RINUNCE IN SEDE CONCILIATIVA: per l’INPS sono imponibili anche le indennità dovute e transatte

Andrea di Nino, Consulente del lavoro in Milano

Con l’ordinanza n. 8913 del 29 marzo 2023, la Corte Suprema di Cassazione ha affermato che il versamento della contribuzione previdenziale all’Inps spetta anche sulle somme non erogate al lavoratore quando, a seguito di un accordo in sede conciliativa, quest’ultimo rinunci all’indennità sostitutiva del preavviso. I fatti di causa hanno visto la Corte d’Appello di Bologna riformare la pronuncia di primo grado e accogliere l’istanza presentata da un’azienda avverso un verbale di accertamento emesso dall’Ips, avente ad oggetto il pagamento dei contributi omessi e dovuti in relazione alle indennità di mancato preavviso non erogate a dei lavoratori licenziati.

I rapporti dei suddetti lavoratori, in particolare, erano stati risolti facendo ricorso all’erogazione di somme corrisposte a titolo di incentivo all’esodo, accordate in sede conciliativa sindacale. In tale sede, pertanto, i lavoratori coinvolti avevano rinunciato, tra l’altro, alle indennità di mancato preavviso previste dalla contrattazione collettiva.

Tanto premesso, la corte territoriale ha ritenuto che le parti, potendo rinunciare all’elemento contrattuale dell’indennità di mancato preavviso, avessero esercitato un diritto disponibile. In relazione a ciò e non essendo stata corrisposta alcuna somma a tale titolo, non poteva scaturire un’obbligazione contributiva.

L’Inps, nel presentare ricorso avverso la decisione della Corte d’Appello, ha illustrato come, a proprio dire, sussistessero i presupposti della violazione o falsa applicazione dell’art. 12, Legge n. 153/69 e dell’art. 1, D.l. n. 338/1989, in materia di “minimale contributivo”. Secondo la parte ricorrente, infatti, gli elementi economico-contrattuali previsti dalla legge quale è “l’indennità di mancato preavviso” prevista dall’art. 2118 c.c., seppur non corrisposte in virtù dell’accordo intercorso tra le parti, sarebbero comunque state imponibili a contribuzione.

In particolare, l’art. 1 del D.l. n. 338/1989 prevede che la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali non possa essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito dalle leggi. La norma, pertanto, richiama il parametro della retribuzione legale e non quella effettivamente corrisposta al lavoratore. A tal proposito, ad esempio, sono irrilevanti gli inadempimenti del datore di lavoro nei confronti del lavoratore nel pagamento delle retribuzioni. Da questo si deduce, pertanto, che l’obbligazione previdenziale è autonoma da quella retributiva.

A titolo esemplificativo, i giudici della Cassazione hanno ripercorso alcune precedenti pronunce riguardanti accordi per la riduzione dell’orario di lavoro o attinente alla sospensione temporanea della prestazione e conseguente omessa retribuzione. Tali accordi, in definitiva, “non sono opponibili all’Inps” (Cass. n. 15120/2019, Cass. n. 13650/2019), inerendo al rapporto di lavoro e non al distinto rapporto previdenziale, ed essendo il secondo autonomo rispetto al primo, oltre che presidiato dalla regola del minimale contributivo, per cui rileva, ai fini della contribuzione, la retribuzione dovuta per legge. A fronte degli elementi di diritto espressi, la corte ha ribadito che i diritti previdenziali che sorgono a seguito di atti normativi non sono disponibili tra le parti contrattuali ed eventuali rinunzie alle somme dovute non sono rilevanti ai fini della determinazione dei contributi previdenziali.

L’azienda, pertanto, pur avendo risolto consensualmente i rapporti di lavoro nell’ambito dell’accordo conciliativo che ha seguito l’intimazione del licenziamento, è tenuta al pagamento dei contributi corrispondenti alle indennità di mancato preavviso che avrebbero dovuto essere corrisposte in mancanza di accordo.

La Corte territoriale, a dire dei giudici di legittimità, non ha applicato i principi di diritto sopra riportati: difatti, la sentenza di appello ha parlato di “risoluzione consensuale del rapporto” e di “rinuncia al diritto all’indennità sostitutiva di preavviso”, senza considerare che tanto vale nel rapporto di lavoro, ma non nel distinto rapporto previdenziale, essendo la transazione, e quindi la rinuncia al diritto, inopponibile all’Inps.

La Cassazione osserva altresì come l’Inps non abbia richiesto il versamento dei contributi sulle somme pagate in adempimento della transazione, bensì abbia domandato, in base alla regola del minimale contributivo alla quale rileva la retribuzione dovuta secondo legge, il pagamento di “somme che sarebbero state dovute appunto in forza di legge (art. 2118 c.c.) e aventi titolo nel rapporto di lavoro, a prescindere da quanto poi abbiano stabilito le parti in sede transattiva”.

In conclusione, e in accoglimento del ricorso presentato dall’Inps, gli Ermellini hanno decretato che la Corte territoriale avrebbe dovuto verificare se, data la volontà di recedere comunicata dalla società, fosse spettata l’indennità sostitutiva di preavviso ai lavoratori, a prescindere poi dal fatto che questa non sia stata pagata in quanto i predetti lavoratori abbiano accettato somme a titolo diverso, ovvero di incentivo all’esodo.

 

Preleva l’articolo completo in pdf

Sentenze

Licenziamento per GMO per ragione organizzativa: nesso di causalità intercorrente tra il calo di volume di affari e il licenziamento e nuove assunzioni incoerenti con la contrazione del fatturato

Cass., sez. Lavoro, 12 gennaio 2023, n. 752

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Corte di Appello di Potenza, in riforma della sentenza del Tribunale di Matera, ha respinto la domanda di annullamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato dalla società alla lavoratrice, addetta a mansioni di estetista con orario part time pari a 24 ore settimanali, per esigenza di ridurre i costi di gestione e necessità di procedere alla riorganizzazione dell’azienda.
La Corte, esaminato preliminarmente il profilo della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo rispetto alla dedotta ritorsività del recesso, ha ritenuto sussistente la ragione organizzativa addotta dalla società.
Ha aggiunto che la scelta di licenziare la lavoratrice rispetto ad altre lavoratrici, a parità di carichi di famiglia e di qualifica professionale, appariva corretta e rispettosa dei principi di buona fede e  correttezza, a fronte del minor monte ore di lavoro svolto dalla stessa rispetto alle colleghe.
Per la cassazione di tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso. La società resiste con controricorso.
Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
La Corte distrettuale ha erroneamente valutato la prova documentale consistente nello stato  patrimoniale depositato dalla società  per gli anni 2016 e 2017: il dato da valutare per verificare l’effettiva sopravvenuta congiuntura sfavorevole era, invero, corrispondente alla comparazione degli utili ottenuti
nei due anni (sui quali influiscono i costi affrontati) e non già alla comparazione dei ricavi.
L’assunzione di tre lavoratrici, inoltre, spezza il nesso di causalità tra crisi economica e licenziamento della lavoratrice. Il ricorso è fondato per quanto di ragione.
La ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affermato che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni  inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro  sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost.; dove, però, il giudice accerti in concreto l’inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta (Cass., n. 10699 del 2017, Cass., n. 9468 del 2019).
La valutazione del nesso di causalità tra esigenze di riorganizzazione del personale riferibili alla contrazione del fatturato e il licenziamento della lavoratrice non risulta coerente con l’assunzione (aprile 2017) di due lavoratrici (di cui la Corte territoriale non precisa né il tipo di contratto stipulato, né la  qualifica rivestita, né l’orario di lavoro osservato, limitandosi a rilevare che “probabilmente” sostituivano la lavoratrice) avvenuta proprio durante l’anno (2017) che ha presentato il  calo dei ricavi (ossia del volume di affari sviluppato dalla società), assunzioni effettuate a pochi mesi dal rientro della lavoratrice in azienda (settembre 2017) e che hanno inevitabilmente determinato l’incremento dei costi del personale; le gravi lacune di indagine in ordine alla coerenza logica ed al nesso di causalità intercorrente tra l’accertato calo di volume di affari (posto che il riferimento ai ricavi rappresenta, pur sempre, un  indice per valutare l’andamento dell’impresa) e il licenziamento della lavoratrice, a fronte dell’assunzione di due lavoratrici (che, in un contesto di contrazione di attività, ha fatto lievitare i costi del personale) ha compromesso la corretta verifica della sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 3 della Legge n. 604 del 1966 che consentono al datore di lavoro di precedere al recesso.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Salerno, che provvederà altresì alle spese del giudizio di legittimità.


Riconoscimento del danno se la rotazione della CIGS è illegittima

Cass., sez. Lavoro, 16 dicembre 2022, n. 37021

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con l’ordinanza n. 37021 del 16 dicembre  2022, la Corte Suprema di Cassazione ha affermato che spetta il risarcimento del danno al lavoratore quando, in caso di accesso al procedimento di cassa integrazione
guadagni straordinaria (“Cigs”), il datore di lavoro decida discrezionalmente e senza definire i criteri di scelta la sospensione lavorativa senza un’adeguata rotazione.
I fatti di causa hanno visto un datore di lavoro ricorrere in appello dopo che, in primo grado, era stata ritenuta illegittima la sospensione in Cigs a “zero ore” di una lavoratrice.
In tale grado di giudizio, la società datrice di lavoro era stata condannata al pagamento delle differenze retributive dovute alla lavoratrice stessa per i periodi di fruizione della Cigs. Dette differenze consistevano nell’integrazione del trattamento erogato da Inps da parte della società, fino ad arrivare allo stipendio intero che la lavoratrice avrebbe dovuto ricevere se avesse prestato lavoro per tutto il periodo di sospensione a “zero ore”.
Data la conferma, da parte della competente Corte di Appello, della sentenza formatasi in primo grado, il datore di lavoro ricorreva per la sua cassazione attraverso diversi motivi di ricorso. Questi venivano tutti respinti dalla Corte di Cassazione, alla luce delle considerazioni seguenti.
In merito alla prescrizione breve delle somme richieste dal lavoratore, asserita dal datore di lavoro sulla base di quanto previsto dall’articolo 2948 c.c., i giudici di legittimità hanno ritenuto che “per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto all’ordinaria prescrizione decennale”.
Per quanto riguarda l’avvio stesso dei diversi periodi di Cigs e le motivazioni che lo hanno sorretto, la Cassazione ha osservato come gli accordi che, nel tempo, si sono succeduti propedeuticamente a ciascun avvio facessero riferimento a “esigenze tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi”.
Emergeva, dunque, come il criterio adottato dal datore di lavoro risultasse “totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnicoproduttive e, per certi aspetti, anche arbitrario”.
In sostanza, il datore di lavoro aveva “autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati – anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione”.
Nella sentenza della Suprema Corte viene chiaramente rappresentato come, durante un periodo di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale con conseguente ricorso alla Cigs, vengano in capo alla parte datoriale degli specifici obblighi in tema di indicazione e comunicazione agli organismi sindacali dei criteri di scelta del personale soggetto all’integrazione salariale, nei confronti del quale deve essere garantita un’adeguata rotazione. Se ciò non viene fatto o attuato, il provvedimento di Cigs risulta  illegittimo, in quanto al datore di lavoro non è consentita la scelta arbitraria dei lavoratori da sospendere.
Come noto, infatti, i criteri di scelta da considerare sono relativi ad anzianità aziendale, carichi di famiglia ed esigenze organizzative, e gli stessi devono essere parte integrante delle comunicazioni e dell’esame congiunto previsto dalla norma, come disposto dal comma 7 dell’articolo 1 della Legge n. 223/1991, al tempo vigente. Se questi criteri non vengono rispettati o nemmeno definiti da un accordo, il provvedimento di Cigs risulta inevitabilmente illegittimo.
In particolare, secondo gli Ermellini, il lavoratore sospeso senza che il datore di lavoro abbia attuato i criteri previsti dall’accordo sindacale ha diritto a rivendicare la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l’inadempimento della clausola di “rotazione”.
In questo caso, il datore di lavoro è responsabile secondo il principio della “mora del debitore”, ai sensi dell’art. 1218 c.c., a meno che questi dimostri che ciò non è avvenuto per cause di forza maggiore oppure per questioni organizzative a lui non imputabili.


Verbali di accertamento degli organi ispettivi: sono elemento di prova anche se presentano incolmabili lacune dimostrative

Cass., sez. Lavoro, 14 dicembre 2022, n. 36573

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Una Srl propone ricorso in Cassazione dopo che la Corte d’Appello di Catanzaro ha riconosciuto fondate le pretese dell’Inps, in relazione ad un verbale ispettivo che accertava un debito contributivo della società pari ad euro 369.519,67.
In Appello la Corte non aveva censurato la decisione del Tribunale anche se tale decisione fosse stata determinata da un verbale che in giudizio non era stato nemmeno prodotto dall’Inps, bensì dalla società stessa e i cui contenuti erano stati ritenuti efficacemente probatori.
La società, nel ricorso in Cassazione, denuncia che il giudice di merito avrebbe attribuito valore di prova legale ad un verbale ispettivo che presentava incolmabili lacune dimostrative e neppure era stato  confermato dall’Inps, che peraltro non si era neppure costituito.
Per la Suprema Corte però, può esserci la violazione dell’articolo 116 c.p.c. solo se il giudice nel valutare la prova o una risultanza probatoria, pretende di attribuire un altro o diverso valore, oppure la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione e il giudice dichiara di valutare la stessa prova secondo il suo “prudente apprezzamento”.
La Suprema Corte conferma quindi che i verbali di accertamento degli organi ispettivi, fanno piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante, come avvenuti in sua presenza e conosciuti. Detti verbali costituiscono elemento di prova che il giudice deve valutare in concorso con gli altri elementi e che può disattendere solo in caso di motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio.
In definitiva, il ricorso è dichiarato inammissibile perché il materiale istruttorio acquisito al giudizio, legittima comunque la pretesa dell’Ente previdenziale, indipendentemente dalla sua provenienza e tenuto conto degli altri documenti prodotti dall’Istituto: copia del libro matricola e scheda anagrafica aziendale.


Omissione dolosa di cautele infortunistiche

Cass., sez. Lavoro, 25 ottobre 2022, n. 40187

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

I giudici della Suprema corte di Milano si sono trovate a dirimere i motivi di un ricorso relativo alla sicurezza.
Il ricorrente, nella qualità di datore di lavoro di più società, veniva imputato per non aver adottato cautele antinfortunistiche atte a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, con riferimento a 14 autisti di più società di cui era amministratore.
In particolare, si contesta all’imprenditore di avere usato una calamita per manomettere i dati del cronotachigrafo, in un periodo dal 2010 al 2013, minacciando il loro licenziamento se si fossero rifiutati. Il giudice di primo grado aveva irrogato, all’esito di rito abbreviato, la pena di un anno e otto mesi di reclusione rigettando le richieste delle parti civili.
In secondo grado, il giudice dell’appello condanna il datore G.P.V., ma gli concede le circostanze attenuanti generiche, rideterminandone la pena irrogata in un anno, un mese e venti giorni di reclusione e concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento degli importi indicati entro tre mesi dall’irrevocabilità della sentenza.
Gli avvocati dell’imprenditore hanno presentato ricorso con alcuni argomenti sostanziali e formali, parzialmente rigettati dagli Ermellini, che ribadiscono infatti che la responsabilità dell’impresa non sia solo “commissiva”, ossia l’imposizione delle calamite, ma anche “omissiva”, evitando il controllo sul funzionamento del cronotachigrafo: il cronotachigrafo è un apparecchio per sua natura destinato alla prevenzione d’infortuni sul lavoro.
Quindi, il datore di lavoro che imponga l’alterazione di un apparecchio avente finalità di prevenzione degli infortuni, risponde del reato di cui all’articolo 437 codice penale, sulla base di numerose sentenze Europee su casi simili.
Tuttavia, a fronte di ampia riflessione condotta dalla Corte, deve essere rilevata l’intervenuta prescrizione del reato continuato ascritto.
Tenuto conto, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 157 e 160 c.p. della pena massima edittale per il reato indicato, e del fatto che esistono plurime cause interruttive del corso della prescrizione, il reato ascritto a G.P.V. è prescritto alla data del 30 novembre 2020, data alla quale deve essere aggiunto il periodo di sospensione del corso della prescrizione di 4 mesi e 30 giorni.
Deriva da quanto sin qui esposto l’annullamento senza rinvio, agli effetti penali, della sentenza  impugnata, posto che il reato continuato ascritto all’imputato è, come detto, estinto per intervenuta prescrizione.


Licenziamento per giustificato motivo e la questione dell’aliunde perceptum

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2022, n. 37946

Clara Rampollo, Consulente del Lavoro in Milano

La vicenda trae origine dal licenziamento di una lavoratrice, poi reintregrata nel posto di lavoro con conseguente condanna del datore di lavoro alla corresponsione della retribuzione globale di fatto nel frattempo maturata, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

In sede di Appello si registra una sostanziale coincidenza con la posizione espressa dal Tribunale: viene rilevato il difetto delle ragioni addotte dal datore di lavoro per giustificare il recesso e del conseguente nesso di causalità in quanto non è stata ritenuta configurabile la riorganizzazione.

In Cassazione, ove la società datrice di lavoro presenta ricorso (che viene respinto), in sintesi si riportano le seguenti posizioni che meritano di essere messe in rilievo:

– “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa: non essendo la scelta imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro, sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost. (sul punto la sentenza riprende plurime Cassazioni); sempre che, s’intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non risultando il recesso pretestuoso.”

Ciò premesso, la Corte di Appello aveva “dato conto della pretestuosità del giustificato motivo oggettivo addotto consistendo in una riduzione della figura del department manager (ovvero del responsabile di reparto) originariamente ricoperta dalla controricorrente, per effetto di una complessiva riorganizzazione aziendale intervenuta a far tempo dal febbraio 2015, ma nel punto vendita di via Borgognona, ove la lavoratrice era stata trasferita sin dall’1 luglio 2014, non era affatto presente la figura del responsabile di reparto – prevedendo l’organico di tale punto vendita esclusivamente la figura del direttore e del vice direttore, nonché di nove assistenti alla vendita. Il giudice di secondo grado ha, quindi, chiarito che la lavoratrice aveva ivi svolto l’attività di addetta alle vendite, con conseguente dequalificazione, aggiungendo che tale circostanza non era stata in alcun modo contestata dalla società, risultando, quindi, pacifica fra le parti ”;

– si riprende, infine, molto brevemente un altro passaggio della sentenza che riguarda il c.d. aliunde perceptum.

Sul punto la Cassazione ricorda che in tema di licenziamento illegittimo, il cd. “aliunde perceptum” non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, pertanto, “allorquando vi sia stata la rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata e se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato, nondimeno, gli elementi fattuali posti a fondamento dell’aliunde perceptum devono essere ritualmente allegati dalla parte che lo deduca”.

E nel caso in esame, il datore di lavoro non aveva dedotto o allegato, nella fase sommaria, ovvero in quella di opposizione, fatti o circostanze relativi a presunti redditi percepiti dalla lavoratrice dopo il licenziamento; inoltre, a tale mancata allegazione non possono supplire le istanze istruttorie avanzate dalla società (consistenti nell’interrogatorio formale e nella richiesta di documentazione all’Inps ed alla Agenzia delle Entrate), tenuto conto che le richieste istruttorie possono essere correttamente volte alla sola dimostrazione dei fatti ritualmente indicati ed allegati.


Tra subordinazione e autonomia …l’abito fa il monaco

Cass., sez. Lavoro, ordinanza 30 dicembre 2022, n. 38182

L’art. 2094 c.c. è come un abito su misura e nei dettagli risiede l’individualizzazione di uno status: con l’ordinanza n. 38182 del 30/12/2022 viene rigettato il ricorso presentato dalla ricorrente avente ad oggetto la riqualificazione in via giudiziale di un rapporto di lavoro autonomo in lavoro subordinato e la conseguente inefficacia del licenziamento orale intimato. In particolare, lo si anticipa, il ricorso viene rigettato in quanto lo stesso contiene censure che non riguardano la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, ma investono unicamente la valutazione delle risultanze processuali, attraverso ampi riferimenti alle prove testimoniali e non possono trovare ingresso in sede di legittimità. Gli elementi indiziari, così continua la Corte, evidenziati nel motivo di ricorso non sono astrattamente incompatibili con forme di lavoro diverse da quello descritto dall’art. 2094 c.c., come il lavoro accessorio, di cui agli artt. 48 e ss. D.lgs. n. 81 del 2015, nel testo ratione temporis applicabile.
Tanto premesso, l’ordinanza merita di essere annotata per aver sottolineato che l’art. 2094 c.c. individua gli elementi necessari per definire il concetto di subordinazione tra le parti, in cui un soggetto  lavoratore) presta la sua forza psico fisica ad un altro soggetto (datore di lavoro) a fronte di una controprestazione in denaro e/o in natura.
L’attività del lavoratore è parte integrante della struttura e del buon funzionamento dell’attività imprenditoriale del datore di lavoro, non un mero risultato di essa, come sottolineato dagli stessi Giudici. Tale assoggettamento, così sempre la Corte, non costituisce un dato di fatto elementare
quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze. E ove tale modalità di essere non sia agevolmente apprezzabile, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi (come, ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l’assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale),
che hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria (sul punto l’ordinanza rimanda a plurime Cassazioni). Questi elementi, lungi dall’assumere valore decisivo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, costituiscono indizi idonei ad integrare una prova presuntiva della subordinazione, a condizione che essi siano fatti oggetto di una valutazione complessiva e globale,
così conclude la Corte.

 

 


Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

E’ tenuto al pagamento dei debiti maturati nei confronti dei lavoratori cessati chi subentra per cessione di azienda nella proprietà

Cass., sez. Lavoro, 18 novembre 2022, n. 34036

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

Chi subentra nella cessione di azienda come proprietario e datore di lavoro è tenuto a farsi carico dei debiti dell’azienda ceduta, anche nei confronti dei dipendenti ormai cessati. È l’assunto ribadito dalla Suprema corte di Brescia nell’analisi del ricorso da parte della Società Cooperativa Sociale che è subentrata alla precedente Società cooperativa sociale per incorporazione. I dipendenti della precedente società hanno convenuto in giudizio la nuova proprietà, chiedendo il pagamento di differenze retributive, per mancato riconoscimento degli aumenti contrattuali nazionali e/o territoriali,  mancata applicazione degli aumenti periodici di anzianità e relativa incidenza sul calcolo delle ferie, dei permessi, dei congedi, delle festività, delle mensilità aggiuntive e dell’elemento retributivo territoriale, maturate nel periodo di lavoro alle dipendenze della cooperativa sociale incorporata dalla convenuta, quando i rapporti di lavoro in oggetto erano già cessati. Respinte le domande in primo grado, in appello i lavoratori si sono visti accordare, in parziale riforma della sentenza di primo grado, il pagamento delle somme in favore di ciascuno come in dispositivo indicate, oltre accessori, a titolo di differenze derivanti dal calcolo degli scatti di anzianità nei limiti della prescrizione.
Ricorre in Cassazione la nuova Cooperativa, con quattro motivi.
Con il primo motivo di ricorso addotto, la Società cooperativa sosteneva la violazione e falsa applicazione dell’art. 2504 bis del c.c. in combinato disposto con l’art.2112 c.c. adducendo che la fusione per incorporazione fosse regolata in tutti i suoi aspetti, anche in relazione ai rapporti di lavoro ed alle obbligazioni da essi derivanti. Tale motivo è considerato infondato.
Con il secondo motivo, anch’esso ritenuto infondato, sosteneva che mancava l’applicabilità alla fattispecie in esame, di fusione per incorporazione, del principio del rispetto dell’ordinamento comunitario da parte dei singoli ordinamenti nazionali.
Con il terzo motivo di ricorso censurava la sentenza impugnata per avere violato le disposizioni nazionali e comunitarie le quali stabiliscono la responsabilità del soggetto incorporante per i crediti del lavoratore  nell’ipotesi di rapporto di lavoro in essere al momento del trasferimento. Anche questo motivo, come i precedenti, è ritenuto infondato.
La cassazione dei primi tre motivi persegue la linea delle precedenti cassazioni, Cass. n. 30577/2021, dove si conferma che alla fusione sia collegato un generale subentro della società che da essa risulta in tutti i diritti e gli obblighi delle società ad essa partecipanti.
Il quarto motivo di ricorso, incentrato sulla violazione dell’art. 2560 c.c., è anch’esso infondato in quanto, come chiarito dalla Corte, la fusione di società realizza una successione a titolo universale, corrispondente a quella mortis causa, con la conseguenza che il soggetto risultante dalla fusione (per incorporazione) diviene l’unico e diretto obbligato per i debiti dei soggetti definitivamente estinti per effetto della fusione, debiti tra i quali vanno ricompresi quelli nascenti da rapporti di lavoro subordinato con le preesistenti società, a prescindere dai requisiti di conoscenza o conoscibilità dei debiti medesimi, sulla linea delle precedenti Cassazioni n. 13286/2015.
Pertanto, gli Ermellini respingono il ricorso e condannano la nuova cooperativa sociale alla rifusione delle spese di lite secondo soccombenza.


Comportamenti stressogeni a danno del lavoratore

Cass., sez. Lavoro, 11 novembre 2022,n. 33428

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte d’Appello di Genova ha riformato la sentenza del Tribunale di La Spezia e respinto tutte le domande proposte dal la[1]voratore contro il datore, di cui era stato dipendente da marzo 1985 al 30 aprile 2014 quale informatore scientifico del farmaco, e condannato il medesimo alla restituzione delle somme corrisposte in forza della sen[1]tenza di primo grado, nonchè alla rifusione delle spese di lite ed al pagamento delle spese della CTU espletata in primo grado. Il Tribunale spezzino, infatti, svolta ampia istruttoria testimoniale e tecnica, accertata la sussistenza di grave demansionamento e di comportamenti mobbizzanti in danno dell’informatore a decorrere da settembre 2012, in parziale accoglimento del ricorso aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno biologico temporaneo, del danno biologico permanente, del danno alla dignità ed all’immagine personali e professionali, oltre rimborso delle spese mediche sostenute ed accessori. La Corte genovese, in accoglimento dell’appello principale del datore, ha ritenuto che il Tribunale avesse assegnato rilevanza eccessiva alle attività di carattere commerciale svolte dall’originario ricorrente ai fini dell’accerta[1]mento del demansionamento, tenuto anche conto del fatto che tali mansioni erano state contestate solo con il ricorso introduttivo dopo quasi 30 anni di attività. Ha conseguentemente ritenuto assorbito l’appello incidentale del lavoratore diretto all’accertamento dell’interruzione del rapporto di lavoro alla fine del periodo di comporto per fatto e colpa del datore di lavoro, al connesso risarcimento dei danni, ad una liquidazione dei danni riconosciuti in misura maggiore e per ulteriori voci; avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione il lavoratore. La Corte d’Appello nella valutazione del demansionamento, a differenza del Tribunale, ha ricondotto all’area della percezione soggettiva la situazione lavorativa per cui è causa, venutasi a modificare da settembre 2012. Non ha, tuttavia, tenuto conto della rilevanza del fattore organizzativo – e delle connesse possibili situazioni di costrittività organizzativa – all’interno del perimetro rappresentato dal complessivo dovere di tutela della salute, anche psichica del lavoratore, ai sensi dell’obbligo datoriale di protezione di cui all’articolo 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di cui all’articolo 2103 c.c.. Il riconoscimento della rilevanza in tale ambito di tecnopatie da costrittività organizzativa è rinvenibile nella circolare Inail n. 71 del 17 dicembre 2003, intitolata “Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche”, con individuazione delle malattie derivanti da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro e riconduzione nei meccanismi propri della malattia professionale non tabellata, e nel Decreto Ministeriale 27 aprile 2004, adottato dal Ministero del lavoro, con il quale sono state inserite tra le malattie di possibile origine lavorativa per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 139, anche (Lista II – gruppo 7) le “malattie psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro”. Secondo gli orientamenti maturati nel suindicato percorso interpretativo questa Corte (come risulta da Cass. n. 15580/2022 punto 4.1 della motivazione), è pervenuta alle seguenti conclusioni: – è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass., 21 maggio 2018, n. 12437; Cass., 10 novembre 2017, n. 26684). – è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass., 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass., 29 marzo 2018, n. 7844), ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei la[1]voratori (Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291). Le nozioni di mobbing e straining hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici, e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’articolo 2087 c.c., e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291 e altre). È comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento che si ponga in nesso causale con un danno alla salute. Si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa. La causa deve essere cassata con rinvio per il riesame nel merito della domanda risarcitoria del lavoratore, tenendo conto, in diritto, del principio per cui rientra nell’obbligo datoriale di protezione di cui all’articolo 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di cui all’articolo 2103


Risarcimento del danno per licenziamento illegittimo: il trattamento pensionistico conseguito dal lavoratore non è decurtabile

Cass., sez. Lavoro, 31 ottobre 2022, n. 32130

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con la sentenza n. 32130 del 31 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione si è espressa in merito alla quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo che, a seguito del recesso, ha avuto accesso alla pensione di anzianità. In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore, dipendente con funzioni di dirigente presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, richiedere la declaratoria di illegittimità di un decreto di detto Ministero con il quale era stato risolto il suo rapporto di lavoro a far tempo dal 4 settembre 2009, sul presupposto dell’intervenuta maturazione del requisito contributivo massimo di quaranta anni a sensi dell’articolo 72, comma 11 del D.l. n.112/2008. Il giudice del rinvio, in merito, ha osservato, sulla base del principio di diritto enunciato dalla Cassazione, che il decreto ministeriale in esame (n. 342/2009) era illegittimo; quanto

to ai profili risarcitori derivanti dall’illegittima risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale, nell’operarne una quantificazione, il giudice escludeva il ristoro del danno biologico e, con riguardo al danno patrimoniale, faceva riferimento, da un lato, alle retribuzioni perdute nel periodo tra il 3 settembre 2009 e il 31 ottobre 2010, data di scadenza del biennio di trattenimento in servizio, e, dall’altro, alla “maggiore indennità di buonuscita”. I relativi importi venivano quantificati da un CTU opportunamente incaricato. A dire del giudice, non poteva invece essere riconosciuta, neanche sotto forma di perdita di chance, in difetto di esplicita domanda in tal senso, la retribuzione di risultato, atteso che essa “postula(va) una positiva verifica circa il conseguimento, da parte del dirigente, degli obiettivi prefissati”. Senonché, dal complessivo importo spettante a titolo di risarcimento andavano decurtate le somme che il lavoratore, nel medesimo arco temporale, aveva comunque percepito come pensione d’anzianità, e ciò in quanto, mancando nella specie un dictum giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro che avrebbe reso ripetibili le somme erogate dall’Inps, a dire del giudice si sarebbe verificata, in difetto di detrazione dell’aliunde perceptum, un’indebita locupletazione del lavoratore stesso. Rispetto alla sentenza di secondo grado sopra descritta, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, cui il Ministero resisteva con controricorso. Tra i vari motivi, il ricorso del dirigente verteva sulla indebita detrazione di quanto corrisposto medio tempore a titolo di pensione di anzianità dal risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, effettuata dal giudice di appello. Secondo il ricorrente, infatti, solo il compenso da lavoro percepito durante il c.d. periodo intermedio (i.e., intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di annullamento) può comportare la riduzione del risarcimento per il principio della compensatio lucri cum damno, mentre il trattamento pensionistico non sarebbe in alcun modo ricollegabile al licenziamento illegittimo e non sarebbe detraibile anche qualora vengano, come nella specie, a cristallizzarsi gli effetti del licenziamento per effetto della mancata reintegra in servizio. Detto motivo di ricorso è stato ritenuto fon[1]dato da parte dei giudici della Corte di Cassazione. In particolare, tra i motivi di accoglimento del ricorso, i giudici evidenziano di aver “più volte affermato il principio, da cui non v’è ragione di discostarsi, che non è detraibile come aliunde perceptum il trattamento pensionistico, potendosi considerare compensativo (quale aliunde perceptum) del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa”. La Corte di Cassazione evidenzia, altresì, come le Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 12194/02) abbiano, già in epoca risalente, precisato che “il diritto a pensione discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, prescinde del tutto dalla disponibilità di energie lavorative da parte dell’assicurato che abbia anteriormente perduto il posto di lavoro, né si pone di per sé come causa di risoluzione del rap[1]porto di lavoro (cfr. Cass. 28 aprile 1995, n. 4747), sicché le utilità economiche che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae dipendono da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo causalmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito e si sottraggono per tale ragione all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno”. Pertanto, le relative somme non possono configurarsi come “un lucro compensabile col danno”, ossia come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore, in quanto “a fronte della loro percezione sta un’obbligazione restitutoria di corrispondente importo”. Detta compensazione, inoltre, non può riconoscersi quando “il medesimo rapporto si ponga, invece, in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, giacchè in tali evenienze la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto che eroga la

più di recente, le Sezioni Unite (sent. n. 12564/2018) abbiano osservato che “quando la condotta del danneggiante costituisce semplicemente l’occasione per il sorgere di un’attribuzione patrimoniale che trova la propria giustificazione in un corrispondente e precedente sacrificio, allora non si riscontra quel lucro che, unico, può compensare il danno e ridurre la responsabilità”. Pertanto, pare sussistere una ragione giustificatrice che non consente il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall’illecito, poiché detto trattamento previdenziale “non è erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponde a un diverso disegno attributivo causale, che si pone quale causa del beneficio individuabile nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente”. La perdita di interesse del lavoratore alla ricostituzione del rapporto, anche de facto, mediante un provvedimento di reintegra e per effetto del raggiungimento del termine biennale di trattenimento in servizio, non esclude che vi sia la prosecuzione de iure dello stesso, considerato l’accertamento giudiziale dell’illecita risoluzione del rapporto. Dal ciò consegue – a dire della Suprema Corte e unitamente alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, sul quale permane l’obbligo contributivo – la ripetibilità delle somme erogate nel biennio di riferimento a titolo pensionistico da parte dell’Inps. È seguito, pertanto, l’accoglimento del motivo di ricorso avanzato dal lavoratore da parte della Corte di Cassazione.


Protezione del lavoratore contro i licenziamenti intimati per ragioni inerenti l’attività produttiva

Cass., sez. Lavoro, 18 novembre 2022, n. 3405

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

In riferimento alla domanda presentata dal lavoratore, intesa all’accertamento della nullità/illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice di primo grado aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro e aveva condannato l’Associazione/datrice di lavoro al pagamento dell’indennità risarcitoria, commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto nella misura di 16 mensilità, oltre accessori, respingendo le ulteriori domande di demansionamento e mobbing. La Corte di Appello di Roma, pronunciandosi sugli appelli proposti da entrambe le parti, rigettava quello della datrice di lavoro e accoglieva parzialmente quello del lavoratore. Il giudice, esclusa la natura discriminatoria del recesso, escluso il demansionamento e svuotamento di mansioni così come esclusa la configurabilità di una condotta mobbizzante (per essere gli episodi denunciati riconducibili all’ambito della fisiologica dinamica dei rapporti di lavoro), ha ritenuto effettiva e non simulata la riorganizzazione attuata dal nuovo Direttore Generale della società, espressione della libertà di iniziativa economica. In giudizio, la parte datoriale aveva fornito sufficiente ed adeguata dimostrazione dell’effettività di tale causale, rappresentata dal riassetto organizzativo del settore Comunicazioni, offrendo ulteriore, seppur non necessaria, dimostrazione dell’esigenza di ridurre i costi, attraverso la redistribuzione di una parte di attività tra altri soggetti mentre, le attività di relazioni istituzionali sarebbero state affidate ad una società esterna. In merito al “repêchage”, il giudice di appello aveva rilevato che le contestazioni presentate dalla datrice di lavoro erano del tutto generiche ed inadeguate a contrastare le prove presentate dal lavoratore circa l’assunzione di altri dipendenti, la presenza di altre società facenti capo all’Associazione/ datrice di lavoro. Il giudice, in parziale accoglimento dell’appello del lavoratore, confermando nel resto la decisione di primo grado, aveva condannato la società al pagamento dell’ulteriore risarcimento del danno, collegato alla modalità di risoluzione del rapporto, quantificato in via equitativa nella somma di 15.000 euro, oltre accessori. Per la cassazione della decisione propone ricorso il lavoratore; la parte intimata resiste con tempestivo controricorso con il quale propone ricorso incidentale. Il lavoratore deposita controricorso avverso il ricorso accidentale. Dall’esame dei motivi di ricorso principale ed incidentale, la Suprema Corte accoglie le censure sollevate dal lavoratore in merito alla tutela reintegratoria perché la società non aveva dimostrato l’impossibilità di un’utile ricollocazione lavorativa del lavoratore. La Suprema Corte rammenta che il testo dell’art. 8, comma 7, Legge n.300/1970, qua[1]le risultante all’esito degli interventi della Corte Costituzionale, comporta che, in ipotesi di insussistenza del fatto alla base del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il giudice deve applicare la tutela di cui al comma 4 dell’art.18 quale risultante dalla novella della Legge n.92/2012, implicante la reintegra del lavoratore ed il pagamento di un’indennità risarcitoria nei liniti definiti dal comma medesimo. Per orientamento consolidato della Suprema Corte, riaffermato anche nel vigore della modifica al testo dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, il fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo è rappresentato sia dalle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia all’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. repêchage ). La protezione del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi, con riferimento al licenziamento intimato per ragioni inerenti l’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, deve includere anche l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore.

La Suprema Corte accoglie pertanto il primo motivo di ricorso principale e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per il riesame della tutela applicabile per l’ipotesi di illegittimità del licenziamento.


Una volta contestato, il fatto di addebito può essere integrato?

Cass., Sez Lavoro, 19 ottobre 2022, n. 30850

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

A seguito dell’impugnazione da parte del lavoratore del licenziamento intimatogli, tanto il Giudice di primo grado, quanto la Corte d’Appello decidevano parallelamente nel rigetto delle doglianze del dipendente. Innanzitutto, veniva riconosciuto che, anche sulla base delle norme del Ccnl di settore, il provvedimento espulsivo era perfettamente efficace, non essendo maturata la decadenza per l’irrogazione del medesimo. Quanto alla pretesa genericità della contestazione disciplinare, la Corte d’Appello rilevava che essa fosse stata redatta per iscritto e nel rispetto del canone di specificità, peraltro coadiuvata dall’allegazione dei documenti richiamati. A tale lettera di addebito disciplinare non seguiva alcuna censura da parte del lavoratore, ragione per cui si poteva legittimamente ritenere che essa fosse coperta da giudicato. Inoltre veniva deciso che il requisito dell’immutabilità non poteva ritenersi violato dall’integrazione successiva della contestazione, volta a specificare adeguatamente i fatti addebitati nonché comunque pervenuta in momento precedente alla consegna dell’atto conclusivo della procedura disciplinare. Il lavoratore decideva quindi di proporre ricorso per Cassazione. Proprio in ragione della particolare posizione di soggezione del dipendente rispetto all’esercizio datoriale del potere disciplinare, la giurisprudenza ha da sempre valorizzato il diritto di difesa del lavoratore. Secondo tale prospettiva in via generale il datore dovrebbe procedere alla contestazione non appena abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, atteso che il ritardo nella contestazione lede il diritto di difesa del lavoratore e, in particolare, il suo affidamento sulla mancanza di rilievo disciplinare attribuito dal datore di lavoro alla condotta inadempiente. La tempestività e l’immutabilità della contesta[1]zione rappresentante le primarie garanzie che integrano il principio cardine di tutta la disciplina della contestazione dell’inadempimento, che dev’essere determinata, specifica e tempestiva. Con specifico riguardo, poi, al principio di immutabilità, la Suprema Corte è ferma nel ravvisare la funzione dello stesso di evitare una concreta menomazione del diritto di difesa dell’incolpato, qualora il datore di lavoro proceda negli atti successivi alla contestazione disciplinare a un diverso apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo. Coerentemente con detto orientamento giurisprudenziale la pronuncia in esame della Cassazione ha ritenuto che l’addebito iniziale integrato nelle successive occasioni di specificazione da parte del datore di lavoro rimane legittimamente contestato se non si registra una diversa qualificazione del fatto né un suo diverso apprezzamento. In dettaglio per la Suprema Corte “il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze in fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una effettiva menomazione del diritto alla difesa dell’incolpato”. Alla luce della giurisprudenza riportata, può concludersi che principio della immutabilità della contestazione non deve essere inteso in senso estremamente rigido. Per poter considerare che il suddetto canone sia stato rispettato dal datore di lavoro, è necessaria la piena identità tra la ricostruzione dell’addebito così come operata nella contestazione e l’addebito preso nel suo complesso che è sotteso alla sanzione applicata, così da non ledere, salvaguardandolo, il diritto di difesa del lavoratore resosi manchevole. Sono pertanto consentite tutte le modifiche dei fatti contestati che – non configurandosi come elementi aggiuntivi di una condotta, pur potenzialmente disciplinarmente rilevante, appartenga ad una fattispecie diversa e più grave quella contestata, risolvendosi quindi in nuove circostanze prive di valore identificativo della originaria fattispecie – non ostacolano la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa dallo stesso forniti a seguito della contestazione dell’addebito. Può quindi ritenersi opportuno – peraltro frequente nella prassi – che, nel corso di un procedimento disciplinare, la contestazione venga arricchita di circostanze che, non aggiungendo nuove imputazioni, si ritengono però idonee a suffragare la gravità o comunque a consentirne una più precisa valutazione.

 


Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Licenziamento disciplinare del dirigente per comportamenti vessatori e denigratori nei confronti dei sottoposti

Cass., Sez, Lavoro, 7 ottobre 2022, n. 29332

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

La sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta ha affermato che i “comportamenti vessatori e denigratori” del dirigente inflitti nei confronti dei suoi sottoposti, causando un sistema di “sopraffazione e condizionamento psicologico”, fanno scattare la sanzione espulsiva a suo carico. Inoltre, è assicurato il diritto di difesa esercitato dai collaboratori, qualora la consegna della relazione da questi sottoscritta avvenga prima dell’audizione disciplinare al dirigente.
La contestazione di addebito aveva ad oggetto comportamenti gravemente lesivi del vincolo fiduciario, di cui a ripetute segnalazioni ed a dettagliata relazione sottoscritta da diversi collaboratori, concernenti problemi di gestione della struttura complessa di Genetica medica, consistiti, in particolare, in “sistematici comportamenti vessatori e denigratori nei confronti  dei medici e biologi” qualificati come “dittatoriali”, ripetutamente “tesi a ridicolizzare l’operato dei lavoratori”, decisioni arbitrarie in ordine ai soggetti da includere nelle pubblicazioni a prescindere dall’effettiva partecipazione al lavoro, comportamenti volti ad ostacolare la comunicazione e l’interazione lavorativa tra medici e biologi, mancato utilizzo di apparecchiature in dotazione al laboratorio di UOS Citogenetica, dichiarazioni lesive dell’immagine del presidente e dell’ente.
Ancora, all’insegna del divide et impera, il dirigente ostacolava la comunicazione e l’interazione fra i dipendenti, finendo per non utilizzare apparecchiature che pure sono in dotazione al reparto. Il dirigente medico aveva instaurato nei dipartimenti un sistema di «sopraffazione e condizionamento psicologico».
Tale sistema era specificato nella relazione di cui alla contestazione, consegnata in copia al ricorrente prima dell’audizione.
Tali condotte oggetto di contestazione erano idonee a giustificare il licenziamento disciplinare irrogato, quantunque la condotta di dichiarazioni lesive dell’immagine del legale rappresentante dell’Associazione non fosse stata confermata.
La Suprema Corte, nel confermare la sentenza di secondo grado e il licenziamento, ha affermato che la contestazione dell’addebito deve essere specifica, non osservare schemi rigidi e prestabiliti e, soprattutto, deve fornire al dipendente incolpato le indicazioni necessarie  per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati; ne consegue la piena ammissibilità della contestazione per relationem.
Il giudice può apprezzare le suddette caratteristiche secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti unilaterali. Analogamente il giudice può vagliare l’immediatezza della contestazione per la quale vanno considerate anche le ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa. I giudici di merito hanno inoltre ritenuto provati i fatti contestati nella loro materialità di comportamenti vessatori nei confronti dei collaboratori e sottoposti, in contrasto con i doveri connessi all’incarico ricoperto ed alla corretta gestione della struttura.
La Corte respinge il ricorso condannando la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.


Gestione artigiani: determinazione della base imponibile sulla quale parametrare l’obbligo contributivo

Cass., ordinanza 3 ottobre 2022, n. 28572

Patrizia Masi, Consulente del lavoro in Milano

L’Inps sostiene che i redditi percepiti da F.N., quale partecipazione agli utili della società di capitale di cui è fondatore, debbano essere qualificati come redditi di lavoro autonomo (e non come redditi di capitale) e come tali devono essere inseriti nella base imponibile sulla quale parametrare l’obbligo contributivo.
In prima istanza, e successivamente in Appello, viene respinto il ricorso presentato dall’Istituto che, infine, ricorre in Cassazione basando la sua impugnazione su un unico motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 3 bis della Legge n. 438/1992 di conv. con modifiche del D.l. n. 384/1992 e in connessione con la Legge n. 223/1990, dell’art. 53, co. 2, lett. d) del D.P.R. n. 917 (TUIR) e dell’art. 10 del D.lgs. n. 241 del 1997, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c..
La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso poiché il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e perché l’esame dei motivi non ha offerto elementi validi per mutare l’orientamento della stessa.
Secondo la Corte, infatti, se è vero che il TUIR distingue la natura della partecipazione agli utili del socio fondatore da quella del socio non fondatore, definendo la prima reddito di lavoro autonomo e la seconda reddito di capitale, non di meno tale distinzione non “conviene” alla posizione dell’Inps nella fattispecie in esame, poiché quella operata dal TUIR è una fictio iuris destinata a spiegare effetti a fini fiscali, ma non anche ad incidere sulla qualificazione dei relativi redditi ai fini contributivi.
Infine, a parere del Collegio, la richiesta dell’Inps è infondata anche dal punto di vista della qualificazione del “socio fondatore”. A questa domanda è già stata data risposta in giurisprudenza (Cass., n. 21540 del 2019; Cass., n. 18765/2022; Cass., n. 10969/2022): il reddito per la partecipazione a società di capitali va incluso nella base imponibile contributiva solo qualora tale quota parte rientri tra i redditi d’impresa, nell’accezione contenuta nell’art. 3 bis del D.l. n. 384/1992.


Nessun margine di discrezionalità del datore di lavoro nei licenziamenti collettivi

Cass., sez. Lavoro, 15 novembre 2022, n. 33623

Patrizia Masi, Consulente del lavoro in Milano

Il lavoratore ha impugnato il licenziamento inflittogli a seguito di un procedimento di licenziamento collettivo. Secondo il lavoratore,  infatti, è illegittimo l’accordo raggiunto tra azienda datrice di lavoro e sindacato nel quale si afferma che i “lavoratori saranno valutati dal responsabile dell’area aziendale, tenuto conto delle professionalità formazione e servizi quali-quantitativi, al fine di mantenere i lavoratori con le competenze professionali necessarie per continuare efficacemente l’attività dell’impresa”. La Corte d’Appello, in riforma alla pronuncia di primo grado, ha accolto la domanda di cui sopra, assumendo che i criteri di selezione non siano oggettivamente verificabili e controllabili, lasciando quindi ampia discrezionalità al datore di lavoro.
La Suprema Corte, confermando il rilievo della Corte d’Appello, ha affermato che al fine di garantire la trasparenza della procedura di licenziamento collettivo, i criteri designati per l’individuazione dei lavoratori da licenziare devono essere oggettivi e non possono essere applicati arbitrariamente. In altre parole, si è ribadito che i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità devono essere, tutti ed integralmente, basati su elementi oggettivi e verificabili.
Il criterio elaborato nella fattispecie è stato ritenuto “non oggettivamente verificabile e controllabile”
pertanto, sulla base di tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società, affermando l’illegittimità del licenziamento contestato e condannando la ricorrente alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre che al risarcimento del danno in misura pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con accessori e spese.


Infarto per il troppo lavoro richiesto in azienda: onere della prova

Cass., sez. Lavoro, 28 novembre 2022, n. 34968

Stefano Guglielmi, Consulente del lavoro in Milano

lavoratore ha agito presso il Tribunale di Roma nei confronti del Ministero della Giustizia esponendo di avere lavorato dapprima presso l’Amministrazione penitenziaria e poi, dal 1981, presso l’Ufficio automezzi di Stato della Direzione Affari Civili, ove il personale era carente, al punto che i ritmi di lavoro cui egli era stato sottoposto risultavano insostenibili, mancando qualsiasi pianificazione e distribuzione dei carichi e dovendosi svolgere, in ambiente disagiato, mansioni inferiori e superiori ed al punto che, a partire dall’anno 2002 aveva maturato sintomi depressivi finendo per essere ritrasferito nel novembre 2000, in esito ad un accentuato malore, all’Amministrazione penitenziaria, patendo poi un infarto nel gennaio del 2001 (questo quanto si legge testualmente dalla sentenza).
Il lavoratore aveva quindi agito nei confronti del Ministero per il risarcimento del danno biologico subito per violazione dell’art. 2087 c.c. e delle pertinenti norme del D.lgs. n. 626 del 1994, oltre ai danni alla professionalità, insistendo in subordine per il riconoscimento dell’ascrivibilità della patologia cardio-vascolare a causa di servizio con accertamento del diritto al pagamento del c.d. equo indennizzo.
Il Tribunale ha riconosciuto solo il diritto all’equo indennizzo, mentre ha rigettato la domanda risarcitoria, con pronuncia poi confermata dalla Corte d’Appello di Roma. Si concludeva per l’assenza di prova delle violazioni che il lavoratore assumeva essere imputabili al Ministero, essendovi necessità di dimostrazioni dell’elemento soggettivo della colpa, non potendosi ipotizzare una responsabilità oggettiva e dovendosi considerare come il nesso etiologico proprio del riconoscimento del c.d. equo indennizzo si basasse su presupposti differenti rispetto a quelli propri del risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., i quali presuppongono anche la dimostrazione dell’elemento soggettivo, rispetto al quale il ricorrente non aveva fornito elementi probatori sufficienti.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione.
È indubbio che l’azione dispiegata dal ricorrente si riporti ad una fattispecie di responsabilità contrattuale, con essa essendosi inteso denunciare l’inadempimento datoriale rispetto all’assicurazione di condizioni di lavoro idonee a preservare la salute degli addetti, il richiamo della Corte territoriale all’art. 2043 c.c. è in sé errato (v., per i criteri distintivi nella presente materia, Cass., S.U. 8 luglio 2008, n. 18623).
Il lavoratore che agisca ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha l’onere di provare l’esistenza del danno subito, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro.
Nel caso di specie riguardante il verificarsi di un c.d. “superlavoro” ed in cui la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione, lo svolgimento di un lavoro che non sia in sé vietato dalla legge rende fisiologico – e quindi non imputabile a responsabilità datoriale – un certo grado di usura o pregiudizio, variabile sotto il profilo fisio-psichico a seconda del tipo di attività (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028).
In tema di demansionamento, che appunto consiste in un’attribuzione di mansioni inadeguate rispetto a quelle contrattualmente dovute, si è consolidato l’indirizzo, mutuato dall’originario e generale impianto di Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533, per cui il lavoratore “allorquando da parte di un lavoratore
sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro… è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 c.c., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766, e più di recente Cass. 20 aprile 2018, n. 9901; Cass. 18 gennaio 2018, n. 1169; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211). È ben vero che, secondo Cass., S.U., n. 13533/2001, cit., un tale assetto probatorio vale solo per le obbligazioni di “fare”, mentre rispetto a quelle di “non fare” l’onere di provare l’inadempimento grava sul creditore.
In realtà l’obbligazione di sicurezza si materializza in un intreccio indissolubile di fattori “di fare” e di “non fare”, ma essa va colta nella sua unitarietà come dovere di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di pregiudizio per il lavoratore e quindi come obbligazione di fare consistente nell’obbligo di attribuire, pretendere e ricevere dal lavoratore una qualità e quantità di prestazione che sia coerente “con la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica”, in modo che non derivi pregiudizio alla  integrità fisica” ed alla “personalità morale del lavoratore” (così, esplicitamente, proprio l’art. 2087 c.c.).
Il nesso eziologico tra l’infarto e l’attività lavorativa in concreto svolta è poi pacifico ed attestato dal riconoscimento ormai incontestato dell’equo indennizzo per causa di servizio. Può anche definirsi il seguente principio: “in tema di azione per risarcimento, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per danni cagionati dalla richiesta o accettazione di un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità,
il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive ed a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno, mentre spetta al datore di lavoro, stante il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrare che viceversa la prestazione si è svolta, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali,
congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore”.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.


Se formalmente il rapporto di lavoro era individuato come autonomo, la prescrizione dei crediti del lavoratore successivamente indicato come subordinato non decorre

Cass., sez. Lavoro, 13 ottobre 2022, n. 29981

Elena Pellegatta, Consulente del lavoro in Milano

La vicenda prende avvio con il ricorso degli eredi del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, azienda edile, per ottenere il riconoscimento della sussistenza, fra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato in luogo dell’assenza di formalizzazione dello stesso dal 2 gennaio 2000 al 30 settembre 2002 e della configurazione quale contratto di collaborazione professionale per il periodo successivo
all’1 dicembre 2012, con le connesse differenze retributive. Il giudice di secondo grado, riesaminando i risultati della attività istruttoria esperita in primo grado, ha ritenuto di non condividere l’iter motivazionale del primo giudice e, pertanto, ha reputato configurabile un rapporto di lavoro subordinato fra le parti sin dall’inizio del rapporto, con le conseguenze economiche connesse a tale statuizione.
La vicenda viene portata davanti agli Ermellini, che confermano la corretta valutazione del giudice di secondo grado, ritenendo non ammissibili i tre motivi del ricorso.
Il primo motivo, ossia l’errata configurazione del rapporto come subordinato invece che autonomo, non è ammissibile. Le risultanze testimoniali, pacificamente acclarate in appello, indicavano chiaramente come il lavoratore fosse sottoposto alle direttive dei dirigenti della azienda non solo quanto al luogo ma anche quanto alle modalità e direzione del taglio dello sbanco ed ha concluso per lo stabile inserimento nell’organico aziendale del lavoratore alla luce della circostanza che dettava disposizioni agli operai, che a lui gli stessi si rivolgevano quanto a richieste inerenti ferie e malattie; inoltre gli indici riscontrati deponevano per l’assenza di rischio e per la messa a disposizione da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative in relazione delle quali veniva corrisposta la retribuzione, in luogo del risultato conseguito.
Ha osservato, pertanto, il giudice di secondo grado, che soltanto nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, allo scopo della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel particolare contesto, significativo, occorre far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore, desunto anche dalla eventuale concomitanza di altri rapporti di lavoro. In mancanza delle suddette autonomie organizzative, viene confermato il rapporto di lavoro subordinato.
Anche il secondo motivo di impugnazione, ossia la prescrizione dei crediti da lavoro dipendente, è giudicato infondato.
La Corte ha affermato, con riguardo a tale domanda, che il rapporto di lavoro tra il lavoratore e la società non era assistito da stabilità  reale, in quanto senza formalizzazione nel periodo dal 2.1.2000 al 30.9.2002 ed in forza di contratto di lavoro autonomo dall’1.10.2002 al 26.9.2009.
La Suprema Corte ha affermato che la prescrizione dei crediti del lavoratore non decorre in costanza di un rapporto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia stata successivamente riconosciuta la natura subordinata con garanzia di stabilità reale in relazione alle caratteristiche del datore di lavoro.
Come emerge da quanto oggetto del presente giudizio, il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, negata dalla parte ricorrente fino al giudizio di legittimità, è stata proprio oggetto della vicenda sub judice, e contrasterebbe con la richiamata giurisprudenza di legittimità la previsione della possibilità di far decorrere la prescrizione in costanza di un rapporto privo di qualificazione professionale per il primo periodo ed in prosieguo configurato in termini di lavoro autonomo, con una conseguente inammissibile compressione dei diritti retributivi del prestatore.
Il terzo motivo di impugnazione, indicato come la violazione del contratto collettivo nazionale lapidei in ordine all’errata determinazione dei conteggi relativi alla tredicesima mensilità ed al trattamento di fine rapporto, è altresì inammissibile. Su tale assunto infatti il datore di lavoro non ha portato alcuna prova che potesse dimostrare il contrario al giudice di secondo grado; e l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione qualunque sia il tipo di errore (“in procedendo” o “in iudicando”) per cui è proposto, non può essere assolto “per relationem” con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata.


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, perdita dell’appalto: nullità e tutele reintegratorie

Cass., sez. Lavoro, 13 ottobre 2022, n. 30167

Andrea di Nino, Consulente del lavoro in Milano

Con la sentenza n. 30167 del 13 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso  presentato da un datore di lavoro a seguito del riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inflitto ad un lavoratore.
La Corte distrettuale, inoltre, aveva rilevato che al lavoratore fosse stata assegnata una mansione riconducibile ad un livello di inquadramento inferiore rispetto alla propria qualifica, in violazione dell’art. 2103 del Codice civile.
In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore che, da capoturno di pattuglie di guardie giurate, veniva licenziato a seguito della perdita di un appalto.
I motivi su cui si è basata la decisione della Suprema Corte si rinvengono nella “manifesta insussistenza” del fatto che ha originato il licenziamento, il quale – a seguito dell’istruttoria svolta nei diversi gradi di giudizio – non è risultato legato da un nesso causale alla soppressione del posto di lavoro cui il lavoratore è stato assegnato in forza di un atto nullo. A fronte di ciò, ha trovato applicazione la tutela
reintegratoria, come previsto dal comma 7 dell’art. 18 della Legge n. 300/1970 e l’azienda è stata condannata, inoltre, al pagamento delle spese della lite.
Il datore di lavoro ha presentato ricorso articolato per sei motivazioni, le quali hanno riguardato  principalmente la “manifesta insussistenza” del fatto e l’eccessiva onerosità della reintegrazione, prevista dal menzionato articolo 18.
In particolare, l’azienda ha denunciato la violazione, da parte della Corte distrettuale, del principio di diritto espresso dalla Cassazione in sede di annullamento con riguardo alla ricostruzione ermeneutica del concetto di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento (ai sensi dell’art. 18, comma 7 della Legge n. 300 del 1970), la quale sarebbe stata effettuata “senza l’indagine sia sulla “evidente e facilmente verificabile” carenza del nesso di causalità tra assegnazione (nulla) alla postazione e successiva soppressione del posto sia sulla eccessiva onerosità della reintegrazione”.
La ricorrente, inoltre, ha dedotto omesso esame di un fatto decisivo discusso tra le parti, avendo la Corte distrettuale trascurato – ai fini della valutazione della “eccessiva onerosità della reintegrazione” – che presso la centrale operativa cui il lavoratore era addetto non vi erano posizioni di capoturno disponibili
e che in base alla declaratoria del 3° livello di cui al Ccnl Vigilanza non potevano essere più assegnate mansioni di capoturno.
Tanto rappresentato dall’azienda ricorrente, la Suprema Corte ha comunque ritenuto infondati i diversi motivi di ricorso. In particolare, questa ha illustrato come l’art. 18, comma 7, della Legge n. 300/1970 – che regola l’apparato sanzionatorio da applicare in caso di accertamento della illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – sia stato “inciso da due recenti sentenze della Corte costituzionale, successive alla pronuncia rescindente, proprio con riguardo ai requisiti per l’applicazione
della tutela reintegratoria”.
In particolare, la Corte costituzionale, con la  sentenza n. 59 del 1° aprile 2019, ha dichiarato l’illegittimità del comma 7 dell’art. 18 della Legge n. 300/1970, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma; la sentenza n. 125 del 2022, altresì, ha dichiarato l’illegittimità del medesimo comma ove si prevede l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, limitatamente al termine “manifesta”.
In virtù di quanto espresso dalla Corte costituzionale, la Cassazione ha evidenziato che laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, debba essere sentenziato l’annullamento del licenziamento e ordinata la reintegrazione del lavoratore,
“senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica”. Pertanto, l’apprezzamento
della sussistenza dei vizi denunciati con il ricorso dev’essere fatto con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità.
Sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato che la valutazione della fondatezza o meno del ricorso per cassazione deve farsi con riferimento “alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi, atteso che gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo”.
Posto che i primi cinque motivi di ricorso vertono tutti sulla ricorrenza di due requisiti attinenti al regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non sono più vigenti, i suddetti motivi sono stati rigettati.
La Corte distrettuale ha, inoltre, rilevato che l’accertamento circa la illiceità del fatto posto a fondamento con il recesso era da ritenersi definitivo, in quanto deve ritenersi totalmente insussistente il fatto materiale che ha determinato il licenziamento dipendente, posto come non vi sia stata una lecita adibizione dello stesso all’appalto, non potendo perciò un fatto illecito essere posto a fondamento,
in un vincolo di causalità, con il recesso per giustificato motivo oggettivo.
In altre parole, il fatto “perdita dell’appalto” – a dire della Suprema Corte – non può giustificare il licenziamento del lavoratore che non poteva esservi assegnato. Da questo è conseguita la piena integrazione dell’unico requisito richiesto dall’art. 18, comma 7, della Legge n. 300/1970 (nel testo a seguito dei due interventi della Corte costituzionale) per l’applicazione della tutela reintegratoria.
Il datore di lavoro è stato dunque condannato a pagare a favore del lavoratore indennità e contributi dovuti per il periodo intercorso tra la risoluzione del rapporto e la reintegrazione effettiva, fino a un massimo di dodici mensilità.

 

 

 


Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Lavoratore privo del permesso di soggiorno e infortunio sul lavoro: reato di lesioni personali e responsabilità per colpa del datore

Cass., sez. Penale, 30 agosto 2022, n. 31879

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Con sentenza emessa il Tribunale di Crema, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato l’imputato responsabile dei reati di cui agli artt. 22, comma 12, D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (capo A), e 590, secondo e terzo comma, c.p. (capo B), per avere, in qualità di legale rappresentante della E.A.C. Srl, occupato alle proprie dipendenze un cittadino
indiano privo di permesso di soggiorno e per avere cagionato allo stesso, per colpa consistita nella violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, lesioni personali dalle quali derivava una malattia
di durata superiore ai 40 giorni e l’indebolimento permanente della mano destra. C., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle circostanze aggravanti di cui all’art. 590 c.p., era
stato condannato alla pena – condizionalmente sospesa – di mesi tre, giorni dieci di reclusione ed euro 2.800,00 di multa per il reato di cui al capo A) e alla pena di mesi due di reclusione per il reato di cui al capo B), nonché al risarcimento dei danni patiti dall’Inail, parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio. Il Tribunale aveva individuato quale profilo di colpa specifica la violazione da parte dell’imputato  dell’art. 18, D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, norma che pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di formazione e informazione del dipendente, obbligo considerato non adempiuto nella specie, posto che il lavoratore era risultato impiegato in nero presso l’azienda da circa un mese, senza essere stato istruito in ordine ai rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa e, segnatamente, circa l’uso della macchina spaccalegna, la cui lama aveva cagionato  una grave lesione al braccio del lavoratore.
Dopo il verificarsi del fatto, il lavoratore era stato accompagnato presso il Pronto soccorso dell’Ospedale di Crema da un pick-up di colore nero, immediatamente dileguatosi. Il cittadino indiano presentava una significativa ferita al braccio e i suoi indumenti erano intrisi di “residui di materiale legnoso”.
All’esito della visione dei filmati delle telecamere del presidio medico, i Carabinieri risalivano al proprietario del pick-up, risultato appartenente alla E.A.C. Srl, il cui titolare aveva  poi ammesso di avere accompagnato la persona
offesa, la quale, secondo quanto dichiarato dall’imputato, sarebbe apparsa nel piazzale della ditta provenendo dai terreni dello zio dell’imputato. Quest’ultimo, tuttavia, aveva negato di conoscere il lavoratore infortunato,
aggiungendo che il nipote era solito assumere saltuariamente qualche indiano. A sua volta, la persona offesa aveva dichiarato di essere stato reclutato a lavorare presso l’azienda dell’imputato da circa un mese e che,
il giorno del fatto, egli stava tagliando un  pezzo di legno di grandi dimensioni avvalendosi dell’apposito macchinario ma, nel procedere alla sistemazione del pezzo, aveva premuto inavvertitamente il pedale della macchina,
provocando la discesa della lama, che gli aveva procurato lo schiacciamento della mano destra e l’amputazione di un dito.
La sentenza di primo grado era stata appellata dalla difesa dell’imputato, che aveva evidenziato la contraddittorietà delle dichiarazioni della persona offesa, la quale, al momento dell’ingresso in Pronto soccorso, era risultata
odorare di alcool, l’assenza di testimoni a riscontro della dinamica dell’infortunio, l’inverosimiglianza
della ricostruzione fornita dal lavoratore, nonché la mancanza di una prova certa circa il rapporto di lavoro intercorso tra quest’ultimo e la E.A.C. Srl. All’esito del giudizio di impugnazione, la Corte di Appello di Brescia, con la sentenza in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del datore di lavoro in ordine a entrambi i reati, per essersi i medesimi estinti per la sopravvenuta prescrizione, non accogliendo l’istanza di proscioglimento nel merito formulata dall’appellante,  ha confermato le statuizioni civili e ha condannato l’imputato al pagamento delle ulteriori spese in favore della parte civile.
Quanto all’evenienza degli elementi costitutivi del primo reato, nel respingere le doglianze difensive relative alla mancata prova del rapporto di lavoro, la Corte territoriale ha affermato che la sussistenza del suddetto rapporto poteva desumersi da plurimi elementi, primo fra tutti l’essersi verificato l’infortunio all’interno dello stabilimento dell’azienda. Inoltre, sono stati evidenziati la presenza di materiale legnoso sugli  indumenti del lavoratore al momento del suo arrivo in ospedale e il rilievo che, se la persona offesa fosse veramente sbucata improvvisamente
dai terreni dello zio dell’imputato, non ci sarebbero state ragioni per giustificare la fretta dell’imputato nell’abbandonare il lavoratore davanti al pronto soccorso. Inoltre, i giudici di appello hanno aggiunto
che, una volta assodata l’assenza della somministrazione della previa formazione al lavoratore, anche un’ipotetica disattenzione o imprudenza del lavoratore non avrebbe potuto comunque escludere la responsabilità del datore di lavoro, in questo caso del legale rappresentante della società datrice di lavoro. Avverso la suddetta pronuncia ricorre per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando due motivi.
Per ciò che concerne l’asserita insussistenza del rapporto di lavoro tra l’impresa societaria amministrata dall’imputato e la persona offesa, la Corte di Appello ha fatto riferimento – oltre che ai residui di “materiale legnoso” sugli indumenti del lavoratore – anche alle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo e al contributo dichiarativo del teste, dipendente dell’E.A.C. Srl. I giudici di appello – lungi dall’appiattirsi acriticamente sulle dichiarazioni della persona offesa – ne hanno operato un’accurata valutazione, motivando le ragioni di apparente contraddittorietà
nella successione delle sue affermazioni, segnalando il ragionevole timore che avvinceva il lavoratore, riconnesso alla sua condizione di immigrato privo di permesso di soggiorno, e traendo dalle medesime l’essenza genuina del relativo narrato con argomentazioni esenti da vizi logici. Sul tema, si ricorda che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da
sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni
di qualsiasi testimone, con la specificazione che, laddove la persona offesa si sia costituita
parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U., n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214 – 01; fra le successive, Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 – 01).
Nel caso di specie, la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società amministrata dall’imputato (e non con lo zio) è stata accertata anche in virtù delle convergenti dichiarazioni rilasciate dal teste, il quale ha riferito
di aver notato il lavoratore infortunato in azienda – non solo nel giorno dell’infortunio, ma – anche in precedenti occasioni, precisando, altresì, che il suddetto si trovava nei pressi della macchina spaccalegna proprio qualche istante prima del sinistro.  A conclusioni non dissimili deve pervenirsi per quel che concerne il profilo della colpa specifica dell’imputato e dell’eventuale interruzione del nesso di causalità conseguente a un asserito
comportamento abnorme del lavoratore. Sull’argomento, è, del resto, fondata l’osservazione svolta nella memoria della parte civile, laddove si osserva che la ritenuta configurazione della colpa specifica in capo all’imputato
espressa nella sentenza impugnata non presta il fianco a critiche, nel senso che, pur ipotizzando – per assurdo – che l’imputato non avesse occupato il lavoratore infortunato in qualità di lavoratore subordinato, l’averlo comunque
addetto a qualsiasi diverso titolo alla mansione del taglio del legname, senza fornirgli alcuna formazione e/o istruzione in merito ai lavori da eseguire con l’uso della macchina “sega spaccalegna”, che fossero volti a
salvaguardarne l’incolumità e la salute, determina in ogni caso la responsabilità del datore, atteso che il sistema prevenzionale tutela tutti  i lavoratori, a prescindere dalla tipologia contrattuale che li lega al datore stesso, ai sensi
dell’art. 3, D.lgs. n. 81 del 2008.
In concreto, quindi, il legale rappresentante della società datrice di lavoro è stato, secondo la motivata conclusione dei giudici di merito, raggiunto rettamente dall’accertamento di responsabilità, nulla avendo il medesimo predisposto a protezione del lavoratore, d’altronde assunto contra legem. Secondo il corretto riferimento operato nella contestazione, invero, l’art. 18, D.lgs. n. 81 del 2008 contempla fra gli obblighi del datore di lavoro quello, nell’affidare i compiti ai lavoratori, di tener conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro
salute e alla sicurezza, quello di prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico,
nonché quello di adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37 dello stesso D.lgs. (obblighi finalizzati ad assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente
ed adeguata in materia di salute e sicurezza). Per il resto, il datore di lavoro che non adempie gli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell’espletamento delle proprie mansioni, ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, né l’adempimento di tali obblighi è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore.
Per quanto attiene, poi, alla denunciata abnormità  della condotta della persona offesa, i giudici del merito hanno escluso tale evenienza formulando uno scrutinio adeguato e non illogico degli elementi di prova acquisiti
in merito alla mancata dimostrazione dello stato di alterazione alcolica del lavoratore. In conclusione, l’impugnazione deve essere, nel suo complesso, rigettata, restando intatta l’accertata responsabilità civile dell’imputato. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali.


Lavoro durante il congedo straordinario: è legittimo il licenziamento

Cass., sez. Lavoro,8 luglio 2022, n. 21773

Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con la sentenza n. 21773 dell’8 luglio 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente sorpresa, durante il periodo di congedo straordinario
concessole (per assistere la figlia portatrice di handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’art. 42, comma 5, D.lgs. n. 151/2001), a lavorare presso il negozio di cui era titolare il compagno, anch’egli dipendente della società.
In particolare, la Corte d’Appello di Bologna aveva respinto, in secondo grado, il reclamo proposto dalla lavoratrice, confermando la sentenza di primo grado con cui la donna si era vista rigettare l’impugnativa del licenziamento
per giusta causa intimato dal datore di lavoro per il motivo di cui sopra. La dipendente era stata colta sul fatto da parte di un investigatore privato, incaricato dalla società datrice di lavoro di pedinare il compagno della stessa, anch’egli proprio dipendente. Quest’ultimo, in particolare, era stato sorpreso a lavorare presso il medesimo negozio
– di cui era titolare – nel corso di un’assenza per malattia. A seguito del licenziamento e avverso le pronunce
dei primi due gradi di giudizio, dunque, la lavoratrice ricorreva in Cassazione con diversi motivi di doglianza.
Nel dettaglio, la dipendente riteneva che non fosse stato effettivamente individuato l’oggetto dell’onere probatorio in merito alla giusta causa di licenziamento, che la sentenza impugnata ha ritenuto essere stato assolto dal datore
di lavoro. Inoltre, la lavoratrice lamentava lo scarso approccio critico della Corte d’appello ai vari elementi di prova raccolti dal datore di lavoro: a dire della donna, infatti, la Corte d’appello avrebbe recepito “senza il necessario apprezzamento critico le relazioni investigative, le foto e i filmati alle stesse allegati, nonché le dichiarazioni
rese dagli investigatori escussi come testimoni, senza neppure rilevare le contraddizioni in cui questi ultimi sarebbero incorsi”.
Nell’ambito del terzo grado di giudizio, la Suprema Corte ha ritenuto inammissibili i motivi avanzati dalla lavoratrice e ha rigettato il ricorso. Nel dettaglio, i giudici hanno ritenuto che, in secondo grado, i giudici di merito non abbiano considerato gli elementi suddetti come facenti piena prova, bensì abbiano valutato gli stessi “unitariamente agli
altri dati probatori acquisiti”, ritenendo che fossero, nel complesso, adatti a dare dimostrazione della condotta contestata alla lavoratrice mediante il licenziamento.


Legittimo il licenziamento del dipendente che si rifiuta di effettuare le visite mediche obbligatorie

Cass., sez. Lavoro, 13 luglio 2022, n. 22094

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione di Bologna conferma la legittimità del licenziamento comminato ad una dipendente che si è rifiutata di sottoporsi alle visite mediche obbligatorie. La vicenda prende il via dal primo esame della Corte di Appello di Bologna, che confermava la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede.
L’azienda datrice di lavoro licenziava la lavoratrice dipendente, in forza presso la società dal 10.11.2000 con mansioni di impiegata amministrativa livello 4°.
Il recesso era stato adottato, con missiva dell’11.10.2007, per giusta causa con riferimento alla lettera di contestazione disciplinare del 20.9.2017 in cui le era stato ascritto di essersi rifiutata di effettuare la visita medica
nelle giornate del 12.9.2017 e del 19.9.2017, nella prima circostanza adducendo l’inidoneità del luogo di svolgimento del controllo e, nel secondo caso, omettendo di presentarsi nel luogo ed orario del previsto espletamento. La lavoratrice impugna il licenziamento e si rivolge agli Ermellini, denunciando in primis la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 20 e 41 del D.lgs. n. 81/2008, in relazione all’art. 32 Cost., all’art. 2103 c.c. e all’art. 1460
c.c., ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3, c.p.c., per avere la Corte distrettuale erroneamente interpretato le suddette disposizioni che impongono al datore di lavoro di sottoporre il dipendente ad accertamenti sanitari in ipotesi di
cambio di mansioni e al lavoratore di sottoporvisi.
Sostiene, in primo luogo, che la visita medica disposta dall’azienda aveva la sola finalità di accertare l’idoneità della lavoratrice non allo svolgimento delle mansioni già assegnate e in corso di svolgimento, come previsto dall’art. 5 della Legge n. 300/70, bensì l’idoneità a svolgere le nuove mansioni di addetta alle pulizie assegnatele illegittimamente.
In secundo, la lavoratrice adduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per non avere considerato la Corte di merito,
ai fini dell’accertamento della sussistenza della giusta causa, da un lato, l’elemento soggettivo del comportamento connotato da buona fede e, dall’altro, la sproporzione della sanzione inflitta rispetto alla condotta contestata.
La Suprema Corte, nell’analisi delle motivazioni portate dalla lavoratrice, ritiene il primo infondato, in quanto la sorveglianza sanitaria comprende l’obbligo, per il datore di lavoro e per il lavoratore, di visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l’idoneità alla mansione specifica.
Essendo quindi la visita medica di idoneità in ipotesi di cambio delle mansioni prescritta per legge, la richiesta di sottoposizione a visita, da parte del datore di lavoro, prima della assegnazione alle nuove mansioni, come correttamente sottolineato dalla Corte distrettuale, non è censurabile e, anzi un adempimento dovuto.
Pertanto, il rifiuto della lavoratrice a non sottoporvisi, perché rivolto a contrastare un illegittimo demansionamento, è stato illegittimo. Nel ragionamento esposto dagli Ermellini, viene infatti sottolineato che la visita medica disposta era preventiva e prodromica all’assegnazione delle nuove mansioni; l’omissione di detta visita avrebbe costituito un colposo e grave inadempimento di parte datoriale. La reazione della lavoratrice non è giustificabile ai sensi dell’art. 1460 c.c. perché, da un lato, il datore di lavoro si era limitato ad adeguare la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell’espletamento delle mansioni
loro assegnate e, dall’altro, la dipendente avrebbe ben potuto impugnare un eventuale esito della visita, qualora non condiviso, ovvero l’asserito illegittimo demansionamento, innanzi agli organi competenti.
Il secondo motivo è altresì giudicato inammissibile, in quanto la giusta causa di licenziamento, integra una clausola generale che richiede che l’interprete la renda concreta tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi
alla coscienza generale. La buona fede, nel rifiuto a sottoporsi a tali visite mediche, non è stata rilevata dalla ricostruzione dei fatti documentale, e soprattutto dall’illegittimità del comportamento omissivo della dipendente,
punito anche con sanzioni penali, e lo scopo della condotta del datore di lavoro, finalizzata alla prevenzione rispetto alla sicurezza e salubrità nei luoghi di lavoro.Pertanto, il licenziamento viene confermato.


Obbligo di repêchage e dichiarazione di illegittimità in ordine alla tutela reintegratoria

Cass., sez. Lavoro, 6 luglio 2022, n. 21470

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Brescia, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra la società M.A.s.r.l. ed il lavoratore S.M. . Secondo i giudici di appello il licenziamento, derivando dalla perdita di un appalto di servizi e dalla necessità quindi di un’operazione di riorganizzazione del personale in forza da parte dell’azienda, era stato correttamente intimato per giustificato motivo oggettivo. Tuttavia, sempre secondo i giudici del merito, la società non aveva utilmente adempiuto all’obbligo di repêchage del lavoratore.
Come noto la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo comporta per il datore di lavoro la necessità di provare la sussistenza delle ragioni che portano alla risoluzione del rapporto di lavoro e l’inutilizzabilità
del lavoratore in altre mansioni analoghe a quelle precedentemente svolte.
Se sul primo aspetto i giudici ammettevano la sussistenza dei motivi di licenziamento (perdita dell’appalto), sul secondo, l’obbligo del repêchage, ritenevano che la società non avesse tenuto una condotta sufficientemente adeguata. In primo luogo, vi erano state nuove assunzioni di personale ad un livello di inquadramento e di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte dal lavoratore, senza che al dipendente fosse stata fatta alcuna proposta di demansionamento  al fine di evitare il licenziamento, ma oltre tutto S.M., all’epoca del recesso, svolgeva mansioni
non soppresse dalla cessazione dell’appalto. Sulla base di analoghi precedenti di legittimità ed in conformità alla reale sussistenza della perdita dell’appalto veniva dichiarato legittimo il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, ma con la condanna della società al pagamento di 16 mensilità della retribuzione globale di fatto.
Propone ricorso il lavoratore per la cassazione della sentenza, ricorso che viene accolto con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in diversa composizione. L’accoglimento del ricorso deriva dal fatto che “con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo
comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42,  lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente  alla parola «manifesta»;”.
Nel giudizio di cassazione, la dichiarazione di illegittimità di una norma di legge deve essere tenuta in conto qualora il giudizio di cassazione si fondi su norme modificate o addirittura espunte dall’ordinamento nel periodo
temporale tra la deliberazione della decisione e la pubblicazione della sentenza.In ragione di ciò il capo della sentenza impugnata che aveva negato la tutela reintegratoria deve essere cassato, onde permettere al giudice
del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il nuovo quadro normativo.


Anche se manca il verbale di accertamento contributivo la cartella esattoriale per omissioni contributive e lavoro in nero è valida

Cass., sez. Lavoro, 30 giugno 2022, n. 20825

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Si tratta del ricorso proposto da una impresa individuale avverso il giudizio di opposizione alla cartella esattoriale per omissioni contributive, in riferimento ad un maggior numero di lavoratori rispetto a quanto intimato, ritenendo
sussistente l’obbligazione contributiva per le ore di straordinario retribuite in nero. La parte ricorrente richiede la nullità della sentenza sostenendo che la Corte di merito avrebbe erroneamente ammesso dall’opponente l’identificazione di alcuni lavoratori non accorgendosi che gli stralci del ricorso recavano in realtà riferimenti a soggetti diversi. La Corte di merito aveva ritenuto identificati i lavoratori sulla scorta di atti e attività ispettive,
omettendo tuttavia di esaminare le puntuali allegazioni, fin dall’atto introduttivo, dimostrative che mai i predetti lavoratori sarebbero stati sentiti e individuati. Ancora, la parte ricorrente deduce l’omesso esame di un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, avendo la Corte di merito ritenuto la pretesa contributiva pari a 21 ore straordinarie effettuate nell’aprile 2006, omettendo di esaminare le censure incentrate sulla deduzione che il
predetto lavoratore non avesse mai ricevuto somme in nero. Pertanto è da ritenersi nulla la sentenza, in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare il motivo principale del gravame, incentrato sulla contestazione in
toto dello svolgimento del lavoro in nero. Ciò premesso, la pronuncia della Cassazione, concentrata in modo spiccato su questioni processuali, si annota in quanto mette in evidenza che i Giudici di merito avevano (invece)
tenuto in debita considerazione gli atti compiuti da tutti gli operatori in fase di accertamento ispettivo. Infatti, così si legge nell’ordinanza, “in ogni caso, la Corte di merito ha dato atto della dichiarazione del finanziere che aveva
proceduto agli accertamenti ispettivi unitamente agli ispettori degli enti previdenziali e valorizzato, altresì, la documentazione da questi, per relationem, richiamata, contabile ed extracontablie, quale il registro presenze con solo nome e storico dei dipendenti richiesti ai centro per l’impiego,  dando forma, pertanto, all’apprezzamento proprio del giudice del merito e al relativo convincimento formatosi sul compendio probatorio, insindacabile
in questa sede di legittimità”. La corte pertanto rigetta il ricorso.

 

 

 

 

 

Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Il licenziamento ritorsivo di un giornalista: aspetti presuntivi

Cass., sez. Lavoro, 27 giugno 2022, n. 20530

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Il fatto riguarda un giornalista professionista che ha rivendicato, in via stragiudiziale, la natura effettivamente subordinata del rapporto per tutta la sua durata e il proprio diritto all’inquadramento come redattore. Inoltre, dopo
aver ricevuto dalla società comunicazione di recesso dal contratto di collaborazione, senza alcuna motivazione, impugnava il recesso, qualificato come licenziamento, chiedendo che fosse dichiarata la natura ritorsiva del provvedimento espulsivo, con le conseguenze di legge.
Il Tribunale di Firenze ha riconosciuto la natura subordinata del rapporto ritenendo il licenziamento illegittimo, formalmente per difetto di motivazione. Ha condannato di conseguenza l’editore a corrispondere al giornalista il risarcimento dei danni nella misura di 12 mensilità, riconoscendogli anche l’indennità sostitutiva del preavviso nella misura di 8 mensilità. La Corte di Appello di Firenze, con la sentenza impugnata, ha qualificato il recesso intimato
dalla società come ritorsivo, oltre che illegittimo per mancanza delle dovute formalità, costituito dalla reazione della società all’affermazione da parte del giornalista del proprio diritto alla regolarizzazione del rapporto di lavoro. Ha condannato la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirlo del danno derivante dal recesso
nella misura di tante mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, dovuta al lavoratore quante ne saranno decorse tra la data del recesso e l’effettiva reintegrazione, detratto l’aliunde perceptum. La retribuzione, nella
misura di euro 2.057,38, viene quantificata considerando la maggiorazione per 13^ e le altre maggiorazioni previste e tenuto conto della media di 30 articoli al mese redatti, secondo il minimo tabellare previsto dal Ccnl.
Sia il giornalista che la società propongono ricorso per cassazione.
Il giornalista rivendica il riconoscimento della qualifica di redattore e la quantificazione della retribuzione dovuta ai fini reintegratori; la società rivendica l’inesistenza di una prestazione di lavoro subordinato al momento
della risoluzione.
Per la Cassazione i motivi, trattati congiuntamente in ragione dell’intima connessione, sono tutti infondati: l’inquadramento da attribuire al giornalista rimane quello del collaboratore fisso secondo criteri coerenti e logici. Nel procedere all’inquadramento hanno esaminato e accertato che le disposizioni del Ccnl di settore, i caratteri del collaboratore fisso nella continuità della prestazione non occasionale, il vincolo della dipendenza e la responsabilità di un servizio con riferimento all’impegno di redigere articoli su specifici argomenti, fanno inquadrare il lavoratore come collaboratore fisso. Quanto poi alla contestazione della presunzione del licenziamento ritorsivo in base al
solo elemento della sequenza temporale tra la rivendicazione della prestazione di lavoro dipendente e la risoluzione del rapporto di collaborazione, spetta al giudice di merito  valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni
semplici e nel caso in esame il ragionamento presuntivo si fonda sulla reazione della società avvenuta a soli 6 giorni di distanza dalla ricezione della lettera di rivendicazione della natura subordinata del rapporto.
Entrambi i ricorsi sono rigettati con compensazione delle spese.


Esposizione all’amianto e risarcimento ai familiari: rileva anche il danno morale subito dal lavoratore

Cass., sez. Lavoro, 17 giugno 2022, n. 19623

Andrea di Nino, Consulente del lavoro in Milano

Con la sentenza n. 19623 del 17 giugno 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di risarcimento del danno biologico e morale dovuto alla prolungata esposizione di un lavoratore all’amianto. Gli eredi del lavoratore – deceduto a causa di una patologia collegata all’esposizione al materiale tossico – hanno lamentato la responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro per non aver attuato le dovute misure di prevenzione e tutela sul luogo di lavoro.
Nel caso di specie, è stato rilevato che il lavoratore fosse soggetto a due agenti cancerogeni differenti: il tabagismo, in quanto fumatore abituale che per anni avrebbe fumato 15-20 sigarette al giorno, e l’esposizione all’amianto,
in quanto lo stesso prestava attività lavorativa di saldatura. Ai fini della determinazione del danno patrimoniale,
la Cassazione ha corroborato l’interpretazione della Corte d’Appello che, in seconda istanza, ha evidenziato come esistesse un concorso di cause lesive che ha cagionato un evento unico e indivisibile. Alla luce della presenza
di un duplice fattore scaturente, i giudici hanno ritenuto di dover applicare il principio dell’equivalenza delle concause ex artt. 40 e 41 c.p., in quanto non risultasse possibile “effettuare una ripartizione causale tra i due fattori
cancerogeni, entrambi egualmente responsabili della causazione dell’evento dannoso”. Pertanto, risultando impossibile effettuare una corretta ripartizione causale tra i due fattori cancerogeni, gli stessi devono essere ritenuti
egualmente responsabili dell’aver cagionato l’evento morboso, conseguendone che non venga intaccata la ripartizione della responsabilità tra le parti, ma che questo impatti in modo considerevole nella definizione
dell’entità del danno, notevolmente ridotta rispetto alle richieste della famiglia.
Quale secondo motivo di ricorso, gli eredi hanno insistito per il riconoscimento del risarcimento da danno morale, deducendo come il lavoratore fosse consapevole di essere esposto ad agenti morbigeni e come il rilevare che molti
colleghi continuassero a contrarre gravi patologie di natura oncologica di entità tale da causarne sovente la morte avesse ingenerato in lui un’incertezza sul proprio vivere, modificando in peius la sua vita quotidiana e inducendolo a
sottoporsi a numerosi e periodici controlli medici.
Ciò aveva originato, nella mente del lavoratore, un assiduo ripensare alla possibilità di ammalarsi e poi,  probabilmente, morire. In secondo grado, però, la Corte d’Appello ha negato agli eredi il riconoscimento del danno
non patrimoniale a fronte di una mancata sussistenza del danno morale e/o esistenziale, ritenendo inapplicabile il ricorso alle presunzioni anche semplici e ritenendo che, al fine di delineare il danno non patrimoniale, questo
dovesse essere debitamente provato. La Cassazione, tuttavia, come già chiarito dalla sezione Lavoro con la sentenza n. 24217 del 2017, ha cassato la decisione di secondo grado, ritendendo che “il danno derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita e del diritto alla libera e
piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, rafforzati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 8, sottolineando, ancora, che la prova del pregiudizio
subito può essere fornita anche mediante presunzioni”. Da tale orientamento deriva che il danno biologico
dovuto ad uno sconvolgimento della normale vita privata e costituendo “un sofferenza interna del soggetto” si concretizza come “lesione di diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale”: pertanto, se presente e dimostrato anche attraverso l’uso di presunzioni, costituisce oggetto di risarcimento del danno.


Azione di regresso dell’Inail per commistione degli spazi di lavoro tra azienda committente e ditta appaltatrice

Cass., sez. Lavoro, 21 giugno 2022, n. 20043

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in  Milano

Corte d’Appello di Catanzaro ha accolto l’appello dell’Inail e, in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato in solido il datore di lavoro e l’appaltatore dei lavori, a versare all’Istituto la medesima somma che l’Istituto aveva erogato in relazione all’infortunio accaduto. La Corte territoriale ha accertato: che la società
datrice si occupava dell’estrazione e distillazione dell’olio di sansa ed essiccazione; che nei luoghi di lavoro insistevano due capannoni con struttura in cemento armato e metallo e che su uno di essi la società aveva
commissionato ad altra ditta l’esecuzione di opere di carpenteria metallica; che, al momento dell’incidente, gli operai dipendenti della appaltatrice stavano ultimando il montaggio delle lamiere di copertura su una torretta montata a ridosso del capannone, quando accidentalmente il lavoratore sottostante veniva colpito da un’asse di legno della lunghezza di circa 2 metri e mezzo. Il lavoratore infortunatosi, dipendente della società committente, si trovava a transitare nella zona sottostante la struttura in oggetto; che nel sansificio non erano presenti cartelli atti a segnalare
i lavori in corso, né il cantiere era transennato, in modo da impedire che persone non addette ai lavori potessero introdursi nello stesso, e neppure vi era una rete metallica di protezione intorno alla struttura ove gli operai stavano lavorando.
La mancata adozione delle necessarie misure di sicurezza (reti protettive attorno alla torretta, transenne o  segnalazioni del cantiere), nonché la evidente commistione degli spazi di lavoro tra l’azienda committente e la ditta
appaltatrice fondavano, secondo i Giudici di appello, la responsabilità di entrambe le società per l’infortunio verificatosi. Dal che derivava l’accoglimento della domanda di regresso sanzionata dall’Istituto. Avverso tale sentenza
il datore di lavoro ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. Con il primo motivo di ricorso viene dedotto che la fattispecie non sarebbe disciplinata dal D.lgs. n. 626 del 1994, art. 7, in quanto entrato
in vigore il 27.11.1994, mentre l’infortunio per cui è stata esercitata l’azione di regresso risale ad epoca anteriore (21.3.1994).
Quindi, in base alla disciplina applicabile ratione temporis, cioè il D.p.r. n. 547 del 1955, art. 5, non sarebbe configurabile un obbligo della committente di incidere sull’attuazione delle misure di prevenzione dei rischi connessi
all’attività della appaltatrice, dovendosi affermare la responsabilità esclusiva di quest’ultima nella causazione dell’infortunio in oggetto. Il motivo risulta fondato. La Corte d’Appello  ha errato nell’individuare la norma regolatrice del caso concreto, avendo affermato la responsabilità  degli appellati per l’infortunio occorso
al lavoratore colpito dall’asse di legno caduto dalla copertura, ai fini dell’azione di regresso dell’Inail, in base al D.lgs. n. 626 del 1994, art. 7, non in vigore all’epoca dell’infortunio, risultando applicabili, ratione temporis, le disposizioni
di cui al D.p.r. n. 547 del 1955. In tali disposizioni, come costantemente interpretate, come quelle in cui siano presenti più imprese, ciascuna con propri dipendenti, ed in cui i rischi lavorativi interferiscono con l’opera di altri soggetti, dovrà essere valutata la responsabilità delle parti private ai fini dell’azione di regresso dell’Inail.
Per tale ragione, accolto il primo motivo di ricorso e dichiarato assorbito il secondo, la sentenza impugnata viene cassata, con rinvio alla medesima Corte d’Appello, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio.


Devono essere retribuite le ferie non godute che il datore di lavoro non mette in condizioni di godere

Cass., sez. Lavoro, 6 giugno 2022, n. 18140

Elena Pellegatta,  Consulente del Lavoro in Milano 

Al termine del rapporto di lavoro, un dirigente medico ha agito nei confronti dell’Azienda Sanitaria Provinciale presso cui lavorava rivendicando il diritto all’indennità per ferie non godute all’atto della cessazione del
rapporto, in misura di 258 giornate, dell’indennità per 152 turni notturni di effettivo servizio svolti in rianimazione, nonché per dieci turni mensili di pronta disponibilità/reperibilità dal 2005 al 2009, ed un indennizzo per lo
svolgimento dell’attività di gestore dell’elisuperficie. La sua domanda, parzialmente accolta in primo grado di giudizio relativamente a ferie e reperibilità, veniva invece rigettata dalla Corte di Appello con la motivazione che, rivestendo la qualifica di dirigente, il lavoratore poteva organizzare autonomamente le proprie ferie, organizzare la turnistica di reperibilità da cui in quanto dirigente sarebbe stato escluso.
Ricorre alla Suprema Corte il dirigente medico. Con il primo motivo, in relazione alle ferie non liquidate, gli Ermellini considerano accolto il motivo di ricorso e riconoscono il diritto al pagamento delle ferie non godute. Riprendendo una recente cassazione (Cass., 2 luglio 2020, n. 13613) che argomentava come il dirigente, il
quale al momento della cessazione del rapporto di lavoro non abbia fruito delle ferie, ha diritto a un’indennità sostitutiva, a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo messo nelle condizioni di esercitare il diritto in questione prima di tale cessazione, mediante un’adeguata informazione nonché, se del caso, invitandolo formalmente a farlo. La Suprema Corte argomenta come anche in questo caso il lavoratore debba essere stato messo effettivamente nelle condizioni di esercitare il proprio diritto alle ferie e quindi sta in capo al datore di lavoro
l’invito formale a fruirne, in modo da evitare che l’esercizio del diritto sia interamente posto in capo al lavoratore, e che sempre il datore debba poi dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore
le potesse fruire.
La Suprema Corte ritiene fondato anche il secondo motivo del ricorso, ossia l’avere erroneamente escluso il diritto del dirigente di struttura complessa ad essere remunerato rispetto ai turni di pronta disponibilità svolti presso la rianimazione, trattandosi di turni dai quali tale figura non era esclusa dal Ccnl. applicato e che erano stati da lui concretamente svolti con riferimento al servizio di camera iperbarica. Infatti, la norma collettiva, rispetto ai soli servizi di reperibilità “integrativa” ne prevede lo svolgimento anche da parte dei dirigenti preposti alle
strutture complesse, evidentemente per assicurare una maggiore platea di personale rispetto a situazioni che, proprio per necessitare di quella tipologia di servizio, manifestano a priori la possibilità concreta di un più corposo e
rapido intervento medico. Non sarebbe dunque vero quanto affermato dalla Corte territoriale, ovvero che al dirigente non potesse spettare il diritto alla remunerazione, entro i limiti massimi previsti dal Ccnl e nella misura in cui
vi sia prova o non sia stata contestata la prestazione del corrispondente servizio. Gli Ermellini ritengono invece infondato il terzo motivo di ricorso, con riferimento a disimpegno  di turni notturni di guardia attiva e del
compenso per la gestione dell’elisuperficie, in quanto i dirigenti sono espressamente esclusi  da tale servizio in base al Ccnl, ed inoltre il servizio è ricompreso nell’orario di servizio, ordinario o straordinario, dei dirigenti medici.

Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Danno biologico differenziale, onere della prova e responsabilità oggettiva

Cass., sez. Lavoro, 30 giugno 2022, n. 20823

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda del lavoratore, condannava la datrice di lavoro al pagamento del danno biologico differenziale derivato dall’espletamento delle attività di lavoro svolte. La Corte di appello, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto le domande del lavoratore che ha condannato alla restituzione di quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado. La statuizione di rigetto è stata fondata sulle seguenti considerazioni:
a) la qualificazione della domanda sia in termini di responsabilità contrattuale che in termini di responsabilità  extracontrattuale comporta l’onere per il lavoratore della prova del danno alla salute, della nocività dell’ambiente
di lavoro, e della relativa connessione causale mentre sul datore di lavoro grava l’onere della prova dell’adozione delle cautele necessarie ad impedire il verificarsi del pregiudizio subito;
b) la verificazione del danno non è sufficiente a determinare l’insorgere dell’onere probatorio a carico del datore di lavoro in quanto la prova liberatoria a suo carico presuppone sempre che vi sia stata omissione da parte di questi nella predisposizione di misure di sicurezza suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno mentre non può essere estesa ad ogni ipotetica misura di prevenzione configurandosi in tal caso una responsabilità oggettiva;
c) i lavoratori, sui quali ricadeva il relativo onere, non avevano offerto prova di una specifica omissione datoriale nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza
e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il lavoratore, ha resistito con controricorso il datore e richiamato la domanda di manleva nei confronti della Compagnia assicuratrice la quale ha resistito con  controricorso. Tutte le parti hanno depositato memoria. Il lavoratore non aveva fornito sufficiente prova, della quale era onerato, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica necessarie ad evitare il danno oggetto della pretesa risarcitoria  azionata. In tale contesto, il riferimento alla estrema difficoltà per il datore di lavoro in ragione del lungo tempo trascorso di dimostrare il corretto adempimento degli obblighi di
prevenzione e sicurezza si configura quale argomentazione aggiuntiva ed ulteriore che non interferisce con il nucleo centrale del ragionamento decisorio fondato, in estrema sintesi, sul mancato assolvimento dell’onere probatorio asseritamente gravante sui lavoratori.

La Corte di appello, richiamati i principi in tecnica necessaria ad evitare il danno. Solo ove tale prova fosse stata offerta sorgeva per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato le cautele necessarie ad impedire il
verificarsi del pregiudizio subito; tale onere non era stato in concreto assolto.
Secondo la condivisibile e consolidata giurisprudenza di questa Corte infatti l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va
collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a
causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova
sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (ex plurimis: Cass. n. 15112 del 2020, Cass. n. 26495 del 2018, Cass. n. 12808 del 2018,
Cass. n. 14865 del 2017, Cass. n. 2038 del 2013, Cass. 12467 del 2003).
La Corte accoglie il terzo motivo, dichiara inammissibile il primo e rigetta il secondo assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello in diversa composizione cui
demanda di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.


Danneggiamento dei beni aziendali: il datore deve provare la condotta colposa del lavoratore e il lavoratore deve provare la sua non imputabilità

Cass., sez. Lavoro, 31 maggio 2022, n. 17711

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La vicenda prende avvio a seguito di un sinistro stradale che ha coinvolto un lavoratore, inquadrato nel 1° livello con mansioni di operatore ecologico anche con l’ausilio di veicoli, mentre si trovava alla guida di un mezzo aziendale lava-strade che, nei pressi di incrocio semaforizzato, perdeva il controllo del mezzo, che si ribaltava sul fianco destro. La Polizia Locale accertava l’assenza di fattori esterni che avessero potuto determinare il sinistro; il lavoratore riportava trauma cranico minore e poli-contusione con prognosi di 20 giorni e dichiarava di non ricordare nulla dell’incidente. L’azienda datrice di lavoro, dal momento che il preventivo di spesa per la riparazione dei danni era superiore al valore residuo del veicolo, rendendo così non conveniente la riparazione, poneva la macchina lava-strade definitivamente fuori servizio, irrogava al lavoratore la sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per 10 giorni e agiva in giudizio per il risarcimento dei danni sulla base di un rapporto dei propri uffici interni. In primo grado, il giudice rigetta la richiesta  dell’azienda datrice di lavoro, per difetto di prova del danno, in quanto il veicolo incidentato era stato messo definitivamente fuori servizio prima del giudizio e non erano stati chiariti i criteri in base ai quali gli uffici interni della società avevano quantificato il danno.
Di diverso avviso invece la Corte di Appello, secondo cui che la responsabilità del sinistro era da ricondurre a violazione dell’obbligo di diligenza di cui all’art. 2104 c.c.. La dinamica dell’evento, ossia la perdita di controllo del
mezzo da parte dell’autista, non era stata da questi contestata, e dal rapporto della polizia locale erano stati esclusi fattori esterni nella causazione del sinistro. Il sinistro doveva percio’  ritenersi avvenuto per imperizia del  lavoratore, che doveva pertanto risarcire l’azienda. Ricorre il lavoratore, ai sensi dell’art. 360, n. 3,
c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2104 c.c., adducendo che la perdita del controllo del mezzo è unicamente un dato oggettivo, non gli era stata elevata alcuna contravvenzione, era risultato negativo alla  presenza di alcool nel sangue e la rottamazione del mezzo incidentato prima del giudizio aveva impedito la possibilità di provare eventuali difetti meccanici o di manutenzione del veicolo.
Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729 c.c., 115 c.p.c., anche in relazione agli artt. 24, 111 Cost. per l’affermazione della sua responsabilità nella causazione
dell’incidente, sebbene la colpa non risultasse provata e con una motivazione generica. Il dato oggettivo della perdita di controllo del mezzo non avrebbe caratteristiche di prova presuntiva, essendo in contrasto con la mancanza di contravvenzioni elevate a carico del lavoratore. La suprema corte ritiene non fondati entrambi i motivi, e condanna il lavoratore a risarcire l’azienda.
La Corte di legittimità ha ribadito che, ai fini dell’affermazione della responsabilità del lavoratore verso il datore di lavoro per un evento dannoso, verificatosi nel corso dell’espletamento delle mansioni affidategli, il datore di
lavoro è tenuto a fornire la prova che tale evento sia riconducibile ad una condotta colposa del lavoratore per violazione degli obblighi di diligenza, mentre il lavoratore, a sua volta, è tenuto a provare la non imputabilità
a sé dell’inadempimento. Alla luce di tale  principio, i giudici di legittimità hanno, dunque, ritenuto condivisibile il ragionamento operato dalla Corte di merito, basato sulla valutazione delle prove raccolte, sull’apprezzamento degli elementi di fatto acquisiti agli atti, inclusi gli elementi presuntivi, valorizzando, nel caso in argomento, gli accertamenti della polizia locale.
In proposito la Corte non ha mancato di evidenziare che tra i compiti del giudice di merito rientra anche quello di valutare l’opportunità di fare ricorso a presunzioni, individuando i fatti da porre a fondamento della decisione,
una volta valutata la loro rispondenza ai requisiti di legge.
Quando il ragionamento decisorio, come nel caso di specie, non presenti assoluta illogicità e contraddittorietà, non occorre, quindi, che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile.

 


Dimissioni per fatti concludenti: il rapporto di lavoro si estingue anche in assenza della procedura telematica

Tribunale di Udine, 26 maggio 2022, n. 20

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Il Tribunale di Udine, con sentenza depositata il 26 maggio 2022, si è espresso in merito alla fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti e alla procedura di “dimissioni telematiche” di cui all’articolo 26 del
D.lgs. n. 151/2015.
In particolare, i fatti oggetto del contendere hanno visto una lavoratrice assentarsi dal lavoro per un periodo prolungato, in particolare dal 14 dicembre 2019 e per oltre i sei mesi successivi, senza alcuna giustificazione. A
fronte di tale circostanza, il datore di lavoro recapitava alla lavoratrice, tramite una lettera inviata il 12 giugno 2020, un invito formale a dimettersi. Dato il mancato riscontro della lavoratrice, l’8 luglio successivo veniva inviata al Centro per l’Impiego la comunicazione obbligatoria “Unilav” di cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni.
Detta risoluzione del rapporto di lavoro veniva però impugnata da parte della lavoratrice, in quanto mai erano state da lei rassegnate dimissioni, né comunque presentata la convalida in via telematica prevista dalla legge.
La stessa, inoltre, si dichiarava al contempo disponibile a riprendere l’attività lavorativa, previo risarcimento delle retribuzioni maturate e dei relativi contributi previdenziali dovuti per i mesi trascorsi dal momento dell’assenza fino al ripristino del rapporto di lavoro. L’assenza prolungata, in particolare, veniva motivata dallo stato di “prostrazione psicofisica” dovuto all’essere stata destinata alla “gravosa” attività di consegna delle vivande in determinati comuni, coerentemente all’attività economica svolta dal datore di lavoro. Dal canto suo, il datore di lavoro eccepiva come il rapporto di lavoro si fosse, in realtà, risolto per esclusiva volontà della lavoratrice, per evidenti fatti concludenti costituiti dall’assenza ingiustificata protrattasi per oltre sei mesi. Tale circostanza era avvalorata dalle confidenze esternate dalla stessa lavoratrice alla propria responsabile di unità, consistenti nell’intenzione di non rientrare più in servizio a seguito delle ferie, iniziate il 9 dicembre 2020, a causa
dell’insoddisfazione per il proprio lavoro. A dire del datore di lavoro, il dichiarato intento della dipendente era, dunque, quello di provocare il recesso datoriale e ottenere, di conseguenza, la Naspi.

In generale, ai giudici del tribunale è risultato innanzitutto incontroverso, nella vicenda in esame, il fatto che la lavoratrice si sia volontariamente assentata in via continuativa dal lavoro a decorrere dal 14 dicembre 2019, senza mai fornire, a riguardo, alcuna giustificazione e senza riscontrare, per un periodo di oltre sei mesi, le missive del datore di lavoro.
Difatti, nonostante la contestazione disciplinare del 31 dicembre 2019 – in cui alla dipendente veniva contestata l’assenza ingiustificata in essere dal 14 dicembre precedente – e la lettera del 12 giugno 2020 – in cui si prendeva atto della risoluzione in “in via di fatto” del rapporto di lavoro e si invitava la lavoratrice a “comunicare le sue dimissioni secondo la modalità telematica vigente” – la dipendente restava silente, confermando di non aver volontariamente dato riscontro a tali comunicazioni per dichiarata assenza di interesse.
La dipendente stessa aveva anche invitato la propria responsabile di unità a non metterla in turno nel periodo natalizio, poiché “non credeva di rientrare” e si aspettava che sarebbe stata la società, eventualmente, a “doverla licenziare”. Su queste basi, al giudice è apparso quindi evidente che la lavoratrice “abbia voluto porre fine al rapporto di lavoro con la società […] di sua iniziativa, avendo palesato tale intento […] alla propria responsabile e non essendo più rientrata a lavoro dopo le ferie”. Al di là della fondatezza delle motivazioni della lavoratrice, definite come “postume e piuttosto generiche”, il tribunale ha osservato “come proprio tali motivazioni siano un chiaro ed ulteriore indice dell’intenzione attorea […] di porre termine alla sua esperienza lavorativa”.

Il giudice osserva, inoltre, come, nonostante la modifica legislativa sopraggiunta nel 2015 in tema di dimissioni e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, lo scioglimento del contratto di lavoro per mutuo dissenso – e per
dimissioni in particolare – sia anzitutto fondato sugli artt. 2118 e 2119 c.c., i quali sanciscono la regola generale della “libera recedibilità” da parte del lavoratore, fatto salvo il periodo di preavviso. Tale libertà di recesso è rimasta immutata, pertanto la sentenza illustra che “le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015”.

Inoltre, il giudice evidenzia come la legge delega n. 183/2014 aveva previsto “modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore […]”.
Tale inciso – viene osservato – è rimasto totalmente inattuato nel D.lgs. n. 151/2015, il contenuto del quale, dunque, sembra poter essere disapplicato di fronte alla fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti

In definitiva, viene ritenuto irragionevole ritenere che, in caso di inerzia del lavoratore nel dimettersi, possa porsi fine al rapporto di lavoro soltanto mediante l’adozione di un licenziamento per giusta causa. In questo caso, infatti, verrebbe intaccata la “libera esplicazione dell’autonomia imprenditoriale” ex art. 41 della Costituzione, sia in termini di rischi (la giustificazione in un ipotetico giudizio) che di costi (c.d. ticket Naspi) e, non da ultimo, si
materializzerebbe una “ingiusta sottrazione di risorse” da destinarsi solo a vantaggio di quei lavoratori con effettivo diritto alla Naspi poiché disoccupati involontariamente. Sulla base di tutte le considerazioni commentate, il ricorso della lavoratrice veniva respinto e il rapporto di lavoro ritenuto cessato definitivamente.


 

Principio di effettività in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro: assume la posizione di garante colui che di fatto assume e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, se pur sprovvisto di regolare investitura

Cass., sez. Penale, 24 maggio 2022, n. 20127

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Il procedimento trae origine dall’infortunio occorso al lavoratore che formalmente era dipendente di una società cooperativa ma di fatto era impiegato presso un’altra società, in base ad un contratto di appalto stipulato tra le due società, con mansioni di facchinaggio e stoccaggio. Il lavoratore, azionando una macchina con grossi cilindri accoppiati (denominata masticatrice) che serviva per formare lastre sottili di para destinata alla produzione di mastice, rimaneva con la mano schiacciata tra i due organi in movimento, subendo di conseguenza l’amputazione del primo e del secondo dito della mano destra. Al lavoratore veniva riconosciuta una invalidità del 21% ed una
pensione di circa 330 euro mensili.
La sentenza aveva condannato il Presidente del CdA, il consigliere delegato alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e il responsabile della produzione, alla pena di reclusione (6 e 4 mesi) oltre al risarcimento dei
danni da liquidarsi in separato giudizio civile. La condanna degli imputati si è basata sui seguenti elementi:
1) il lavoratore aveva azionato il macchinario avente un quadro comandi distante 4 metri e arrestandolo con un dispositivo di sicurezza dal funzionamento non intuitivo per averlo imparato da altri, risultando impossibile che
lo stesso lo avesse appreso casualmente per averlo visto fare da altri;
2) da escludere una manovra abnorme in quanto non è noto il motivo per cui il lavoratore avrebbe dovuto mettere in moto la macchina per inserirvi la para;
3) il macchinario era vecchio e non conforme alla normativa vigente e si trovava all’esterno
ed il quadro comandi era posto a circa 4 metri di distanza;
4) il dispositivo di sicurezza di cui era dotato il macchinario era una corda a strappo azionabile solo con un movimento volontario, inoltre al momento del controllo il cordino era anche allentato.
Gli imputati propongo ricorsi separati.
La Suprema Corte, valutando complessivamente le motivazioni delle sentenze di merito, che costituiscono un unico apparato motivatorio, conferma che le posizioni sono state compiutamente analizzate e delineate nei ruoli. Il Presidente del CdA, con delega al compimento degli atti di ordinaria amministrazione aveva sottoscritto il contratto di appalto nonché il documento unico di valutazione dei rischi da interferenza e quindi aveva messo a
disposizione i lavoratori della società appaltatrice presso la società committente, impiegati peraltro per mansioni diverse da quelle previste ed in assenza di coordinamento da parte del personale della società appaltante.
La Suprema Corte ricorda che la giurisprudenza di legittimità è costante nell’interpretare l’art. 299 del D.lgs. n. 81/2008 nel senso che l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, deve fondarsi non  già sulla qualifica rivestita ma bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale.
Con riguardo alla condotta del lavoratore, che in base al contratto di appalto doveva essere adibito a mansioni di facchinaggio o al più di pulizia dei macchinari, è stata oggetto di discussione da parte dei difensori degli imputati: da considerare se la condotta del lavoratore potesse essere ritenuta, se non una condotta abnorme, quantomeno una condotta esorbitante, ovvero al di fuori dall’ambito delle proprie mansioni e delle disposizioni impartite nel contesto lavorativo del momento. La sentenza di appello, confermando le conclusioni del giudice di primo grado, aveva ritenuto che il lavoratore fosse stato di fatto adibito all’utilizzo del macchinario e che proprio per le caratteristiche dello stesso, dispositivo di sicurezza dal funzionamento non intuitivo (un cordino posto in alto non attivabile con movimento involontario) ed un quadro comandi distante 4 metri non fosse possibile ipotizzare che si trattasse del primo approccio al macchinario.
In conclusione, i ricorsi sono rigettati con condanna al pagamento delle spese processuali.

 

Preleva l’articolo completo in pdf  

Sentenze

Prestazione con elevato contenuto intellettuale: qualificazione del rapporto di lavoro

Cass., sez. Lavoro, 22 aprile 2022, n. 12919

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

 

Con sentenza n. 181/2018 la Corte di Appello di Trieste ha confermato la sentenza (non definitiva) con la quale in accoglimento della domanda del lavoratore era stata accertata, con decorrenza dal gennaio 2005, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze delle convenute (in virtù di cessione del ramo di azienda con i connessi rapporti di agenzia), con mansioni riconducibili alla categoria quadri. La Corte di merito ha ritenuto confermata la natura dipendente della collaborazione instaurata dal lavoratore che era risultata pienamente inserita nell’organico aziendale non come mero agente ma come direttore vendite.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il datore di lavoro, la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso. In ordine alla qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, in presenza di prestazione con un elevato contenuto intellettuale – alla quale è riconducibile l’attività prestata dal lavoratore quale ricostruita in sentenza – la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che è necessario verificare se il lavoratore possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione dell’assetto organizzativo aziendale (cfr. Cass., n. 18414/2013, Cass., n. 7517/2012, Cass., n. 3594/2011), potendosi ricorrere altresì, in via sussidiaria, a elementi sintomatici della situazione della subordinazione quali l’inserimento nell’organizzazione aziendale, il vincolo di orario, l’inerenza al ciclo produttivo, l’intensità della prestazione, la retribuzione fissa a tempo senza rischio di risultato; in particolare, ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale – nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente – il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli
obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata aziendale (Cass., n. 3640/2020, Cass., n. 9463/2016, Cass,. n. 7517/2012).
La decisione di appello risulta coerente con tale impostazione sia laddove, rispetto alla qualificazione operata dalle parti, riconosce come prevalenti le concrete modalità di svolgimento della prestazione sia perché la valorizzazione dei c.d. indici sussidiari è frutto della specifica considerazione delle caratteristiche dell’attività dedotta la quale, per i suoi elevati contenuti intellettuali, non si prestava ad essere oggetto di penetranti poteri conformativi della parte datoriale; in tale contesto, la valorizzazione del pieno inserimento del lavoratore nella compagine organizzativa della società, dell’affidamento alla stessa dell’ulteriore compito di c.d. area manager, implicante un rapporto di sovra ordinazione in particolare con i dipendenti al settore commerciale, del fatto che sia prima che dopo il ruolo rivestito dal lavoratore veniva occupato da lavoratori dipendenti, sono elementi idonei alla luce del parametro normativo dell’art. 2094 c.c. a giustificare la qualificazione del rapporto in controversia come di natura subordinata.
La specifica questione della riconducibilità dell’attività prestata dal lavoratore alla qualifica di quadro così come quella del corretto livello di inquadramento in base alla classificazione collettiva, ritualmente devoluti alla Corte di  merito dalla odierna ricorrente non sono stati in alcun modo trattati tramite specifico raffronto con la norma collettiva dal giudice di appello che ha incentrato il proprio accertamento esclusivamente sulla verifica della natura subordinata o meno del rapporto oggetto di causa.
Tanto determina la necessità di cassazione della decisione con rinvio alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione, per l’esame delle questioni omesse.


 

Sicurezza sul lavoro: le funzioni di datore di lavoro e di RSPP non possono essere confuse

Cass., sez. Penale, 9 aprile 2022, n. 16562

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16562 del 29 aprile 2022, si è espressa in merito alle responsabilità del datore di lavoro circa gli obblighi di valutazione del rischio e di formazione dei lavoratori sotto il profilo della sicurezza sul lavoro.
In particolare, la vicenda trae origine dalla condanna – confermata in sede di appello – alla pena di un anno di reclusione per un datore di lavoro privato a causa del delitto di “omicidio colposo aggravato”, dovuto alla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni in ambito lavorativo. A detta della Corte territoriale, tali violazioni avevano cagionato la morte di un operaio, incaricato di effettuare la manutenzione e la pulizia di un particolare macchinario. Nell’impugnare la sentenza di secondo grado, l’imputato ha presentato una serie di motivi di ricorso. Nel dettaglio, questi ha contestato la qualifica di “datore di lavoro” assegnatagli nelle sentenze, adducendo di avere attribuiti compiti meramente amministrativi (“ordinaria amministrazione”) da parte del C.d.A. dell’azienda.
Inoltre, l’imputato riteneva di aver delegato le funzioni attinenti all’ambito della sicurezza sul lavoro ad un terzo, e di non dover rispondere del mancato aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (“DVR”), considerata l’assenza della qualifica di datore di lavoro. Tanto rappresentato da parte della persona imputata, i giudici della Corte di Cassazione hanno comunque individuato in questa la figura del datore di lavoro, considerato il suo ruolo di legale rappresentante della società e le sue prerogative in merito all’esercizio dei poteri decisionali e di spesa. In dettaglio, è stata rigettata la tesi dell’imputato vertente sull’esclusione delle responsabilità in merito alla sicurezza dei lavoratori, dovuta ai compiti di mera natura ordinaria formalmente assegnati allo stesso. Secondo la Corte, infatti, le attribuzioni dell’imputato erano tali da garantirgli l’esercizio di “potestà funzionali organizzative, decisionali, gestionali e di spesa inclusa la realizzazione delle misure di sicurezza previste per legge”, così da “costituire in capo
al medesimo soggetto un coacervo di tutti gli obblighi che convergono in materia di valutazione del rischio, di posizione di garanzia, di adempimenti datoriali”.
La confusione tra il ruolo di datore di lavoro e di “responsabile del servizio di prevenzione e di protezione” (“RSPP”) ha inoltre deposto per “una colpevole opacità e disfunzione organizzativa”, a dire della Suprema Corte, che ha aggravato la posizione dell’imputato.
I poteri de facto esercitati dall’imputato, viene altresì osservato, “sebbene formalmente limitati all’ordinaria amministrazione, comunque comprendevano ogni profilo gestorio e organizzativo sulla produzione, sul controllo degli impianti, sulle procedure lavorative, sulla formazione e informazione che in concreto hanno svolto un determinante ruolo causale dell’evento mortale”.
Da tale piena qualifica datoriale emerge conseguentemente la responsabilità per gli altri due obblighi contestati sul piano della colpa specifica e della causalità materiale. In primo luogo, a dire della Suprema Corte, l’omessa completa ed esauriente valutazione del rischio connesso all’impianto presso il quale operava la vittima è attività che “sul piano operativo, cognitivo, progettuale”, rientrava pienamente nei compiti dell’imputato. Ciò sia innanzitutto come soggetto titolare del servizio di prevenzione e protezione, ruolo interpretato in termini meramente formali e,
contemporaneamente, come soggetto apicale con poteri decisionali e organizzativi su tutta l’attività produttiva.
Sul punto, i giudici hanno osservato che “l’imputato avrebbe dovuto in particolare valutare rischi e misure di  prevenzione sull’uso del macchinario dove ha trovato la morte (omissis), in relazione specifica alle mansioni e ai compiti attribuiti alla vittima dallo stesso imputato”.
Nella sua qualità di titolare del ruolo datoriale, l’imputato avrebbe dovuto inoltre tenere aggiornato il DVR anche con la mansione cui era addetto il lavoratore infortunato in relazione all’uso del macchinario che lo ha travolto.
Sul punto, la Corte ha osservato che “è proprio dalla duplice qualifica di responsabile del servizio di prevenzione e protezione e di datore di lavoro che emerge comunque il compito in capo alla medesima persona di valutare, elaborare, prevenire e gestire il rischio, ivi compreso l’aggiornamento del documento di valutazione del rischio che peraltro è compito indelegabile del datore di lavoro”.
In conclusione, secondo i giudici della Cassazione, alla qualifica di datore di lavoro corrisponde “l’obbligo di formazione e informazione dei lavoratori” che, nel caso in esame, risulta omesso da parte dell’imputato. Anche
su questo punto ascrivere ad altro soggetto il dovere di informazione, formazione ed addestramento del lavoratore deceduto, costituisce “una mera asserzione che non trova riscontro in alcun atto formale di delega o comunque
di incarico specifico alla formazione”.
Anche a voler ritenere di avere sostanzialmente incaricato altri di adempiere all’obbligo di formare e addestrare il lavoratore deceduto, la Suprema Corte ha evidenziato che “l’omessa cura dell’addestramento e dell’istruzione professionale del lavoratore avrebbe potuta e dovuta essere controllata e corretta dall’imputato qualora altri soggetti eventualmente incaricati non vi avessero utilmente provveduto”.
I motivi di ricorso dell’imputato venivano dunque integralmente respinti, acclarata la mancanza dell’esercizio del ruolo di vigilanza, di controllo e di cura dell’istruzione professionale sull’uso della macchina e degli impianti correlati in relazione ai rischi del caso di speciel

 


Violazione delle norme antinfortunistiche e mancato controllo del datore di lavoro

Cass., sez. Penale, 1 aprile 2022, n. 13720

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano 

Con sentenza dello scorso aprile la Cassazione conferma quanto stabilito dai giudici di merito in relazione ad un fatto accaduto in violazione delle norme antinfortunistiche all’interno di uno stabilimento della società Ilva di Taranto.
Nello specifico un operaio, sprovvisto di specifico titolo abilitativo sull’uso dei carrelli elevatori, metteva in moto il muletto e, inavvertitamente, provocava ad altro lavoratore che si trovava vicino al mezzo, lesioni gravissime.
Nel corso del dibattimento era emerso, grazie alle deposizioni testimoniali, che era prassi invalsa in quell’area di lavorazione permettere agli operai, sprovvisti di specifica abilitazione, di porsi alla guida di carrelli elevatori,
prassi tollerata dalla dirigenza.
Nonostante il ricorso presentato dal datore di lavoro la Cassazione conferma quanto stabilito dai giudici di prime cure e cioè che “qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi
“contra legem”, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, debba rispondere dell’infortunio occorso”.
Non assolve da responsabilità il datore di lavoro il fatto che i propri preposti non sorveglino lo svolgimento delle attività, né che i propri dipendenti agiscano senza l’ordine di alcuno.
Il datore di lavoro è tenuto a sorvegliare la condotta dei propri sottoposti e ove necessario e’ obbligato ad intervenire  affinché cessino immediatamente eventuali condotte rischiose, perché laddove ciò non avvenga, potrebbe trovarsi a rispondere penalmente di “culpa in vigilando” come nel caso di specie.


Licenziamento e reintegra per interpretazione estensiva delle clausole generali della contrattazione collettiva

Cass., sez. Lavoro, 26 aprile 2022, n. 13065

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Poste Italiane propone ricorso in Cassazione dopo che la Corte di Appello di Bologna aveva confermato la  pronuncia di primo grado, annullando il licenziamento per giusta causa di una dipendente. Il fatto contestato, alla base del licenziamento, è che la dipendente si trovava in villeggiatura il 14 agosto del 2017, in un giorno di
permesso ex lege n. 104 del 1992, concesso per assistere la madre disabile, mentre la madre si trovava in altro luogo. Tale comportamento aveva cagionato, con l’assenza dal servizio della dipendente, disagi e disservizi dell’organizzazione del lavoro oltre che una violazione dei principi di correttezza, buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.
La dipendente non ha negato l’effettività del fatto contestato, si è scusata dell’errore commesso di cui ha riconosciuto la gravità, adducendo quali motivi l’improvvisa indisponibilità della madre a raggiungerla nel luogo di villeggiatura, espressa dalla madre soltanto in tarda serata del giorno prima. Inoltre, la dipendente non aveva fatto un tempestivo rientro in quanto le sue condizioni di salute non le avevano permesso di guidare di notte per un lungo tragitto trafficato. La dipendente aveva però disdettato l’albergo ed era rientrata in treno nel pomeriggio del 14 agosto stesso.
A fronte di tali motivazioni, la Corte di Appello aveva condiviso la sentenza di primo grado, riconducendo il caso nell’ipotesi d’insussistenza della giusta causa di licenziamento perché il fatto rientrava tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, sulla base delle previsioni della contrattazione collettiva.
La società denuncia alla Suprema Corte che nella lettera di contestazione disciplinare era addebitato alla dipendente non già l’assenza ingiustificata o arbitraria dal servizio, bensì la fruizione abusiva del permesso retribuito ex
lege n. 104/92, con conseguente applicazione della giusta causa di licenziamento, anche in conformità con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedono il licenziamento in caso di violazioni dolose.
La Suprema Corte ritiene inammissibili le motivazioni della società perché l’accertamento di una volontà, anche quando è espressione di una autonomia negoziale, si sostanzia in un accertamento di fatto riservato all’esclusiva competenza del giudice di merito.
La Suprema Corte ricorda il principio di diritto già affermato dalla Cassazione: in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, comma 4 e 5 della Legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012, è consentito al giudice ricondurre la condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che
punisca l’illecito con una sanzione conservativa, anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche.
La contestazione della società era da intendersi come contestazione di assenza ingiustificata per un giorno e non come comportamento fraudolento e preordinato all’abuso della fruizione del permesso ex lege n. 104/92.
Per la Suprema Corte la società si limita a rivendicare un’alternativa interpretazione plausibile più favorevole. Quando di un testo negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che è stata privilegiata l’altra.
Bene hanno fatto i giudici della Corte di Appello: attraverso una valutazione del grado di gravità della condotta, che tenesse conto di tutte le circostanze del caso concreto, hanno ricondotto quest’ultimo ad una ipotesi omologabile all’assenza arbitraria per un giorno lavorativo.
Il ricorso è respinto

 

 


Licenziamento ex L. n. 223/1991: occorre considerare il possesso di professionalità equivalente ad altri lavoratori in altre realtà organizzative dell’azienda

Cass., sez. Lavoro, Ord. 28 aprile 2022, n. 13352

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

L a vicenda in oggetto riguarda il licenziamento di una lavoratrice a seguito della procedura ex L. n. 223/1991. La Corte di Appello di Napoli aveva infatti ritenuto legittima la limitazione del numero dei lavoratori da licenziare della società datrice di lavoro alla sola platea degli addetti all’appalto per la VIII Municipalità, cessato pacificamente, considerando le diverse offerte di proposte ricollocative da parte delle organizzazioni sindacali in differenti comuni, rifiutate dalla lavoratrice.
La lavoratrice impugna nel merito la sentenza basandosi su quattro motivi. Con il primo motivo, non accolto, deduce la falsa applicazione e violazione dell’art. 41, co. 2, Cost. in relazione all’art. 360, co. 1, nn. 3 e 4 c.p.c. in quanto i giudici non hanno effettuato il controllo sulla sussistenza del reale motivo posto a base del licenziamento e su alcuni fatti decisivi ai fini della decisione; nello specifico sosteneva che i dipendenti erano tutti cuochi e che la perdita  dell’appalto non aveva cagionato un danno economico tale da rendere necessario il licenziamento.
Con il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della L. n. 223/1991.
La lavoratrice sostiene infatti che non siano stati esaminati fatti controversi e decisivi sotto il profilo della mancanza di collegamento tra la assunzione della lavoratrice e l’appalto presso la VIII Municipalità; sostiene che il giudice del reclamo aveva errato nel ritenere legittimo, in difetto di accordo sindacale, quale unico criterio di selezione del personale quello rappresentato dall’adibizione dei lavoratori licenziati all’appalto cessato e non anche degli altri criteri legali di scelta. In questa prospettiva afferma che gli elementi fattuali acquisiti escludevano che il posto di lavoro della lavoratrice fosse intrinsecamente legato all’appalto cessato in quanto l’adibizione alla preparazione dei relativi pasti era dovuto ad una mera organizzazione interna.
Con il terzo e quarto motivo, non accolti, si deduce il mancato esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti rappresentato dalla assunzione di nuovi lavoratori in epoca successiva al licenziamento e la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5  della legge n. 223/1991 per avere il giudice di appello erroneamente ritenuto correttamente applicati i principi richiamati in tali disposizioni in merito all’obbligo di ricollocazione lavorativa;  denunzia inoltre omesso esame di fatti controversi e decisivi in relazione alla verifica relativa alla configurabilità tra le varie società del gruppo di un unico centro di imputazione.
Accolgono gli Ermellini solo il secondo motivo, adducendo che la Corte di merito, nel rigettare la impugnazione della lavoratrice aveva valutato la correttezza della scelta datoriale di procedere al licenziamento della  lavoratrice nell’ambito della procedura collettiva, facendo riferimento esclusivo al criterio delle esigenze tecnico organizzative della società e non ai carichi di famiglia e all’anzianità. Ma soprattutto, sostengono che la decisione non è conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Per applicare correttamente il criterio delle esigenze tecnico- produttive  dell’azienda, per l’individuazione dei lavoratori da  licenziare, la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., ed il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se detti lavoratori sono idonei, per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda, ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti.
Di conseguenza, non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.

 

 

 

 

Preleva l’articolo completo in pdf

Sentenze

Nel pubblico i contratti a termine ritenuti illegittimi non si convertono in rapporti stabili

Cass., sez. Lavoro, 28 febbraio 2022, n. 6493

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

 

Un lavoratore della Azienda Unità Sanitaria Locale ottiene dalla Corte di Appello de L’Aquila il risarcimento del danno subito in ragione dell’illegittimità dei contratti di lavoro a termine e delle relative proroghe, senza soluzione di continuità, per il periodo di 9 anni di cui solo 4 in modo discontinuo. La  decisione della Corte territoriale è conseguenza della natura pubblica del datore di lavoro per cui i contratti a termine, sebbene con violazione del regime di proroga, sono insuscettibili di conversione. Tale comportamento però legittima la pretesa al risarcimento del danno, parametrato sul regime sanzionatorio di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’Azienda USL ricorre in Cassazione denunciando la violazione e la falsa applicazione del D.lgs. n. 165 del 2001, della L. n. 300 del 1970 e dell’art. 2697 c.c., lamentando la non conformità a diritto con cui la Corte, ritenuto provato il danno, ha proceduto alla determinazione equitativa del medesimo, assumendo a parametro la norma statutaria con sommatoria dell’importo della sanzione minima pari a 5 mensilità e dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
La Suprema Corte accoglie il ricorso confermando che il pregiudizio sofferto dal lavoratore, correttamente ritenuto sussistente, deve considerarsi normalmente correlato alla perdita di “chance” di altre occasioni di lavoro stabile e non alla mancata conversione del rapporto, esclusa per legge (nel pubblico) con norma conforme sia ai parametri costituzionali che a quelli comunitari. Inoltre, il parametro per la quantificazione del danno va individuato nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, la cui disposizione è espressamente riferita al risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine. Il ricorso, accolto, è rinviato alla Corte di Appello de L’Aquila.


 

Tirocinio: su salute e sicurezza il datore di lavoro ha gli stessi doveri previsti per i lavoratori dipendenti

Cass., sez. Penale, 1 marzo 2022, n. 7093

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7093 del 1° marzo 2022, si è espressa in merito alle responsabilità datoriali circa gli obblighi di salute e sicurezza sul lavoro nei confronti dei tirocinanti.
In particolare, la vicenda ha origine da un episodio infortunistico verificatosi ai danni di una studentessa tirocinante presso un’azienda agricola. La ragazza, nell’atto di pulire un grosso tino, era salita su una scala con in  mano un tubo di gomma collegato al rubinetto dell’acqua. Insieme al proprio tutor, il tino era stato aperto e il pesante coperchio
metallico appoggiato, in equilibrio, sul bordo del tino. Durante le operazioni di pulizia, il coperchio era rovinato sulla tirocinante, colpendole la mano destra e causando una profonda ferita da taglio con lesione al tendine.
L’iter giudiziale che ha fatto seguito all’avvenimento ha visto il datore di lavoro addossato della responsabilità penale dell’accaduto, data la contestazione di aver cagionato alla tirocinante lesioni personali giudicate guaribili in 105 giorni. In particolare, nei diversi gradi di giudizio è stato osservato come, ai sensi dell’art. 2, lett. a), del D.lgs. n. 81/2008 (c.d. “Testo unico sulla sicurezza sul lavoro”), la tirocinante debba essere ricompresa nella più ampia categoria di “lavoratore”, in quanto ai fini della sicurezza sul lavoro è considerato tale chiunque svolga “un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari”, indipendente dalla tipologia contrattuale.
Alla luce di tale previsione, veniva addebitato al datore di lavoro di avere violato le norme in materia di sicurezza sul lavoro e, segnatamente, di “avere disposto che l’attività di lavaggio della vasca venisse eseguita senza alcuna  preventiva valutazione del rischio, in carenza assoluta di una precipua formazione e senza munire la tirocinante dei necessari dispositivi di protezione (artt. 17, 37 e 71 D.lgs. n. 81/2008)”.
Avverso la pronuncia di cui sopra, l’azienda ha proposto ricorso per cassazione, avanzando diversi motivi di doglianza.
Anzitutto, l’azienda non riteneva di doversi fare carico delle disposizioni di cui al Testo unico sulla sicurezza, nella convinzione che l’adempimento degli obblighi di sicurezza del tirocinante fosse riferibile esclusivamente al soggetto promotore, a meno che un’apposita convenzione non facesse convergere gli stessi sull’azienda ospitante. Sul  punto, il datore di lavoro osservava come nella convenzione fosse esplicitamente previsto che la copertura assicurativa del tirocinante contro gli infortuni sul lavoro rientrasse tra gli obblighi del soggetto promotore, ossia l’università  presso cui la tirocinante era iscritta all’epoca dei fatti.
Inoltre, il datore di lavoro osservava come fosse altrettanto chiara la circostanza che gli spazi ed i relativi impianti messi a disposizione dei tirocinanti nei locali aziendali fossero assolutamente a norma, in totale ottemperanza rispetto a quanto stabilito dalla convenzione stipulata con l’università. Pertanto, nessuna responsabilità penale sarebbe potuta gravare sul datore di lavoro – a suo dire – considerato che, in tema di sicurezza sul lavoro, era stato inoltre incaricato un tecnico specializzato per la valutazione dei rischi all’interno dell’azienda.
Da ultimo, il datore di lavoro riteneva che fosse lampante come l’infortunio occorso alla tirocinante fosse dipeso da un comportamento istantaneo e imprevedibile della stessa, non collegato al compito affidatole. In particolare, durante l’attività di pulizia realizzata dalla ragazza, il coperchio, probabilmente a causa degli spruzzi di acqua ricevuti, si sbilanciava verso l’interno della vasca; in tale momento e senza alcuna logica, la tirocinante tentava di fermare il coperchio con la sola mano destra, continuando a tenere il tubo dell’irrigazione con la sinistra. Così operando, a dire del datore di lavoro, la tirocinante era assolutamente conscia del fatto che stava attuando una condotta pericolosa per la propria incolumità, riferibile ad un comportamento abnorme suscettibile di escludere ogni responsabilità da parte dell’azienda. “Anche in presenza di adeguata formazione in punto di sicurezza –  sosteneva il datore di lavoro – l’infortunio si sarebbe egualmente verificato, esulando il comportamento della persona offesa dalle più elementari regole di prudenza”. Stanti le motivazioni avanzate dal datore di lavoro con il proprio ricorso, i giudici della Cassazione hanno ritenuto che i motivi di doglianza fossero manifestamente infondati,
respingendo il ricorso datoriale. In particolare, l’applicazione al caso di specie delle previsioni del D.lgs. n. 81/2008 è stata ritenuta corretta, poiché la figura del tirocinante è, a tutti gli effetti, assimilabile a quella del normale lavoratore dipendente. Conseguentemente, nella specifica ipotesi in cui presso un’azienda siano presenti soggetti che svolgano tirocini formativi, il datore di lavoro sarà tenuto ad osservare tutti gli obblighi previsti dal citato Testo Unico al fine di garantire la salute e la sicurezza degli stessi.
Inoltre, non ha avuto rilievo l’obbligo assicurativo gravante sul soggetto promotore, poiché, come si evince dal titolo della circolare Inail n. 16/2014, esso riguarda l’“obbligo assicurativo dei tirocinanti e relativa determinazione del premio”, senza alcuna attinenza con la sicurezza sui luoghi di lavoro. Alla Suprema Corte è risultato, dunque, di tutta evidenza come non possa validamente sostenersi la esistenza di una fonte di esonero da responsabilità del datore di lavoro nei confronti dei tirocinanti, partecipanti a stage formativi in un’azienda, nella disciplina e nella convenzione richiamata nel ricorso.
La Corte di Cassazione ha osservato come nella sentenza di secondo grado fosse stata acclarata l’omissione di “qualunque attività di informazione e formazione sull’attività da espletare” da parte della tirocinante, “la quale aveva precisato di non aver ricevuto alcuna istruzione sulle modalità esecutive del lavoro da compiere”. Il datore di lavoro, a sua volta, aveva affermato di “non sapere come doveva essere compiuta l’operazione di lavaggio della vasca e di non possedere alcuna preparazione per lo svolgimento dell’attività di tutoraggio”. Altrettanto, risultava chiaro come il datore di lavoro non avesse dotato la tirocinante “dei mezzi di protezione individuali (guanti antitaglio) necessari per eseguire l’operazione, tenuto conto delle caratteristiche del coperchio e del fatto che esso non fosse trattenuto in nessun modo nel momento in cui veniva spostato”.
I giudici, in merito, hanno osservato come la qualità datoriale imponesse “la previa valutazione del rischio a cui era esposta la tirocinante, la cui posizione è equiparata al lavoratore per quanto detto sopra, e l’adozione delle necessarie
misure di sicurezza”.
Non ha avuto rilievo, invece, la circostanza, segnalata nel ricorso, che la titolare dell’azienda si fosse avvalsa della  collaborazione di un professionista incaricato di risolvere ogni problematica in materia di sicurezza. Sul punto, infatti, la valutazione del rischio, ai sensi dell’art. 17, D.lgs n.81/2008, è compito affidato al datore di lavoro, non delegabile.
Infine, è stato ritenuto inconferente il richiamo al comportamento “abnorme” della tirocinante: in tema di  infortuni sul lavoro, infatti, “qualora l’evento sia riconducibile alla violazione di una molteplicità di disposizioni
in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato anche elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall’area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia.

 


Licenziamento legittimo in caso di rifiuto al trasferimento

Cass., sez. Lavoro, 7 marzo 2022, n. 7392

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano 

La Cassazione Civile, sezione Lavoro, con questa sentenza, ha ritenuto che in ipotesi di trasferimento adottato in violazione dell’articolo 2103, c.c., l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore a eseguire la prestazione, ma dovrà pur sempre essere valutato in relazione alle circostanze concrete, onde verificare se risulti contrario a buona fede. Nella specie, in applicazione del predetto principio, la Suprema Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento di una lavoratrice, intimato previa contestazione disciplinare per assenza ingiustificata, essendosi la stessa rifiutata di prestare la propria attività lavorativa nella sede presso la quale era stata trasferita, con applicazione della tutela indennitaria di cui all’articolo 18, comma 6, L. n. 300/1970, senza diritto della lavoratrice alla reintegra nel posto di lavoro. La lavoratrice impugna giudizialmente il licenziamento irrogatole per assenza ingiustificata per non essersi presentata presso la sede aziendale ove era stata trasferita.
La Corte d’Appello accoglie solo parzialmente la predetta domanda, ritenendo che il recesso fosse nel merito fondato seppur affetto da un vizio formale.
La Cassazione – confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello – rileva che, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione. In particolare, se giudici di legittimità, è necessaria una ulteriore valutazione, posto che il rifiuto dello svolgimento delle mansioni presso la nuova sede di assegnazione risulta disciplinarmente rilevante laddove sia contrario a buona fede. La suddetta verifica della “buona fede” deve essere condotta sulla base delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie nell’ambito delle quali si può tenere conto dell’entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, della concreta incidenza dell’inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale, formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore nell’organizzazione datoriale e più in nella realizzazione degli interessi aziendali.
Pertanto, l’inottemperanza del lavoratore al provvedimento di trasferimento illegittimo dovrà, essere valutata sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460 c.c., co. 2, secondo il quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non può rifiutare l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso della lavoratrice, ritenendo fondato il licenziamento per rifiuto del trasferimento.


Infortunio del lavoratore:criterio di liquidazione  danni e danno lamentato dal coniuge

Cass., sez. Lavoro, 10 marzo 2022, n. 7821

Daniela Stochino, Consulente del Lavoro in Milano

 

La Corte di Appello di Trieste ha riformato la sentenza del Giudice di primo grado sostenendo che, ai fini della liquidazione del danno da incapacità lavorativa del lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro, si deve far riferimento alle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403/1922, e non alle tavole di mortalità elaborate dall’ISTAT nel 1981, posto che quest’ultime non hanno natura legislativa. La stessa sentenza escludeva inoltre qualunque risarcimento al coniuge non essendo stato provato alcun pregiudizio della stessa in seguito all’infortunio. Investita la Corte di Cassazione della questione, la stessa ha rilevato che effettivamente la Corte d’Appello è incorsa in un errore di diritto, violando il principio dell’integrale ristoro dei danni, lì dove pretende di determinare il quantum esclusivamente ricorrendo a parametri tratti da fonti legislativi ed escludendo altri parametri (più recenti) ma non di fonte legislativa. Ha quindi rimandato a propri precedenti nei quali aveva già affermato la inadeguatezza del criterio di liquidazione rappresentato dalle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403/1922 e la necessità di garantire l’integrale ristoro del danno attraverso il ricorso a parametri non necessariamente tratti da fonti legislative. Ha quindi ribadito il principio già affermato secondo il quale: “Il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’artt. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano”. La Corte di Cassazione ha quindi cassato la sentenza rinviando alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione, per il riesame della fattispecie alla luce del principio enunciato. La stessa Corte di Cassazione ha invece rigettato il ricorso presentato dal coniuge, atteso che i giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello) hanno ritenuto non provato il danno addotto  e, alla Corte di Cassazione è preclusa la possibilità di esaminare il merito.
Parimenti non meritevoli di accoglimento le doglianze della ricorrente rispetto alla presunta violazione di norme di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello per non aver fatto ricorso al ragionamento presuntivo: in realtà la ricorrente si è limitata a prospettare la necessità di valorizzazione di alcuni elementi senza evidenziare la assoluta illogicità delle diverse conclusioni attinte dal giudice di merito. Conseguentemente il ricorso presentato dalla coniuge è stato rigettato


Licenziamento per superamento del periodo di comporto: è necessario lo scomputo delle assenze dovute ad infortunio

Cass., sez. Lavoro, 4 marzo 2022, n. 7247

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello de L’Aquila ha rigettato il reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Vasto che aveva accertato l’illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro per avvenuto superamento del periodo di comporto.
La Corte di merito ha accertato che l’art. 52 del Ccnl di settore prevedeva, in relazione ad un’anzianità superiore a sei anni, un periodo di comporto di sedici mesi da calcolare nell’ambito di un triennio. Ha preso atto del fatto che il lavoratore si era assentato per cinquecentosei giorni ma che dalle assenze andavano scomputate quelle  comunque riferibili ai tre infortuni sul lavoro sofferti, tenuto conto – anche del mancato mutamento delle  mansioni, che pure era stato sollecitato dal lavoratore, evidenziando che aveva provato il nesso causale tra dette assenze ed in particolare uno dei tre infortuni – oltre che l’avvenuta violazione da parte della datrice di lavoro dell’art. 2087 c.c.. Ha ritenuto del pari provato che le operazioni cui si era dovuto sottoporre il lavoratore erano anch’esse causalmente collegate all’infortunio citato.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il datore di lavoro; dagli atti processuali emerge che la Corte di Appello si è attenuta a principi ripetutamente affermati dalla stessa Corte di Cassazione (cfr. tra le altre Cass. 27/06/2017, n. 15972 e Cass. 28/03/2011, n. 7037) secondo cui “le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che  la stessa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c. c.. ” In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.


Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo fondato sulle medesime ragioni del licenziamento collettivo è nullo

Cass., sez. Lavoro, 7 marzo 2022, n. 7400

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Con ordinanza del 7 marzo 2022 la Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito circa la nullità di un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (GMO) in quanto fondato sulle medesime ragioni che avevano determinato la procedura dei licenziamenti collettivi precedentemente verificatasi in azienda.
Avallando le pronunce nel merito anche la Cassazione ritiene che il licenziamento per GMO rappresenti un contratto in frode alla legge ai sensi dell’articolo 1344 del c.c. in quanto, fondandosi sulle medesime ragioni che avevano determinato la procedura di cui alla Legge 23 luglio 1991, n. 223, non ne rispetta tutti i vincoli previsti dalla disciplina relativa ai licenziamenti collettivi.
Se è vero che i giudici in una procedura collettiva non possono entrare nel merito delle logiche datoriali circa la metodologia di calcolo degli esuberi, questione di totale discrezionalità aziendale ed eventualmente trattabile in fase di negoziazione con le oo.ss., è pure vero che non è consentito al datore di lavoro di tornare sulle scelte compiute circa il numero, la collocazione aziendale ed i profili professionali dei lavoratori in esubero, ovvero i criteri di scelta dei lavoratori da estromettere, utilizzando il mezzo dei licenziamenti individuali la cui legittimità effettiva può essere subordinata soltanto alla presenza di ragioni diverse da quelle poste a base del  licenziamento collettivo.
Per tale ragione la Cassazione conferma la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo essendosi realizzato un contratto in frode alla legge attraverso accordi contrattuali tesi ad eludere le disposizioni normative.


La soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro qualifica la prestazione lavorativa come subordinata

Cass., sez. Lavoro, 8 febbraio 2022, n. 3967

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La Suprema corte di Catanzaro si esprime sulla vicenda dell’azienda che, a seguito di un controllo, risultava avere assunto dei lavoratori con mansione di personale paramedico inquadrandoli come collaboratori coordinati e continuativi. Nel 2015 la Corte di Appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava inefficace la cartella opposta in primo grado, portante un credito per omissione contributiva, per la somma pari ai contributi già versati per i lavoratori con mansioni di personale paramedico, formalmente inquadrati come  collaboratori coordinati e continuativi. L’Inps opponeva difese e si arrivava dunque alla Suprema Corte.
L’azienda sosteneva una mancanza di motivazioni delle sentenze e un eccesso di potere nell’applicazione dell’art. 421 c.p.c., violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte di merito, pur a fronte della mancata allegazione di prova, ritenuto fondata la pretesa dell’Inps, valorizzando le dichiarazioni degli ispettori verbalizzanti su quali fatti, asseritamente non dedotti dall’Inps, sarebbero stati esercitati i poteri officiosi.
Ritengono gli Ermellini infondati ed inammissibili i motivi indicati. Sulla denuncia dell’omesso esame di fatti decisivi, che se esaminati avrebbero portato all’accertamento della natura autonoma e non subordinata dei rapporti di lavoro in oggetto, ricordano, al riguardo, che ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali
e astratti da applicare al caso concreto, cioè l’individuazione del parametro normativo, mentre costituisce accertamento di fatto la valutazione delle risultanze processuali al fine della verifica dell’integrazione del parametro normativo.
Si ribadisce nuovamente che costituisce elemento essenziale, come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e non già soltanto al suo risultato. Tale assoggettamento non costituisce un dato di fatto elementare quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze e, ove non agevolmente apprezzabile, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi (fra i quali, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l’assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale), di carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria. Questi elementi costituiscono indizi idonei ad integrare una prova presuntiva della  subordinazione, a condizione che essi siano fatti oggetto di una valutazione complessiva e globale. Invece, per quanto concerne le prestazioni di natura intellettuale, che mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro e con una continuità regolare, anche negli orari, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari, che il giudice deve individuare in concreto dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall’effettivo svolgimento del rapporto.
Secondo questi principi, la Corte di merito ha correttamente privilegiato il piano dell’effettività, piuttosto che quello delle formali risultanze documentali nell’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro,
sia per il personale medico che paramedico, per gli assistenti dei dentisti e per gli impiegati amministrativi.
Pertanto viene confermata la natura subordinata dei rapporti lavorativi e, poiché l’omessa o infedele denuncia mensile all’Inps circa i rapporti di lavoro e le retribuzioni erogate, integra un’evasione contributiva ex art. 116,
comma 8, lett. b), Legge n. 388 del 2000, e non la meno grave omissione contributiva di cui alla lettera a) della medesima disposizione, dovendosi ritenere che l’omessa o infedele denuncia configuri occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi e faccia presumere l’esistenza della volontà datoriale di realizzare tale  tale occultamento allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti, gli Ermellini rigettano il ricorso della Società e condannano al pagamento delle spese e della contribuzione arretrata.

Preleva l’articolo completo in pdf

Sentenze

Patto di prova: requisito di specificità e rinvio alla contrattazione collettiva nel contratto di lavoro

Cass., sez. Lavoro, 14 gennaio 2022, n. 1099

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1099 del 14 gennaio 2022, si è espressa in merito al requisito di specificità del patto di prova e alla sua declinazione nel contratto individuale di lavoro.
In particolare, i fatti di causa hanno visto una lavoratrice agire al fine di ottenere l’accertamento della nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro a tempo determinato intercorso con un datore di lavoro, il quale aveva operato il recesso per mancato superamento della prova stessa. Al contempo, di conseguenza, il lavoratore chiedeva anche la nullità del recesso datoriale e la condanna dell’azienda al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni che avrebbe percepito fino alla naturale scadenza del rapporto di lavoro. Tale risarcimento del danno avveniva anche in virtù del difficile reperimento di altra occupazione a seguito del recesso, considerato il proprio status di invalidità a 46%.
La sentenza di primo grado accoglieva quanto avanzato dalla lavoratrice e tale pronuncia veniva ribadita in appello.
In particolare, nei due gradi di giudizio veniva accertato il “difetto di specificità del patto di prova nella individuazione delle mansioni di concreta adibizione della lavoratrice”.
Secondo il giudice d’Appello, infatti, il contratto di lavoro stipulato tra le parti non riportava, in concreto,  l’indicazione dei compiti a cui sarebbe stata adibita la lavoratrice. Difatti, il riferimento nel contratto indivivduale alla figura dell’«addetto ai lavori non rientranti nel ciclo produttivo» rendeva “priva di concretezza la indicazione dei compiti ai quali sarebbe stata adibita la lavoratrice”; analogamente, il rinvio operato dal contratto al «livello I 3» del Ccnl applicato “non conferiva specificità alle mansioni da svolgere in ragione del fatto che la previsione collettiva menzionava fra i compiti riconducibili al detto livello «lavori analoghi a lavori di pulizia», senza ulteriore specificazione o esemplificazione”. Infine, aggiuntivo elemento di incertezza in relazione ai compiti oggetto della prova era costituito dalla clausola del contratto individuale secondo cui le mansioni e gli obiettivi assegnati sarebbero stati specificati soltanto in seguito rispetto al momento dell’assunzione.
Avverso la sentenza di appello il datore di lavoro ricorreva in Cassazione, con diversi motivi di ricorso. In particolare, l’azienda riteneva che “la necessità di specificazione delle mansioni di adibizione al fine del patto di prova non esige che queste debbano essere indicate in dettaglio e la relativa identificazione può avvenire anche per mezzo di rinvio per relationem alla declaratoria del contratto collettivo”. A dire del datore di lavoro, infatti, oltre alla
declaratoria generale il Ccnl forniva evidenza dettagliata dei compiti di riferimento del livello a cui la lavoratrice era inquadrata: in dettaglio, la posizione veniva identificata dal Ccnl come correlata a “lavori di trasporto, carico e carico manuali, pulizia e analoghi, anche con mezzi meccanici”. Tanto premesso, il datore di lavoro riteneva idoneo il rinvio operato “per relationem” nel contratto individuale e riferito al Ccnl, così da integrare il requisito della specificità.
Nel proprio ricorso, l’azienda illustrava come la clausola del contratto individuale, secondo cui mansioni ed obiettivi sarebbe stati specificati soltanto in seguito, non si sarebbe prestata ad essere interpretata – come ritenuto dalla Corte
di merito – nel senso del “difetto di specificità delle mansioni sulle quali avrebbe dovuto espletarsi la prova”, bensì come “rinvio a necessarie «microindicazioni» di servizio con le quali la parte datoriale avrebbe provveduto quotidianamente a precisare il contenuto delle mansioni in funzione del concreto espletamento delle stesse”.
Il ricorso della parte datoriale non ha trovato, però, accoglimento presso la Corte di Cassazione: i giudici di legittimità, infatti, hanno evidenziato come la causa del patto di prova debba essere individuata “nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”.
La Suprema Corte ha osservato, inoltre, che “l’esigenza di specificità, che nell’ipotesi di lavoratore parzialmente invalido deve essere valutata con particolare rigore […] è funzionale al corretto esperimento del periodo di prova ed alla valutazione del relativo esito che deve essere effettuata in relazione alla prestazione e mansioni di assegnazione quali individuate nel contratto individuale; la specificazione può avvenire […] anche tramite il rinvio per relationem alle declaratorie del contratto collettivo con riferimento all’inquadramento del lavoratore, sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata, sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi un pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria”.
Secondo i giudici la sentenza impugnata non escludeva, in astratto, la possibilità di integrare la clausola del contratto individuale per mezzo del rinvio ai contenuti della qualifica e del livello di inquadramento del contratto collettivo corrispondenti a quelli attribuiti alla lavoratrice. In ogni, caso, tale riferimento non vale “in relazione alla fattispecie in esame a conferire specificità al contenuto delle mansioni sulle quali avrebbe dovuto svolgersi la prova”. Ciò in ragione del fatto che “la declaratoria collettiva relativa alla posizione professionale di inquadramento della lavoratrice evocava fra i compiti di possibile adibizione, accanto a quelli di pulizia, lavori agli
stessi «analoghi»”, ampliando dunque in maniera indefinita l’ambito delle mansioni in concreto riconducibili al livello considerato. Il ricorso del datore di lavoro è stato quindi rigettato, non essendo possibile instaurare alcun automatismo tra richiamo alla contrattazione collettiva e valutazione di specificità della clausola di prova.

 


Mancato rispetto delle norme antinfortunistiche: quando si configura la responsabilità del datore di lavoro

Cass., sez. Penale, 11 gennaio 2022, n. 387

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Con la presente sentenza la Cassazione ribadisce l’importanza del rispetto delle norme antinfortunistiche negli ambienti di lavoro. Il caso verteva sui danni subiti da un lavoratore che utilizzando un macchinario privo di  un sistema automatico di bloccaggio si era procurato delle lesioni personali durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Il datore di lavoro si difendeva in giudizio affermando che era stata la condotta imprudente del lavoratore a determinare i danni subiti e che quindi la responsabilità del fatto non poteva ricadere sull’azienda.
La Cassazione, nella disamina del caso, ricorda che è compito del datore di lavoro assicurare l’incolumità del personale dipendente nello svolgimento della propria attività lavorativa ivi includendovi anche i casi in cui siano condotte negligenti, imprudenti o prive della necessaria attenzione, purché connesse alla lavorazione svolta, a mettere in pericolo il lavoratore. La normativa antinfortunistica  mira, infatti, tra le altre cose, a salvaguardare
i lavoratori anche da rischi derivanti da azioni improprie, sempre che siano connesse alla lavorazione affidata.
È in linea con tale assunto un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale si può escludere la responsabilità del datore di lavoro solo se la condotta del lavoratore sia stata talmente radicale e lontana da quelle ipotizzabili da configurare un atto ontologicamente lontano e imprevedibile rispetto alla lavorazione svolta. In altre parole, quando il comportamento del lavoratore si ponga al di fuori di ogni controllo ipotizzabile in relazione a quella specifica attività. E tale non può certamente definirsi quel comportamento che seppure imprudente, sia comunque circoscritto e collegato al tipo di mansioni assegnate.
Nel caso di specie non può quindi ammettersi un’interruzione del nesso causale tra condotta ed evento lesivo, configurandosi quindi responsabilità del datore di lavoro per non aver messo in atto tutti gli strumenti necessari a garantire l’incolumità del proprio personale, in particolare l’installazione di un sistema di bloccaggio automatico che permettesse all’operatore imprudente di non ledere la sua persona nello svolgimento del proprio lavoro.

 


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Riduzione dei finanziamenti regionali del settore

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2021, n. 41732

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano 

La Corte di Appello di Palermo, in riforma della pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede in primo grado, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento orale intimato nei confronti del lavoratore e, per l’effetto, ha condannato il datore di lavoro a riammettere in servizio il dipendente e a risarcire il danno commisurato alle retribuzioni maturate fino all’effettiva reintegrazione.
Il Tribunale aveva ritenuto fondata l’eccezione di decadenza, relativamente all’impugnazione del licenziamento, sollevata dal datore di lavoro riconnettendo efficacia risolutiva alla lettera raccomandata, trasmessa al lavoratore, recante l’intimazione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovuto alla riduzione dei finanziamenti regionali del  settore, la cui presunzione legale di conoscenza, in virtù dell’attestazione dell’ufficiale notificatore, era tale da superare il disconoscimento della firma operato dal lavoratore.
I giudici di seconde cure, invece, premesso che l’accertamento incidentale avente ad oggetto la querela di falso proposta dal lavoratore aveva escluso che la sottoscrizione fosse opera grafica della stessa, hanno rilevato che la verifica della falsità non era surrogabile dalla presunzione che la lettera fosse entrata comunque nella sfera di conoscenza del destinatario in quanto i familiari, escussi in sede testimoniale, avevano dichiarato di non trovarsi in casa nella giornata della notifica; né hanno ritenuto, quale prova che il lavoratore avesse avuto conoscenza della comunicazione del licenziamento a mezzo sindacato di categoria, non risultando la prova del conferimento di alcun mandato.
Esclusa la fondatezza della eccezione di decadenza, la Corte territoriale ha rilevato che l’allontanamento disposto era da considerarsi un licenziamento orale e, pertanto, dichiarata la sua inefficacia, ha riconosciuto la riammissione in servizio e la tutela risarcitoria, pari a tutte le retribuzioni maturate, dalla messa in mora fino alla effettiva reintegrazione.
Per la cassazione della sentenza di secondo grado ricorre il datore di lavoro. Con un unico articolato motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., nonché l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti (art. 360 co. 1, n. 3 e n. 5 c.p.c.), per avere erroneamente ritenuto la Corte di merito surrogabile la presunzione legale di conoscenza della lettera raccomandata, ex art. 1335 c.c., dall’accertamento della falsità della sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento: ciò attraverso una interpretazione illogica delle risultanze istruttorie.

Il ricorso non è fondato. Le censure di cui al motivo di impugnazione presentano, infatti, profili di infondatezza e di inammissibilità. È infondata l’asserita violazione dell’art. 1335 c.c. che prevede una presunzione di conoscenza (o meglio di conoscibilità) degli atti negoziali comunque superabile mediante prova contraria, come è stato accertato nella fattispecie in esame, non dando luogo la produzione dell’avviso di ricevimento della racomandata ad una presunzione iurìs et de iure di avvenuta ricezione dell’atto, in quanto è sempre possibile la specifica confutazione
della circostanza e la prova contraria (Cass. n. 13488/2011; Cass. n. 12954/2007). In tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea  valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come
facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (per tutte Cass. Sez. Un. n. 20867/2020): ipotesi, queste, non ravvisabili nel caso in esame.
Inammissibile è anche la asserita violazione dell’art 2697 c. c. che si ha, tecnicamente, nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta  norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. n. 17313/2020).
Alla stregua di quanto esposto il ricorso va, pertanto, rigettato.


Stress psico-fisico da superlavoro – È necessario dimostrare la correlazione tra la prestazione di lavoro svolta e la condizione di stress

Cass., sez. Lavoro, 14 gennaio 2022 n.1096

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Un dipendente comunale, con mansioni di autista di scuolabus, contestualmente ad un incidente stradale occorso mentre era alla guida del pulmino, muore a causa di infarto del miocardio.
Gli eredi propongono ricorso in Cassazione dopo che la Corte di Appello di Lecce aveva rigettato il ricorso per il riconoscimento, in loro favore, della rendita ai superstiti, per il decesso del familiare a seguito di infarto causato dallo stress psico-fisico accumulato negli anni di lavoro in svariate mansioni presso lo stesso Comune.
L’Inail si è opposto con controricorso.
La Corte di Appello aveva escluso, dopo l’istruttoria e la Consulenza medico legale, che l’infarto fosse derivato dallo svolgimento della prestazione lavorativa, anche a seguito della mancata dimostrazione, degli eredi appellati, di prove sui fattori che hanno causato, direttamente o concorso a causare, l’evento mortale.
Nello specifico, mancava ogni allegazione circa l’articolazione dei turni di lavoro, la loro durata e il protrarsi di ore di lavoro straordinario. L’attività svolta dal lavoratore non risultava, per sua natura, correlata a condizioni di stress particolari o che richiedesse lo svolgimento di lavoro straordinario, né ritmi particolarmente usuranti. Peraltro, il medico curante aveva attestato che il lavoratore era esente da patologie.
Pertanto, la Corte di Appello aveva escluso la probabilità che vi fosse un nesso causale tra la morte e la condizione lavorativa, posto che anche la CTU medico legale aveva escluso che, in assenza di prova di uno stato morboso preesistente o di una specifica condizione, si potesse riscontrare un nesso di concause tale da poter confermare la natura professionale dell’evento.
La Suprema Corte afferma che la Corte di Appello ha adeguatamente motivato il rifiuto della richiesta e dichiara inammissibile il ricorso.


 

Preleva l’articolo completo in pdf