore di intornoallavoro.com

Negli ambienti frequentati dagli addetti ai lavori, si dice, si mormora, di grandi e importanti aziende che avrebbero chiesto ai loro grandi e importanti studi legali, un parere legale, una interpretazione, della Circolare del Ministero del Lavoro n. 17 del 31 ottobre 2018 con cui il Ministero avrebbe “fornito le prime indicazioni interpretative in materia di contratto di lavoro a tempo determinato e somministrazione di lavoro dopo le modifiche introdotte” dal Decreto cosiddetto Dignità (che, di seguito, chiamerò DD).

Ora, capite, che se sono necessari pareri ed interpretazioni su un atto amministrativo interpretativo di una norma di legge, ecco, c’è qualcosa che non va. Forse, aveva ragione un amico, un ottimo avvocato, quando mi diceva “fidati, è meglio se il Ministero non la scrive la Circolare”. Ma tant’è, la Circolare c’è e ora occorre prenderne in qualche modo atto.

Con una doverosa premessa. E cioè che le circolari «[…] non producono alcun “diritto vivente” che vincoli nella interpretazione delle norme» (C. Cost., n. 188/1998; Cass., n. 12911/2017). Detto ciò, partiamo.

Il Ministero del Lavoro ha quindi lasciato trascorrere tutto quanto il regime transitorio e ha pubblicato la sua Circolare. Sul transitorio, forse, non sapeva proprio cosa scrivere, non sapeva come interpretare una delle tante norme di difficile lettura del DD, e si è quindi limitato solo a scrivere che il regime transitorio ha trovato “applicazione anche con riferimento alla somministrazione di lavoro a tempo determinato”. Un’interpretazione ovvia ai più, anche se alcune voci in contrasto con questa lettura vi erano state (cfr., in particolare, Circolare Fondazione Studi Consulenti del Lavoro n. 16/2018).

Qui mi soffermerò su tre dei tanti punti trattati nella Circolare del Ministero: i) somministrazione di lavoro, ii) periodo massimo di occupazione e iii) condizioni.

Somministrazione di lavoro

Il Ministero precisa che “nessuna limitazione è stata introdotta per l’invio in missione di lavoratori assunti a tempo indeterminato dal somministratore. Pertanto, in questo caso, ai sensi dell’articolo 31 del citato decreto legislativo n. 81, tali lavoratori possono essere inviati in missione sia a tempo indeterminato che a termine presso gli utilizzatori senza obbligo di causale o limiti di durata, rispettando i limiti percentuali stabiliti dalla medesima disposizione”.

Si giunge a questa importante conclusione in quanto le novità del DD hanno riguardato il solo contratto di lavoro a termine (anche) delle agenzie e non il contratto commerciale di somministrazione. Quindi, se l’agenzia assume a tempo indeterminato non è mai richiesta la causale anche in caso di somministrazione a tempo determinato.

E, scrive il Ministero, non vi sono neppure “limiti di durata” all’invio in missione. Ora, su questo aspetto, se è pacifico che non vi sono dubbi in caso di somministrazione a tempo indeterminato, qualche riflessione in più va fatta in caso di somministrazione a tempo determinato. Perché, se è vero che l’invio in missione da parte dell’agenzia non ha limiti, residuano dubbi lato utilizzatore, in quanto quest’ultimo riceverebbe attività lavorativa (missione) sempre con contratto di somministrazione a tempo determinato (cfr. art. 19, co. 2, D.lgs. n. 81/2015, salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi anche aziendali). E, aderendo alla tesi più estensiva, verrebbero meno tutte le differenze tra somministrazione a tempo determinato e quella a tempo indeterminato (salvo i diversi limiti percentuali).

Periodo massimo di occupazione

Qui il Ministero, nel titolo (non è mio, è proprio della Circolare), supera la fantasia e le peggiori letture negative del DD. Non dice di “occupazione a tempo determinato”, ma di “occupazione” punto. Quasi a voler dire, inconsciamente, che decorsi gli n mesi (vedremo poi quanti) l’occupazione viene meno…

Detto ciò, titolo a parte, è questo sicuramente il paragrafo meno chiaro di tutta la Circolare, che sconta la difficoltà (e la poca conoscenza/dimestichezza) nel comprendere appieno le differenze tra contratto di lavoro “a scopo di somministrazione” e contratto commerciale “di somministrazione”. Che vedo esserci anche a Roma, in Via Veneto.

Si parte con un “In proposito occorre anche considerare che per effetto della riforma l’articolo 19, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015 è adesso applicabile anche alla somministrazione di lavoro a tempo determinato”, che non è vero. Perché la somministrazione di lavoro a tempo determinato c’è da sempre nel comma citato (anzi c’è dal 2012, Riforma Fornero, altro comma, altro decreto, ma sostanzialmente stessi contenuti). Forse il Ministero voleva dire “contratti a termine a scopo di somministrazione”, cioè i contratti di lavoro a termine stipulati dalle agenzie? Forse, chissà…

E si continua con un “il suddetto limite temporale di 24 mesi opera tanto in caso di ricorso a contratti a tempo determinato quanto nell’ipotesi di utilizzo mediante contratti di somministrazione a termine. Ne consegue che, raggiunto tale limite, il datore di lavoro non potrà più ricorrere alla somministrazione di lavoro a tempo determinato con lo stesso lavoratore per svolgere mansioni di pari livello e della medesima categoria legale”. Cosa vorrà dire qui il Ministero? Smentisce e contraddice sé stesso quando nel 2012 disse che “il periodo massimo costituisce solo un limite alla stipulazione di contratti a tempo determinato e non – invece – al ricorso alla somministrazione di lavoro. Ne deriva che, una volta raggiunti i trentasei mesi, il datore di lavoro potrà ricorrere alla somministrazione a tempo determinato con lo stesso lavoratore” (cfr. Circolare n. 18 e Interpello n. 32)? Oppure vuol dirci altro con la locuzione “il datore di lavoro non potrà”? Perché nella somministrazione il datore di lavoro è l’agenzia (somministratore), non l’azienda (utilizzatore).

E si finisce con “si chiarisce che il computo dei 24 mesi di lavoro deve tenere conto di tutti i rapporti di lavoro a termine a scopo di somministrazione intercorsi tra le parti, ivi compresi quelli antecedenti alla data di entrata in vigore della riforma”. E qui, mi chiedo: a chi si riferisce il Ministero? All’utilizzatore, ricordando che deve computare i contratti di somministrazione a tempo determinato anche prima del 14 luglio 2018 (in particolare, aggiungo io, solo quelli dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore delle Riforma Fornero)? O al somministratore?

Perché, se all’utilizzatore, la locuzione “rapporti di lavoro a termine a scopo di somministrazione” potrebbe anche validare la tesi per cui la somministrazione a tempo determinato eseguita con rapporti di lavoro a tempo indeterminato non avrebbe limiti di durata.

Se, invece, il riferimento è al somministratore, lascia quantomeno dubbiosi, in quanto al somministratore l’art. 19, co. 2 non si è mai applicato prima del 14 luglio 2018. E, non essendoci nel DD alcuna norma di “computo a ritroso” (cfr., a contrario, art. 5, co. 4-bis, del D.lgs. n. 368/2001, introdotto dalla L. n. 247/2007) non si capisce il perché, e la legittimità, di una norma con effetti sostanzialmente retroattivi.

Condizioni

Su questo mi limito a riportare le posizioni del Ministero e un, permettetemi, errore di sbaglio (forse un copia/incolla andato un po’ lungo).

Partiamo dalle posizioni. Molto semplicemente il Ministero dice che, quale conseguenza del comma 1-ter dell’articolo 2 del DD (introdotto dalla legge di conversione, l’oscuro comma come lo chiamo io), tutti i “passaggi” dello stesso lavoratore da contratto di somministrazione a contratto a termine (e viceversa), con lo stesso datore/utilizzatore, necessitano sempre e comunque di causale. In sostanza, sono sempre dei rinnovi. Io condivido solo in parte queste conclusioni, come ho provato a spiegare in modo più compiuto possibile nel mio articolo su questa stessa Rivista n. 10 di ottobre 2018. Altra conseguenza, questa invece assolutamente condivisibile, è che per il somministratore la causale risulta necessaria (oltre che, ovviamente, in caso di contratto di durata iniziale o prorogata superiore ai dodici mesi) in caso di rinnovo, solo se con lo stesso utilizzatore.

E veniamo a quello che ho chiamato “errore di sbaglio”. Il Ministero scrive “si evidenzia che l’obbligo di specificare le motivazioni del ricorso alla somministrazione di lavoratori a termine sorge non solo quando i periodi siano riferiti al medesimo utilizzatore nello svolgimento di una missione di durata superiore a 12 mesi, ma anche qualora lo stesso utilizzatore aveva instaurato un precedente contratto di lavoro a termine con il medesimo lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria”. Ecco, qui, il copia/incolla, come dicevo, è andato un po’ lungo. Perché l’obbligo di causale sorge, in caso di rinnovo, indipendentemente da “mansioni di pari livello e categoria”, requisito questo richiesto solo per il contatore dei 24 mesi (art. 19, co. 2, D.lgs. n. 81/2015) e non, appunto, in caso di rinnovo con causale (art. 19, co. 1 e art. 21, co. 01, D.lgs. n. 81/2015).

Insomma, in conclusione, riparto dalle premesse. Vero è che la Circolare non produce effetti vincolanti nell’interpretazione del DD. Per gli Ispettori del Lavoro sì, ma per altri interpreti no; tantomeno per un Giudice, soggetto solo alla Legge. Ma certamente fissa paletti, che potranno influenzare le policies delle aziende e delle agenzie. Le varie domande che ho posto (a cui chissà quante altre se ne possono – e se ne sono già – aggiunte) credo spieghino il perché grandi aziende han dovuto chiedere interpretazioni della Circolare ai loro legali.

In estrema sintesi, possiamo dire che più della Legge poté la Circolare.

 

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