Senza filtro – A PROPOSITO DI adempimenti inutili e costosi…

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Ti capita a volte di imbatterti in norme la cui ragione sfugge, a meno che (il sospetto è legittimo) non vi sia qualcuno che attraverso di esse persegue interessi particolari. Ora permetterete l’argomento un po’ particolare e forse anche fuori tema rispetto a questa Rivista (ma in tema ci torneremo in un attimo) ma vorrei parlare degli adempimenti di “trasparenza e pubblicità” previsti dalla L. n. 124/2017, art. 1, commi 125-129 (come sostituito dall’art. 35 del D.l. n. 34/2019, ed eventuali modifiche ed integrazioni – che quelle non mancano mai). Tranquilli, non facciamo come il legislatore, che ti spara in faccia 27 riferimenti di legge e poi ti lascia lì come un pesce appena pescato a boccheggiare tramortito fra Gazzette Ufficiali e banche dati per capire cosa diavolo voglia dalle nostre povere vite.

Le norme in questione prevedono, in due parole, che – per “adempimenti di trasparenza e pubblicità” di cui sfugge a prima vista la ragione sostanziale – i soggetti che avessero ricevuto nel 2022 dalle Autorità Pubbliche dei contributi, delle sovvenzioni e/o dei vantaggi non aventi carattere generale, se non sono tenuti alla redazione della nota integrativa, sono obbligati entro il 30 giugno 2023 a segnalare la cosa nel proprio sito web. Se il sito web non ce l’avessero, la medesima segnalazione può essere fatta nel portale digitale “dell’associazione di categoria di appartenenza”. Pena una non risibile sanzione amministrativa. Ora, sono necessarie alcune annotazioni. La prima è che con un pensiero ingenuo un’anima semplice come quella che scrive sarebbe istintivamente portata a pensare che a tale proposito è stato istituito un “Registro nazionale degli aiuti di Stato” (www.rna.gov.it/RegistroNazionaleTrasparenza). Uno riceve uno o più aiuti – o come dice la norma “sovvenzioni, sussidi, contributi o aiuti, in denaro o in natura, non aventi carattere generale e privi di natura corrispettiva, retributiva o risarcitoria” – e la cosa viene annotata in quel posto apposito. Chiunque nel pubblico corrisponda una provvidenza del genere ad un soggetto, lo iscrive nel registro suddetto e il gioco (cioè la trasparenza) è fatto. Ma chissà, forse non è così e i fiumi, fiumicelli, rivoli e rigagnoli degli aiuti si dipanano come una foce a delta, e così, senza obbligo da parte di chi li corrisponde di segnarli nel registro, qualcosa si perde per strada. Ora i casi sono due: o chi eroga questi contributi è obbligato a segnarli nel registro (e se non lo fa è una mancanza dell’erogatore, e non del beneficiato) oppure questo obbligo per taluni enti non sussiste (e allora è una mancanza del legislatore). Anche perchè trasparenza vorrebbe che tutti questi aiuti fossero lì, belli in evidenza e consultabili da chiunque in un pubblico registro. Dopo di che, un’annotazione nella nota integrativa – se un soggetto è tenuto a redigerla – sembra un fatto normale, quasi scontato: nel rendere conto delle particolarità di gestione sicuramente avere ricevuto contributi del genere è una cosa che sembra opportuno evidenziare. Ma il resto?

Per quale motivo si deve inserire questa informazione (sia pure se i contributi superano i 10.000 euro nell’anno) in un portale web aziendale? A chi giova questa informazione e come e quanto è reperibile e consultabile in tal modo? Ora a pensar male si farà anche peccato, ma visto che molte aziende, soprattutto quelle di piccole dimensioni, la nota integrativa non sono tenute a farla e del sito web non sono provviste, ecco che arriva il salvataggio: pubblica il dato (inutile) sul portale web della tua categoria. La tua associazione ti salva, ti protegge, pensa a te (sembra la pubblicità della Coop): te lo dicono le norme. Che ogni tre per due sulle associazioni di categoria spingono, attraverso di esse ti è suggerito di fare molte cose, dalle richieste di cassa integrazione alla rappresentanza in questo o quel consesso o alla presentazione di una domanda (guarda un po’) per l’ottenimento di contributi (magari anche con un qualche canale privilegiato). Assòciati, ti dice la legislativa manina amica (delle associazioni), è più utile e conveniente. Qui si possono offrire molte riflessioni. La prima è che la libertà di associazione è anche, costituzionalmente, una libertà negativa. Ma oggi sempre di più si spingono le aziende ad associarsi. Che sia un bene o un male non so dire, che sia quasi un obbligo mi pare una cosa un po’ poco democratica. Un non associato deve godere degli stessi diritti e delle medesime facilitazioni di un associato, se no è discriminazione (oggi va di moda dire così, ormai la discriminazione da questione seria è diventato il “prezzemolo giuridico”) . La seconda è una mera curiosità: con quale criterio si indica la possibilità di indicarle sul sito dell’associazione di categoria? Cos’ha in più un sito di un’associazione rispetto ad un altro sito? Mettiamo che una società si occupi di agevolazioni, non potrebbe essere ugualmente efficace pubblicarle sul sito di quella società? O perché non sul sito del proprio commercialista o consulente del lavoro? Perché non sul sito della propria squadra del cuore (è più facile che cambi l’associazione rispetto a quella)? Si noti che è un’annotazione sostanzialmente poco utile (così com’è costruita), un intralcio, un orpello normativo. Però porta acqua a qualcuno che magari porta acqua di ritorno a chi ha previsto questa cosa (qualcuno lo chiama lobbismo, che non è vietato ma che non deve costringere a cose inutili/dannose). Insomma, sarà anche un momento di siccità ma quest’acqua appare un po’ sporca, non tanto buona da bere. La terza annotazione si collega alla seconda ed è che le associazioni di categoria sono primariamente un luogo di rappresentanza. Quindi chi si associa conferisce loro un mandato (e non è cosa indifferente perché poi è sostanzialmente obbligato a rispettare ciò che la sua associazione sottoscrive – un caso eclatante è la parte c.d. obbligatoria dei contratti collettivi), tuttavia le associazioni stanno sempre più diventando dei centri di affari economici, portatori di interessi privatistici – ad esempio mostruosi erogatori di servizi – e che entrano in competizione sul mercato beneficiando di spintarelle come quella di cui stiamo parlando (non è qualcosa di palese, sembra più un “effetto Nudge”, è un meccanismo subliminale di indirizzo). Il tutto nel sonno più totale dell’autorità garante, per cui “il” problema paiono essere più spesso i professionisti, specie se ordinistici.

Prendete le ricchissime casse edili (si dice al plurale, perché sono tante quanto, più o meno, le province, ed ognuna ha regole di funzionamento diverse, una vera meraviglia gestionale): sono gestite da associazioni di categoria privatissime ma stanno diventando sostanzialmente obbligatorie, pena grossi disagi e penalizzazioni per le aziende. Qualcuno si è mai preoccupato di esaminarne e regolarne il funzionamento e la gestione? Ma è un tema che riguarderebbe pure gli altri Enti bilaterali (anch’essi spinti tantissimo), e ne riparleremo un’altra volta.

La quarta ed ultima riflessione è anch’essa strettamente collegata alla terza ed è che usciti dal mondo del corporativismo (che in alcuni settori, neanche tanto mascherato, sussiste ancora) se un’associazione è fonte di lucro perché non far nascere associazioni come funghi? Ci sono tanti vantaggi, dal dumping contrattuale alla gestione di enti bilaterali farlocchi o di enti formativi altrettanto pretestuosi, ma in grado di convogliare interessantissimi fiumi di denaro. Nuove associazioni, che vanno ad  erodere un pezzettino di torta ad associazioni di categoria più tradizionali (ma sempre tutti con le mani nella torta stanno). Ma stiamo forse dicendo che le associazioni di categoria sono “il male”? No, nessun manicheismo e massimo rispetto dei ruoli. È che le associazioni di categoria (e lo stesso potremmo dire per le associazioni del lavoratori) a dispetto di tanto parlare sulla libertà sindacale, sulla responsabilità sociale, sulla rappresentanza etc. possono sostanzialmente fare ciò che vogliono (e lo fanno…), ricevono considerevoli spinte (come nel caso che ha dato il pretesto per queste righe, ma che è solo un piccolissimo esempio) spesso anche sotterranee, non particolarmente visibili, insomma non sempre brillano per specchiata gestione e trasparenza (anche quando della trasparenza  si cerca di farle, posticciamente, garanti). Tutto qui. Una qualche riflessione la meriterà prima o poi tutto questo, no?

 

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Una proposta al mese – INFORTUNI SUL LAVORO: una dimensione unitaria

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

Inail è gloriosa e utile istituzione, che si occupa dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. La materia è regolata da un altrettanto glorioso testo Unico (il D.P.R. n. 1124/1965) che resiste all’inarrestabile scorrere del tempo, ma che inevitabilmente qualche rughetta qua e là la mostra. E così oggi la materia si è via via allargata a colpi di sentenze della Corte Costituzionale e di vari interventi normativi, tanto che la stratificazione normativa è alta (ancorchè in gran parte assodata). Vorremmo pertanto proporre una revisione su una prospettiva unitaria, che reciterebbe semplicemente così: tutti coloro che lavorano sono obbligatoriamente soggetti all’assicurazione sugli infortuni (o malattie professionali, ovviamente) alle medesime condizioni.

Primo elemento di unificazione sarebbe pertanto una revisione dell’art. 1 del TU Inail, non operando distinguo – non più attuali – fra chi è addetto a macchine eteronomamente azionate (o addetto a lavorazioni elencate) e chi non vi rientra. Che poi con l’invenzione del c.d. “rischio elettrico” sia quasi impossibile sfuggire all’assicurazione è una realtà, ma ciò non toglie il principio logico fallace. Ognuno dev’essere assicurato in quanto lavora e basta, il resto non conta. Del resto, è proprio la moderna evoluzione del concetto di antinfortunistica che si evolve sempre di più verso un benessere integrale della persona (l’art. 2, D.lgs. n. 81/2008 – T.U. sulla sicurezza sul lavoro definisce la salute – scopo del decreto – quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità). Se quindi un danno alla salute è collegabile al lavoro, come tale dovrebbe essere soggetto ad assicurazione obbligatoria.
Il secondo elemento di unificazione dovrebbe riguardare l’assicurabilità di tutti i soggetti operanti in una realtà, senza distinzione, dall’imprenditore (sì, anche lui) sino allo stagista o al lavoratore occasionale. Oggi invece assistiamo ad indecifrabili disquisizioni: quello sì, quello no, quello forse. In particolare il mondo del lavoro autonomo ed imprenditoriale vive di distinzioni di lana caprina, Il titolare di un’impresa artigiana è assicurato, quello di un’impresa commerciale no (ma se fosse socio della medesima impresa sì), l’amministratore unico plenipotenziario (anche se socio) non sarebbe assicurabile in quanto coincidente con l’imprenditore, ma se fosse artigiano sì; il lavoratore autonomo non lo è, ma se fosse collaboratore coordinato e continuativo sì; l’esecutore di contratto d’opera occasionale no, ma se fosse artigiano sì (e lo sarebbe anche se fosse inquadrato a mezzo PrestO o libretto famiglia). E si potrebbe continuare, perché sul punto l’oscillazione della norma subisce il florilegio di fattispecie (vero ginepraio) oggi esistenti nell’ambito del lavoro autonomo e d’impresa (ivi compreso il lavoro dei soci all’interno di essa). Si dirà: sistemiamo dunque il ginepraio invece di prendersela con l’Inail e con il Testo Unico. L’osservazione è ottima, ma da qualche parte si dovrà pur iniziare e un’assicurazione che ambisse ad essere davvero universale potrebbe essere un buon inizio.
Vi è un terzo elemento di unificazione, non meno importante, che riguarda la distinzione, operata da qualche decennio (esattamente dal 2000) in differenti gestioni tariffarie, che sono le quattro seguenti: “industria, artigianato, terziario e altre attività”.
Ciò implica che l’essere compreso in una o nell’altra di queste gestioni com- porta, per il medesimo rischio, l’applicazione di aliquote assicurative differenti. Non è stato sempre così, la modifica come detto si è attuata a partire dal nuovo millennio, a discapito di chi pensa che il futuro porti solo cose buone.
Le motivazioni di tale scelta sono molteplici e ufficialmente si riferiscono per lo più ad un più mirato calcolo dell’aliquota applicabile (che si basa sulla ripartizione statistica del rapporto prestazioni/retribuzioni). Chi scrive ha delle idee differenti ed inconfessabili in proposito, diciamo in linea generale e senza puntare il dito su soggetti molto suscettibili che alcuni settori economici hanno voluto scaricare determinati oneri su altri (o non farsene carico, il che è la stessa cosa in un’assicurazione sociale obbligatoria). Il che però a prescindere dalla preliminare osservazione che tale distinzione non persegue obiettivi di semplicità normativa e gestionale appare poco logico, soprattutto in un’ottica di sostenibilità. In primo, perché se un’attività è rischiosa il rischio va ripartito fra tutti coloro che la esercitano, né si capiscono distinzioni particolarmente accentuate.
Prendiamo un esempio fra mille: il lattoniere che esercita “l’attività di produzione non in serie di tubi, canali, cassette, framogge, cappe, insegne e similicompresa l’eventuale posa in opera” è inquadrato nell’industria e nell’artigianato alla voce di tariffa 6223 il cui tasso è però ben differente (81 per mille nell’industria, ben 130 per mille nell’artigianato, oltre il 150 % di differenza). Nel terziario tale attività (ancorchè residuale) paga il 119 per mille, inquadrata nella più generica voce 6222, e nel settore residuale (gli altri) il 60 per mille (voce di tariffa 6100). E qui si vede una seconda distonia: mentre le voci di tariffa codificate per industria ed artigianato viaggiano su binari sostanzialmente paralleli (salvo qualche distinzione), quelle delle altre due gestioni subiscono macroraggruppamenti di molte lavorazioni sotto un’unica voce generando un mix generico e poco differenziato, con inevitabili sperequazioni (in più o in meno, come si vede nell’esempio). Ma non è detto che il solo fatto di essere collocati in una gestione (che sostanzialmente dipendente dall’inquadramento attribuito dall’Inps all’azienda) renda meno caratteristico l’esercizio di un’attività sotto il profilo del mero rischio. Teniamoci sull’esempio: un’azienda ha una duplice attività di produzione di articoli di fumisteria e di commercio degli stessi articoli (prodotti da altri), di cui la seconda attività risulta prevalente: con quale criterio paga un tasso differente? Non parliamo se tale differenziazione dovesse prodursi sulla base di una semplice passaggio di un’azienda da un settore ad un altro per l’incidenza di fattori esterni al rischio o all’attività (ad esempio, basterebbe la cessazione dell’attività lavorativa di un socio): la stessa azienda, con la stessa ragione, nello stesso ambiente di lavoro, con gli stessi dipendenti, si troverebbe per tale sola ragione a pagare in modo differente.
E questo introduce un ulteriore elemento di riflessione (terza distonia): l’inquadramento in una gestione piuttosto che in un’altra può dipendere da fattori esterni e completamente ininfluenti sulla lavorazione e sul rischio. Anche la classica distinzione fra piccole e grandi aziende (per cui la sicurezza sarebbe più seguita in quelle grandi) non ha molto senso se si pensa alla composizione del settore economico italiano, per cui quasi il 90% delle aziende non supera i 10/15 dipendenti. Sicchè può essere classificata industriale un’azienda con due o tre dipendenti o essere artigiana un’azienda con 20 e più dipendenti.
Aggiungiamo una quarta ed ultima riflessione che riguarda la profonda interconnessione dei settori e dei segmenti economici, ove si realizzano filiere sempre più articolate e complesse: alla realizzazione di un bene o di un servizio concorrono più imprese, le stesse grandi aziende terziarizzano alle piccole una parte del loro lavoro o di fasi di esso: per quale motivo farle pagare in modo differente quando spesso (come nel caso della subfornitura) le condizioni sono sostanzialmente imposte da chi organizza e governa la filiera?
Sperequazioni, miscugli indifferenziati, aleatorietà si possono evitare tornando alla gestione unica (oltretutto più semplice ed immediata) ed all’unicità dell’assicurazione.
Tutti per una, ma possibilmente una per tutti.

 

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LA CARICA DEI 104

Loredana Salis, Consulente del Lavoro in Milano
e Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Si può coniugare semplicità con tutela? Si può concepire il rapporto di lavoro come una relazione e non come una gabbia? Si può applicare una direttiva UE senza complicarla? Sono queste le domande che hanno indirizzato il lavoro del Centro Studi della Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano che qui siamo lieti di presentare: un testo di legge come l’avremmo scritto noi e che quindi sostituisce completamente il D.lgs. n. 104/2022 (e anche il D.lgs. n. 152/1997). Le esigenze, nate dallo sconcerto e dallo sconforto che fin dai primi giorni erano scaturiti dalla lettura del Decreto in questione, erano molteplici e stringenti: – concepire un testo di legge che non fosse il solito patchwork normativo, fatto di rimandi poco chiari, sovrapposizioni, stratificazioni; – evitare la formazione obbligatoria di documenti chilometrici ma poco, o per nulla utili (anzi, con il rischio di essere addirittura confusivi e fuorvianti) in un’epoca in cui le informazioni sono disponibili – o possono essere rese – con pochi e intelligenti mezzi; – bilanciare la gestione del rapporto e l’esercizio dei diritti di tutti senza squilibri impropri e costi ed oneri iniqui per i datori di lavoro. Dati questi presupposti, offriamo alcune brevi note di lettura per il testo che seguirà e per quanto abbiamo cercato di realizzare con questa proposta.

a) Dal decreto e dagli obblighi sono stati quasi completamente espunti i committenti (e correlativamente anche i collaboratori coordinati e continuativi): in un Paese serio – prima o poi lo diventeremo – gli autonomi sono autonomi e i subordinati sono subordinati, senza commistioni confusive. Siamo per rafforzare le tutele serie, non per annacquarle in fattispecie di dubbia o equivoca definizione.

b) I contenuti dell’informativa da fornire sono stati resi più chiari ed equilibrati, così come i modi di comunicazione ed i tempi di conservazione.

c) Gli obblighi non previsti dalla Direttiva, ma di mera invenzione italiana, sono stati aboliti: in un ambito di competizione internazionale non sembra il caso di distinguersi sempre per italici lacci e lacciuoli o per complicazioni burocratiche di derivazione vetero-ideologica.

d) È stato conservato, ancorché razionalizzato, il nucleo delle tutele che si volevano inserire o specificare: non siamo per un mercato del lavoro volto al più spinto liberismo. Dove il legislatore ha operato in ragione di un forte sbilanciamento abbiamo cercato di equilibrare le posizioni delle parti, peraltro in modo non dissimile a quello di altre norme con analogo scopo.

e) Abbiamo pensato ad un sistema sanzionatorio semplice e chiaro, che favorisca l’intesa e la rettitudine anziché meccanismi esclusivamente punitivi.

f) Abbiamo rivalutato la funzione della contrattazione, anzitutto collettiva (completamente ignorata nella stesura del decreto originario, contrariamente a quanto prevedeva la stessa Direttiva) e, in qualche caso, individuale.

g) In alcuni passaggi abbiamo anche mantenuto il testo di legge originario, integralmente o quasi: il nostro non è stato infatti un lavoro “contro” ma una riflessione “per”. Come ci è capitato di dire in casi analoghi, la (ri)scrittura normativa – certamente non facile e irta di insidie– non è stato esercizio velleitario di stile o manifestazione di presunzione ma semplice esigenza di chiarezza e di efficacia. Non abbiamo pertanto alcuna pretesa di essere stati perfetti o esaustivi, ma confidiamo di avere comunque confezionato una buona esemplificazione del senso sotteso alla Direttiva, nonché di quel che vorremmo vedere e che si potrebbe fare. Offriamo pertanto questo lavoro alla riflessione di tutti, aperti a critiche, suggerimenti, dibattito: il tentativo non è quello di sostituirsi a nessuno ma di sollecitare un confronto costruttivo non partendo da meri principi o desideri ma da un progetto concreto, misurabile parola per parola. È da ultimo doveroso un ringraziamento a tutti i colleghi che, oltre a noi, hanno contribuito a questo progetto, sacrificando tempo e risorse con la segreta speranza di non dover più perdere il sonno (o il senno) rincorrendo norme assurde o scritte in modo discutibile e approssimativo.

 

Hanno collaborato alla stesura del presente lavoro i colleghi del Centro Studi della Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano: Andrea Asnaghi, Manuela Baltolu, Alberto Borella, Margherita Bottino, Loredana Buzzanca, Mariagrazia Di Nunzio, Potito Di Nunzio, Sabrina Pagani, Maria Paladini, Paolo Reja, Alessia Riva, Loredana Salis, Federica Sgambato.

 

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Senza filtro – LE MICROIMPRESE, I LAVORATORI OCCASIONALI E LA SICUREZZA: che pasticcio Bridget Jones!

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

“Tutti quanti voglion fare il jazz…” cantavano gli adorabili micetti de “Gli Aristogatti”. Parasfrasando, oggi tutti vogliono parlare di sicurezza. Intendiamoci, la sicurezza sul lavoro è un argomento talmente serio che sembra perfino pleonastico ribadirne l’importanza. E che se ne parli è un bene, così come capita spesso anche in questa Rivista ad opera di memorabili autori. Il campanello d’allarme scatta quando parlare di sicurezza diventa cool, quasi fosse un passaggio obbligato di qualsiasi manovra o riflessione (insieme ai giovani, alle donne, alla parità di genere, alla conciliazione vita lavoro e a temi simili, che meriterebbero, per dirla con il jingle pubblicitario in voga un tempo, “fatti, non parole”). Ancor peggio quando la sicurezza viene presa a scusa per inserire qua e là norme che magari con la sicurezza c’entrano poco.

Né vale l’obiezione che, in fondo, tutto c’entra con la sicurezza, che come concetto non sarebbe nemmeno tanto lontano dal vero, peccato però che in questo modo, a ben pensarci, quella che poi si svilisce è proprio la sicurezza vera, reale, concreta e la giustizia, che è figlia dell’equità e della ragionevolezza. Così discettano di sicurezza quelli per cui la sicurezza è stata spesso tragica merce di scambio contrattuale, quelli che dalla sicurezza si sono tenuti ben lontani perché “sono sempre questioni complicate”, ovviamente ne trattano i talebani della sicurezza (che non sanno che il radicalismo ottuso di qualunque genere è il peggior nemico del credo che si vuole difendere) e anche coloro che nella sicurezza vedono un ulteriore spunto per appioppare sanzioni e collezionare relativi punteggi-efficenza. Insomma, come è detto l’argomento è cool ma talmente cool che non si capisce perché, numeri alla mano, alla fine sono sempre troppi quelli che ce lo rimettono (il cool ).

L’occasione per riaffrontare il tema – perdonateci se sarà in chiave un po’ complessa e sfaccettata – è data dalla nota n. 162 del 24 gennaio 2023 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in tema di art. 14 del D.lgs. n. 81/2008. Com’è noto l’art. 14 è quello che prevede il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale in accertamento della carenza delle condizioni di sicurezza e comunque qualora sia riscontrata una certa percentuale di lavoratori in nero. Tale articolo 14 è stato a lungo rimaneggiato, quasi a voler far apparire (ogni volta) tutta la serietà e la determinazione del legislatore di turno a reprimere il datore che non garantisce ai lavoratori condizioni sicure. Repressione che ci sta tutta, diciamolo, ma con il giudizio e la misura che sono opportuni in ogni dove (anche se il giudizio e la misura sono argomenti silenziosi, non fanno immagine, non suscitano sensazione).

La nota Inl n. 162/2023 è, diciamolo subito, assolutamente ineccepibile e contiene un principio indiscutibile che valorizzeremo più avanti: indipendentemente dalla percentuale di lavoratori trovati in nero e dalle esclusioni del caso (che poi analizzeremo), se sussistono “gravi violazioni di natura prevenzionistica” (“ivi comprese la mancanza del DVR e della nomina del RSPP”) la sospensione dell’attività va sempre adottata. Quindi anche in caso di microimprese con un  solo lavoratore, senza altri dipendenti, in assenza delle condizioni di sicurezza, si applica la sospensione.

A questo punto però, a rischio di esser pedanti, è opportuno un po’ di cronostoria (tranquilli, recente).

Cominciamo con la versione originale dell’art. 14 in questione (la norma è dell’aprile 2008, siamo nel TUSL, Testo Unico Sicurezza sul Lavoro, meglio noto come 81/2008) che prevede la sospensione dell’attività di impresa in due casi:

  • l’impiego di personale in nero in misura pari o superiore al 20% del personale presente sul luogo di lavoro;
  • reiterate violazioni in materia di sicurezza da parte del datore di lavoro.

Soffermiamoci un attimo sulla percentuale: la norma introduce una presunzione assoluta di pericolo laddove in un posto di lavoro siano presente almeno 1/5 di lavoratori senza arte nè parte (cioè non denunciati – e quindi si suppone anche privi di formazione, DPI etc.), senza contare che per una profonda connessione fra sicurezza sul lavoro e sicurezza sociale (anche questo è un tema che riprenderemo) non è che si respiri un così grande benessere in un’azienda con una parte del personale impiegato in modo pressappochistico (per usare un eufemismo). Pochi mesi più tardi (siamo nel settembre 2008) la Direttiva Sacconi in materia di ispezioni1 (priva di applicazioni normative immediate, ma importante ed illuminata norma di indirizzo) riporta in materia quanto segue (l’evidenziazione in grassetto è a nostra cura).

“Quanto alla sospensione della attività d’impresa, peraltro, sembra opportuno un richiamo sulla opportunità di adottare tale grave provvedimento, penalmente sanzionato in caso di inottemperanza con la pena dell’arresto fino a sei mesi, in maniera tale da non creare intollerabili discriminazioni, ma anche in modo da non punire esasperatamente le microimprese. In questa prospettiva la discrezionalità dell’ispettore nella adozione del provvedimento dovrà limitarsi esclusivamente alla verifica della sussistenza dei requisiti di legge e delle condizioni di effettivo rischio e pericolo in una ottica di tutela e prevenzione della salute e sicurezza dei lavoratori. (…) D’altro canto, per quanto concerne la percentuale di lavoratori “in nero”, si ritiene che nella micro-impresa trovata con un solo dipendente irregolarmente occupato non siano di regola sussistenti i requisiti essenziali di tutela di cui al Decreto legislativo n. 81 del 2008 idonei a sfociare in un provvedimento di sospensione”.

Nell’art. 14 delle microimprese non si era mai parlato, ma a questo punto qualcuno comincia a chiedersi cosa vorrà mai significare questo passaggio criptico. Che poi a leggerlo bene così criptico non è, in altre parole la direttiva dice all’ispettore: “sospendi quando ci sono fondate ragioni di sicurezza mancante, e per l’applicazione della percentuale di lavoratori in nero guarda che nella microimpresa, ove basta ci sia un solo lavoratore per sforare la soglia (si parla di lavoratori presenti) usa il discernimento e in mancanza di altri elementi la condizione di pericolosità non darla per presupposta con la rigida applicazione della percentuale”. Anche tutte le disquisizioni dell’epoca su come identificare questa misteriosa microimpresa non avevano ragione di esistere, c’è un concetto ben preciso di microimpresa nella legislazione europea: “impresa con un numero di dipendenti inferiore a 10 e il cui fatturato o totale di bilancio annuo non superi 2 milioni di euro”. Lo spirito etico e saggio, credo ormai sepolto, che animava la Direttiva Sacconi era, lo dice la direttiva stessa, ispirare le azioni di vigilanza, e di conseguenza sanzionatorie, ad un criterio sostanziale (di repressione delle reali fattispecie a rischio) e non meramente formale (dare multe e provvedimenti a raffica, sulla base di violazioni non significative e burocratiche).  Il passaggio citato della direttiva non piacque a tanti (compreso non pochi nel corpo ispettivo) cosicchè la classica manina inserì poco tempo dopo all’art. 14 un comma, l’11/bis (oggi comma 4), che svilì del tutto il significato di quanto sopra, concedendo benevolmente che “ Il provvedimento di sospensione nelle ipotesi di lavoro irregolare non si applica nel caso in cui il lavoratore irregolare risulti l’unico occupato dall’impresa”. Il che è una doppia stupidaggine: primo perché l’indirizzo ministeriale aveva uno scopo ben differente (mentre qui vi è un’interpretazione di microimpresa così fantasiosa da far invidia ai Fratelli Grimm), secondariamente perché, se il problema è la sicurezza, ben sarà meno sicuro un dipendente di un’azienda sconosciuta e non consapevole dei suoi obblighi (e che quindi non ha messo in piedi nulla in termini di sicurezza – che è poi il concetto che la nota n. 162/2023 Inl dice in buona sostanza) rispetto ad una che invece tali obblighi ben li conosce, o dovrebbe conoscerli, in quanto già applicati per altri dipendenti.

Saltando qualche passaggio storico intermedio, veniamo alle recenti modifiche intervenute nell’art. 14, ad opera dell’art. 13 del D.l. n. 146/2021, analizzandolo nell’ultima versione, secondo le quali l’Ispettorato adotta2 la sospensione:

  1. in presenza di gravi violazioni (qui è stata tolta la necessità che siano reiterate, ed è anche giusto: prevenire non vuol dire aspettare il morto e poi intervenire la seconda volta, ma magari salvare tutti prima);
  2. quando siano stati trovati lavoratori non regolarmente denunciati in misura pari o superiore al 10 per cento (non più 20) dei lavoratori, per contare i quali si fa riferimento anche ai lavoratori autonomi occasionali (vedi D); C) per il calcolo della percentuale si fa esclusivo riferimento ai lavoratori “presenti al momento dell’accesso ispettivo”; D) viene inoltre inserito l’obbligo di comunicazione preventiva dei rapporti di lavoro occasionale.

Sulla schizofrenia dell’art. 14 latest edition, a parte altre considerazioni, ci soffermeremo sui punti B-C (in stretta connessione) e D, elencati in precedenza.

Ma non prima di aver fatto una considerazione; parliamoci chiaro, il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale costituisce una forte leva deterrente in mano all’ispettore, che se trova qualcosa che non va (magari un rapporto di lavoro di cui si contesta la natura, e su cui si potrebbe discutere) con la sospensione mette in difficoltà l’azienda (pensate ad un negozio sotto Natale, ad uno Studio, in forma di STP, in periodo di scadenza, ad un’azienda con lavorazioni a ciclo continuo), molto spesso nella valutazione puramente economica se pagare a denti stretti o ricorrere, la bilancia pende sulla prima scelta perché la seconda (per tempi e rischi) sarebbe ben meno conveniente. E proprio per questo è stata tolta qualsiasi discrezionalità all’ispettore, per proteggerlo: anche di fronte alla sospensione più inverosimile, al provvedimento di minor buonsenso, egli potrà sempre nascondersi dietro alla “obbligatorietà dell’atto dovuto”.

Una società sempre più rigida sotto il profilo normativo-burocratico è tuttavia una società inumana, ingessata, incapace di discernimento vero; poi appare inutile discutere sugli eventuali inconvenienti dell’affidamento di compiti alla “non intelligente” intelligenza artificiale, se predisponiamo in modo che anche le persone si muovano in modo automatico ed irresponsabile. E in ogni caso, sia detto con tutto il rispetto e la considerazione verso gli ispettori ed il loro compito, forse a proteggerli dovrebbero esserci norme chiare ed efficaci e buona formazione, non rigidità.

Passando ai punti B-C di cui sopra, la percentuale, come visto, si è dimezzata, penalizzando ancora di più la microimpresa (che, ricordate, avrebbe dovuto essere un po’ salvaguardata).

Eh sì perché ad un’azienda sino a 10 dipendenti (prima 5) basterà avere un lavoratore “un po’ così” (anche senza essere di Genova) per incappare nella sospensione.

Pensate ad una libreria che sotto Natale utilizzi per qualche giorno un lavoratore occasionale per confezionare i pacchetti-regalo e che gli sia sfuggita la necessità di comunicazione o che, del tutto ingenuamente, abbia tenuto in nero per quelle due settimane un proprio amico o parente a dare una mano; è del tutto evidente il deturpamento delle più elementari norme di diritto e di sicurezza che porta giustamente l’infame libraio, che palesemente mette a rischio la vita dell’amico “pacchettista”, nelle fauci della sospensione. Beninteso: la maxisanzione sul lavoro nero comunque è applicabile, e ci sta tutta, perché il lavoro nero (qualsiasi lavoro in nero) semplicemente non deve esistere, ma qui stiamo parlando di un’altra cosa, di un provvedimento di sospensione dell’attività che perde qualsiasi connotato con un’esigenza di sicurezza, diventando quasi un bis in idem.

In quella percentuale vi è poi una palese seconda ingiustizia, cioè la precisazione che la percentuale si conta sui lavoratori “presenti al momento dell’accesso”: per cui la differenza (per il raggiungimento della percentuale, diventata mero automatismo bieco) la può fare anche il fatto che uno o più lavoratori siano malati quel giorno, che qualcuno sia uscito per fare una consegna, che qualcuno sia in pausa, che qualcuno sia in permesso 104 o donazione sangue !!! Non sembra anche a voi che questa aleatorietà sia tutto tranne che qualcosa di equo e ragionevole? A svantaggio di tutti, ma, ancora una volta, mettendo a rischio soprattutto l’azienda con un numero esiguo di dipendenti.

Una piccola notazione: con notevole buonsenso la circolare Inl n. 3/2021 prevede che in caso di mancanze specifiche in tema di sicurezza (es. mancata formazione, mancata fornitura dei DPI), il provvedimento di sospensione possa essere adottato solo nei confronti dei lavoratori trovati “sprovvisti” (ovviamente con diritto a retribuzione e contribuzione per il periodo di sospensione). Anche la circolare n. 162/2023 richiama l’allontanamento del lavoratore senza provvedimento formale di sospensione dell’attività.

A questo punto, la logica potrebbe essere questa: sospendere tutti i lavoratori in qualche modo interessati da gravi violazioni in materia di sicurezza che ne mettano a rischio (in vario modo) l’incolumità, senza applicazione di percentuali (di fatto superate dai successivi interventi sulla norma) che poi, come detto, non servono a molto se non a fare cassa e a rafforzare forzosamente l’azione ispettiva.

Passiamo ora al punto D ovverosia all’inserimento nell’art. 14 dei lavoratori autonomi occasionali, ove il legislatore ha superato se stesso. Cominciamo con una piccola autoaccusa: la proposta di denuncia preventiva del lavoro autonomo occasionale è partita dal nostro Centro Studi dei consulenti del lavoro milanesi3. Gli scopi e le prospettive della nostra proposta, che prevedeva anche un’assicurazione previdenziale4, sono stati colti molto molto parzialmente, ma soprattutto il legislatore e chi lo segue, oltre a valorizzare solo la parte per così dire buro-sanzionatoria della proposta, dimostrava una notevole e reiterata mancanza di coraggio. La norma veniva infatti inserita all’interno dell’art. 14 del TUSL, dove c’entra come i cavoli a merenda; non si capisce se tale inserimento sia stato dovuto alla pusillanimità del legislatore di turno (che ha riparato il nuovo adempimento dietro il solito “lo esige la sicurezza”) o ➤ se, peggio ancora, si sia voluto far passare una norma tutto sommato amministrativa come un ulteriore passo verso la sicurezza (in mancanza di altri e ben più importanti passi). L’inserimento di tale adempimento nell’art. 14, tuttavia, ne depotenziava del tutto la portata, in quanto (lo ammette la nota Inl n. 29 dell’11 gennaio 2022) in tal modo esso si riferiva solo “ai committenti che operano in qualità di imprenditori”, mentre il fenomeno del lavoro autonomo occasionale, spesso abusato, richiedeva ben altra perspicacia di intervento. Ma la timidezza dell’intervento, gli aggiustamenti delle “manine” delle lobbies e degli interessi vari non finivano lì: con la nota in questione e con due successivi interventi (Nota n. 109 del 27/01/2022 e nota n. 393 del 01/03/2022), Inl riduceva ulteriormente l’ambito di applicazione della comunicazione, dalla quale rimanevano via via esclusi: i professionisti, gli Enti del terzo settore e le ASD, gli enti pubblici non economici, le prestazioni di natura intellettuale (fra cui ITL ricomprende, ma solo a titolo esemplificativo: le traduzioni, le guide turistiche, le consulenze scientifiche, le docenze ed attività formative, i progettisti grafici etc.) che, come tutti sanno, non sono soggette ad alcuna forma di elusione degli obblighi tipici del lavoro dipendente sotto lo scudo formale del lavoro occasionale5. Ma ancor peggio, l’errore marchiano dell’inserimento di tali prestazioni fra i lavoratori dell’art. 14 è che esso è del tutto eccentrico rispetto alla struttura stessa del D.lgs. n. 81/2008, in quanto l’autentico lavoratore autonomo occasionale non è ricompreso nella definizione di lavoratore di cui all’art. 2 ed è escluso dal computo dei lavoratori di cui all’art. 4 del D. lgs. n. 81/2008 (ai sensi della lettera i) dello stesso articolo). Ad esso semmai andrebbe applicata, in quanto esecutore di contratto d’opera, la normativa di cui all’art. 26 del TUSL.

Insomma, ritorniamo alla logica, condivisibile, della nota Inl n. 162/2023: la sospensione prevista dall’art. 14 del TUSL ha lo scopo nobilissimo di preservare i lavoratori qualora non protetti da adeguati presidi di sicurezza. Volendo pertanto applicare questo concetto integralmente e a 360 gradi, la finalità non deve pertanto essere quella di collezionare sanzioni, di rafforzare come deterrente posticcio l’attività ispettiva, di massacrare la piccola impresa con percentuali che permettono in concreto di sanzionare quasi sempre solo quella. Perché poi – in fondo il vero interrogativo è questo – in tema di sicurezza, parlare solo di sanzioni e sanzioni e sanzioni davvero aumenta la cultura della sicurezza sul lavoro e la coscienza del suo valore?

E già che si siamo, parlando di microimpresa, una piccola notazione va comunque fatta anche alla nota Inl n. 162/2023, quando sostiene che la mancanza di DVR e della nomina del RSPP (che ovviamente nell’azienda senza dipendenti non verranno trovati) automaticamente determina la sospensione dell’attività. Da tempo tutti gli operatori equilibrati ammettono che la struttura complessa dell’81/2008 mal si concilia con aziende di ridottissime dimensioni, specie per attività a basso rischio. Allora se si vuole promuovere la sicurezza e non fare cassa, sarà meglio posare la mannaia e riflettere seriamente sul concetto della Direttiva ispezioni: sanzionare e reprimere violazioni sostanziali, non concentrandosi sugli aspetti meramente formali. Il che un minimo di discrezionalità e di discernimento lo richiede, dal legislatore giù giù fino all’ultimo ispettore. O continueremo ad avere – come ora – una sicurezza sulla carta e, quindi, di carta.

 

  1. Direttiva del Ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali del 18 settembre 2008.
  2. Si noti che è stata eliminata qualsiasi discrezionalità: l’ispettore oggi adotta e non, come in precedenza, può adottare la sospensione; se il legislatore forse supponeva che gli ispettori non
    avessero capacità di discernimento o non fossero in grado di prendersi responsabilità non è che
    avrebbe fatto fare loro un figurone; ma, come vedremo, lo scopo è un altro, e ben preciso.
  1.  Cfr: A. Asnaghi, “Una proposta al mese- Lavoro Autonomo Occasionale: perche non regolarlo meglio?” in Sintesi, settembre 2020, pagg. 32-34.
  2. Abbiamo detto in premessa che sicurezza sul lavoro e scurezza sociale sono due fattispecie che
    vanno a braccetto, tanto che l’insicurezza dovuta alla mancanza di tutele assicurative o la precarietà
    sono elementi che sempre più spesso sono ritenuti fonte di stress negativo nel rapporto di lavoo; anche solo sotto il profilo sicurezza, pertanto, davvero scellerato non aver colto il senso della proposta, che peraltro era esplicito (non ci voleva un Leonardo da Vinci, bastava leggere): una norma anti elusione fiscale e previdenziale.
  3. Si è prospettata così una visione  “cantieristica” del contratto d’opera, che invece, restando ormai abbastanza residuale nelle prestazioni manuali e operative, ha una sua precisa ragione di esistere soprattutto nell’ambito di quelle intellettuali (alle quali si applica anche l’art. 2222 c.c. e che condividono con le manuali lo stesso trattamento fiscale e la stessa insipienza dal punto di vista assicurativo-previdenziale.

 

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Senza filtro – L’UOMO SEDUTO sulla riva del fiume

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

In paese l’aria era insolitamente elettrica.

Il Governo aveva annunciato la predisposizione di un disegno di legge che avrebbe fissato a 9 euro orari il salario minimo.

Quella sera al Bar de la Cadrèga, storico locale del centro, pareva si fossero dati appuntamento in molti. Dai due habitué del bianco corretto si era ben presto arrivati ad un gruppo di una quindicina di persone sedute attorno a quattro tavolini che gli avventori avevano via via avvicinato.

Come sempre c’erano gli entusiasti a prescindere e quelli contrari per partito preso. Ma questo, si sa, accade in tutte le classiche discussioni da bar, quelle dove non può mancare chi afferma di saperne più di tutti, che poi non è detto che non ne sappia veramente più di tutti.

Peccato che nel mare magnum del “voi non capite un cavolo” era difficile distinguerlo.

 

FAUSTINA, LA SINDACALISTA

La Faustina manco a dirlo era la più entusiasta. Dopo mille battaglie passate nel Sindacato fra qualche mese, finalmente, avrebbe visto emanato l’atteso provvedimento che avrebbe dato dignità al lavoro. Finalmente i padroni, gli schiavisti, avrebbero pagato il giusto ai lavoratori, che con lo stipendio da fame mica potevano tirare avanti ancora per molto, soprattutto dopo la crisi pandemica e quella energetica causata dalla guerra ancora in corso.

 

LUIGI, L’ARTIGIANO

Il Luigi era invece preoccupato. Il suo crescente nervosismo era scandito dal tamburellare di indice e medio sul tavolo.

Era da qualche anno divenuto titolare di una piccola impresa di pulizia ereditata dalla madre scomparsa all’improvviso. Aveva già le sue belle preoccupazioni di tener in piedi la ditta, occuparsi della contabilità, dei preventivi, di incassare le fatture e pure di gestire quell’unico operaio che, padre di famiglia, non si era proprio sentito di lasciare a casa.

Poco ma sicuro che in questo marasma lui non si sentiva di certo uno sfruttatore.

Spiegava che aveva fatto due calcoli con il suo commercialista e l’adeguamento ai 9 euro lordi previsto dallo Schema di decreto gli sarebbe costato 3 euro in più all’ora. Maledizione, già faceva fatica ad applicare ogni anno gli aumenti Istat di qualche punto decimale, chissà come avrebbero ora reagito le sue aziende di fronte ad un aumento di oltre il quindi per cento.

 

SANDRA, LA MANAGER

La Sandra lo aveva guardato con un sorriso tristemente accondiscendente.

Lei era la manager di un’azienda un po’ più strutturata, una sessantina o poco più di lavoratori. Pure lei non era affatto tranquilla. I calcoli se li era fatti da sola. L’aumento previsto per legge avrebbe riguardato per il momento solo i dipendenti inquadrati agli ultimi due livelli della scala contrattuale. Sette lavoratori nel suo caso.

Purtroppo, questa cosa avrebbe, presto o tardi, causato un effetto domino su tutti i dipendenti. Il rinnovo contrattuale, ormai imminente, avrebbe rideterminato le retribuzioni anche dei livelli superiori. Conosceva bene il meccanismo: le parti sociali, una volta individuata e fatta 100 la nuova retribuzione del livello di riferimento, avrebbero calcolato gli altri minimi sulla base di una scala di riferimento – i cosiddetti parametri – così da mantenere proporzionalmente invariata la differenza retributiva tra un livello ed un altro. Con il vincolo dell’ultimo livello a 9 euro l’ora. Del resto, l’articolo 36 della Costituzione non lascia via di fuga: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro …” e se uno svolge una mansione “qualitativamente” superiore a quella di un lavoratore inquadrato in un livello inferiore, mica si può accettare passivamente che il suo lavoro risulti costituzionalmente sottopagato.

GIANCARLO, L’OPERAIO

Il Giancarlo, operaio qualificato in una piccola realtà artigianale, invece stava già affilando le armi. Il livore era evidente.

In dieci anni non aveva mai avuto il meritato aumento, periodicamente richiesto e sempre “cortesemente” negato, e dal provvedimento del Governo non avrebbe tratto alcun beneficio. Giancarlo i 9 euro all’ora li superava di già, sebbene di poco. Eh no, assolutamente no. Non avrebbe mai accettato che lui, da sempre operaio di 4° livello, che prima prendeva un euro abbondante in più del suo collega di 5° livello, prendesse in pratica lo stesso stipendio di un operaio generico.

Stavolta il suo capo non avrebbe potuto dire di no alle sue legittime pretese di aumento. Se trova i soldi per pagare uno che manco sa stringere un bullone a maggior ragione li dovrà trovare per chi sa quali sono i bulloni giusti da stringere.

Così almeno sperava in cuor suo.

 

GINO DE LUCA, IL SINDACO

Il sindìc De Luca (no, nessuna parentela illustre) era al suo secondo mandato consecutivo. Il suo comune era stato tra i più floridi della provincia fino a qualche anno prima. Poi la crisi dell’unica grande azienda che di fatto dava lavoro, an che come indotto, ad una gran parte dei suoi concittadini aveva creato una certa apprensione. I proprietari stranieri parlavano sempre più apertamente di delocalizzazione. Troppo alto e non più sostenibile il costo del personale dipendente in Italia.

E ci mancava solo il nuovo Governo che, anziché ridurre il costo del lavoro, aveva sposato l’indicazione comunitaria del salario minimo. Al fine di migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’unione, recita la direttiva europea.

Già, diteglielo alle 724 persone, e rispettive famiglie, che fra qualche mese avranno perso il proprio lavoro e vivranno di pane e ammortizzatori sociali.

 

DON CASIMIRO, IL PARROCO

Don Casimiro era un ottimista di natura. La sua parrocchia pullulava di persone perbene. Il concetto di solidarietà cristiana, poi, era molto radicato nella comunità. Grazie ai tanti volontari era pure riuscito a creare una piccola mensa per i poveri, per lo più extracomunitari.

Certo, sapeva bene che l’aumento del costo di uno dei fattori della produzione, nella fattispecie quello del personale, avrebbe creato un meccanismo inflattivo e quindi un aumento generalizzato dei prezzi al consumo. Ma pareva non preoccuparsene più di tanto. La sua inscalfibile fede lo sorreggeva in ogni istante della sua esistenza. Dio vede e provvede. E se il Padre fosse stato impegnato in cose più urgenti, sapeva che i suoi parrocchiani, grazie ai soldi in più del salario minimo, non avrebbero fatto mancare il loro prezioso aiuto.

 

LUDOVICO, IL PENSIONATO

Il Ludovico era un pensionato di vecchia data e come tutti i pensionati tirava a stento campare. Si augurava solo di arrivare a fine mese senza un nuovo imprevisto: la recente rottura del semiasse del suo vecchio Pandino lo aveva già messo in croce. A ottant’anni appena compiuti nessuno doveva spiegargli nulla. Sapeva bene che in una situazione di aumento dei prezzi c’è sempre qualcuno che se ne approfitta.

E lui, con la pensione che percepiva, mica poteva permettersi un aumento della spesa mensile, anche fosse solo di una qualche decina di euro. E l’idea di passare da volontario alla mensa dei poveri di don Casimiro ad esserne il prossimo fruitore non lo faceva dormire la notte.

 

MARISTELLA, LA MILITANTE

La Mary era una che leggeva tanto e seguiva tutti i vari talk show politici.

Si interessava con ardore di questioni economiche e da brava militante si arrovellava a elabora- re tesi ed a cercare dati a sostegno delle posizioni del suo partito.

A chi le chiedeva come fosse possibile che qualcuno avesse pensato di aumentare il netto in busta dei lavoratori caricando sul datore di lavoro l’ennesimo balzello, lei rispondeva che bastava guardare alle positive esperienze fatte nel mondo in tal senso.

Lei peraltro era per interventi ancora più radicali. Sosteneva che il prossimo passo doveva essere la riduzione dell’orario di lavoro mantenendo la parità di stipendio. La settimana corta, quattro giorni di lavoro, diceva che non avrebbe inciso sulla produttività  dei dipendenti, anzi sarebbe    pure migliorata. E a chi bollava tutto questo come l’ennesima boutade, inapplicabile a molte mansioni, in primis agli addetti alla catena di montaggio, lei replicava sempre allo stesso modo: «Basta guardare a ciò che succede nel resto del mondo».
E se poi qualcuno si azzardava a dire che son tutti bravi a fare della “beneficenza elettorale” con il denaro degli altri, rispondeva stizzita che fino ad oggi la beneficenza l’han fatta gli operai alle aziende. E a chi bollava tutto questo come l’ennesima boutade, inapplicabile a molte mansioni, in primis agli addetti alla catena di montaggio, lei replicava sempre allo stesso modo: «Basta guardare a ciò che succede nel resto del mondo».  

OSCAR, IL CONSULENTE

Oscar è un Consulente del lavoro, attento giuslavorista e acuto osservatore.

Se ne stava zitto in un tavolo vicino ad ascoltare. Non ne voleva sapere di entrare nella discussione politica. La cosa lo annoiava o, meglio, lo infastidiva. Desiderava solo gustarsi in santa pace il suo Spritz.

Del resto a lui preoccupavano di più gli aspetti tecnici del salario minimo. Ragionamenti che, per gli ovvi limiti dei suoi interlocutori, aveva scelto di tenersi per sè.

Fin dalla prima proposta sul salario minimo aveva pensato all’attuale sistema retributivo che si basa sulla distinzione tra lavoratori retribuiti a ore e lavoratori mensilizzati. E aveva impiegato meno di mezzo nanosecondo per capire che ci sarebbero stati dei problemi. Dei seri problemi. Del resto, lui era solito ragionare dati alla mano, guardando la realtà. Esattamente il contrario di quello che fanno i politici quando pensano ai loro provvedimenti.

Aveva quindi preso in mano il calendario del 2023. Nel mese di febbraio aveva contato 28 giorni, 4 settimane giuste giuste.

Ragionando sulla cosa pensò: «Ecco, avessimo un lavoratore pagato ad ore, che lavora dal lunedì al venerdì e che ha un orario settimanale di 40 ore, per lui sarebbero 160 ore di lavoro. Se bisogna garantirgli 9 euro lordi all’ora la sua paga in quel mese sarà di 1.440 euro».

Girò la pagina con il mese di marzo: «Quanti sono i giorni lavorabili? 23. Se consideriamo 8 ore al giorno fanno 184 ore lavorate. Il suo stipendio in questo mese sale a 1.656 euro».

Tutto questo non faceva una piega: se uno lavora di piu’, e’  giusto che prenda di piu’.

Il problema – pensò – nasce però per i mensilizzati che, come tutti sappiamo (tranne chi legifera di salario minimo), ricevono sempre la stessa paga. Il Ccnl prevede 1.500 euro? Il lavoratore prenderà 1.500 sia a febbraio che a marzo, anche se a marzo avrà lavorato ben 24 ore in più.

«Lo so» – disse tra sé e sé – «non ha alcun senso logico, ma questa è un’altra storia».

Ora è chiaro che se si deve ragionare in termini giuridici di salario minimo orario per un di- pendente mensilizzato non si può non considerare questo fatto: il diverso metodo di paga adottato per lui.

La conseguenza è che la retribuzione mensile di fatto – da riparametrare come detto all’importo del salario minimo di 9 euro stabilito per ogni ora di lavoro – dovrebbe partire da quei mesi in cui l’orario di lavoro è il maggiore possibile. E abbiamo visto che a marzo 2023 raggiungeremo addirittura le 184 ore di presenza.

Se quindi dobbiamo rispettare i 9 euro orari per chi ne fa 184 ore, lo stipendio dovrebbe essere di ben 1.656 euro, uguale a quello del suo collega pagato a ore.

Il problema è che se lo stipendio del mensilizzato fosse previsto da contratto in 1.656 euro per tutti i dodici mesi ci troveremmo a pagare anche febbraio questo importo. Considerando le 24 ore lavorative in meno di febbraio rispetto a marzo, parliamo di 216 euro oltre il salario minimo.

E questa cosa accadrebbe anche in altri mesi, sia in quelli in cui si lavora 160 ore (aprile) che an- che per i mesi in cui se ne lavora 168 (ad esempio dicembre) o 176 (vedi ottobre). Una soluzione che comporterebbe un aumento retributivo, su base annua, solo per i lavoratori pagati a mese – discriminando quindi i salariati orari inquadrati nello stesso livello – cosa che andrebbe oltre lo spirito della norma che invece mira ad un aumento della retribuzione su base oraria per tutti coloro che sono nella medesima situazione.

Andrebbe quindi trovata una diversa soluzione tecnica che vada oltre, riscrivendole, le modalità operative fin qui utilizzate in sede contrattuale di determinazione dei minimi mensili ed orari. Impensabile, infatti, proseguire con quel meccanismo che di fatto vorrebbe garantire – seppur  su base annuale (questo il limite) – il diritto alla medesima paga a lavoratori pagati ad ore e ai mensilizzati dello stesso livello ovvero calcolare lo stipendio mensile di questi ultimi partendo dai 9 euro orari, moltiplicarli per le 40 ore setti- manali, poi ancora per 52 settimane dell’anno e dividendo infine per 12 mesi.

Questo perché così si continuerebbe a riconoscere al mensilizzato uno stipendio mensile riferito a 173,33 ore medie (2080 ore annuali diviso 12 mesi) che comporterebbe che in alcuni mesi dell’anno (quelli che prevedono 176 o 184 ore lavorabili) non si rispetterebbe il minimo di 9 euro all’ora. E nulla varrebbe l’obiezione che, lavorando tutto l’anno, operai e impiegati godrebbero della medesima retribuzione. Il salario minimo individuato per legge è per definizione orario, non sono previste compensazioni su quanto percepito nei successivi mesi. Anche perché non è affatto detto che uno abbia il tempo – parliamo di licenziati in corso d’anno – di goderne.

Oscar, da bravo consulente “sul campo”, aveva valutato una possibile soluzione. Già, perché un’alternativa ci sarebbe pure, anche se forse de- finirla tale è un poco esagerato. La classica soluzione sulla pelle delle aziende e dei loro consulenti. Di quelle che peraltro vanno a cozzare contro la tanto sbandierata semplificazione.

In pratica, pensava, si potrebbe lasciare tutte le attuali retribuzioni come sono, anche quelle mensili sotto il limite virtuale dei 9 euro orari, e imporre per legge un adeguamento nel corpo del cedolino paga: tutto ciò che si colloca sotto il salario minimo lo si integra mensilmente con un emolumento economico ad hoc.

Ma anche qui i problemi non mancano. Applicando infatti questa regola a lavoratori pagati a mese ed assunti (o licenziati) in corso mese, il conteggio non è semplice se si considerano le attuali regole di determinazione della paga oraria secondo un divisore convenzionale, peraltro diverso da Ccnl a Ccnl. E altre difficoltà per i lavoratori assenti parzialmente nel mese (per malattia, donazione sangue, permessi legge 104) situazioni per le quali bisognerebbe peraltro rivedere le regole di calcolo delle quote a carico Inps, Inail e datore di lavoro. Senza contare che la busta paga diventerebbe praticamente illeggibile. Come se non lo fosse già abbastanza. E poi ci sarebbero i calcoli da fare per adeguare le mensilità aggiuntive, tredicesima e quattordicesima, dei mensilizzati.

Ma il problema è ancora più complesso perché c’è un ulteriore aspetto operativo da tenere in giusta considerazione.

Per i lavoratori pagati a ore infatti l’adeguamento ai 9 euro cosa è abbastanza semplice: di fatto si devono integrare le 2080 ore lavorabili annue erogando la differenza tra le attuali paghe sotto i 9 euro ed il salario minimo. Tutti i mesi andremmo a calcolare l’integrazione sulla base delle ore lavo- rate o, meglio, di quelle teoricamente retribuibili. Cosa non particolarmente difficile perché comunque si ragiona sulle ore lavorabili in ciascun mese. Per i mensilizzati la questione è invece più complicata perché non è detto che l’integrazione debba esser corrisposta in ciascun mese. Potrebbe infatti risultare che la retribuzione corrente sia, in base alle ore lavorabili in un dato mese, conforme al salario minimo orario. Per esempio una paga mensilizzata di 1.550 sarebbe più che adeguata nei mesi che prevedono 160 ore lavorabili. In questo caso il lavoratore percepirebbe quasi 9,69 euro all’ora, in pratica 110 euro in più al mese rispetto al teorico garantito di 9 euro per le 160 ore.

Ed anche nei mesi con 168 ore lavorabili avremmo una differenza positiva. La paga media scende a circa 9,23 euro ma parliamo pur sempre di altri 38 euro, che non saranno molti ma sono sempre soldi che un lavoratore ad ore non vedrà mai.

A marzo, a maggio e ad agosto invece le ore lavorabili sono 184 che, corrispondo a poco più di 8,42 euro orarie. Se devono essere pagate a 9 euro l’una, portano il dovuto a 1.656 euro. In questo caso spetterebbero 106 euro di integrazione mensile.

Non ci vuole un genio della matematica per capire che integrare le sole mensilità dove il conteggio offre un saldo a favore del lavoratore e lasciare invariato lo stipendio quando esso risulta superiore al salario minimo (procedere con dei recuperi in ciascuno di tali mesi sarebbe al- quanto macchinoso) comporta che il mensilizzato in un intero anno arriverebbe a prendere più di quello che percepisce un lavoratore dello stesso livello ma pagato a ore.

Ovvio che tutto ciò confliggerebbe con l’attuale sistema che vorrebbe che il lavoratore pagato a ore e quello pagato a mese, ove inquadrati nel medesimo livello, ricevano l’identica paga su base annua. Un sistema ad ogni modo iniquo nei confronti dei lavoratori mensilizzati che prestano l’attività in un mese piuttosto che in un altro. Ma questa, lo si sa, è un’altra storia.

 

ALBERTO, IL CANTASTORIE

Alberto, sforzandoci un po’, lo potremmo defi- nire un pubblicista. Si dice in giro che scrive per passione, in verità lo fa per assecondare il proprio spirito polemico.

Concentra per lo più i suoi commenti su quelle norme e circolari che considera strampalate. Praticamente sempre.

A volte raccoglie opinioni e sentimenti.

E oggi ha ascoltato i nostri amici. La Faustina e il Luigi, la Sandra e il Giancarlo, il sindaco De Luca e Don Casimiro, il Ludovico e pure la Mariastella. E infine lui, Oscar, il Consulente del lavoro. Di queste donne e di questi uomini ci ha raccontato uno spaccato di vita reale, le loro speranze e le loro preoccupazioni.

Non aggiungerà nessun personale commento ai discorsi che avete ascoltato.

Se ne resterà in disparte a riflettere, ad osservare gli effetti che avrà questa ennesima battaglia ideologica.

Rimarrà, come si dice, seduto lungo la riva del fiume ad aspettare che, prima o poi, passi … no, per carità, nessun cadavere di qualche nemico, come si augurava Confucio.

Attenderà semplicemente gli eventi, combattuto tra la soddisfazione di poter dire e la tristezza di dover ricordare: «E sì che io ve lo avevo detto!».

 

 

 

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TRASPARENZA E DIRITTI DELLA DIRETTIVA EUROPEA 2019/1152: distonie non solo italiane*

Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in  Paderno Dugnano (Mi)

 

Il D.lgs. n. 104/2022 è stato oggetto, del tutto legittimamente e giustificatamente, di numerose critiche in ordine a diversi aspetti dell’applicazione della Direttiva UE 2019/1152: non sono state criticate solo le tempistiche e le modalità di formazione del decreto (che ha visto lo scarso coinvolgimento di parti importanti del mondo del lavoro, quali i professionisti) ma anche alcune prese di posizione estremamente burocratiche e vessatorie prese dal legislatore italiano, non richieste dalla Direttiva ed in qualche caso anche in contraddizione con essa. Di questo si è parlato e si parlerà ampliamente, ma forse uno sguardo su qualche sbavatura (a parere di chi scrive) nella Direttiva stessa ha influito sull’applicazione italiana e influirà nel futuro su tutto il territorio dell’Unione. Faremo alcuni esempi di seguito di alcune dissonanze notate nel testo europeo, ma è prima opportuno fare due premesse. La prima è che non può che essere salutata favorevolmente una norma che persegua principi di trasparenza, informazione e maggiori condizioni di tutela nei rapporti di lavoro. Opportunamente il Considerando n. 48 (bellamente disatteso dal legislatore italiano) ha previsto un carico burocratico maggiore ed ha quindi cercato di porvi un freno prevedendo che “gli Stati membri dovrebbero evitare di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di micro, piccole e medie imprese. Gli Stati membri sono pertanto invitati a valutare l’impatto dei rispettivi atti di recepimento sulle piccole e medie imprese per accertarsi che non siano colpite in modo sproporzionato”. Tutto molto giusto, però è arduo comprendere perchè questa prerogativa sia riservata solo alle PMI, per quanto sicuramente meritevoli di un’attenzione preferenziale, e non a tutte le imprese in generale. Appesantire il lavoro con “lacci e lacciuoli” spesso inutili (pensiamo a certi rapporti annuali obbligatori, tanto per fare un esempio) fa male a tutti, ma proprio a tutti, e non contribuisce a creare una cultura positiva del lavoro e dell’apprezzamento delle giuste tutele ad esso riservate.

La seconda premessa è che la Direttiva in questione pare mossa, lo dichiara la Direttiva stessa (vedi Considerando n. 2 e 4, solo per citarne alcuni), dalla preoccupazione verso una maggior tutela delle forme di lavoro più flessibili e precarie o atipiche. Tale presupposto, tuttavia, pare far dimenticare alcuni principi fondamentali comuni del rapporto di lavoro, creando in qualche caso un effetto di “squilibrio di ritorno”: in altre parole, la Direttiva cercando di incidere su alcuni aspetti, anche comprensibilmente, in qualche passaggio non si muove in una prospettiva ecologica (o sistemica) e ciò che protegge da una parte rischia di trascurare dall’altra. Se si identificano norme che hanno come obiettivo, rider, lavoratori a chiamata o precari, forse è utile non dimenticare che esistono anche (sono la stragrande maggioranza) rapporti di lavoro normali a cui applicare condizioni di lavoro “non sospettose”.

Ciò premesso, procediamo all’analisi di qualche criticità.

Sicuramente, balza all’occhio un passaggio del Considerando n. 8.

“I lavoratori effettivamente autonomi non dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente direttiva, in quanto non soddisfano tali criteri. L’abuso della qualifica di lavoratore autonomo, quale definito dal diritto nazionale, a livello nazionale o nelle situazioni transfrontaliere, costituisce una forma di lavoro falsamente dichiarato che è spesso associata al lavoro non dichiarato. Il falso lavoro autonomo ricorre quando il lavoratore, al fine di evitare taluni obblighi giuridici o fiscali, è formalmente dichiarato come lavoratore autonomo pur soddisfacendo tutti i criteri che caratterizzano un rapporto di lavoro. Tali persone dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente direttiva. a. È opportuno che la determinazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro si fondi sui fatti correlati all’effettiva prestazione di lavoro e non basarsi sul modo in cui le parti descrivono il rapporto”.

Salvato un poco (ma solo un poco) dall’ultimo periodo, il concetto che ci si presenta è piuttosto strano, che potremmo riassumere con un sillogismo: i lavoratori dipendenti, a differenza degli autonomi, hanno diritto all’informazione; esistono falsi lavoratori autonomi, che in realtà sono lavoratori dipendenti camuffati; anche questi lavoratori hanno diritto all’informazione.

A parte che è poco comprensibile comprendere perché lavoratori realmente autonomi (penso agli agenti e rappresentanti, ma è solo un esempio fra i tanti) non avrebbero diritto ad un’apprezzabile trasparenza, ma se proprio volessimo incidere sul mercato del lavoro, dovremmo prevedere non tanto che ai “falsi autonomi” vada fornita un’informazione completa, ma, piuttosto, che essi abbiano diritto ad un inquadramento contrattuale corrispondente alla propria prestazione, risolvendo così in radice il problema. Si noti ad esempio che la trasposizione di questa ambiguità comporta, nell’applicazione italiana a cura del D.lgs. n. 104/22, l’obbligo di informativa anche per i co.co.co. (che autonomi sono e restano, e ai quali di fatto la maggior parte delle informazioni previste dalla norma non riguardano). Forse è il caso di uscire dai sospetti e dalle ibridazioni e di tracciare una linea definita fra autonomia e subordinazione, una volta per tutte, in Italia ed in Europa. Passando ad altri esempi, l’articolo 8 della Direttiva disciplina il periodo di prova e precisamente stabilisce al comma 2.

“Nel caso di rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri provvedono affinché la durata di tale periodo di prova sia proporzionale alla durata prevista del contratto e alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto per la stessa funzione e gli stessi compiti, il rapporto di lavoro non è soggetto a un nuovo periodo di prova.” Nulla quaestio sulla necessaria indeterminatezza del termine “proporzionale” (che però forse potrebbe avere avuto una consistenza meno descrittiva), sennonché esso pare lasciato completamente al buon senso del legislatore statale (nel caso italiano,

carente) o alla determinazione delle parti sociali (nel caso italiano, non considerate sull’argomento), con tutti i risvolti possibili in termini di contenzioso.

Ma altrettanto pare strano non dare alcun limite temporale al termine “rinnovo”. Se ho assunto dieci anni fa per un lavoro una persona e oggi la richiamo, è legittimo voler verificare se sia la stessa di allora (e di converso, anche la persona non potrebbe voler verificare che l’azienda sia la stessa?). Sono limiti che si vedono anche nella normativa italiana sul tempo determinato. È che quando si concretizza una norma, sarebbe opportuno pensare a tutte (o almeno alla maggior parte del)le possibili conseguenze ed applicazioni sul lato pratico. Uguali discrasie si trovano nell’articolo 9 sull’impiego in parallelo.

“Gli Stati membri provvedono affinché il datore di lavoro non vieti a un lavoratore di accettare impieghi presso altri datori di lavoro al di fuori della programmazione del lavoro stabilita con il primo né gli riservi un trattamento sfavorevole sulla base di tale motivo.

2. Gli Stati membri possono stabilire condizioni per il ricorso a restrizioni di incompatibilità da parte dei datori di lavoro sulla base di motivi oggettivi quali la salute e la sicurezza, la protezione della riservatezza degli affari, l’integrità del servizio pubblico e la prevenzione dei conflitti di interessi.”

Una domanda: è un diritto disponibile o no? E, soprattutto, è un diritto in qualche modo economicamente compensabile?

Ad esempio, se offro ad un lavoratore, magari strategico, condizioni economiche ottimali, perché non posso prevedere che la sua attività lavorativa sia dedicata completamente alla mia azienda?

Ed anche in caso di lavoro part-time, se chiedo una disponibilità o una flessibilità, perché non posso garantirmi la stessa (senza intoppi di altri impegni di lavoro), con un’equa compensazione economica (senza andare lontano, è quello che succede in certi contratti della GDO con le cassiere part-time sottoposte a turni alternati).

È assurdo che non sia stata prevista una compensazione economica equa che permetta al datore di lavoro di stare tranquillo ed al lavoratore di conseguire una retribuzione giusta. La norma in questione invece, pare giustificare, quasi istigare, ai lavoretti, ai secondi lavori etc. etc. a cui anzi il lavoratore avrebbe “diritto” (salvo poi, come vedremo dopo, agognare e acquisire diritti a lavori più stabili, quasi un controsenso).

E ancora: cosa è posto in carico al datore di lavoro in termini di controllo sul rispetto di pause e riposi per altrui attività, magari autonome? Non sarebbe compito dello Stato vigilare in tal senso? Il nostro Ispettorato del lavoro pensa di no: se due datori di lavoro part-time, magari uno all’insaputa dell’altro, sforano nella sommatoria il limite settimanale di ore di lavoro sarebbero entrambi sanzionabili: si sfiora l’assurdo se si cerca di conciliare questa posizione, peraltro paradossale di per sé, con la norma appena commentata.

Altrettanto discutibile è l’art. 12, sulla transizione ad un’altra forma di lavoro.

“1. Gli Stati membri provvedono affinché un lavoratore con almeno sei mesi di servizio presso lo stesso datore di lavoro, che abbia completato l’eventuale periodo di prova, possa chiedere una forma di lavoro con condizioni di lavoro più prevedibili e sicure, se disponibile, e riceva una risposta scritta motivata. Gli Stati membri possono limitare la frequenza delle richieste che fanno scattare l’obbligo di cui al presente articolo.”

Dietro l’apparente equità e attenzione sociale, cosa manca, evidentemente, a questa norma? Qualsiasi riferimento alle mansioni esercitate in precedenza o ad altre almeno analoghe. Per come è scritta, un lavoratore che magari possegga i requisiti, può lavorare sei mesi ed un giorno come addetto alle pulizie part-time e poi avanzare la richiesta per il posto, resosi vacante, di … direttore generale.

Comprendiamo quali e quante situazioni paradossali potrebbero nascondersi dietro la mancanza (del tutto irragionevole) di qualsiasi limite in proposito?

Beninteso, non si vuole inserire nessun vincolo agli ascensori sociali, però pare logico e ragionevole che un’azienda che prova un lavoratore in una mansione non dovrebbe essere tenuta ad altri obblighi se non nei limiti di ciò che ha conosciuto per quella mansione o (al limite) per altre corrispondenti.

Infine, l’art. 18, che si preoccupa di proteggere il lavoratore che avanzi i suoi diritti nell’ambito della presente legge. Così i commi 2, 3 e 4.

“2. I lavoratori che ritengono di essere stati licenziati, o soggetti a misure con effetto equivalente, per il fatto di aver esercitato i diritti previsti dalla presente direttiva possono chiedere al datore di lavoro di fornire i motivi debitamente giustificati del licenziamento o delle misure equivalenti. Il datore di lavoro fornisce tali motivi per iscritto.

3. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, quando i lavoratori

di cui al paragrafo 2 presentano, dinanzi a un organo giurisdizionale o a un’altra autorità od organo competente, fatti in base ai quali si può presumere che vi siano stati tale licenziamento o tali misure equivalenti, incomba al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento è stato basato su motivi diversi da quelli di cui al paragrafo 1.

  1. Il paragrafo 3 non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole ai lavoratori”.

Fino al comma 3 potremmo esser d’accordo. Tuttavia, il comma 4, cioè la possibilità di inversione completa di onere della prova (guarda caso, subito applicata dal legislatore italiota) è un principio giuridico da maneggiare con estrema cautela. Se vi sono, lo prevede la Direttiva (ma qui in Italia si è andati verso la sanzione e la condanna aprioristica), possibilità di difesa dei propri diritti ricorrendo in prima battuta agli organi di vigilanza, non sarebbe stato meglio imporre una via conciliativa?

Sappiamo tutti che esistono datori buoni e datori non buoni (così come esistono lavoratori sfruttati e lavoratori furbetti): allora per evitare, da una parte o dall’altra, gli “espedienti”, perchè non immaginare come via preferenziale, anzi direi proprio come strada maestra da seguire, procedure preventive obbligatorie di accomodamento (dopo le quali, allora sì che ogni parte in causa si prende le proprie responsabilità)?

Quelli che precedono sono solo alcuni esempi di disorganicità, ad avviso di chi scrive, della normativa europea in commento, che poi nelle mani di alcuni Stati membri avrebbe potuto prevedibilmente essere peggiorata o interpretata nel modo più deteriore. E in questo purtroppo, in Italia sembriamo non essere secondi a nessuno.

 

 

 

* Pubblicato anche su Lavoro Diritti Europa, n. 3/2022.

 

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Una proposta al mese – 2999 PIÙ UNO: no, semplifichiamo

di Manuela Baltolu, Consulente del lavoro in Sassari e Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi) 

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

DUE RIFLESSIONI PRELIMINARI
Ci sono cose di cui non si sente minimamente il bisogno: una gomma bucata,
un’auto che ti schizza passando sopra una pozzanghera, l’ombrello che si inceppa nel bel mezzo di un acquazzone, la visita di un parente noioso, l’influenza a ridosso di una vacanza.
Fra di esse c’è anche un conguaglio dicembrino che si prospetta  articolarmente oneroso e complicato, come vedremo. Infatti, in seguito all’innalzamento della soglia di esenzione fiscale e previdenziale a 3.000 euro dei fringe benefit introdotta dal c. 10, art. 3 del D.l. n. 176/2022, chi già ha percepito durante tutto l’anno retribuzioni in natura (oltre i 258,23 euro fino al 9 agosto 2022, ovvero oltre 600 euro dal 10 agosto 2022 in poi per effetto dell’art. 12, D.l. n. 115/2022) e, come previsto dal c. 3, art. 51 del TUIR ha subito le prescritte trattenute previdenziali e fiscali, ora, in virtù  dell’ulteriore modifica del limite imponibile, qualora tali importi in natura non sforino l’importo di 3.000 euro avrà diritto al recupero di tutte le ritenute subite in seguito al ricalcolo del conguaglio previdenziale e fiscale cui il datore di lavoro è tenuto.
Ciò avverrà con tutte le criticità del caso, ovvero difficoltà di reperimento degli importi eventualmente percepiti in altri rapporti di lavoro, nonché gestione delle situazioni relative a rapporti di lavoro cessati prima dell’entrata in vigore del nuovo limite, per i quali si paventa l’obbligo di emissione di un cedolino
aggiuntivo con il solo conguaglio.
Fiscalmente parlando, anche la dichiarazione dei redditi potrebbe venire in aiuto degli addetti ai lavori, consentendo il conguaglio definitivo in quella sede.
Ma è la parte previdenziale che appare particolarmente complessa da gestire, poiché dover inserire nel libro unico del lavoro (LUL) un imponibile  contributivo a credito per un importo fino a 3.000 euro potrebbe comportare non solo l’azzeramento dell’imponibile del mese, ma anche, in qualche caso,
trasformarlo con segno negativo qualora fosse di importo inferiore all’imponibile del fringe benefit, condizione questa che renderebbe impossibile la trasmissione del flusso uniemens.
L’eventuale importo negativo potrebbe inoltre “trascinarsi” in periodi successivi, ad esempio nel caso di riduzione dell’imponibile previdenziale per trasformazione di contratto da full-time a part-time e situazioni similari.
Ci giunge notizia che l’Inps sta approntando una circolare con la quale comunicherà l’introduzione di un meccanismo che dovrebbe consentire comunque l’invio dei flussi, probabilmente creando un apposito codice con cui indicare l’importo a credito, ma resta da vedere come potranno essere gestite le casistiche in cui il credito non venga esaurito in un’unica mensilità.
L’alternativa può essere una sola purtroppo, ovvero la procedura di  regolarizzazione Vig, che comunque creerebbe il solito disallineamento
tra il momento dell’effettiva erogazione del rimborso delle somme a credito ai lavoratori da parte del datore di lavoro e il recupero delle stesse, oltre che moltiplicare gli adempimenti per aziende e addetti ai lavori che, nel 2022, hanno visto forse l’anno peggiore per quanto riguarda recuperi di ogni genere (vedi esonero contributivo per i lavoratori nonché quello specifico per lavoratrici madri), erogazioni di indennità una tantum moltiplicate per  due/tre  periodi a seconda dei casi, ad esempio per imponibili contributivi  azzerati in seguito ad eventi con copertura previdenziale figurativa, nonché per i lavoratori “sbadati” che non avessero consegnato la dichiarazione nei  termini, oltre a variazione di flussi già trasmessi, nonché recuperi di alcune tipologie di sgravi contributivi sostituite da altre tipologie, e quant’altro accaduto nell’anno che sta per lasciarci. Insomma, diciamocelo, variare un limite di esenzione sul rushfinale dell’anno non è stata proprio un’ideona in termini gestionali, fermo restando l’evidente vantaggio economico per lavoratori e imprese.
Sono tutte cose che sarebbe stato decisamente meglio non fare: snaturare il welfare,dare agevolazioni fisco-contributive a pioggia, raggiungendo spesso anche chi non ne aveva assoluto bisogno (che capiremmo se nuotassimo nell’oro, ma siccome le risorse sono limitate …).
Il rischio aggiuntivo che si corre è proprio quello di banalizzare la finalità  sociale del welfare aziendale che rappresenta l’elemento che giustifica la tassazione agevolata attualmente in essere per imprese e lavoratori. Una quota così elevata di fringe benefit formalizzata a poco più di un mese dalla fine dell’anno rischia infatti di scoraggiare la costruzione dei piani di welfare“puro”, ovvero incentrato sui reali bisogni sociali dei propri  collaboratori, poiché è molto più semplice e veloce erogare, ad esempio, buoni acquisto o carburante, con un impegno minimo dal punto di vista organizzativo e amministrativo. Senza contare l’assoluta discrezionalità del datore riguardo ai soggetti a cui destinare tali benefit. Ma siccome tutto questo purtroppo ci capita, un po’ ne parliamo ma poi proattivamente proponiamo. Anche perché speriamo, magari, che non ci capiti più.

LA NOSTRA PROPOSTA
Note esplicative preliminari alle modifiche proposte.
L’art. 51 cambia, rispetto all’attuale, in tre punti essenziali, relativi al terzo periodo del comma e all’aggiunta di un quarto periodo, restando invariata la modalità generale di determinazione del valore normale dei beni o delle prestazioni in natura come stabilita dai primi due periodi.
Si introduce un mero aumento del valore, prima fissato a 258,23 euro (le vecchie 500.000 lire), che viene elevato a 600 euro, in funzione dell’andamento del costo della vita dalla data di approvazione del testo originale ad oggi.
Secondariamente, tale valore viene fissato come franchigia, prevedendo la tassazione solo per la parte eccedente 600 euro. Esemplificando, se un dipendente riceve beni per 1000 euro, la parte imponibile risulta quella di 400, cioè quella oltre il valore franchigia.
Il criterio permette di avere una rapida certezza a tutte le parti in causa (datore, lavoratore, enti) della tassazione di quanto erogato. Inoltre, consente di non penalizzare enormemente sforamenti irrisori (e magari involontari o ingenui) di detto limite, andando a riprendere a tassazione quanto già acquisito come esente. Più complessa, ma egualmente informata ad un senso di giustizia, semplicità e chiarezza, è l’introduzione dell’ultimo periodo, che prevede che, ai fini del computo del raggiungimento del predetto limite, non vadano considerati beni e servizi o prestazioni in natura già soggetti a tassazione secondo il valore normale o convenzionale del bene.
Se infatti su tali prestazioni il contribuente già paga una tassazione, normale o agevolata (rectius,forfetaria) non si vede perché i valori dovrebbero essere nuovamente posti in gioco. Ciò deprimerebbe lo scopo della norma in questione, che sostanzialmente prevede una soglia minima di liberalità o benefit non tassabile. Si tratta di un’ampia gamma di ipotesi che vanno dal regalo occasionale in occasione di festività (normalmente quelle natalizie) alle  cene o gite aziendali o a prestazioni di piccoli beni/servizi occasionali interni all’azienda (ad es. il caffè, la compilazione del mod. 730 etc.), cifre irrisorie sulle quali giustamente lo Stato non intende incidere per evidenti ragioni e buona pace di tutti.
Tuttavia, nemmeno pare equo che qualora tali prestazioni siano rivolte a dipendenti che fruiscono di beni soggetti a tassazione (un caso su tutti, l’autovettura ad uso promiscuo per l’intero anno), qualsiasi benefit o liberalità sia soggetta a tassazione, magari per importi risibili.
D’altronde si rifletta per assurdo su una considerazione molto semplice: se per tali beni (poniamo di valore 4.000 euro) l’azienda corrispondesse al  dipendente un lordo del medesimo importo (4.000 euro ) come retribuzione e poi rivendesse al dipendente tali beni/servizi percependo dal lavoratore la stessa cifra (4.000) come corrispettivo, si determinerebbe una situazione per cui il dipendente pagherebbe le stesse tasse (e l’azienda la medesima contribuzione), come se il tutto fosse stato trattato come retribuzione in natura, ma il dipendente risulterebbe non aver ricevuto alcun bene dall’azienda (li ha comprati) e quindi ritornerebbe nella disponibilità di ricevere beni dall’azienda per il pieno importo (quale che sia) del comma 3 in questione.
La specifica all’art. 95 del TUIR, invece, vuole solo evitare (sembra scontato, ma sempre meglio precisare), che qualora i beni omaggiati al lavoratore siano della stessa qualità di quelli all’art. 100 (ad esempio, un biglietto di teatro o di concerto, inquadrabili teoricamente in un bene con finalità ricreativa), possa insorgere il sospetto su un limite alla loro detraibilità in funzione delle specifiche previsioni dell’art. 100.
Anche questo sarebbe tuttavia un assurdo: è di tutta evidenza che le opere o i servizi dell’art. 100 hanno una loro specifica deducibilità in funzione di una  “vocazione welfare” (lo riconosce la stessa Agenzia delle Entrate nella circolare n. 28/2016, inserendo nell’articolo 100 tutte le poste di welfare della lettera f comprese le f/bis ed f/ter) dell’art. 51, comma 2. Ora sembra a chi scrive contraddittorio che beni o servizi di cui viene riconosciuta un’utilità sociale potrebbero avere delle limitazioni di detraibilità fiscale rispetto a benefit del tutto generici.
Il dubbio appare però legittimo, in particolare in seguito all’affermazione dell’Agenzia delle entrate contenuta nella circolare n. 27/2022 relativa al bonuscarburante introdotto dall’art. 2 del D.l. n. 21/2022: “non rientrando la fattispecie in commento nelle ipotesi di cui all’articolo 100, comma 1 del TUIR, il costo connesso all’acquisto dei buoni carburante in commento sia integralmente deducibile dal reddito d’ impresa, ai sensi del richiamato articolo 95 del TUIR, sempreché l’erogazione di tali buoni sia, comunque, riconducibile al rapporto di lavoro e, per tale motivo, il relativo costo possa qualificarsi come inerente”; ergo, il bonus carburante è pienamente deducibile dal reddito d’impresa in ragione della finalità della sua erogazione, che non risulta essere di educazione, né di istruzione, né di ricreazione, né di assistenza sociale, né sanitaria o di culto.
Ecco, quindi, le modifiche che proponiamo.

In grassetto quanto modificato rispetto al testo attuale. L’art. 51, comma 3 del TUIR (D.P.R. n. 917/86) è così modificato

3. Ai fini della determinazione in denaro dei valori di cui al comma 1, compresi quelli dei beni ceduti e dei servizi prestati  al coniuge del dipendente o a familiari indicati nell’articolo 12, o il diritto di ottenerli da terzi, si applicano le disposizioni relative alla determinazione del valore normale dei beni e dei servizi contenute nell’articolo 9. Il valore normale dei generi in natura prodotti  dall’azienda e ceduti ai dipendenti è determinato in misura pari al  prezzo mediamente praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista.
Non concorre a formare il reddito il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se complessivamente di importo non superiore nel periodo d’imposta ad euro 600; se il predetto valore è superiore al citato limite, concorre a formare il reddito esclusivamente la quota eccedente dello stesso.
Ai fini del raggiungimento del predetto valore non concorrono i beni e servizi il cui valore, determinato ai sensi del presente comma, primo periodo, e del successivo comma 4, viene corrisposto dal dipendente o costituisce per esso reddito imponibile nel medesimo periodo di imposta.
L’art. 95, comma 1 del TUIR (D.P.R. n. 917/86) è così modificato:
1. Le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito comprendono anche quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori, salvo il disposto dell’articolo 100, comma 1.
Le spese per prestazioni in beni o servizi di cui all’art. 51 comma 3, nei limiti ivi stabiliti, sono altresì sempre interamente deducibili, qualunque sia la loro natura e finalità.

Ah sì ci sarebbe un’ultima cosa, ma non riusciamo a scriverla compiutamente in senso positivo, perché è una cosa che semplicemente non si dovrebbe più fare. Qualora venisse in mente a qualcuno di dare altri benefit, lasciate stare il comma 3, scrivete quel che volete ma in un’altra parte dell’art. 51. Ve ne saremo infinitamente grati.

 

 

 

 

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Senza filtro – UN GIUDICE (racconto di fantasia)

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

L’ufficio del giudice Andrea Rossi era situato al primo piano della palazzina del tribunale. Anche se nuova e costruita da poco, gli uffici erano piccoli ed essenziali. Il giudice Rossi aveva una particolare predilezione per una sobrietà quasi maniacale, l’ufficio era pertanto spoglio, quasi triste, salvo gli inevitabili faldoni e le carte delle udienze, qualche codice e nulla più. L’unico segno personale era una cornice con la foto dell’amata moglie Graziella, prematuramente mancata, in un mese se l’era portata via uno di quei brutti mali, così brutti che si è sempre refrattari a chiamarli con il nome che hanno. Quella mattina, una mattina umida ed uggiosa, come solo sanno essere certe giornate grigie novembrine a Milano, nell’ufficio del Dott. Rossi, si stava iniziando una causa singolare. Il giovane Bruno Brunelli assistito dall’Avvocato Porfirio Rubicondo e accompagnato dalla madre, avevano fatto causa al noto Liceo Tibiletti rivendicando somme a titolo di rapporto di lavoro più danni da mobbing. A difendere il Liceo era presente un avvocato che aveva già passato la mezza età da un po’, il quale faceva del silenzio e di espressioni fra l’allibito e il patetico le proprie armi migliori contro le pretenziose rivendicazioni di controparte.

L’avvocato Rubicondo, giovane rampante del famoso Studio Associato DDP (Difensori Dei Poveri), noto per il perseguimento, fra le tante, di cause pilota ed impossibili, era agghindato non proprio da tribuno popolare, con un vestitino grigio attillato, di evidente e costoso taglio sartoriale, che rivestiva un corpo magro e stizzoso come l’avvocato, dotato di una voce fastidiosamente stridula e querula e di piccoli scatti nervosi a sottolineare i concetti che riteneva essere più importanti. Anche l’orologio al polso era il controvalore di parecchi stipendi medi, e d’altronde nello Studio non era così ampia la frequentazione verso quella povertà che, forse solo ideologicamente o per vezzo, si pretendeva di difendere. La madre del Brunelli, lo sguardo fra l’avido e l’assatanato, aveva il tono e l’atteggiamento di un tifoso del Barcellona in una finale di Coppa, incitava, interrompeva e sottolineava (mancava solo che fischiasse o che si mettesse a soffiare dentro una vuvuzela). “Vediamo – interloquì il giudice – qui abbiamo una causa un po’ particolare …”. “Nulla di particolare, signor giudice – interruppe subito il baldanzoso avvocato Rubicondo – come vedrà con piena evidenza, qui siamo davanti ad un classico caso di sfruttamento, sfrut-ta-men-to (e va già bene che il ragazzo è maggiorenne) unito ad un atteggiamento persecutorio oltre ogni limite immaginabile”. “Procediamo con ordine, avvocato. Come mai rivendicate un rapporto di lavoro con uno …studente di liceo?”.

“Perché il qui presente Brunelli è stato sottoposto a diversi compiti da collaboratore scolastico, invece che fare il semplice studente!” “Sì ho letto il ricorso, qui si dice che è stato costretto più volte a pulire l’aula, e qualche volta anche i servizi, nonché a riordinare più volte il laboratorio di fisica e a spostare i banchi”. “Esatto! E anche al di fuori dell’orario scolastico, per cui rivendichiamo giustamente anche gli straordinari!”.

“La posizione della scuola – osservò il giudice, l’altro avvocato annuiva – è che queste operazioni, peraltro non quotidiane, corrispondevano a delle mancanze della classe, e del Brunelli in particolare, e che le operazioni in questione entravano in un concetto educativo e di formazione al rispetto…”.

“Tutte scuse signor giudice – interruppe nuovamente l’avvocato – leggiamo cosa dice il contratto collettivo a proposito delle mansioni del collaboratore scolastico (si, insomma, il bidello). Vede ? Riassetto dei luoghi di studio, pulizia straordinaria, spostamento dei banchi e delle masserizie scolastiche, tutte cose a cui il Brunelli è stato illegittimamente adibito!”.

“Hmmm, vedremo … E sul mobbing? Vedo accuse circostanziate”.

“Non v’è chi non veda – il Rubicondo si era improvvisamente avviluppato in una foga oratoria fuori luogo – il disegno persecutorio perpetrato ai danni di questo povero giovane! Bocciato per ben quattro volte…” “Quattro volte, però!… Ma non è per caso che non studiasse?” il giudice tentò di interrompere la filippica, ma l’altro riprese. “… Ed esposto allo scherno ed al ludibrio dei compagni, con nomignoli umilianti! C’è anche la Clinica Faciloni che ha attestato stress psico-fisico e danni alla salute e vita di relazione, con tanto di certificati. E guardi, signor giudice, che il Brunelli, abbandonato disperato il liceo, in una scuola specializzata in soli otto mesi ha recuperato quattro anni raggiungendo la maturità con successo, con spese ingenti della famiglia!” (la madre annuiva con veemenza mugugnando qua e là qualche “già, uno scandalo, un’indecenza!”; solo il ragazzo sembrava avulso da tutto ciò…).

Il giudice aveva letto il ricorso e sapeva che il miracoloso recupero era avvenuto ad opera del noto centro (faceva pubblicità anche in qualche tivù) Successi Subito s.p.a., che a fronte di rette costosissime avrebbe promosso anche il gatto dei vicini con la media dell’otto. Peraltro, il Brunelli era uscito con tutti sei, praticamente con una spinta clamorosa o, come dicono al Bar Sport, con un calcio nel sedere. “Vorrei parlare col ragazzo” – disse il giudice. Bloccò la madre che aveva preso fiato per prendere la parola. “Ho detto col ragazzo, senza interruzioni, se possibile. Dunque vediamo, Bruno, com’è andata la storia dei banchi e delle pulizie ?”

Il ragazzo cominciò timido ed impacciato “Eh.. insomma. Si mi han fatto pulire e spostare i banchi”…

“E come mai?”

“No, niente .. uhmm .. è che … insomma avevamo fatto un po’ di casino per una festa”. “Qui il liceo dice che avevate trasformato più volte l’aula in un porcile, e che avete giocato a pallone nell’aula di fisica rompendo e spostando tutto”.

“Sì ma lui che c’entra? “ sbottò la mamma. “Qui leggo che in ogni… in ogni casino, come dici tu, tu eri sempre nel mezzo, insomma una specie di artefice”.

“Eh uhmm ahhh sì, cioè no, è che .. a me mi piace poco studiare… avrebbi dovuto fare un’altra scuola, ma la mamma insisteva” (la madre fece una smorfia di disapprovazione). “Eh va beh – disse il giudice – ma spiegami: com’è che avevi quattro anche in educazione fisica? Lì non c’è molto da studiare, mi pare “. “Ce l’avevano con lui ! – interloquì la madre, ma il giudice la zittì con lo sguardo.

“Hmmm en… ehm , no, insomma … a me piaceva andare al bar o giocare con lo smartphone, ma il prof ci faceva correre e fare gli esercizi, una noia…”.

“Capisco” – disse il giudice. Ma mentre il giovane balbettava qualcosa, come in un rapido flashback al Rossi tornarono in mente gli anni del suo liceo e mille ricordi lo trasportarono al suo passato.

Tornando di colpo al caso, il giudice volle esplorare anche il resto. “Senti, leggo nel ricorso che qui i compagni ti hanno dato un soprannome”

“Uh .. eh .. ah …uhm sì, mi chiamavano con un brutto nome.” “Vuoi raccontarcelo?”,

“Mi chiamavano …il … il Capra – il ragazzo arrossì –“ per via che non capivo mai quello che spiegavano i prof”.

“Poverino- disse la madre – signor giudice, ma lei ha figli, sa che vuol dire provare pena per loro”?     No il giudice non aveva figli, lui e Graziella li avevano cercati tanto, poi si erano rassegnati, e subito dopo quella malattia che l’aveva portata via in un lampo …

“Ho capito, ma dimmi, c’erano altri soprannomi fra voi ?”

“Eh sì c’era Phantom, lo chiamavamo così perchè non veniva quasi mai a scuola, soffriva di una malattia rara, una malattia automunita”. “Si dice autoimmune” corresse pazientemente, sospirando, il giudice Rossi.

“E poi c’era Chiodino”.

“Chiodino?”

“Eh si, perché è proprio grasso…” – disse il ragazzo con un sogghigno.

Il giudice tirò un profondo sospiro. Chissà se a volte i ragazzi si rendono conto di quel che fanno. O forse in un gruppo di giovani i nomignoli sono un affettuoso segno di riconoscimento e di accoglienza, senza la malizia degli adulti. Che se invece di malizia si doveva proprio parlare, allora il ragazzo, che si lamentava del suo soprannome, ne usava di peggiori per un malato grave e appellava un altro compagno con quello che sarebbe oggi rubricato come body shaming.

“Lasciatemi un attimo, per favore. Uscite tutti, ho bisogno di riflettere”.

“Ma signor giudice – sbottò l’avvocato – non abbiamo ancora parlato del tirocinio!”.

“Va bene, va bene, avvocato, ho letto il ricorso”. Nel ricorso, la solita tiritera dello sfruttamento del tirocinio, che si aggiungeva alle richieste di riconoscimento del rapporto di lavoro. Ed in un’iperbole giuslavoristica, si sproloquiava pure di somministrazione illecita. Il tutto per una settimana di training (sapete, è l’alternanza scuola-lavoro, quella cosa che talvolta ha il sapore dell’improvvisazione ma che di per sé non è inutile, ti insegna alcuni meccanismi di comportamento e come stare al mondo, e iddio sa quanto a volte ce ne sia bisogno) presso una nota catena di paninoteche. Il giudice se lo immaginava, il Capra (ormai lo chiamava così anche lui nei suoi pensieri) a prendere ordinazioni confondendosi, o a pulire i tavoli; o forse, come faceva durante l’educazione fisica, a cercare di imboscarsi non appena poteva; e infatti, il giudizio al termine della settimana era stato “svogliato e disattento”. È che i quattro che prendi nella vita non sono come quelli scolastici, e non c’è nessun diplomificio Successi Subito a regalarti scorciatoie.

O forse no – un latente malessere esistenziale del giudice Andrea Rossi riaffiorò di colpo – forse a quelli come il Capra oggi si aprono strade impensabili un tempo, protagonisti di qualche idiota reality su un’isola strampalata o in mezzo ad una fattoria, e così diventati improvvisamente famosi, e pronti a discettare su tutto e tutti, opinion leader caserecci ed insulsi. O magari, perché no, una bella carriera politica, addirittura conquistando anche un ruolo importante, in quelle liste elettorali sempre più improvvisate e composte da personaggi di basso profilo, magari qualcuno anche volenteroso ma sostanzialmente tutti degli “scappati di casa” senza arte né parte. E non riusciva nemmeno a prendersela più di tanto col Capra, pensava agli altri, agli adulti di contorno, all’ambizioso avvocato Rubicondo, ai leader politici e alle loro liste fumose, alle Cliniche Faciloni ed ai loro giudizi tirati a casaccio (ma col dito maliziosamente puntato, spesso a sproposito), a quelli della Successi Subito s.p.a. maestri delle scorciatoie, all’isterica madre del Capra, al papà del Capra (ecco, dov’era il padre, così da impartire qualche meritato – sempre amorevole, eh – ceffone al figlio e fare da contrappeso all’invadenza petulante e distopica della madre?). Nel riflettere, il peso di un mondo a cui sostanzialmente sentiva di non appartenere più opprimeva le spalle ed il cuore del giudice Rossi. E lo appesantiva il non senso del suo lavoro, il discettare di cause strampalate come quella che si trovava di fronte, e intanto ingiustizie scorrevano nel mondo senza che nessuno le intercettasse.

Anche qualora avesse rigettato le domande attoree, come aveva intenzione di fare, che sarebbe successo se del ricorso si fosse occupato in appello il Carluzzi, quel collega che avrebbe dato un rene, forse anche due, per dar ragione alla cosiddetta parte debole sempre e comunque, a proposto e a sproposito. Perchè poi una sentenza anomala (ah no, ora si dice innovativa) fa sempre rumore, fa sempre curriculum, fa notizia, dà popolarità, ti fa entrare in giri che contano.

E già si immaginava il peggio: dopo il ricorso vinto col concorso del Carluzzi, la subitanea tronfia pubblicazione su qualche social media da parte della DDP: “Una sentenza esemplare, seguita brillantemente per lo Studio dal nostro partner Avv. Rubicondo”… e tutte quelle cose così, false e vacue, di immagine senza sostanza …

Fa niente se non si parla più di giustizia e di obiettività, fa niente se il settore si popola sempre più di persone che parlano di diritti senza avere il minimo concetto del Diritto, quello che una volta insegnavano nelle scuole vere, quello che coniugava equità e buon senso. Al di là della porta la voce stridula e fastidiosa dell’avvocato Rubicondo, che continuava a perorare la causa da solo, sembrava il perfetto contorno a questi pensieri,

Una solitudine opprimente, un senso di vuoto pervadeva da tempo il Rossi, e si ripresentò con veemenza, qualcosa che ti attanaglia lo stomaco e ti allappa la bocca. Il giudice, per cercare un’ispirazione o forse solo una caramella o un biscotto, tirò un cassetto della scrivania.

Maliziosamente, al posto del dolcetto sperato, apparve una rivoltella, un’arma dimenticata lì che il Rossi si era procurato tempo fa per difesa personale quando aveva ricevuto serie minacce per via di alcuni appalti di cui si era occupato (anche quelli, finiti in un nulla di fatto, lungaggini processuali fino in Cassazione mentre i felloni portavano ricchezze e nuove false identità all’estero). Ci sono momenti in cui la lucida follia non lascia più il posto alla poesia, in cui l’oppressione prende il sopravvento sulla speranza, lo sconforto sulla resilienza.

Momenti così… in cui Graziella, la giovinezza gli anni del liceo, gli ideali sembrano così lontani, e il Capra, il Rubicondo, una società senza padri e con madri così strampalate son lì a prendere il posto delle cose buone e giuste. E uno si sente infinitamente distante da tutto ciò, tanto che vorrebbe essere altrove, così altrove che piuttosto… nel nulla.

Lo sparo risuonò secco, amplificato dagli ampli corridoi del tribunale e sorprese i presenti. Tutto sembrò fermarsi per un attimo, lo squittio del Rubicondo, lo scalpiccio veloce degli avvocati e dei segretari, il brusìo di testimoni e imputati in attesa di esser chiamati, e, fuori, lo stridore dei tram sui loro binari, il clangore del traffico, il parlottare frenetico in mille cellulari e tutto il testo.

Ma fu solo per un momento. Quello che servì al giudice Rossi per andarsene dall’ufficio, attraversare di colpo gli astanti allibiti, immergersi nel grigio milanese che, uscito, non gli sembro poi così male. E con un senso di libertà, e la foto di Graziella sotto braccio, si allontanò dirigendosi altrove (forse al mare, dicono).

La pistola ancora fumante per il colpo sparato a salve – un segno di cambiamento, come il botto quando finiscono i fuochi d’artificio – riposava placida su due righe di dimissioni

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IL PUNTO – ERA ORA! Marina Calderone Ministro del Lavoro

Potito di Nunzio, Presidente del Consiglio dell’Ordine provinciale di Milano

La nostra Presidente Nazionale, Collega Marina Calderone, è stata nominata Ministro della Repubblica italiana con delega al Lavoro e politiche sociali. Complimenti vivissimi da tutti noi, Marina! Non devo raccontare ai lettori di questa Rivista chi è Marina Calderone, il suo passato lo conosciamo e siamo orgogliosi del coraggio che ha avuto nell’accettare l’incarico in un momento difficile come quello che stiamo vivendo.

Perché dico coraggio: perché muovere critiche al sistema è più facile; avere il coraggio (da tecnico) di mettersi a disposizione della nazione per cercare di cambiarlo (il sistema) è sicuramente più difficile e ci vuole davvero molto coraggio in un momento come questo e con questo clima di generale diffidenza e perché no, anche di odio.

Sono sfide importanti che le si presenteranno già dal giorno dopo l’insediamento. Dovrà condividere scelte difficili e qui ne elenco solo alcune:

  • Riforma delle pensioni
  • Salario minimo legale
  • Reddito di cittadinanza
  • Costo del lavoro.

Sono scelte sociali con forti risvolti economici. Certamente non potrà accontentare tutti e la mia speranza è che si smetta di ideologizzare il mondo del lavoro e si gettino le basi per una equa ripartizione delle risorse riprendendo il cammino dei doveri ancor prima che dei diritti e indirizzando le risorse verso coloro i quali possono creare ricchezza controllandoli efficacemente ma non con tecniche vessatorie. Gli aiuti a pioggia leniscono l’immediato ma non costruiscono nulla di buono per il futuro. Ci vuole una politica stabile che pensi al vero tessuto socio economico del nostro Paese  fatto di micro e piccole imprese, nelle quali l’operosità non manca anche se spesso viene limitata dall’eccesso di burocrazia e di adempimenti inutili. Una politica sociale che livelli le disuguaglianze senza creare sacche di inefficienza. In materia di occupazione bisogna eliminare gli incentivi disincentivanti, l’asfissiante cuneo fiscale, una politica di inclusione che consenta a tutti di lavorare con rafforzamento delle competenze che sono l’unica strada per combattere la disoccupazione strutturale consentendoci di essere competitivi con il resto del mondo.

Da parte nostra siamo sicuri che la nostra Presidente, ops! Il nostro Ministro del Lavoro (Marina ci permetterà “il nostro”) saprà muoversi con saggezza ed equilibrio.

A lei auguriamo ogni bene e il successo che merita. La competenza non le manca e l’esperienza neppure, inoltre sa di poter contare su 26.000 colleghi pronti a darle una mano. Ma la Categoria sarà altrettanto pronta a manifestarle il disaccordo se alcune scelte governative fossero non improntate all’equilibrio e all’equità.

Noi non le faremo mancare suggerimenti e proposte di semplificazione normativa perché è questo un altro grande obiettivo da raggiungere. Il mondo del lavoro è soffocato da eccessi di normazione, spesso contradditoria dove tutti possono dire tutto e spesso chi dovrebbe essere tutelato (il lavoratore) ne viene pesantemente danneggiato e scoraggiato nell’intraprendere qualsiasi azione perché sarebbe eccessivamente dispendioso in risorse fisiche, mentali ed economiche rispetto al diritto che vorrebbe aver tutelato. Inoltre, ci vuole una vera semplificazione della Pubblica Amministrazione, eliminando norme insensate che mettono in difficoltà qualsiasi operatore del diritto, magistrati compresi. Ricordo a tutti che il prossimo anno festeggeremo il centenario della legge sull’impiego privato anche se è stata totalmente stravolta da integrazioni e modifiche nonché da interpretazioni giudiziali che l’hanno resa obsoleta ma che comunque “tiene botta” cose si usa dire. Ma che si semplifichino le norme, abrogandole espressamente e non tacitamente; si riprenda a scrivere le norme con una tecnica legislativa degna di tale nome; si verifichi l’efficacia e l’applicabilità delle norme prima di emanarle; si smetta con il diritto “circolatorio” non degno di un paese civile che può vantare una storia di giuristi eccellenti che parte dalle codificazioni giustinianee. Cerchiamo di diventare un paese normale dove la semplicità entra nel fare quotidiano e che nessun ostacolo burocratico debba rendere infelici persone fisiche e giuridiche.

Un avvertimento però lo voglio dare a chiunque osi gettar discredito sulla nostra Categoria con illazioni e false notizie: sappiate che non solo ci difenderemo ma attaccheremo a testa bassa chiunque, perché il ruolo di noi Consulenti del Lavoro, che della legalità e della tutela dei deboli ne abbiamo fatto una bandiera, non deve essere minimamente messo in dubbio o in discussione, indipendentemente da quelle che saranno le scelte governative. Buttarla in caciara o creare discredito come qualcuno sta cercando di fare (vi prego di leggere, subito a seguire, il graffiante e condiviso articolo del Collega Andrea Asnaghi) non giova alla serenità che in questo momento tutti abbiamo bisogno.

BUON LAVORO MARINA

 

SENZA FILTRO 

Rubrica impertinente di PENSIERI IRRIVERENTI

UN MANIFESTO di stupidate

di Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

Il 21 ottobre 2022, in contemporanea con la presentazione del nuovo Consiglio dei Ministri, l’onorevole testata del Manifesto esce con un articolo di Massimo Franchi: “I tanti conflitti di interessi di Marina Calderone”, neo Ministro del Lavoro. Il breve articolo contiene una serie tale di imprecisioni, maliziosamente costruite ad arte, probabilmente per eccitare le menti sensibili di qualche lettore affezionato, che se non fossimo in una Rivista seria ma in un film di Fantozzi potremmo appellarlo come la Corazzata Potemkin. Fa specie che un giornale storico e dignitoso ricorra a mezzucci di tremenda disinformazione per conquistare, malamente, qualche interesse. Non entreremo qui nel merito degli attacchi personali a Marina Calderone e famiglia, che ha un profilo ed una capacità intellettuale perfettamente in grado di difendersi da sola contro certe insinuazioni, ma spiace particolarmente veder mettere in mezzo tutta una categoria con nozioni distorte, che rivelano la piena e palese incompetenza di chi le scrive (e quando non si sa di una cosa, sarebbe meglio discettare di altro, a meno che non si voglia semplicemente fare i … Franchi tiratori). Secondo l’articolista in questione, “negli ultimi decenni non c’è professione che abbia contribuito ad abbassare diritti e salari più dei consulenti del lavoro”, con una “propensione alla riduzione del costo del lavoro con qualsiasi mezzo” che addirittura si caratterizzerebbero per “mancanza di etica”. Ora, frasi simili non si giustificano (e difatti il nostro mica spiega il perché, siamo all’insulto libero) nemmeno dopo aver bevuto due litri di grappa fatta male in casa.

Se la professione di consulente del lavoro giustifica la sua esistenza e la sua dimensione ordinistica (lo dice la L. n. 12/79 e lo ribadisce il Codice deontologico) è proprio in funzione del ruolo delicato che viene svolto da questa attività, nel garantire che quanto riguarda adempimenti e gestione del personale sia svolto con tutti i crismi, garantendo etica e legalità. L’eventuale attenzione al costo del lavoro ed alla forbice di divario fra il netto al dipendente ed il costo finale per l’azienda è un problema comune a tutto il mondo del lavoro ed ampiamente dibattuto da qualsiasi parte sociale (sindacati dei lavoratori compresi) che si occupi seriamente e non un tanto al chilo (come il Franchi, quantomeno in questa occasione) di questioni occupazionali. Dopo una serie di illazioni sui rapporti fra la Calderone ed il mondo politico, che comunque contribuiscono a creare un alone preliminare di sospetto nell’ignaro lettore, ecco che parte la filippica contro i consulenti del lavoro che, tramite il loro Consiglio Nazionale, con vari interpelli minerebbero i diritti dei lavoratori su vari temi, come “gli appalti e la sicurezza” (ma se sugli appalti, la sicurezza e la legalità i consulenti di tutta Italia hanno fatto battaglie e proposte serie, perché non riconoscerlo? A chi diamo fastidio? O siamo solo tirati in mezzo per una critica ad un Governo che al Manifesto ovviamente non piace, così come legittimamente a molti altri?).

Beninteso: gli interpelli sono domande tecniche al Ministero del lavoro, che a sua volta fornisce risposte tecniche. Per cui al Ministero io posso chiedere qualsiasi cosa (cum grano salis, ovviamente), ma ciò che conta è ciò che risponde il Ministero, in linea con le norme vigenti (lo so che voi lo sapete, lo sto spiegando al Franchi che o non lo sa, oppure lo sa ma dice una cosa per un’altra). Secondo il Franchi, per il quale evidentemente le sciocchezze sono come le ciliegie (una tira l’altra) il Durc in edilizia (“in vigore dal 1° novembre 2021”) sarebbe “lo strumento principe per evitare le assunzioni post-datate in caso di incidenti”. Qui dobbiamo fare i complimenti al Franchi perché in due righe tante imprecisioni simultanee sono da Guinness dei primati. Il Durc in edilizia (e non solo) c’è da quasi 15 anni, quello che è entrato in vigore da poco è un particolare meccanismo di controllo che riguarda (sostanzialmente) i versamenti alle casse edili (il c.d. “Durc di congruità”) il cui meccanismo è talmente complesso e burocratico da suscitare parecchie giustificate riserve (tanto che quasi quasi giustifico anche il Franchi tanto non ci capisce nulla). E comunque non serve  ad evitare assunzioni post-datate, per quello da più di 20 anni c’è la dichiarazione di preventiva di assunzione. Preventiva vuol dire il giorno prima, Franchi, do you understand? Per cui se c’è un incidente e il lavoratore è in nero, il datore è (giustamente) nei guai. Un secondo interpello incriminato (e c’è stato) riguarderebbe la domanda (perché questo è un interpello, non è un’azione politica, è una richiesta di chiarimenti) sulla possibile esclusione dei dipendenti in smart-working dal computo dei dipendenti ai fini dell’assunzione di disabili. Per il disinformato Franchi “in pratica si usa il telelavoro per assumere meno disabili”. Guardi Franchi che la realtà è differente, in quanto attualmente il telelavoratore (che non è il lavoratore in smart-working, ma si vede che la confusione è una Sua specialità) è già escluso dal computo dei dipendenti ai fini della L. n. 68/99. Il dubbio se questa esclusione possa riguardare anche, per assimilazione, i lavoratori in smart-working era legittimo.

Vede Franchi, i consulenti del lavoro ragionano, si informano e chiedono (e poi rispettano la legge e le risposte del Ministero, in questo caso negativa); è una pratica differente da quella a cui forse è abituato Lei e certi suoi compari, per cui importante è fare caciara ed imbastire prove di forza per far passare ciò che si vuole, giusto o sbagliato che sia (anche se si pensa fastidiosamente ed acriticamente di esser sempre dalla parte del giusto). Infine, il Franchi si straccia le vesti per la richiesta dei consulenti del lavoro di poter accedere ai dati previdenziali dei lavoratori. Qui il pezzo va riportato per intero perché rischia di superare il Guinness appena conquistato poche righe prima. “In questo modo la categoria farebbe concorrenza – sleale – ai patronati dei sindacati ma – soprattutto – sarebbe in grado di poter consultare i dati con evidenti rischi per i lavoratori.

L’esempio limite rende però bene l’idea: se un’impresa di 15 dipendenti fosse in difficoltà finanziarie e decidesse di tagliare sul costo del lavoro, l’accertamento da parte dei Consulenti del lavoro che uno dei lavoratori sia vicino alla pensione, permetterebbe all’azienda di proporre una buona uscita in cambio delle dimissioni del lavoratore. Una mossa che porterebbe l’azienda a scendere sotto i 15 dipendenti con tutte le normative semplificate anche sui licenziamenti”. Santa pazienza, Franchi, ma le regole deontologiche dei Consulenti del Lavoro impongono un principio di competenza specifica, che vuol dire trattare di cose che si conoscono; non c’è una regola simile anche per l’Ordine dei Giornalisti, oppure un giornalista può dire liberamente cose a sentimento, anche senza saperne nulla? La richiesta dei consulenti, che personalmente condivido, è quella di poter trattare le pratiche previdenziali; i consulenti sono esperti e tanti lavoratori si rivolgono a loro, riconoscendone la competenza e la serietà. Concorrenza sleale ai patronati? E perché mai “sleale”? Se più soggetti possono offrire un servizio, che male c’è? I consulenti, peraltro, lo fanno con coscienza e obblighi deontologici (per esempio, se sbagliano pagano), i patronati lo fanno gratis (talvolta, mica sempre, e comunque in esenzione da qualsiasi imposta) e quando danno informazioni sbagliate (e lo fanno, oh se lo fanno…) va tutto bene. Ma comunque: anche i patronati (e figuriamoci i consulenti del lavoro, qualora potessero) non possono accedere alle posizioni di un lavoratore senza una delega specifica dello stesso. Ha compreso Franchi? Nessun gioco al massacro, chè se un lavoratore chiedesse di fare una proiezione per capire le proprie possibilità, magari ha interesse anche lui a comprendere come e quando può andare in pensione e se c’è un qualche incentivo per andare prima. Sa quanti dipendenti lo fanno? Magari sono stanchi di lavorare tanto quanto io sono stanco di leggere il Suo articolo pieno di imprecisioni, che per fortuna è finito qui. Ma davvero Lei, Franchi, ne sa qualcosa di lavoro e lavoratori?

Franchi, giusto per concludere. Questa non è una filippica osannante i consulenti del lavoro o Marina Calderone (che si è assunta un bel carico da 90 e tanti rischi). Errori o possibilità di miglioramento ci sono da tutte le parti, ma i consulenti del lavoro (il cui compito è aiutare i datori a stare nella legalità) senza legalità non avrebbero senso di esistere. Sono altri i soggetti, che i consulenti del lavoro combattono, spesso da soli, su cui puntare il dito, mi creda. Quindi niente peana sulla categoria. Ma solo la richiesta, sacrosanta, da qualcuno che di lavoro vive e sul lavoro parla con competenza ma sprattutto con passione: Franchi, parli di ciò che sa. E se vuole parlare di lavoro, cortesemente, prima si informi, due dritte, anche gratis, gliele diamo volentieri,

 

 

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Una proposta al mese – Estendere il campo della maxi-sanzione SUL LAVORO NERO

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

E’ strano, ogni tanto, quasi un senso di déja vu, ritornare su riflessioni e proposte del nostro Centro Studi milanese, alla luce di fatti di cronaca, di novità legislative o di sentenze. Così è successo alla lettura della sentenza n. 24388/2022 della Cassazione penale. In breve, il Collegio adito ha ritenuto sussistere una fattispecie di sfruttamento di lavoro nell’assunzione e messa in servizio di alcuni lavoratori inquadrati come part-timer ma in realtà impiegati a tempo pieno, se non con un numero di ore addirittura esorbitanti.Con ciò, riteneva applicabile a tale comportamento l’art. 603/bis del codice penale introdotto dal D.l. n.138/2011, cosi come modificato dalla L. n. 199/2016.
Non è il caso qui di addentrarci nella vicenda, che ha visto i giudici di Cassazione confermare quanto già stabilito nei precedenti gradi di giudizio con motivazioni (condivisibili) inerenti il caso specifico e non automaticamente estendibili, quanto sviluppare un ragionamento parallelo.
Cassazione penale afferma che, a determinate condizioni, il sottoporre il lavoratore ad un determinato orario formalizzando però il rapporto per un orario inferiore è un possibile indice di sfruttamento della manodopera, con la realizzazione di un ingiusto profitto a carico dell’utilizzatore. Come qualcuno ha fatto acutamente
notare1, il reato di caporalato (a cui si riferiva originariamente l’art. 603/bis del codice penale) ha esteso la sua competenza andando a colpire direttamente anche solo l’utilizzatore (che, in caso di caporalato sarebbe punito in concorso con l’intermediatore).

Tuttavia, si rende arduo, sotto un determinato profilo, andare a determinare l’esatta nozione di sfruttamento, a meno di interpretare in modo palesemente estensivo quanto previsto dalla norma in oggetto; per stare al caso in questione, si tratta dell’utilizzo di manodopera “sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”, ove fra gli indi ci sfruttamento la norma prevede anche “la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
Nessun dubbio quindi che inquadrare il lavoratore con un orario inferiore possa esser sfruttamento; il punto, tuttavia, si sposta sulla dimostrazione dell’approfittamento dello stato di bisogno: in una realtà economica sempre
più complessa ed insidiosa, la tentazione è quella di considerare sempre il lavoratore costretto  a subire determinate condizioni. E quindi, penale per tutti. Si badi bene, anche in quei casi, sussistenti, in cui vi sia una qualche complicità del lavoratore, magari per interessi personali, o in ogni caso una sua tranquilla accondiscendenza alla situazione elusiva.
Con il che, tuttavia, resta sempre il fatto che sotto inquadrare, dal punto di vista dell’orario, un dipendente è un comportamento altamente riprovevole, così come pagare poste in nero. Diversi anni fa – esattamente nel 2014 – il Centro Studi e Ricerche dei Consulenti del Lavoro di Milano, nell’ambito di un progetto di proposte complessive per il mercato del lavoro, aveva  prospettato una diversa formulazione della c.d. “maxi-sanzione sul lavoro nero” che sembra davvero il caso di riproporre. Intanto focalizziamo la norma attuale (oggetto di recente rivisitazione riepilogativa da parte della nota Inl del 20 aprile 2022): viene punito l’utilizzo da parte di datori di lavoro
privati di lavoratori subordinati2 senza preventiva comunicazione di assunzione comunicata agli Enti competenti.
ll datore che occupa personale “in nero” è tenuto a pagare una pesante sanzione amministrativa pecuniaria per ogni lavoratore irregolare che dipende dal periodo di occupazione in nero (va da 1800 euro fino a 43.200 in caso di impiego in nero per oltre 60 giorni di effettivo lavoro). Sono inoltre previste maggiorazioni in caso di recidiva, nonché per l’impiego in nero di minori, di lavoratori extracomunitari privi del permesso di soggiorno o di percettori del reddito di cittadinanza.
All’utilizzo di lavoratori in nero è legato anche il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale ex art. 14 del D.lgs. n. 81/2008 (siccome in Italia ci piace fare le cose complesse, lì la casistica sul lavoro nero ha alcune  difformità rispetto alla norma sulla maxi-sanzione).
E’ di tutta evidenza, e la sentenza della Cassazione penale è solo una conferma di quanto si rileva sul campo, che per evitare la maxi-sanzione (e anche il provvedimento di sospensione dell’attività) è però sufficiente inquadrare il
lavoratore per un numero di ore anche esiguo. Più in generale, perseguire il lavoro in nero ha una matrice che non sempre si sovrappone al concetto di sfruttamento o di mancata sicurezza; ricordiamo che la maxi-sanzione nasce storicamente in ambito di normativa fiscale. Il fatto è che retribuire, in tutto o in parte, un lavoratore in nero ha anche, se non soprattutto, un significato fortemente elusivo e generatore a sua volta di elusioni a cascata, sia nella filiera economica che per quanto riguarda prestazioni o agevolazioni destinate al lavoratore.
Insomma, non dichiarare il dovuto porta con sé una serie di implicazioni assolutamente negative sul piano economico, fiscale e persino sociale e culturale, ancor di più, poi, se questa elusione riguarda il delicato rapporto
di lavoro subordinato.
Il trucchetto del sottoinquadramento orario ha portato – ad esempio – a determinare la sfortuna di alcune fattispecie, come il lavoro accessorio con i voucher, il cui ridimensionamento ha peraltro accentuato, per effetto paradosso, l’utilizzo di lavoro nero. Ecco che, sulla scorta di queste riflessioni, la proposta del nostro Centro Studi, che qui offriamo nuovamente, è quella di individuare una sanzione specifica  (una specie di maxisanzione attenuata) per tutti coloro che, ancorchè in un rapporto di lavoro oggetto di comunicazione preventiva, eludano in maniera significativa (abbiamo ipotizzato un 20 % del dovuto complessivo, ma su tale percentuale si può ragionare) l’imponibile fiscale o previdenziale dovuto.
Vi è da considerare, a tal fine, che l’elusione di cui trattasi può essere realizzata in qualsiasi modo e non sarebbe confinata al solo rapporto di lavoro subordinato, ma in tutti quei rapporti in cui fra utilizzatore/datore/committente e prestatore vi sia un vincolo – anche solo ipotetico – di natura contributiva ed assicurativa.
Ovviamente, il tutto salvo che il caso sia più grave e sia invece riconducibile realmente ad un vero e proprio sfruttamento di cui si parlava all’inizio.
L’elusione potrebbe riguardare pertanto non solo il diverso orario denunciato, ma anche parte di retribuzione (es. superminimi o straordinari) corrisposta “fuori-busta”, oppure l’utilizzo di poste improprie esenti (un classico:
indennità di trasferta o rimborsi spese fasulli).
A tal fine individuare una percentuale minima di scostamento serve a riparare il datore di lavoro dall’applicazione di una sanzione ulteriore – oltre a quelle previste per attività omissive o evasive – in caso di eventuali contestazioni o riprese che possono determinarsi per errori o leggerezze, ma tali da non incidere quantitativamente in modo massivo sull’elusione (una sorta di “franchigia” su errori, omissioni o “diversità di vedute” rispetto all’ispettore del caso).
Né si costituirebbe, con tale maxi-sanzione attenuata, una sorta bis in idem rispetto a sanzioni sul versante contributivo, assicurativo o fiscale: lo scopo preciso di tale sanzione sarebbe quello di punire il ricorso sistematico e massivo a forme di elusione che per ricorrenza ed incidenza evidenzino un preciso intento evasivo.
Potrà, forse, sembrare strano che a proporre sanzioni sia un corpo professionale che molto spesso si è lamentato per il peso della regolazione e per la vessatorietà di determinati apparati punitivi sul versante amministrativo, tuttavia, per quanto qui in argomento, la repressione dei fenomeni di evasione è un concetto culturale, prima ancora che di sicurezza sociale; non invochiamo chissà quale severità, anzi. Tuttavia, ci basterebbe ripristinare un concetto di serietà che premierebbe chi – anche con fatica – fa il possibile per stare nelle regole, contro chi le aggira allegramente.

 

1. Cfr. Riccardo Girotto, Il caporalato a tutto campo, ma senza caporale, Euroconference Lavoro del 14 luglio 2022.

2. Nella nota INL, si ricorda che oggetto di sanzione è anche l’utilizzo di prestatori con utilizzo improprio del Libretto di famiglia o di lavoratori occasionali non oggetto di preventiva comunicazione, dei quali, in caso di ispezione, venga rilevata la subordinazione.

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