LEGITTIMITÀ DELLA REGISTRAZIONE DI COLLOQUI tra il dipendente e colleghi o datore di lavoro

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

Quante volte avremmo voluto, ma non ce la siamo sentita, registrare una conversazione avuta con degli amici, con dei colleghi o con i fornitori, per la paura di violare la privacy altrui! La domanda che oggi vogliamo porci è: abbiamo fatto bene? Di primo acchito verrebbe da dire di sì. Esistono infatti varie norme poste a tutela della riservatezza: si può iniziare dall’art. 15 della nostra Costituzione che afferma che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili o citare la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che all’art. 8 rimarca il principio che ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare.

Ma è altrettanto chiaro che l’esistenza di più diritti fondamentali – di cui è sottintesa la pari dignità costituzionale – impone, in caso di una loro eventuale intersezione, il contemperamento dei valori in gioco.

Se quindi è pacifico che la mera registrazione di conversazioni tra presenti all’insaputa dei conversanti configura una grave violazione del diritto alla riservatezza (Cass. 16 maggio 2018, n. 11999) tuttavia ciò non è sempre vero essendo in via generale ammessa la registrazione di colloqui avvenuti qualora ciò sia funzionale al diritto di difesa. E si badi bene che questo può pacificamente riguardare – per quanto concerne l’ambito qui di nostro interesse ovvero quello lavorativo – non solo la potenziale controparte in giudizio ma anche soggetti terzi quali ad esempio i colleghi di lavoro.

Una delle ultime pronunce della Cassazione sul tema ci consente un focus su alcuni punti fondamentali della questione.

CORTE DI CASSAZIONE, LA SENTENZA N. 31204 DEL 01.11.2021

Gli Ermellini partono dal principio espresso nell’allora vigente art. 24 del D.lgs n. 196/2003 ovvero che è possibile prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione venga eseguita, sia necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che essi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.

L’indicazione è chiara: l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio. Sia però ben chiaro: la legittimità di questa condotta è subordinata al fatto di aver effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto.

E la Corte non si ferma certo qui, chiarendo che il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso. In pratica si propone una dilatazione della nozione di “sede processuale/giudiziaria” da intendersi quindi anche a situazioni precedenti o prodromiche ad un contenzioso vero e proprio. Pertanto, la registrazione potrà essere legittimamente utilizzata sia in un processo civile che penale, per presentare una denuncia o per difendersi da querela, ma anche – questo l’aspetto giuslavoristico che qui ci interessa – per difendersi contro una sanzione o un licenziamento di tipo disciplinare.

Allo stesso tempo la Cassazione ci avverte che si tratta evidentemente di un profilo estremamente delicato, che esige un attento ed equilibrato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali, quali la garanzia della libertà personale, sotto il profilo della sfera privata e della riservatezza delle comunicazioni, da una parte e del diritto alla difesa, dall’altra. Ed esso si deve fondare su una valutazione rigorosa del requisito di pertinenza, nella prospettiva di una diretta e necessaria strumentalità, della registrazione all’apprestamento della finalità difensiva nell’orizzonte sopra illustrato, all’interno di una scrupolosa contestualizzazione della vicenda. Questo significa che non è mai giustificabile la registrazione di colloqui per il fatto che forse, un domani, potrebbero servire ma occorre che questo bisogno sia attuale. Questa cosa appare chiara nella fattispecie portata davanti alla Corte Suprema nella quale è stata giudicata legittima la registrazione di un colloquio durante il quale il lavoratore intendeva esplicitare le ragioni per cui non poteva partecipare ad un corso obbligatorio di formazione, causa l’esiguità del termine di preavviso (meno di due giorni), a fronte di un evento in orario diverso da quello ordinario e in una località ad oltre cento chilometri dal luogo abituale di prestazione dell’attività lavorativa. Le ragioni addotte dal lavoratore escludevano – secondo la Corte – che la registrazione in questione potesse riguardare un momento di normale relazionalità gerarchica tra dipendenti. Al contrario, la mancata partecipazione al corso senza alcun preavviso all’azienda e senza alcuna giustificazione o autorizzazione a non parteciparvi, ben poteva comportare, stante l’obbligatorietà di detto corso, una contestazione disciplinare. Per questo motivo viene riconosciuta al lavoratore la necessità di poter documentare il contenuto del colloquio per fini difensivi in una controversia che avrebbe potuto affrontare senza mezzi adeguati. Peraltro gli Ermellini si sono sempre dimostrati sensibili alle difficoltà per il lavoratore di altrimenti costituirsi dei mezzi di prova, specie in contesti lavorativi caratterizzati da conflitti con colleghi, anche di rango più elevato, dove il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili sacche di omertà (Cass. 10 maggio 2018, n. 11322).

ALCUNE NECESSARIE PUNTUALIZZAZIONI

Partiamo dall’indiscusso e consolidato principio che bolla come illegittime tutte le registrazioni fatte all’insaputa dei propri interlocutori nel caso siano svolte all’interno della privata dimora di quest’ultimi. Questo significa che in tutti gli altri luoghi “pubblici” è sempre ammesso registrare o riprendere “clandestinamente” – da intendersi quale assenza dell’obbligo di informare l’interlocutore della registrazione in corso – un colloquio a patto, ribadiamolo bene, di essere lì presenti. Solo così non si rientrerebbe nella fattispecie, vietata e con risvolti penali, delle intercettazioni.

Questa possibilità, lo abbiamo visto, deriva dal costante orientamento secondo cui la registrazione di una conversazione all’insaputa dell’interlocutore deve ritenersi legittima e validamente utilizzabile in sede processuale qualora necessaria per tutelare e far valere un diritto in sede giudiziaria (Cass. 10 maggio 2019, n. 12534). Va peraltro evidenziato che, pur essendo considerato il timbro vocale – al pari del contenuto della conversazione – un dato personale, non è previsto alcun rilascio di una informativa privacy né l’acquisizione del consenso in quanto il GDPR (Regolamento UE 2016/679) prevede espressamente che la regola sul consenso possa essere derogata nel caso in cui i  “dati” dell’interessato siano necessari per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria. Ma attenzione: in considerazione delle specifiche finalità indicate nella sentenza, ovvero l’uso difensivo, è evidente che il contenuto della registrazione necessiterà di una attenzione particolare evitando quindi che la stessa (il file per intenderci) possa finire in mani sbagliate e quindi essere utilizzata per altri fini, a nulla importando se per colpa o mera negligenza di chi ha registrato. Spetta quindi a chi ne ha la materiale disponibilità garantire misure di sicurezza idonee ad evitare una sua possibile divulgazione. Tornando però alla questione che qui più interessa ovvero se un lavoratore possa o meno effettuare registrazioni (ed anche le videoregistrazioni) di conversazioni intrattenute col capo, coi superiori gerarchici e coi colleghi, possiamo dire che la giurisprudenza della Cassazione ha da sempre ritenuto legittima la registrazione di una conversazione avvenuta con tali soggetti al bar o per strada ma anche, ad esempio, in un punto vendita o in un negozio, essendo questi luoghi aperti al pubblico. Qualche dubbio invece sussisteva riguardo la possibilità di procedere a delle registrazioni nell’ufficio del personale o in quello del datore di lavoro. La risposta positiva viene confermata dalla sentenza in commento dove si fa salvo il diritto del dipendente di precostituirsi un mezzo di prova se teme di dover scendere in causa con l’azienda e, quindi, di doversi difendere. Dato per assodato il divieto di registrare colloqui avvenuti a casa del datore di lavoro (vige il principio dell’inviolabilità del domicilio), ciò potrà invece avvenire nell’ufficio di quest’ultimo benché di norma tale luogo sia assimilato alla dimora e quindi tutelato dalla normativa privacy. Qui, casomai, l’unico problema è come dimostrare dove sia avvenuta la registrazione: più facile in caso di videoregistrazioni, più difficile per le registrazioni solo vocali. Dal principio sopra segnalato deriva il corollario che il registratore può restare acceso in qualsiasi locale, stanza o ufficio, dell’azienda. È però essenziale che il dipendente sia fisicamente presente e quindi che la registrazione riguardi solo ciò che viene detto dinanzi a lui anche se i commenti non siano a lui indirizzati. In sostanza vanno evitate quelle che sarebbero tecnicamente considerate delle intercettazioni ossia lasciare un registratore acceso e poi assentarsi poiché le persone devono essere consapevoli che ciò che potenzialmente potrebbe in seguito utilizzare, anche registrandole, le loro affermazioni, di fatto accettando un siffatto rischio. Del resto è palese come il diritto alla riservatezza non possa operare quando è lo stesso titolare del relativo diritto a rinunciarvi, come nel caso in cui parli con altri.

In merito alla prova richiesta al lavoratore di aver partecipato personalmente al colloquio, la circostanza è facilmente ricavabile dal contenuto della registrazione ovvero dalla ineludibile interazione del lavoratore con il proprio interlocutore.

Interessante infine la considerazione, sempre contenuta nella sentenza in commento, che esclude qualsiasi rilievo disciplinare di tale comportamento rispondendo la condotta in discorso alle necessità conseguenti al legittimo esercizio d’un diritto e, quindi, essendo coperta dall’efficacia scriminante dell’art. 51 c.p., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico.

Ovviamente la delicatezza della scelta di procedere alla registrazione di colloqui con terzi impone a chi intende avvalersene una preventiva e precisa pianificazione, meglio se affidandosi ai consigli di un consulente del lavoro o di un avvocato.

 

 

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I CHIARIMENTI DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE SUL BONUS 3.000 EURO. Ancora una volta non benissimo

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

Ormai è assodato: sempre di più il legislatore scrive le norme come se fossero una sorta di legge-quadro, lasciando che siano i vari Enti, interessati per competenza, a stabilire la disciplina di dettaglio.

A questo malvezzo non sfugge l’art. 12 – Misure fiscali per il welfare aziendale, del Decreto Legge n. 115 del 9 agosto 2022 come appena modificato dal c.d. Decreto Aiuti-quater, che così ora dispone:

  1. Limitatamente al periodo d’imposta 2022, in deroga a quanto previsto dall’articolo 51, comma 3, prima parte del terzo periodo, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non concorrono a formare il reddito il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale entro il limite complessivo di euro 3.000,00.

I chiarimenti tanto attesi sono arrivati grazie alla circolare n. 35/E del 4 novembre 2022 a firma Agenzia delle Entrate nella quale, ahimè, rilevo troppe criticità.

 

IL LAVORATORE E I FAMILIARI

Dato che la norma in commento estende l’esenzione ai fini reddituali e contributivi anche alle somme erogate o rimborsate dal datore di lavoro ai propri lavoratori dipendenti relativamente al «pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale» e che il comma 3 dell’art. 51 del TUIR stabilisce che nei beni e servizi interessati dalla disposizione sono «compresi quelli dei beni

ceduti e dei servizi prestati al coniuge del dipendente o a familiari indicati nell’articolo 12», la circolare identifica le utenze domestiche in quelle che riguardano tutti gli

immobili ad uso abitativo posseduti o detenuti, sulla base di un titolo idoneo, dal dipendente, dal coniuge o dai suoi familiari, a prescindere che negli stessi abbiano o meno stabilito la residenza o il domicilio, a condizione che ne sostengano effettivamente le relative spese.

In sostanza parliamo, e lo precisa la circolare con nota in calce,

del coniuge del dipendente nonché dei suoi figli e delle altre persone indicate nell’art. 433 codice civile, indipendentemente dalle condizioni di familiare fiscalmente a carico, di convivenza con il dipendente e di percezione di assegni alimentari non risultanti da provvedimenti dell’autorità giudiziaria.

Il chiarimento esclude quindi le utenze intestate al mero convivente, e così pure al convivente di fatto di cui alla Legge n. 76/2016, anche qualora l’utenza venga materialmente pagata, in toto o quota parte, dal lavoratore dipendente. E questo, secondo chi scrive, non rispetta esattamente lo spirito della norma il cui scopo è aiutare il lavoratore a pagare le utenze che di fatto sostiene. Analogamente la richiesta dell’esistenza di un titolo idoneo circa il possesso/detenzione appare travalicare il testo normativo.

 

UTENZE CONDOMINIALI

La circolare prosegue poi precisando che

è possibile, infine, comprendere nel perimetro applicativo della norma anche le utenze per uso domestico (ad esempio quelle idriche o di riscaldamento) – intestate al condominio – che vengono ripartite fra i condomini (per la quota rimasta a carico del singolo condomino) e quelle per le quali, pur essendo le utenze intestate al proprietario dell’immobile (locatore), nel contratto di locazione è prevista espressamente una forma di addebito analitico e non forfetario a carico del lavoratore (locatario) o dei propri coniuge e familiari, sempre a condizione che tali soggetti sostengano effettivamente la relativa spesa.

Anche in questo caso riteniamo che la lettura delle Entrate non sia conforme al dettato normativo, penalizzante peraltro per quei lavoratori che possano dimostrare di aver pagato un rimborso forfettario inferiore all’effettivo costo delle utenze pagate per il tramite del locatore. Idem nei casi in cui si negherebbe il beneficio nei limiti dell’effettivo importo delle utenze per il solo fatto che il lavoratore/conduttore ha corrisposto un rimborso forfettario maggiore (che può ben comprendere altre spese, quali pulizia parti comuni o spese giardinaggio).

PERIODO DI RIFERIMENTO DELLE SPESE

L’Agenzia ci precisa che le somme erogate dal datore di lavoro (nell’anno 2022 o entro il 12 gennaio 2023, come si dirà nel prosieguo) possono riferirsi anche a fatture che saranno emesse nell’anno 2023 purché riguardino consumi effettuati nell’anno 2022.

Diciamo subito che la norma non precisa nulla in merito al periodo di riferimento delle bollette. Il periodo di imposta 2022 viene citato solo in merito all’esclusione dal reddito imponibile delle somme erogate o rimborsate per tale scopo ai lavoratori dipendenti in tale anno. È un principio di cassa (allargato) e non di competenza. E infatti la ratio dell’intervento legislativo è quello di aiutare il lavoratore in un periodo di difficoltà che può ben derivare dal dover pagare delle fatture arretrate anche se relative all’anno 2021 e/o precedenti. Peraltro, se seguissimo il ragionamento fatto dall’Agenzia e se tanto ci da tanto, dovremmo ritenere che le somme erogate per fatture emesse nel 2022, ma riferite a consumi del 2021, non possano godere dei benefici di cui all’art. 12 del D.l. n. 115 del 9 agosto 2022.

LE FATTURE

Nella circolare viene poi evidenziato che la giustificazione di spesa può essere rappresentata anche da più fatture.

Ovviamente, anche se non viene detto esplicitamente, le varie fatture possono essere intestate a diversi soggetti purché si tratti del lavoratore, del suo coniuge o dei familiari indicati nell’articolo 12.

 

LA DOCUMENTAZIONE DI SPESA

Anche la previsione che il datore di lavoro si faccia carico, per eventuali successivi controlli, di acquisire e conservare

la relativa documentazione per giustificare la somma spesa e la sua inclusione nel limite di cui all’articolo 51, comma 3, del TUIR 

appare l’ennesima complicazione posta a carico delle aziende, peraltro per un invito alla liberalità avente un sottinteso, ma chiaro, “scopo sociale” a favore di terzi. Proviamo infatti ad ipotizzare un rimborso che sfrutti tutti i 3.000 euro previsti dal Decreto Aiuti-quater. Considerando le mie utenze potrei avere per ogni lavoratore ben 12 fatture per il gas, 12 per la luce e 4 per l’acqua, per un totale di 28 fatture. Aggiungiamo la prova del pagamento, sperando almeno che il  lavoratore presenti un estratto del proprio conto corrente e non le singole quietanze. Mettiamoci poi le varie autocertificazioni e dichiarazioni previste (vedasi più oltre). E poiché potrebbe pure capitare che il lavoratore chieda il rimborso sia delle proprie utenze che quelle dei suoi familiari, la miracolosa moltiplicazione dei pani e dei pesci al confronto vi sembrerà un giochetto di prestigio da scatola da mago per bambini. Moltiplicate poi questa documentazione per tutti i lavoratori interessati e capite subito che un’azienda media di un centinaio di dipendenti si troverà a gestire qualche migliaio di scartoffie, che dovranno essere accuratamente valutate e poi archiviate.

Le spese sostenute dal locatore

Ma non finisce qui: la cosa si complica ancora di più nel caso in cui alcune delle fatture presentate risultino intestate al locatore dell’immobile detenuto dal lavoratore o dai suoi familiari.

Che deve fare il lavoratore conduttore di un immobile? Di certo autocertificare che nel contratto è previsto un rimborso analitico e non di tipo forfettario. Ma dovrà anche attestare di aver pagato quanto previsto al locatore. Non deve invece, secondo chi scrive, fare alcun controllo circa il fatto che il proprietario dello stabile abbia pagato le varie utenze.

Le spese condominiali

Ma peggio va a coloro che hanno utenze intestate al condominio: il riferimento è principalmente alle spese di riscaldamento, ma potrebbero riguardare anche quelle di luce e acqua per le parti comuni. Provate a ragionare in termini di bilancio consuntivo e provvisorio, di rate (comprensive di altre spese) scadute e in scadenza, di rate non pagate o pagate parzialmente. Le intuite le difficoltà, vero?

Difficile infatti, secondo chi scrive, che il lavoratore possa ricorrere ad una autocertificazione come gli è più semplice nei casi di utenze intestate a lui o ai familiari. Troppo complicato, ritengo, descrivere la situazione in cui versa.

Giocoforza dovrà presentare i vari resoconti condominiali dove emerga il dettaglio dei costi a lui imputati quale conduttore. E se il bilancio consuntivo 2022, come è assai probabile, non è ancora pronto o approvato in quanto l’esercizio non è ancora chiuso? Basterà presentare il bilancio preventivo? E come dimostrare che l’acconto richiesto in tale sede corrisponda all’effettiva spesa? Bisognerà chiedere all’amministratore copia delle fatture ricevute (e relative quietanze) ma non comprese nei vari resoconti? E il datore dovrà controllare tutto questo?

E se il lavoratore non ha pagato le rate condominiali o ne ha pagate solo

alcune? Quanto parzialmente pagato potrà essere imputato integralmente alle utenze o dovrà essere fatta una imputazione proporzionale tra le stesse e le altre spese (pulizia, amministratore, spese straordinarie, etc) a carico del condomino?

L’AUTOCERTIFICAZIONE

E va ancora peggio con l’alternativa proposta dalla circolare che consiglia di

acquisire una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, con la quale il lavoratore richiedente attesti di essere in possesso della documentazione comprovante il pagamento delle utenze domestiche, di cui riporti gli elementi necessari per identificarle, quali ad esempio il numero e l’intestatario della fattura (e se diverso dal lavoratore, il rapporto intercorrente con quest’ultimo), la tipologia di utenza, l’importo pagato, la data e le modalità di pagamento.

Ve lo immaginate un lavoratore predisporre autonomamente questa autocertificazione in modo corretto senza quindi che il datore sia costretto ad interfacciarsi più volte con il suddetto?

E UN’ALTRA AUTOCERTIFICAZIONE

E che dire poi della ulteriore  dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti la circostanza che le medesime fatture non siano già state oggetto di richiesta di rimborso, totale o parziale, non solo presso il medesimo datore di lavoro, ma anche presso altri.

L’Agenzia precisa che è richiesta in ogni caso, ovvero sia che si opti per la presentazione delle bollette che per l’autocertificazione. Ulteriori oneri di controllo e conservazione a carico delle imprese.

E LE AUTOCERTIFICAZIONI NON FINISCONO DI CERTO QUI

Un po’ come le ciliegie, un’autocertificazione tira l’altra. Nel nostro caso alle due indicate dall’Agenzia delle Entrate potrebbero servirne un altro paio.

La prima è prevista nell’ipotesi che l’utenza sia intestata al coniuge o agli altri suoi familiari. Non sempre è agevole infatti rilevare la reale parentela ben potendo essere il cognome dell’intestatario diverso da quello del lavoratore (peraltro anche in caso di coincidenza non è detto che vi sia un rapporto di parentela). Solo in caso di convivenza la cosa potrebbe essere risolta con uno stato di famiglia anagrafico, mentre nella diversa ipotesi dovrà essere predisposta dal lavoratore una apposita autocertificazione riportante il grado di parentela.

Una seconda autocertificazione – e lo abbiamo già evidenziato più sopra – si rende poi necessaria nel caso di utenze intestate al locatore dell’immobile.

LE SOMME EROGATE O RIMBORSATE

L’Agenzia evita accuratamente di affrontare il tema delle somme che possono essere erogate o rimborsate dal datore, ovvero la circostanza che la

norma, di fatto, prevede che le somme possano riguardare non solo il rimborso delle utenze ma anche una dazione in denaro per un futuro pagamento delle bollette. In questo caso entro quanto tempo il lavoratore dovrà dimostrare – sempre che lo debba fare – di aver effettivamente utilizzato tali somme per questa specifica finalità? La fattura dovrà essere pagata alla scadenza o è ammesso un pagamento anche in ritardo? E se sì, entro quando?

Se ci si attenesse al testo di legge chi scrive ritiene che il beneficio possa spettare al lavoratore che si limiti a presentare le fatture non ancora saldate – cosa che sottintende un implicito impegno ad utilizzare gli importi riconosciutigli in esenzione per tale specifica finalità – restando quindi esclusivamente a carico del dipendente la responsabilità in caso di mancato pagamento delle utenze, senza che sia il datore di lavoro a dover rincorrere il lavoratore, in questo caso per sollecitare la presentazione delle relative quietanze.

Ma ipotizziamo un lavoratore che non presentasse nei termini le quietanze e si intendesse quindi recuperare il benefit. Onde evitare discussioni sarebbe opportuno che il lavoratore sottoscrivesse una dichiarazione (almeno questa non nella forma dell’autocertificazione di atto di notorietà) dove prende atto che la mancata presentazione della prova dell’avvenuto pagamento comporterà il recupero delle somme erogate a rimborso in quanto tale erogazione è strettamente collegata all’effettivo pagamento delle utenze. E secondo voi chi preparerà questa dichiarazione? Ovviamente l’azienda che ancora una volta dovrà fare da badante ai propri dipendenti accollandosi altri oneri solo per evitare complicazioni maggiori.

E se il lavoratore, a cui abbiamo recuperato il benefit, potesse far valere una causa di forza maggiore che gli ha impedito la presentazione delle quietanze? E se addirittura contestasse che la norma non prevede – ed è vero – alcuna scadenza per la dimostrazione dell’avvenuto pagamento delle utenze, come la mettiamo? Apriamo un contenzioso con un nostro lavoratore, magari proprio con uno di quelli “strategicamente indispensabili”?

 

IL CANONE RAI IN BOLLETTA 

Vi è infine una questione che l’Agenzia non ha minimamente affrontato.

L’importo del canone Rai contenuto della bolletta per l’energia elettrica è rimborsabile in esenzione o deve essere scorporato non riguardando direttamente una utenza domestica per l’energia elettrica?

Nel secondo caso – che è la risposta che si è dato chi scrive – è quasi certo che il 99 per cento dei lavoratori non lo farà. Con tutte le problematiche connesse ad un futuro recupero da parte dell’Agenzia Entrate che potrebbe coinvolgere anche il datore di lavoro che, avendo acquisito le singole fatture, non ha provveduto allo scorporo di tale importo.

CONCLUSIONI FINALI

Ci si consenta alcune considerazioni.

  1. È altamente improbabile che un lavoratore si dedichi con profitto alla predisposizione di una corretta autocertificazione contenente tutte le informazioni necessarie e che consenta così l’erogazione del benefit senza che il datore di lavoro corra il rischio di future contestazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate. Più facile che la dichiarazione debba essere rispedita al mittente per le dovute integrazioni (con annesse spiegazioni).
  2. È impensabile che l’azienda decida di coadiuvare i propri lavoratori nella predisposizione della predetta autocertificazione anche, ma non solo, per ragioni di tempistiche ristrette.
  3. Anche la sola acquisizione delle fatture in-testate al lavoratore comporta per l’azienda un lavoro (ergo la responsabilità) di verifica della competenza temporale delle fatture, della loro intestazione, dell’intervenuto pagamento (o successivo), dello scorporo del canone Rai, la quantificazione del rimborso spettante.

Per questa serie di motivi si ritiene che la maggior parte delle aziende – fatte salve le situazione più lineari – sarà costretta a rinunciare a rimborsare le spese sostenute per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. E questo a causa di istruzioni cervellotiche. Molto più semplice optare per buoni spesa presso un supermercato o dei più facilmente spendibili buoni carburante.

Che dire? Un’altra norma scritta male e un’altra circolare applicativa pensata infischiandosene delle problematiche che le regole imposte (rectius inventate) per l’erogazione di tali benefits creano.

“Complicare è facile, semplificare è difficile”, diceva un certo Bruno Munari.

Eh già, i concetti di semplificazione e si sburocratizzazione, questi sconosciuti.

 

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Una proposta al mese – DECRETO TRASPARENZA e il sito internet del Ministero del Lavoro

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

In linea teorica gli onerosi adempimenti previsti in capo alle aziende dal Decreto Trasparenza in tema di Informazioni sul rapporto di lavoro avrebbero dovuto trovare un più che valido aiuto grazie alla previsione del nuovo comma 6 dell’art. 1 del D.lgs. n. 152/1997 che così dispone:

Le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro sono disponibili a tutti gratuitamente e in modo trasparente, chiaro, completo e facilmente accessibile, tramite il sito internet istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Per le pubbliche amministrazioni tali informazioni sono rese disponibili tramite il sito del Dipartimento della funzione pubblica.

L’obbligo imposto dal Decreto Trasparenza è stato per così dire “assolto” dal Ministero del Lavoro attivando sul proprio sito istituzionale una apposita sezione intitolata: Norme e contratti collettivi – Archivio CNEL. Il Ministero parte da un preambolo precisando agli utenti che:

Per consultare nel dettaglio i contratti collettivi di lavoro è possibile navigare sull’apposito portale del CNEL. Per una fruizione più semplice è anche possibile consultare la Guida CNEL, in formato Pdf.

Per ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato si può anche visitare la sezione web dedicata allo Sportello Unico Digitale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Prosegue poi ribadendo la finalità di questa nuova pagina internet, ovvero

Questa area del sito istituzionale è finaliz-

zata a rendere disponibili per lavoratori e datori di lavoro le principali disposizioni normative e dei contratti collettivi applicabili ai rapporti di lavoro del settore privato.

In pratica suggerisce a lavoratori e datori di lavoro di andare sul sito del Cnel, cercare il proprio Ccnl e, senza tanti giri di parole, di leggerlo per bene se si vuole informare o essere informati. E aggiunge:

Per ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato si può anche visitare la sezione web dedicata allo Sportello Unico Digitale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Dalle mie parti qualcuno liquiderebbe la questione con un vöia de fán sòltòm adóss. Infatti, se fate bene attenzione, il Ministero rende disponibili solo le le principali disposizioni normative e dei contratti collettivi. Ci segnala pure dove trovare le ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato.

Probabile che per il Ministero esistano disposizioni e informazioni “meno principali”, quelle secondarie, quelle di serie B, quelle che evidentemente, se portate o meno a conoscenza dei lavoratori, non rilevano sul loro diritto ad essere informati in base alla Direttiva europea. Il tutto alla faccia di una informazione istituzionale che, per legge, deve essere trasparente, chiara, ma soprattutto completa. Ma non basta. Il Ministero si mostra pienamente consapevole dei propri obblighi tanto che ci tiene a precisare che:

Tali disposizioni sono utili anche ai fini delle informazioni che il datore di lavoro è tenuto a comunicare al lavoratore in attuazione del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152 (omissis).

Infatti, ai sensi dell’articolo 1, comma 6, del medesimo decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali rende disponibili le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro del settore privato.

Segue quindi un elenco dedicato alla principale normativa in materia di rapporti di lavoro riportando un elenco, ad oggi, di 18 norme (presumibile che questo possa essere aggiornato di volta in volta) ovvero:

D.lgs. 27 giugno 2022, n. 104 – D.lgs. 30 giugno 2022, n. 105 – D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 – Legge 22 maggio 2017, n. 81 – D.lgs. 14 settembre 2015, n. 148 – D.lgs. 4 marzo 2015, n. 22 – D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 – Legge 4 novembre 2010, n. 183 – D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 – D.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 – D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 – D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 – D.lgs. 26 maggio 1997, n. 152 – Legge 23 luglio 1991, n. 223 – Legge 8 agosto 1972, n. 457 – Legge 20 maggio 1970, n. 300 – Legge 17 ottobre 1967, n. 977 – Legge 15 luglio 1966, n. 604.

Fateci caso. La circolare n. 19 del 20 settembre 2022 del Ministero del Lavoro – dopo aver detto di ritenere che l’obbligo di informazione per il datore di lavoro riguardi solo quelle astensioni espressamente qualificate dal legislatore come “congedo – ci indica in via esemplificativa e non esaustiva alcune ipotesi di congedi retribuiti previsti dalla legge:

  • congedi di maternità e paternità, congedo parentale e congedo straordinario per assistenza a persone disabili, secondo la disciplina di cui al D.lgs. n. 151/2001;
  • congedo per cure per gli invalidi, secondo la disciplina di cui all’articolo 7 del D.lgs. n. 119/2011;
  • congedo per le donne vittime di violenza di genere secondo la disciplina di cui all’articolo 24 del D.lgs. n. 80/2015.

Bene, solo due di queste normative, il D.lgs. n. 151/2001 e D.lgs. n. 80/2015, vengono richiamate nel sito internet; ci si dimentica invece del D.lgs. n. 119/2011.

Ma come? Da una parte, con la circolare, si dice una cosa e dall’altra, nel sito internet, una diversa? Ma i tecnici dei vari uffici del Ministero si parlano tra di loro o ognuno fa da sé? Sorvoliamo pure e analizziamo gli esempi proposti. Quale utilità pratica hanno? Partiamo dal fatto che stiamo parlando di un Decreto legislativo, quindi emanato dal Governo che, è presumibile, ha affidato ai soli tecnici dell’ex ministro Orlando la trasposizione della Direttiva europea. Se così fosse, è corretto dire che fu il Ministero a prevedere, nel redigere la norma, l’onere in capo a sè stesso di pubblicare sul proprio sito internet istituzionale – in modo trasparente, chiaro, completo e facilmente accessibile – le informazioni riguardanti le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali che devono essere comunicate dai datori di lavoro del settore privato.

Singolare che, dovendo scrivere una circolare e pubblicare la pagina web ad hoc, non sia nemmeno stato capace di riportare un elenco completo dei congedi previsti dalla legislazione nazionale. Non è in grado di farlo il Ministero a distanza di quattro mesi dalla definizione del Decreto 104 e pretende che lo facciano d’emblée i poveri datori di lavoro? E due cose vanno dette anche sulla prevista accessibilità facilitata alle informazioni. Facilmente accessibile è prevedere un rinvio al sito Cnel?

Qualcuno del Ministero ha mai provato a cercare sul sito il nome del Fondo di Previdenza complementare delle Scuole materne Fism? Vi pare trasparente, chiaro, completo precisare che Per ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato si può anche visitare la sezione web dedicata allo Sportello Unico Digitale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali? Imbarazzante.

Oltre il danno pure la beffa. Il Ministero nello scrivere la norma aveva a suo tempo consapevolmente optato per negare ai datori di lavoro la possibilità di rimando ai contratti collettivi, nonostante ciò fosse un’opportunità concessa dall’art. 4, comma 3, della Direttiva europea. Oggi invece, con un classico due pesi e due misure, per i propri obblighi si arroga questo diritto, facendolo peraltro in modo assolutamente parziale ed insufficiente.

Come si intuisce la delusione è tanta.

Per questo motivo questa volta la Proposta del mese non concerne la modifica di una norma o di un suo passaggio. Questo mese la proposta del mese riguarda una legittima pretesa: la pretesa che un ente pubblico rispetti ciò che la norma gli richiede e gli impone di fare per semplificare la vita alle aziende. Una sorta di invito ad adempiere rivolto al neo eletto Ministro del lavoro e da valersi quantomeno fino a quando non si vorrà intervenire con una semplificazione degli obblighi informativi previsti dal D.lgs. n. 152/1997, auspicando un testo più comprensibile e in toto conforme allo spirito della Direttiva europea. Perché una cosa deve essere ben chiara. Fino a quando il Ministero resterà inadempiente il rischio è che i datori di lavoro si sentano autorizzati dalla legge a citare nelle loro informative solo quanto è riportato sul sito istituzionale. Perché – e lo rammentiamo nel caso qualcuno volesse fare il finto tonto – è questo che la norma prevede: Le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro sono disponibili … in modo … completo … tramite il sito internet istituzionale del Ministero del lavoro. E lo ribadiamo per chi non l’avesse capito, Ministero del Lavoro compreso: per come scritta la norma questa non è una facoltà ma un preciso obbligo: i datori di lavoro devono essere resi edotti, tramite il sito istituzionale ministeriale, quantomeno (a voler esser buoni) del quadro normativo vigente da cui, al massimo, estrapolare le dettagliate informazioni da fornire ai lavoratori all’atto dell’assunzione.

Se quindi il Ministero nel proprio sito internet si dimenticasse di citare una certa norma istitutiva di un determinato congedo (così come se lo facesse su un sito diverso) ciò significherà che questa specifica informazione non deve essere fornita al lavoratore. Per quale strano motivo non si sa e nemmeno ci deve interessare: la notizia non è di interesse per il lavoratore ai sensi del Decreto Trasparenza, semplicemente perché è il Ministero del lavoro che ce lo sta dicendo.

Con il corollario finale che, in riferimento a tutte quelle informazioni non sono riportate sul sito istituzionale, ci saranno delle inevitabili conseguenze:

– il lavoratore non potrà avvalersi in toto della possibilità di denunciare all’Ispettorato nazionale del lavoro il mancato, ritardato, incompleto o inesatto assolvimento degli obblighi di cui agli articoli 1, 1-bis , 2, e 3, e 5, comma 2 (art. 4 del D.lgs. n. 152/1197). – idem per lo stesso Ispettorato del Lavoro che vedrà fortemente limitato il proprio potere sanzionatorio in caso di violazione degli obblighi informativi.

 

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DECRETO TRASPARENZA: la fake del diritto alla transizione a forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

Se si consente al legislatore (e alla prassi) l’utilizzo
di un linguaggio giuridico inadeguato, non ci si può
poi lamentare dell’incertezza del diritto.

DECRETO TRASPARENZA: LA TRANSIZIONE AD UN’ALTRA FORMA DI LAVORO

Smoke gets in your eyes, cantavano i Platters nel 1958 in quella che forse è la versione più famosa di un brano scritto ben 25 anni prima, esattamente nel 1933. Fumo negli occhi. Un ritornello che oggi suona attualissimo. Eh già, perché non so voi ma leggendo l’articolo 10 – Transizione a forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili del Decreto Legislativo n. 104 del 27 giugno 2022, attuativo della direttiva (UE) N. 2019/1152 (relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea) l’impressione che ne ricavo è di essere di fronte ad una norma che, di fatto, poco o nulla dispone in termini di diritto, rappresentando al massimo una mera dichiarazione di principio. Tra l’altro, al solito, scritta pure male. Proveremo ad analizzarla nel dettaglio, commentandola comma per comma.

IL COMMA 1 – IL DIRITTO A FORME DI LAVORO “MIGLIORI”

  1. Ferme restando le disposizioni più favorevoli già previste dalla legislazione vigente, il lavoratore che abbia maturato un’anzianità di lavoro di almeno sei mesi presso lo stesso datore di lavoro o committente e che abbia completato l’eventuale periodo di prova, può chiedere che gli venga riconosciuta una forma di lavoro con condizioni più prevedibili, sicure e stabili, se disponibile.

Detto che l’inciso con cui si fa salva, se più favorevole, la vigente normativa non è già di suo un concetto cristallino (meglio forse la formula generica Sono abrogate tutte le disposizioni incompatibili con le disposizioni del presente decreto), tutto ciò che segue presenta difficoltà interpretative anche maggiori.

L’anzianità al lavoro del lavoratore subordinato

Onde poter avanzare la richiesta di transizione viene previsto in capo al lavoratore un doppio requisito: una anzianità lavorativa di almeno sei mesi e il completamento dell’eventuale periodo di prova. Condizioni che la norma richiede esplicitamente sia ai lavoratori subordinati che ai collaboratori. Per la prima categoria – i dipendenti – il riferimento, considerato il contesto di intervento del Decreto Trasparenza, è da intendersi rivolto ai titolari di:

  • contratti di lavoro subordinato, ivi compreso quello di lavoro agricolo, a tempo indeterminato e determinato, anche a tempo parziale; – contratti di lavoro somministrato; – contratti di lavoro intermittente. Come tale disciplina troverà concreta attuazione nei rapporti di somministrazione non pare chiaro.

Ma proseguiamo. Considerato che in base all’art. 7 del Decreto Trasparenza il periodo di prova non può essere superiore a sei mesi, il doppio requisito dell’anzianità di lavoro e dell’aver completato l’eventuale periodo di prova non potrà che riguardare solo quei lavoratori – e sono casi rari – che hanno registrato delle assenze di entità tale per le quali l’originario periodo di prova, prolungato in misura corrispondente alla durata delle stesse, abbia oltrepassato il limite massimo dei sei mesi.

L’anzianità al lavoro del collaboratore Per la seconda categoria – i collaboratori – il riferimento è da intendersi ai soggetti attivi nei rapporti di collaborazione quali individuati dal campo di applicazione del Decreto ovvero: – rapporti di collaborazione con prestazione prevalentemente personale e continuativa organizzata dal committente di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81; – contratti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile;

  • contratti di prestazione occasionale di cui all’articolo 54 -bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96. Anche per questi lavoratori viene richiesto il requisito di una anzianità lavorativa di almeno 6 mesi. Una verifica impropria quando ci si deve riferire a dei rapporti in cui, pur in presenza di un arco temporale, difficilmente si può parlare di una vera e propria anzianità. Considerazione che alimenta il dubbio che lo spirito originario della Direttiva possa essere stato travisato. E la conferma di ciò la troviamo infatti nella stessa Direttiva europea il cui articolo 12 pare indubbiamente riferirsi ai soli datori di lavoro citando per questo un lavoratore con almeno sei mesi di servizio presso lo stesso datore di lavoro.

Una diversa forma di lavoro …

In questo passaggio si parla di transizione ad una diversa forma di lavoro, concetto certamente ampio. Questo significa che la richiesta potrebbe riguardare non solo il passaggio da autonomo a subordinato ma, in linea teorica, anche quello inverso. Va peraltro detto che risulta difficile individuare concrete situazioni nelle quali un collaboratore possa ottenere – dato che questo parrebbe il fine della norma come recepita dall’ordinamento italiano – il passaggio ad un rapporto di lavoro dipendente. Ce lo vedete un collaboratore chiedere se è disponibile un posto come lavoratore subordinato per una mansione che di certo non può aver svolto come “autonomo”? Peraltro, dovendo vantare una anzianità di almeno 6 mesi? A quali casi pensava il legislatore quando ha formulato questo “diritto di istanza”? Probabile si tratta di una svista, o ad essere cattivi diciamo che è stata fatta una estensione del diritto a favore di telecamera ossia demagogia di basso livello.

Più verosimile invece che la disposizione riguardi i soli lavoratori a tempo determinato, a tempo parziale e gli intermittenti (per questi ultimi con i dubbi sopra esposti). Una lettura che rispetterebbe la finalità riportata nel Considerando 36 che invitava a promuovere la transizione verso forme di lavoro più sicure nei casi in cui

 i datori di lavoro hanno la possibilità di offrire contratti di lavoro a tempo pieno o a tempo indeterminato a lavoratori in forme di lavoro non standard.

… con condizioni più prevedibili, sicure e stabili …

Si dice che il datore dovrà verificare la disponibilità di condizioni migliori rispetto a quelle attuali.

Qui il primo aspetto critico nasce dall’utilizzo della congiunzione copulativa “e” anziché la congiunzione disgiuntiva “o”. Che significa ciò? Che tutti i requisiti devono essere verificati o ne basta uno?

Ugualmente problematico è lo stesso concetto di condizioni più prevedibili, sicure e stabili. L’utilizzo, infatti, di un avverbio comparativo porta a ritenere che qualsiasi condizione di lavoro più prevedibile, più sicura, più stabile dovrà essere valutata dal datore di lavoro e dal committente. Sarà effettivamente così? In attesa di avere maggiori certezze possiamo dire che le condizioni migliori devono comunque riguardare solo le modalità di espletamento delle originarie mansioni che quindi, si ritiene, debbano restare invariate. Sarebbe assurdo che l’obbligo posto in capo al datore di lavoro e committenti possa riguarda il passaggio ad inquadramenti diversi, categorie o qualifiche diverse. La domanda, inoltre, che ci poniamo è se, a parità di mansioni, un parttime al 50% dell’orario possa chiedere se c’è la possibilità di passare ad uno al 60%. O anche se un lavoratore a tempo pieno ma a termine possa chiedere se esiste la possibilità di passare ad un part-time al 50% ma a tempo indeterminato. Domande alle quali al momento chi scrive non sa dare risposta. O meglio una risposta ci sarebbe ove ci potessimo riferire al già citato Considerando 36 che chiaramente riferiva la possibilità di presentare istanza e di ricevere una risposta esplicitamente nei casi in cui

i datori di lavoro hanno la possibilità di offrire contratti di lavoro a tempo pieno o a tempo indeterminato a lavoratori in forme di lavoro non standard.

Questo, rifacendoci ad una lettura finalistica della Direttiva, dovrebbe portare a dire che il lavoratore part-time che voglia aumentare il proprio monte ore lavorative non potrà percorrere questa strada. Stessa cosa di un intermittente che aspirasse ad un tempo determinato o anche solo ad un tempo parziale. Il problema è che i Considerandi non hanno una diretta cogenza giuridica. Perplessità maggiori sorgono poi per i lavoratori titolari di un contratto, full-time o part-time, di lavoro somministrato: anche costoro hanno diritto ad una risposta dall’utilizzatore riguardo la possibilità di un contratto diretto a tempo pieno e indeterminato? Dato che la norma concede il diritto di istanza verso i datori di lavoro e i committenti, e l’utilizzatore non è né l’uno né l’altro rispetto al lavoratore somministrato, la risposta dovrebbe essere negativa. L’istanza va rivolta solo alla propria Agenzia. Ma anche qui un dubbio ci assale. Considerata infatti la presa di posizione a suo tempo formulata dall’Inl rispetto al susseguirsi di rapporti in somministrazione e di contratti a termine, ritenuti quali rinnovi ai fini dell’obbligo di indicazione della causale, qualche dubbio che possa essere proposta una lettura diversa è più che lecito.

… ma solo se disponibile.

Qui le domande sono: quando un posto è considerato disponibile? Chi verifica la sua disponibilità?

Sussiste a carico del lavoratore un onere di allegazione dei posti assegnabili o è sufficiente un semplice promemoria al datore di lavoro a cui segnalare il proprio desiderio verso qualcosa di migliore dal punto di vista qualitativo e quantitativo? Anche questo un ulteriore punto critico.

IL COMMA 2 – LA REITERAZIONE DELL’ISTANZA

  1. Il lavoratore che abbia ricevuto risposta negativa può presentare una nuova richiesta dopo che siano trascorsi almeno sei mesi dalla precedente.

La previsione non appare chiarissima. Quale è infatti l’esatta volontà del legislatore? Limitare la reiterazione della richiesta o garantire una validità semestrale alla stessa? In pratica, il datore di lavoro (o il committente) una volta ricevuta l’istanza la dovrà continuamente rivalutare nei 6 mesi successivi per verificare una eventuale sopravvenuta disponibilità di posti oppure una volta data la sua risposta (per la quale ha tempo un mese) non ha più alcun onere di accertare l’esistenza successiva di condizioni di lavoro più prevedibili, sicure e stabili?

Questo non è detto chiaramente dalla norma e mai vorremmo che la questione debba essere risolta, come al solito, dalla giurisprudenza.

IL COMMA 3 – LA FORMA SCRITTA DELL’ISTANZA

  1. La facoltà di cui al comma 1 può essere esercitata a condizione che il lavoratore manifesti per iscritto la propria volontà al datore di lavoro o al committente.

 Non si comprende la necessità di un comma specifico per dire che la richiesta del lavoratore deve essere fatta per iscritto: non era più semplice dire al comma 1 che il lavoratore “può chiedere, solo in forma scritta, che gli venga riconosciuta una forma di lavoro con condizioni più prevedibili, sicure e stabili, se disponibile”. Il dono della sintesi, questo sconosciuto.

IL COMMA 4 – LA RISPOSTA DEL DATORE DI LAVORO O DEL COMMITTENTE

  1. Entro un mese dalla richiesta del lavoratore il datore di lavoro o il committente forniscono risposta scritta motivata.

In caso di richiesta reiterata da parte del lavoratore di analogo contenuto, le persone fisiche in qualità di datori di lavoro o le imprese che occupano fino a cinquanta dipendenti possono rispondere in forma orale qualora la motivazione della risposta rimanga invariata rispetto alla precedente.

I datori di lavoro e i committenti sono tenuti entro un mese a fornire una risposta scritta. La scelta di individuare il mese e non i giorni come termine per riscontrare l’istanza del lavoratore non sembra felice: se la richiesta viene avanzata a gennaio si avrà tempo 31 giorni; se a febbraio solo 28. Meglio sarebbe stato individuare un termine di 30 giorni. Incomprensibile appare poi la possibilità concessa ai soli datori di lavoro con determinate caratteristiche (le persone fisiche in qualità di datori di lavoro o le imprese che occupano fino a cinquanta dipendenti) – i committenti, quindi, dovranno sempre rispondere per iscritto – di poter dare una risposta in forma orale qualora la motivazione della risposta rimanga invariata rispetto alla precedente. In primis non si comprende per quale motivo una ditta individuale con 51 lavoratori sia esonerata dalla risposta scritta e una impresa con gli stessi 51 dipendenti lo debba fare in modo formale. Ma soprattutto è l’idea della risposta orale in presenza di invarianza di motivazione a non convincere: nel caso in cui il lavoratore intendesse contestare che una risposta verbale non gli è stata data il datore dovrebbe replicare, ma per iscritto, che la risposta è stata data verbalmente in quanto legalmente non era dovuto alcun riscontro scritto: tanto vale secondo chi scrive metter nero su bianco, fin da subito, il diniego al passaggio a condizioni più prevedibili, sicure e stabili.

La risposta deve comunque essere motivata. Non essendo un diritto automatico alla transizione la risposta potrebbe limitarsi a spiegare il perché di un diniego che, ad avviso di chi scrive, rimane discrezionale. Ad esempio, si può rispondere che il posto è disponibile ma non assegnabile al richiedente semplicemente perché il lavoratore è ritenuto non avere le determinate qualità, professionali ma anche caratteriali, richieste dalla Direzione. Ricordiamo infatti che il Considerando 36 prevedeva che la risposta del datore di lavoro possa tenere conto delle esigenze del datore di lavoro e del lavoratore.

Lo ripetiamo non è un diritto di precedenza come quello del lavoratore licenziato per riduzione di personale o del lavoratore a termine con una certa anzianità. E’ un diritto ad evidenziare il proprio interesse ad una migliore posizione lavorativa e a ricevere una risposta motivata dell’eventuale diniego, su cui il perimetro di sindacabilità da parte del giudice risulta assai limitato. Questa perlomeno è l’interpretazione di chi scrive.

 

IL COMMA 5 – IL CAMPO DI APPLICAZIONE E LE ESCLUSIONI

  1. Le previsioni del presente articolo non si applicano ai lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ai lavoratori marittimi e del settore della pesca ed ai lavoratori domestici.

Partiamo dal campo di applicazione che vede esclusi i datori di lavoro pubblici, i lavoratori domestici e quelli del settore marittimo e della pesca.

Ma non dimentichiamo che il Decreto Trasparenza esclude già di suo (art. 1, comma 4) dall’applicazione delle proprie disposizioni alcuni soggetti tra cui: i rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro V del codice civile e  di lavoro autonomo sportivo in senso stretto (lett. a); i rapporti di agenzia (lett. c); le collaborazioni prestate nell’impresa da taluni familiari (lett. d); i rapporti nel pubblico impiego (lett. f e g). Tutto bene tranne per l’esclusione di quei soggetti indicati alla lettera b) ovvero

i rapporti di lavoro caratterizzati da un tempo di lavoro predeterminato ed effettivo di durata pari o inferiore a una media di tre ore a settimana in un periodo di riferimento di quattro settimane consecutive.

Ma come, proprio a quei lavoratori che forse più di tutti aspirerebbero e necessiterebbero di un posto di lavoro più stabile diciamo che questo diritto non gli compete? Teniamo peraltro presente che il diritto alla transizione è invece riconosciuto ai lavoratori con contratto di lavoro intermittente.

In base a quale ratio si è deciso di escludere i primi e riconoscere il diritto ai secondi? Mistero.

CONSIDERAZIONI FINALI

Come si vede più si analizza il Decreto Trasparenza e più emergono evidenti criticità. Che fare? Metterci mano e emendare ogni singolo passaggio o ripensare tutta la disciplina operando una riscrittura più conforme allo spirito della Direttiva europea?

Mi viene in mente il solito consiglio che mi dà il mio programmatore quando si impalla il computer.

Schiacciamo CTRL+ALT+CANC e riavviamo il tutto.

Ecco, probabilmente si farebbe prima. E meglio.

 

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IL PROLUNGAMENTO DEL PATTO DI PROVA del Decreto Trasparenza

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

Se si consente al legislatore (e alla prassi) l’utilizzo
di un linguaggio giuridico inadeguato, non ci si può
poi lamentare dell’incertezza del diritto.

La nuova disciplina legale del patto di prova, introdotta dall’art. 7 del D.lgs. n. 104 del 27 giugno 2022, prevede la possibilità che tale periodo possa essere prorogato in relazione a determinati eventi. La fattispecie è disciplinata al comma 3.

3. In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

La formulazione non è affatto limpida e qualche perplessità sulla sua portata è più che legittima, ponendo all’interprete la domanda se gli eventi citati sono degli esempi o una indicazione vincolante.
Una prima risposta è comparsa su urponline.lavoro.gov.it il 9 settembre 2022.

D. Il prolungamento del periodo di prova previsto dall’articolo 7, comma 3, del recente decreto legislativo n. 104/2022 si applica anche ai congedi e permessi fruiti dalle lavoratrici e dai lavoratori ai sensi della legge n. 104/1992? 
R. Sì, il principio affermato all’articolo 7, comma 3, del decreto legislativo n. 104/2022 – che prevede il prolungamento del periodo di prova in caso di eventi sopravvenuti – si applica anche nelle ipotesi di assenze diverse da quelle riportate in maniera esemplificativa nella disposizione in esame.
Infatti, l’articolo 7, comma 3, non ha inteso incidere sulla natura del periodo di prova, ormai consolidata nel nostro ordinamento, per la cui effettività si tiene conto del solo servizio effettivamente prestato. Pertanto, il
periodo di prova resta sospeso in caso di assenza per malattia e in tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, compresi, quindi, i congedi e i permessi di cui alla legge n. 104 del 1992.

Una seconda risposta, più articolata ma non per questo più convincente, arriva dalla circolare n. 19 del 20 settembre 2022 del Ministero del Lavoro che dice:

Il comma 3 stabilisce che il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza, richiamando – a titolo meramente esemplificativo – la sopravvenienza di eventi quali malattia, infortunio, congedo
di maternità/paternità obbligatori. L’indicazione di tali assenze, coerentemente con quanto previsto nella direttiva e come si evince dal tenore letterale della disposizione, non ha carattere tassativo e dunque rientrano nel campo di applicazione del comma 3 tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, fra cui anche i congedi e i permessi di cui alla legge n. 104/1992 (cfr. Cass. n. 4573 del 22 marzo 2012 e Cass. n. 4347 del 4 marzo 2015).

La questione, secondo chi scrive, non appare affatto così scontata.
Partiamo dalla discutibile tecnica legislativa  usata per il comma in commento.

In primis una norma non dovrebbe necessitare degli esempi per precisare la sua stessa portata.
Riportare infatti all’interno di essa un elenco indicativo e non esaustivo non aiuta affatto la certezza del diritto.
Qualora proprio si voglia fare ricorso a degli esempi questi devono essere significativi e chiarificatori di eventuali dubbi che la locuzione pone, ma che la norma, e questo è il punto, non dovrebbe porre.
Detto questo, analizzando il comma 3, mi verrebbe da dire che na manca un tóc, ne manca un pezzetto. Se infatti la frase “quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori” fosse un inciso a scopo
esemplificativo, il resto del periodo deve rappresentare, anche ove lo eliminassimo, una frase di senso compiuto.
Proviamo allora a togliere i ritenuti, dalla circolare ministeriale, “esempi”: In caso di sopravvenienza di eventi, [quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori,] il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.
Vi pare chiaro? No e infatti per dare un senso alla frase andrebbe precisato quali sono gli eventi in questione, ovvero le sottintese assenze, e quindi il comma andrebbe quantomeno così riformulato:
In caso di sopravvenienza di eventi comportanti una assenza dal lavoro durante il periodo di prova, il periodo stesso è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza. Ecco che volendo inserire l’inciso “quali malattia,
infortunio, congedo di maternità o paternità  obbligatori” questo avrebbe un senso esemplificato (ma di certo non chiarificatore) come sostenuto dal Ministero.
Resta il fatto che il legislatore italiano ha operato una precisa scelta dei vocaboli, parlando di “eventi” e non di assenze dal lavoro, addirittura di “eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori”.
Concentriamoci su di essi.  Se si voleva proporre degli esempi perché citare quelli che ictu oculi tutti immaginiamo comportare il prolungamento del periodo di prova?
Qualcuno avrebbe nutrito dubbi – qualora si fossero omessi tali esempi – che la maternità determinasse un prolungamento? E perché citare il “congedo di maternità o paternità” specificando il requisito di “obbligatori”? La volontà era quindi di escludere quelli “ facoltativi”?
E poi, non sarebbe stato meglio citare tra gli esempi, che ne so, lo sciopero o i permessi per lutto? Se si sceglie di fornire degli esempi per chiarire la portata di una norma (palesemente  scritta male), perché proporre delle fattispecie che, anziché chiarire, mettono ulteriori dubbi? Perché è palese che il chiarimento
ministeriale non risolve un bel nulla. Se tutte le assenze comportassero una proroga della prova non avrebbe alcun senso logico citare degli esempi. Se li proponi significa che solo ciò che è simile agli esempi fatti consente il
prolungamento della prova. Ed allora perché il Ministero nella circolare cita gli scioperi ed i permessi? Se si ammettono queste assenze allora, di conseguenza, vanno ammesse tutte.
Cosa che infatti il Ministero riconosce: … Ciò a ulteriore conferma del fatto che l’elencazione di cui al comma 3 è puramente esemplificativa e non esaustiva delle ipotesi di prolungamento del periodo di prova, nel cui novero si devono intendere ricomprese tutte quelle già riconosciute dall’attuale ordinamento giuridico.
Un’ultima amara considerazione: se parlassimo di una norma di rilievo penale permetteremmo  questo modo di individuare le casistiche? Ad  esempio, se disponessimo – ad assurdo – che In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di carcerazione di un detenuto-
lavoratore è aumentato in misura corrispondente alla durata dell’assenza potremmo mai sostenere che l’elencazione è esemplificativa?
Qualcosina andrebbe detta anche sulle considerazioni che il Ministero fa per supportare la propria lettura.

Ciò risponde al principio di effettività del periodo di prova, in forza del quale è stata riconosciuta valenza sospensiva dello stesso alla mancata prestazione lavorativa causata  da malattia, infortunio, gravidanza,puerperio, permessi, sciopero, sospensione dell’attività da parte del datore di lavoro.
Trattandosi di un principio consolidato nell’ordinamento giuridico nazionale, appare evidente che se l’elencazione di cui al terzo comma dell’articolo 7 fosse considerata esaustiva delle ipotesi di sospensione del periodo di prova, si avrebbe una riduzione generale del livello di protezione riconosciuto ai lavoratori, in contrasto con l’articolo
20 della direttiva (UE) 2019/1152 …

La cosa fa sorridere, quasi tenerezza. Il Ministero ci sta dicendo che la lettura della norma in senso restrittivo andrebbe in contrasto con un principio consolidato nell’ordinamento giuridico nazionale, determinando addirittura una riduzione generale del livello di protezione riconosciuto ai lavoratori, in contrasto con l’articolo 20 della direttiva.
Questa osservazione (la definirei una bacchettata sulle dita) me la sarei aspettata da un giudice non certo dal Ministero del Lavoro che – non scordiamocelo – è il principale artefice della scrittura del nuovo patto di prova.
Parliamo infatti di un Decreto legislativo emanato dal Governo che, immagino, abbia di fatto affidato ai soli tecnici del ministro Orlando la trasposizione della Direttiva europea. Ora, dopo aver fatto precise scelte grammaticali e di sintassi, il Ministero si  mette a fare il maestrino senza rendersi nemmeno conto che sta correggendo in pratica sè
stesso con una circolare interpretativa.
È il Ministero che ha formulato una norma in modo equivoco – tanto da esser costretto oggi a precisare che una lettura alternativa, diversa dalla sua, sarebbe in contrasto sia con un consolidato principio nell’ordinamento sia con l’art. 20 della Direttiva – e ci vorrebbe pure fare la lezioncina sul diritto?
Certo, l’interpretazione ministeriale di fatto corregge l’errore del legislatore italiano – ma imputabile in primis allo stesso Ministero del Lavoro – che ha fatto di testa sua senza accogliere i molteplici, limpidi suggerimenti di quello europeo.
Sarebbe bastato infatti riproporre la struttura dell’art. 8 della Direttiva che, pur senza indicare in modo analitico le varie tipologie di assenza, così suggeriva:

Qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell’assenza.

Ma ci si poteva pure rifare al Considerando n. 28 della stessa Direttiva che auspicava chiaramente che

I periodi di prova dovrebbero poter essere prorogati in misura corrispondente qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, ad esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di lavoro di verificare l’idoneità del lavoratore al compito in questione.

Invece no. Al legislatore delegato non piaceva il termine ad esempio. Molto meglio un bel quali con quanto a seguire.
E come al solito siamo riusciti a modificare un testo cristallino, con un chiaro principio di diritto espresso dalla Direttiva europea, in uno dal significato oscuro.
E non pensiate che bastino due indicazioni di prassi a risolvere l’eventuale querelle sul periodo di prova scaduto sì o scaduto no. Non è affatto detto che il giudice adito legga la norma come propone il Dicastero retto da Andrea
Orlando e concordi con voi che prolungare il periodo di prova per una assenza per donazione sangue sia concesso dalla norma.

 

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Una proposta al mese – LE DISCRIMINAZIONI CONTRATTUALI nell’accesso al tempo parziale

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

Il recente restyling del Codice delle pari opportunità operato dalla Legge n. 162 del 5  novembre 2021 ci offre lo  spunto per tornare a parlare di discriminazione in ambito lavorativo e, nello specifico, per quanto riguarda
l’accesso al part-time.
Un tema peraltro affrontato altre volte sulle pagine di questa Rivista.1
Ci imbattiamo spesso in contratti collettivi che disciplinano l’accesso al lavoro parziale ponendo assurdi paletti all’utilizzo di questa tipologia contrattuale.
Analizziamo alcune di queste clausole rappresentative di un errore di fondo.
Nel Ccnl Terziario, Distribuzione e Servizi (ConfCommercio) la preoccupazione degli estensori è quella di vietare la stipula di rapporti che prevedano orari troppo “ridotti” stabilendo che:
… la prestazione individuale sarà fissata fra datore di lavoro e lavoratore in misura non inferiore ai seguenti limiti:
Aziende che occupino complessivamente fino a 30 dipendenti
a) 16 ore, nel caso di orario ridotto rispetto al normale orario settimanale … … Potranno essere realizzati contratti di
lavoro a tempo parziale della durata di 8 ore settimanali per la giornata di sabato o domenica cui potranno accedere,
studenti, lavoratori occupati a tempo parziale presso altro datore di lavoro, nonché giovani fino a 25 anni di età compiuti … … La prestazione lavorativa giornaliera fino a 4 ore non potrà essere frazionata nell’arco della giornata.
È singolare come nelle premesse dell’art. 80 del Ccnl si ribadisca, pomposamente, che le parti ritengono che:
… il rapporto di lavoro a tempo parziale possa essere considerato mezzo idoneo ad agevolare l’incontro fra domanda ed offerta di lavoro … … Il rapporto di lavoro a tempo parziale  ha la funzione di consentire: flessibilità della
forza lavoro in rapporto ai flussi di attività nell’ambito della giornata, della settimana, del mese o dell’anno; risposta ad esigenze individuali dei lavoratori, anche già occupati.
Come dire che da un lato il part-time è un mezzo per realizzare le aspirazioni lavorative di coloro che non possono garantire una prestazione lavorativa a tempo pieno, ma al contempo si ritiene che un orario inferiore alle
16 ore non possa interessare in alcun modo il lavoratore/la lavoratrice ma sia funzionale solo ai (miserabili) interessi dell’azienda. E si pensa pure che a nessuno interessi lavorare due ore il mattino e due il pomeriggio. Il mondo del lavoro, questo sconosciuto.
Nel Ccnl Edili Industria invece l’intento è vietare il ricorso in maniera massiva a rapporti a tempo parziale.
Ecco che quindi si legge che:

… le parti stabiliscono che un’impresa edile non può assumere operai a tempo parziale per una percentuale superiore al  3% del totale dei lavoratori occupati a tempo indeterminato.
Resta ferma la possibilità di impiegare almeno un operaio a tempo parziale, laddove non ecceda il 30% degli operai a tempo pieno dipendenti dell’impresa … … Sono in ogni caso esenti dai limiti quantitativi di cui ai commi 7 e 8 i contratti a part-time stipulati con personale impiegatizio, con personale operaio non adibito alla produzione ad esclusione degli autisti, con personale operaio di livello 4 …

Anche qui la contraddizione sta nel fatto che all’art. 78 del Ccnl si dice che: … Il rapporto di lavoro a tempo parziale … potrà essere attuato con riferimento a tutti i giorni lavorativi della settimana (part-time orizzontale), nonché a periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese, dell’anno (part-time verticale) conformemente ai principi di seguito elencati:
a) volontarietà di entrambi le parti del rapporto, salvo diverse previsioni della legge;
b) compatibilità con le esigenze funzionali ed organizzative dell’ufficio, unità produttiva e dell’azienda nel suo
complesso, nonché con i contenuti professionali della mansione svolta; … Anche in questo accordo traspare il preconcetto (direi tutto delle oo.ss. dei lavoratori) che troppi part-time equivalgano a sfruttamento dei lavoratori.
Tutte queste limitazioni, previste dagli accordi collettivi, sono sempre state denunciate da chi scrive come illegittime in riferimento alla Direttiva 97/81/CE del Consiglio Europeo del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, citando a supporto i seguenti principi:
Clausola 1: oggetto
Il presente accordo quadro ha per oggetto:
a) di assicurare la soppressione delle discriminazioni  nei confronti dei lavoratori a tempo parziale e di migliorare la qualità del lavoro a tempo parziale;
b) di facilitare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria e di contribuire all’organizzazione flessibile dell’orario di lavoro in modo da tener conto dei bisogni degli imprenditori e dei lavoratori.

Clausola 4: Principio di non-discriminazione

1. Per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a
meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive.

Clausola 5: Possibilità di lavoro a tempo parziale

1. Nel quadro della clausola 1 del presente accordo e del principio di non- discriminazione tra lavoratori a tempo parziale e lavoratori a tempo pieno:
a) gli Stati membri, dopo aver consultato le parti sociali conformemente alla legge o alle prassi nazionali, dovrebbero identificare ed esaminare gli ostacoli di natura giuridica o amministrativa che possono limitare le possibilità di lavoro a tempo parziale e, se del caso, eliminarli;
b) le parti sociali, agendo nel quadro delle loro competenze a delle procedure previste nei contratti collettivi, dovrebbero identificare ed esaminare gli ostacoli che possono limitare le possibilità di lavoro a tempo parziale e, se del caso, eliminarli.
È talmente chiaro che non credo proprio serva commentare oltre.
In tema di discriminazione assume rilevanza anche il D.lgs n. 198 dell’11 aprile 2006 dove possiamo leggere:

Art. 1 … La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione … L’obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, di leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attività.

Art. 10 … il Comitato (nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici – NdA) … promuove la rimozione … degli ostacoli che limitano l’uguaglianza tra uomo e donna nella progressione professionale e di carriera, lo sviluppo di misure per il reinserimento della donna lavoratrice dopo la maternità, la più ampia diffusione del lavoro a tempo parziale e degli altri strumenti di flessibilità a livello aziendale che consentano una migliore conciliazione tra vita lavorativa e impegni familiari …

Art. 25 … 1. Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le candidate e i candidati, in fase di selezione del personale, le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.

2. Si ha discriminazione indiretta … quando  una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro, apparentemente neutri mettono o possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di
particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso …

2-bis. Costituisce discriminazione … ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio
dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:
a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori;
b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali;
c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera.
Non credo di svelare nessun arcano dicendo che il part-time è una tipologia di contratto di lavoro a cui accede con più frequenza – per l’ovvia volontà necessitata dal ruolo della donna nella famiglia – il personale femminile che quello maschile. Nei fatti quindi qualsiasi limitazione in termini di orario minimo o di percentuali massime di contratti part-time, colpisce più le persone di un sesso che dell’altro, ostacolandone le legittime ambizioni di accedere al mondo del lavoro o di contribuire, anche solo in parte, al benessere e alla prosperità familiare.
In questo quadro sempre più contraddistinto dalla eliminazione di ogni ostacolo di tipo legislativo, amministrativo o burocratico all’acceso al part-time – tipologia contrattuale da intendersi strumento di realizzazione dello  scopo dichiarato in molti provvedimenti (da ultimo il D.lgs n. 105/2022) ossia la conciliazione tra attività lavorativa e vita privata – è auspicabile che venga codificato il principio che non può essere messo e ammesso alcun limite al lavoro parziale. Da chicchessia.
E poiché pare che i contratti collettivi nazionali non riescano a comprendere questo principio, è necessario intervenire a livello di normativa, prevedendo che:
Qualsiasi previsione di natura giuridica, amministrativa o pattizia, anche se prevista dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, che limiti, anche solo di fatto, la possibilità di accesso al lavoro mediante un contratto di lavoro a tempo parziale è da considerare illegittimamente apposta e quindi soppressa di diritto.

 

 

1. A. Borella, Part-time e Ticket licenziamento: poniamo fine ad una discriminazione, in questa Rivista, settembre 2021, pag. 41.

 

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Senza filtro – LA TRASPARENZA NON TRASPARENTE: il D.lgs. 104/2022 e tutte le sue vergogne

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Il titolo di questo pezzo potrà sembrare forte, in effetti, ma il lettore può stare certo che i pensieri ed i sentimenti ispirati dalla pubblicazione in G.U. del D.lgs. n. 104/2022 ha suscitato un turbinio di pensieri ed appellativi nei quali la parola “vergogna” è una delle poche trascrivibili su questa illustre Rivista.
Benchè la visione critica non sia mai mancata, soprattutto in questa rubrica, poche volte è sembrato di cogliere, nel leggere un testo normativo, una così ampia distanza dalla pratica e dalla realtà come nel decreto in questione, un tale concentrato di insipienza e supponenza, un così totale dispregio della logica e del buon senso.
Qualcuno dirà (e ha già tentato di dire, peraltro): tutta colpa dell’Europa; difatti, il D.lgs. n. 104/2022 recepisce una Direttiva europea, di cui si dirà poc’anzi; ma lo fa con tale malagrazia che trova una qualche giustificazione solo se
si considera il curriculum vitae di molti nostri politici (ed in effetti, in questa legislatura, un campionario di così tanto insulsi dirigenti del Dicastero del Lavoro non può spiegarsi che con un qualche peccato – quale che sia, ma dev’essere stato davvero molto grave – che gli operatori del lavoro probabilmente hanno commesso a fronte di cotanta punizione).
Siccome le disgrazie non vengono mai da sole, dopo qualche giorno ecco spuntare anche la circolare n. 4/2022 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, la quale – con mia forte perplessità – è stata salutata positivamente
da diversi commentatori, ma che per me è solo la dimostrazione – anzi il suggello – dell’incompetenza e della tracotanza con cui vengono gestiti adempimenti e norme sul lavoro (e non solo), non risolvendo nulla e destando
ulteriori interrogativi. Come al solito, verrebbe da dire. Ma è un solito a cui abituarsi, o peggio ancora ringraziare quando ti vengono concesse delle bricioline inconsistenti, a mio avviso non è più sostenibile.
Ma cominciamo dall’inizio, avvertendo che l’analisi sarà un po’ lunga.

LA TEMPISTICA E GLI ATTORI COINVOLTI (E NON)
Normalmente l’analisi di un testo normativo comincia … dal testo. Ma qui è istruttiva qualche considerazione preliminare (i celebri “visto”, con cui una legge-decreto delegato legittima la propria emanazione).
Infatti, scopriamo che la direttiva europea n. 1152/19 è del giugno 2019 (ben tre anni fa) e che la legge delega al Governo per recepirla è dell’aprile 2021 (oltre un anno fa). Qualcuno ha fatto notare che il Decreto fosse di urgente
emanazione in quanto dal 1° agosto 2022 l’Italia, in caso contrario, sarebbe stata oggetto di una procedura di infrazione. A parte che le procedure di infrazione ormai non si contano (e costano parecchi soldi al nostro
Paese) ma davvero c’era bisogno di arrivare all’ultimo momento? Qui i casi sono due: o siamo in presenza di sprovveduti che fan le cose (male) di fretta e furia, oppure le cose sono fatte di corsa in modo da trovare una
qualche legittimazione nel farle proprio così.
È il classico dilemma per cui non si capisce bene se il legislatore indigeno ci sia o ci faccia (come direbbero a Roma), ma chi scrive ha già una tragica risposta alla questione: il nostro Legislatore contemporaneamente ci è e
ci fa, un mefitico mix di incapacità e malafede ideologica con le conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi. Senza contare la decorrenza: 13 agosto 2022. Tutti a ritardare un po’ di meritate ferie (che sono sancite da una serie di provvedimenti amministrativi e giudiziari: ad agosto si sospendono molte cose) per cercare di raccapezzarsi su una norma senza capo né coda, o quantomeno con più interrogativi che certezze.
E comunque la delibera finale di approvazione del Decreto da parte del Consiglio di Ministri è del 22 giugno 2022, e partiva da un parere preliminare del 31 marzo 2022; e già in quelle date lo schema di decreto circolante pareva talmente assurdo da risultare quasi uno scherzo di carnevale in ritardo. Credo che il pensiero di molti, compreso quello di  chi scrive, contasse su un rigurgito di misericordiosa intelligenza ministeriale a che il Decreto non uscisse nel testo così obbrobrioso (che al confronto il Quasimodo di Notre Dame de Paris è un modello da sfilata) con
cui è stato inizialmente dato alla luce. Con ingenuità e fiducia evidentemente malriposte chi poteva pensare all’emanazione di tale stortura, e per di più a ridosso di agosto?
Ma qualcuno sarà ben stato interpellato… A scorrere il preambolo normativo ci si imbatte ad un certo punto in un “Sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei lavoratori e datori di lavoro”. Non
possiamo esimerci da alcuni commenti in merito. Anzitutto, mi raccomando, i professionisti non sentiteli MAI, fosse il caso che magari un qualche buon consiglio ve lo diano … Chissà, se quel “fondata sul lavoro” di cui all’art. 1 della nostra Costituzione riguarda anche il mondo professionale: probabilmente nella testa di qualche Ministro (che sta
al lavoro come la fisica quantistica sta al gioco della briscola) i professionisti sono solo zuzzurelloni perdigiorno impegnati al più in  qualche gara di golf o tennis (ora anche paddle); perché mai, quindi, interpellarli nel
merito? Ma anche i sindacati dei lavoratori sono davvero orgogliosi di una norma che – nei fatti – li considera così incapaci di un minimo di rappresentanza, gestione ed informazione da spostarne ogni onere sui datori di
lavoro? Senza parlare delle organizzazioni datoriali: ecco, fossi un iscritto straccerei al volo la tessera di un’organizzazione che, sentita nel merito, non abbia minacciato uno sciopero (pardon, una serrata) generale contro la promulgazione dell’efferato decreto in argomento. Forse aveva ragione il compianto Marchionne, che a suo modo aveva interpretato il famoso detto “dai nemici mi guardo io ma dagli amici mi guardi Iddio”.
Perché l’intento perverso del Legislatore contro le aziende – qui non siamo di fronte all’incapacità ma alla diretta e voluta persecuzione, direi anche perpetrata con allegra faciloneria – è ben chiaro e si evince nel testo del Dossier-Scheda di lettura del 13 aprile 2022 al Senato. Citiamo testualmente (pag. 4): “Sebbene la direttiva comunitaria consenta il rinvio alla normativa vigente1, lo schema di decreto richiede che l’informazione sia indicata
in modo puntuale, gravando di fatto sul datore di lavoro la ricognizione degli strumenti adattabili al singolo lavoratore”. Detto in altre parole, il Legislatore ben conscio di poter fare  diversamente com’era nell’esatto spirito della  Direttiva, sceglie precisamente di aggravare le incombenze per i datori, con sanzioni pesanti in caso di inottemperanza anche solo parziale. Non è stupido (parliamone…), è proprio cattivo, contando sul bravo sonno generale (compreso quello delle forze politiche che si dichiarano pro-aziende) e su quello in particolare delle organizzazioni di categoria.
Ancora sulla tempistica, il legislatore pasticcione in sede di pubblicazione ci informa (art. 13) che le disposizioni del decreto si applicano a tutti i rapporti già instaurati al 1° agosto 2022. Entrando tuttavia in vigore il 13 agosto, il destino dei malcapitati assunti dal 2 al 12 non è chiaro. Ma sì, ci dice la circolare n. 4 dell’Inl, cosa vuoi che sia, è solo
una distrazione, uno sfasamento temporale, non dobbiamo ricorrere a complicati sofismi, è logico che le disposizioni si applichino a tutti gli assunti prima dell’entrata in vigore.
E qui due osservazioni sono necessarie. La prima è notare con stupore che l’Inl tratta di fatto il legislatore come l’ubriacone del paese: mica bisogna dar retta a tutto ciò che c’è scritto con tanta distrazione (eufemismo) sulla Gazzetta Ufficiale, la verità te la diciamo noi. Un misto (come detto) di tracotanza, incompetenza e mancato rispetto delle norme, compresa quella di attuazione delle Direttive comunitarie che consente, entro un periodo di 18 mesi, di portare delle modifiche ai decreti legislativi, anche se sarebbe sicuramente preferibile fossero scritti da subito con un minimo di decenza.
La seconda notazione è l’uso nella circolare di una locuzione (cosicchè, o altrove giacchè) a cui probabilmente viene attribuito un potere magico (come certe carte con cui giocano i ragazzi); in grammatica tali espressioni sono congiunzioni con valore consecutivo (cioè legano una seconda frase alla prima, la quale giustifica e sorregge il significato di ciò che segue), ma qui vengono usate appunto con un curioso valore risolutivo: stanno dicendo una cosa che non può per nulla essere giustificata da ciò che hanno appena espresso in precedenza, ma ci mettono (ci giocano, direbbero i ragazzi) un giacchè a caso e, voilà, tutto è risolto.
Infine, perdonatemi se ci ritorno, sulla decorrenza (13 agosto, il sabato prima di Ferragosto) stendiamo un velo pietoso. Meriterebbe, il Legislatore, di essere preso per le orecchie mentre sta a pancia all’aria godendosi il forse
non troppo meritato riposo e riportato d’urgenza alla scrivania a rileggere e correggere le proprie scempiaggini.

IL MIRAGGIO DELLA TRASPARENZA
Non entreremo nel merito dell’analisi puntuale del Decreto, che già trova spazio in altri contributi di questa Rivista, ma solo dei suoi punti più critici (che in realtà sono il Decreto meno alcuni scarni passaggi). Tuttavia, dobbiamo
subito chiarire un concetto: siamo assolutamente favorevoli a che le informazioni sul contratto di lavoro e sulla sua gestione siano rese accessibili in modo chiaro e fruibile a ciascun lavoratore (per inciso, è ciò che in genere
noi consulenti del lavoro già facevamo nei contratti attuali). Ciò su cui discutiamo è l’onere burocratico sempre più assillante (ai limiti dell’assurdo) e corredato da sanzioni sempre più aspre che vanno a colpire aspetti per lo più
formali e non sostanziali. Con un conseguente aggravio di costi a cui non fa quasi mai il paio un incremento effettivo delle tutele.
È come se ci fosse, per alcuni, un articolo non scritto nella Costituzione per cui “il nemico è l’azienda” (o il datore di lavoro) su cui vanno affossati oneri anche impropri. C’è un intero universo che va a scatafascio, c’è un caos generale con un sacco di problemi per cui si fa fatica a tirare avanti, ma l’importante è colpire indiscriminatamente le aziende
(e, mi raccomando, senza oneri per la pubblica amministrazione). L’immaginario di chi partorisce certi abomini è che la radice genetica del rapporto di lavoro sia il contenzioso.
Abbiamo, in compenso, leggi scritte male, disorganiche e segmentate, spesso di difficile comprensione anche per gli addetti ai lavori e sempre pronte ad essere messe in discussione dall’ispettore-sceriffo (anche contro le disposizioni
del proprio stesso Ministero) o dal giudice-giustiziere di turno. Non parliamo poi dei contratti collettivi, molto spesso un concentrato di rimandi e di cose non dette, o dette anche volutamente in modo ambiguo (lo ammettono gli stessi estensori: così poi il contenzioso si sposta a livello locale o aziendale, con vere e proprie prove di forza da una parte o dall’altra).
Non a caso su questa Rivista più volte abbiamo invocato (inutilmente) che la trasparenza partisse dall’alto2.
Ora tale onere si sposta sul datore di lavoro, in maniera abnorme. Sul punto è stato salutato con favore (poco
comprensibile) il contentino della circolare Inl per cui, fatta salva la comunicazione delle informazioni generali, “la relativa disciplina di dettaglio potrà essere comunicata attraverso il rinvio al contratto collettivo applicato o ad
altri documenti aziendali qualora gli stessi vengano contestualmente consegnati al lavoratore ovvero messi a disposizione secondo le modalità di prassi aziendale”.
L’alleggerimento, a ben vedere, è solo formale: lo Stato si defila da un obbligo ben preciso posto a suo carico dalla Direttiva e scarica i problemi su una non meglio precisata prassi aziendale. Inoltre, un qualsiasi dipendente o
sindacato animato dallo spirito di contraddizione o di contenzioso potrà bellamente non considerare l’interpretazione ministeriale e ricorrere direttamente all’autorità giudiziaria (art. 12 del Decreto), confidando sul fatto che l’intenzione del Legislatore ha volutamente escluso, come detto in precedenza, tale ipotesi.
Rimane inoltre il fatto che, a parte la complessità della normativa sul lavoro, la stessa  contrattazione collettiva è:
– tutto fuorchè chiara e trasparente;
– di difficile ed ardua (nonchè interminabile) lettura;
– spesso non disponibile, in particolare quella di secondo livello (territoriale o settoriale), gelosamente custodita dalle organizzazioni firmatarie.
Non si vuole entrare in polemica, solamente mi piacerebbe – tanto per dirne una – che un qualsiasi ministro o sottosegretario venisse a spiegare ad un onesto manovale il meccanismo di funzionamento delle casse edili.
E fra le norme di cui dar conto al lavoratore vi sono anche:
– i congedi retribuiti, un autentico mare magnum nel panorama italiano: notare che la Direttiva UE parlava di “congedo retribuito” (al singolare), con un chiaro riferimento alle ferie (vedi anche il “considerando” n. 1) e non a tutto il resto. Ma chi siamo noi italici non per non complicare la vita (alle aziende, si intende)?

– gli Enti a cui si versano i contributi ma anche qualunque forma di protezione sociale fornita dal datore di lavoro ( includiamo anche gli Enti bilaterali? Sì dai, così il mappazzone informativo si ingrossa sempre di più!).
Sempre per parlare di trasparenza e semplificazione, perché le precisazioni ridondanti e le estensioni di cui all’art. 1 del Decreto?
I lavoratori intermittenti (lett. c) non sono lavoratori subordinati? E allora perché precisarli a parte?
I collaboratori coordinati e continuativi di cui all’art. 409 c.p.c. n. 3 non sono lavoratori autonomi? A leggere il 409 si direbbe proprio di sì. E allora perchè inserirli, visto che il Considerando n. 8 prevede espressamente che “i lavoratori effettivamente autonomi non dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente direttiva”.

LE MODALITÀ DI COMUNICAZIONI E LA LORO CONSERVAZIONE
Un altro punto che sembra modesto ma che in poche righe è irto di contraddizioni ed interrogativi è l’art. 3, che vale la pena citare per intero. “Il datore di lavoro comunica a ciascun lavoratore in modo chiaro e trasparente le informazioni previste dal presente decreto in formato cartaceo oppure elettronico. Le medesime informazioni
sono conservate e rese accessibili al lavoratore ed il datore di lavoro ne conserva la prova della trasmissione o della ricezione per la durata di cinque anni dalla conclusione del rapporto di lavoro”.
Sulla chiarezza e trasparenza abbiamo già espresso tutte le riserve possibili. Concentriamoci un attimo sul formato. Cartaceo o elettronico. Sul cartaceo c’è poco da dire, qualche riflessione in più va fatta sul formato elettronico (che per la circolare Inl significa anche a mezzo mail). Sembra una certa semplificazione, sennonché dobbiamo andare con la memoria ad altri documenti di prassi.
In particolare richiamiamo l’interpello n. 13/2012 del 30 maggio 2012, relativamente alla consegna dei prospetti-paga mediante mail o sistema web, che è consentito unicamente alla precisa condizione di poterli materializzare
ovvero “mediante utilizzabilità di una postazione internet dotata di stampante e l’assegnazione di apposita password o codice segreto personale”. Cioè siamo un’amministrazione digitale, ma sul documento i diritti del lavoratore (che ormai ha uno smartphone anche per amministrare il proprio conto bancario, giocare in borsa o investire in bitcoin)
costringono il datore di lavoro a dover attrezzare di tutto e di più.
Allora che dite, sarà ora di ammodernarsi (quindi salutare il predetto interpello come pratica vetusta) o fra qualche tempo si riproporrà il dilemma amletico (stampare o non stampare?). Un problema particolare è dato dalla conservazione ed accessibilità al lavoratore. In italiano questo significa che per tutta la durata del rapporto (quale che sia) questa documentazione deve essere resa accessibile al lavoratore.
Cioè non basta che si consegni il chilometrico documento a tempo debito, ma ogni volta che il dipendente vuole potrà richiederne una copia o verificarne la conservazione. Un bello strumento fornito a chi volesse per
un’azione di disturbo al datore… (Facciamo sciopero? Ma no, andiamo tutti e duecento a chiedere, una volta al mese, una copia del contratto di lavoro all’ufficio del personale).
Non solo: la prova della trasmissione o della ricezione (che sono due cose diverse: basta la trasmissione o occorre anche accertarsi della ricezione? Chi lo sa….) va conservata per cinque anni dalla conclusione del rapporto di
lavoro. Quindi in un ipotetico rapporto durato vent’anni, la conservazione di un documento  e della prova della sua ricezione (anzi,  di tutti i documenti via via scambiati nel corso del rapporto) va mantenuta per ulteriori cinque anni, per un totale di venticinque. E anche senza che vi sia alcuna contestazione da parte del lavoratore, la mancata  conservazione della prova è sanzionata (ma questo lo vedremo dopo). In formato elettronico, dove  l’obsolescenza è velocissima, la cosa si presenta ancor più problematica.
Anticipiamo però una riflessione sulla sanzione specifica per questo adempimento; sanzione che non c’è ma qui Inl (prendendo una topica clamorosa) sostiene la sanzionabilità del mancato adempimento con un volo pindarico
e con l’utilizzo del magico “giacchè”.
L’errore di diritto è a dir poco marchiano: se un adempimento è privo di una sanzione l’Inl non può certo  inventarsela, al limite (la norma è recente, Inl dovrebbe conoscerla) si applicherebbe in questo caso il rinnovato
istituto della disposizione (art. 14, D.lgs. n. 124/2004, recentemente innovato – manco a  dirlo, in maniera peggiorativa – dall’art. 12/bis del D.l. n. 76/2020), applicabile in tutti i casi in cui le irregolarità rilevate in materia di
lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative (com’è appunto il caso in questione). Di solito Inl è più rigoroso, ma forse chi va con lo zoppo … Ma una notazione (per quelli che ce l’hanno
con l’Europa) è necessaria: la Direttiva non parla né della messa a disposizione continua né della conservazione “fin che morte non vi separi” ma solo ed unicamente della consegna dell’informativa al lavoratore. Tutto il resto
è frutto della mente macchinosa (altro eufemismo) del legislatore italiota.

LE SANZIONI, LE TUTELE E LA LORO APPLICAZIONE
Lasciando ad altri il compito di analizzare la portata sanzionatoria, è importante ribadire un principio. A parere di chi scrive la Direttiva europea (su alcuni punti anche discutibile) lascia un buon margine di discrezione a ciascuno
Stato membro, in un’ottica tutto sommato collaborativa e proattiva. Proviamo ad esempio a leggere l’art. 15 della
Direttiva (grassetto a nostra cura).

“1. Gli Stati membri provvedono affinché, qualora un lavoratore non abbia ricevuto a tempo debito i documenti o parte dei documenti di cui all’articolo 5, paragrafo 1, o all’articolo 6, si applichi almeno uno dei seguenti sistemi:
a) il lavoratore beneficia delle presunzioni favorevoli definite dallo Stato membro, che i datori di lavoro hanno la possibilità di confutare;
b) il lavoratore ha la possibilità di sporgere denuncia a un’autorità o a un organo competente e di ricevere un’adeguata riparazione in modo tempestivo ed efficace
2. Gli Stati membri possono prevedere che l’applicazione delle presunzioni e del meccanismo di cui al paragrafo 1 sia subordinata alla notifica del datore di lavoro e al fatto che il datore di lavoro non abbia fornito le informazioni mancanti in modo tempestivo”.

Ora leggiamo questa disposizione alla luce del vecchio art. 4 (“misure di tutela”) del D.lgs. n. 152/1997 (grassetto sempre a nostra cura).

1. In caso di mancato o ritardato, incompleto o inesatto assolvimento degli obblighi di cui agli articoli 1, 2, 3 e 5, comma 2, il lavoratore può rivolgersi alla direzione provinciale del lavoro affinché intimi al datore di lavoro a fornire le informazioni previste dal presente decreto entro il termine di quindici giorni.
2. In caso di inottemperanza alla richiesta della direzione provinciale del lavoro si applica al datore di lavoro la sanzione amministrativa prevista dall’articolo 9-bis, comma 3, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608.

A chi scrive sembra chiaro che la precedente norma – ma così suggerisce anche la Direttiva attuale – prevedeva un meccanismo di facilitazione dei rapporti fra le parti, a fronte del quale il lavoratore non soddisfatto delle  informazioni ricevute adiva la Dpl per un’azione di “esortazione” del datore di lavoro, che veniva sanzionato solo se ulteriormente renitente.
Il nostro Legislatore invece pare non vedesse l’ora di appioppare una bella sanzione (da 250 a 1500 euro, non esattamente bruscolini) che sarà applicabile in automatico, anche a fronte di un lavoratore del tutto soddisfatto delle informazioni ricevute e che non si sogna di fare alcuna rimostranza o richiesta. Si vuol fare la guerra alle aziende o fare cassa sulla loro pelle: anzi non solo sulla pelle delle aziende perché sanzionabile sarà anche il privato datore di lavoro domestico o la famiglia che fruisse di prestazioni attraverso il libretto di famiglia.
Ecco che ritorna una figura che speravamo sepolta da tempo ma che torna sempre più prepotentemente in auge: il legislatore con la mannaia impazzita, che punisce indiscriminatamente a destra e a manca, che colpisce alla cieca pensando di promuovere chissà quale equità (ma realizzando invece di fatto la solita somma ingiustizia).

ALTRE CONSIDERAZIONI SPARSE
Come detto, questo numero di Sintesi prevede altri interventi sul tema a cui sarebbe ingiusto  rubare spazio, ma tutto il resto del decreto è disseminato di scelte discutibili.
Rispetto al periodo di prova riproporzionato nel contratto a termine (la direttiva parlava in maniera generica di proporzione, il riproporzionamento sarà un grande oggetto di contenzioso),
al cumulo di impieghi ed alla transizione a forme di lavoro più stabili, ma anche rispetto all’art. 1/bis sui sistemi di monitoraggio automatizzati, mi chiedo perché non demandare in tutto o in parte alla contrattazione collettiva
qualche possibilità di gestione ulteriore? Perché da nessuna parte vedo scritto un “salvo diversa disposizione della contrattazione collettiva” (sia pure maggiormente rappresentativa)?
Eppure la Direttiva è molto aperta rispetto a questa possibilità.
Si veda il Considerando n. 38 “È opportuno rispettare l’autonomia delle parti sociali e il loro ruolo di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Le parti sociali dovrebbero quindi poter ritenere che, in particolari settori o situazioni, per perseguire lo scopo della presente direttiva siano più appropriate disposizioni diverse rispetto ad alcune norme minime stabilite nella presente direttiva. Gli Stati membri dovrebbero pertanto poter consentire alle parti sociali di mantenere, negoziare, stipulare e applicare contratti collettivi che differiscono da alcune disposizioni contenute nella presente direttiva, a condizione che il livello generale di protezione dei lavoratori non sia abbassato”.
E si veda anche l’applicazione del Considerando nell’art. 14 della medesima Direttiva. “Gli Stati membri possono consentire alle parti sociali di mantenere, negoziare, concludere e applicare contratti collettivi, in conformità del diritto o delle prassi nazionali, che, nel rispetto della protezione generale dei lavoratori, stabiliscano disposizioni concernenti le condizioni di lavoro dei lavoratori che differiscono da quelle di cui agli articoli da 8 a 13”.
Insomma, il Legislatore pare prendere a schiaffi tutti e di tutti infischiarsene: aziende, privati, professionisti, famiglie, parti sociali. Andando per la propria strada. E partorendo anche qualche strafalcione, come quello del comma 4 dell’art. 1/bis, scritto in un italiano pedestre e con riferimenti “un tanto al chilo” alla normativa sulla privacy e sul GDPR. Oppure la normativa sulla prestazione di lavoro all’estero, con la differenziazione (destinata
a creare confusione laddove già ce n’era parecchia) fra distacco transnazionale, “distacchetto” (non so come altro definire la c.d. “missione all’estero” superiore alle 4 settimane consecutive) e “distacchino” (la missione di periodo
inferiore). Forse sarà il caso, anche in Europa, di trovare definizioni meno equivoche.

CONSIDERAZIONI FINALI
Gli operatori sono al dilemma: lavorare come pazzi tutto agosto cercando di trovare il bandolo della matassa (la soluzione del contratto-monstre contro la versione light con integrazione di informativa, con tutte le varianti
possibili, compreso l’acquisto a caro prezzo di soluzioni buttate sul mercato da software house o banche dati) oppure darsi alla rivolta?
Chi scrive opta per una soluzione ragionevole: un mix di informazioni che in buona parte già erano presenti nei contratti ed un rimando a norme di legge e contrattazione collettiva, pronto a impugnare con decisione le sanzioni che volessero malauguratamente arrivare da parte di qualche scriteriato accertatore “shooter shooter”.
Resta forte l’amarezza per l’ennesima occasione persa per rilanciare nel Paese competitività ed intelligenza ed una visione collaborativa del rapporto di lavoro.
Qualcuno ha paragonato il trattato giuslavoristico, in cui il Legislatore vorrebbe aver trasformato un contratto di lavoro, al “bugiardino” dei medicinali, quel lungo foglietto di avvertenze e modi d’uso, di cui tutti abbiamo imparato a leggere le parti essenziali, saltando le ipotesi più catastrofiche che hanno, obiettivamente, lo scopo precipuo di riparare le spalle alle case farmaceutiche.
A mio modesto avviso il documento, anche di sintesi, di ciò che il decreto ha stabilito (e che la circolare ha solo vagamente ritrattato) è pari ad almeno il quadruplo dei più prolissi bugiardini che io abbia mai letto.
Tuttavia, una indicazione quasi farmaceutica dovremmo ricavarla da queste esperienze. È qualcosa che, a questo punto e visto l’andazzo, dovrebbe essere scritto a chiare lettere all’entrata di entrambe le Camere parlamentari:
“il legislatore può avere effetti collaterali anche gravi, sceglierlo con moderazione”.

 

 

 

  1. La Direttiva UE n. 2019/1152 prevede infatti espressamente (art. 4, co. 3) che “le informazioni di cui al paragrafo 2, lettere da g) a l) e lettera o), possono, se del caso, essere fornite sotto forma di un riferimento alle disposizioni legislative, regolamentari, amministrative o statutarie o ai contratti collettivi che disciplinano
    tali punti.” Correlativamente, è previsto (art. 5, co. 3) l’obbligo per gli Stati membri  di provvedere “affinché le informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro relative alle disposizioni legislative,
    regolamentari, amministrative o statutarie o ai contratti collettivi di applicazione generale che costituiscono il quadro giuridico applicabile siano rese disponibili a tutti gratuitamente e in modo chiaro, trasparente, completo e facilmente accessibile a distanza e per via elettronica, anche tramite portali online esistenti”.
  2. Ad esempio, per quanto riguarda la contrattazione collettiva sia concesso il rimando a E.Scudeller, A. Asnaghi: La conoscibilità dei contratti collettivi di lavoro nel settore privato: una proposta”, in Sintesi,
    marzo 2021, pagg. 28-29.

 

 

 

 

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DECRETO TRASPARENZA: un regime sanzionatorio più soft?

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

Il nuovo D.lgs. n. 104 del 27 giugno 2022, meglio conosciuto come Decreto Trasparenza, attuativo della direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea, presenta varie criticità interpretative.
Una questione che ha attirato in particolare la mia attenzione è l’apparato sanzionatorio previsto dall’art. 4 del D.lgs. n. 152/1997, rivisto dal nuovo D.lgs. n. 104/2022, che oggi quindi così dispone:

art. 4. – Sanzioni

1. Il lavoratore denuncia il mancato, ritardato, incompleto o inesatto assolvimento degli obblighi di cui agli articoli 1, 1-bis , 2, e 3, e 5, comma 2, all’Ispettorato nazionale del lavoro che, compiuti i necessari accertamenti di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, applica la sanzione prevista all’articolo 19, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276.
Contestualmente il Decreto Trasparenza interviene sul comma 2 dell’art. 19 del D.lgs. n. 276/2003, così modificandolo:
art. 19 – Sanzioni amministrative
2. La violazione degli obblighi di cui all’articolo 1, commi da 1 a 4 del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 250 a euro 1.500 per ogni lavoratore interessato. In caso di violazione degli obblighi di cui all’articolo 1-bis, commi 2, 3, secondo periodo, 5 del medesimo decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, si applica, per ciascun mese di riferimento, la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 750 euro …
… omissis …
In caso di violazione degli obblighi di cui al comma 6, secondo periodo, del medesimo articolo 1-bis si applica, per ciascun mese in cui si verifica la violazione, la sanzione amministrativa pecuniaria da 400 a 1.500 euro.

IL NUOVO QUADRO SANZIONATORIO
Il regime sanzionatorio risulta sostanzialmente modificato ma soprattutto di non facile lettura, complice anche l’infelice scelta di prevedere l’importo della sanzione in una norma, il D.lgs. n. 276/2003, per la violazione di una parte degli obblighi previsti da un’altra norma, il D.lgs. n. 152/1997, e una seconda, proprio il D.lgs. n. 152/1997, che rimanda a sua volta al D.lgs. n. 276/2003 per la quantificazione dell’importo da pagare, sia per la violazione degli stessi obblighi (già sanzionati dal D.lgs. n. 276/2003) che per l’inosservanza di ulteriori obblighi del D.lgs. n.
152/1997 ma in questo caso – e ciò emerge dalla interpretazione letterale e combinata delle due disposizioni – in base a quello che è da intendersi un chiaro requisito di procedibilità: la preventiva denuncia del lavoratore all’Ispettorato del lavoro.
Per una migliore leggibilità e comprensibilità del provvedimento sarebbe stato opportuno, a detta di chi scrive, evitare questa sovrapposizione di norme e di richiami ed inserire tutto in un unico articolo. In questo marasma sorge spontanea una domanda: che modo di legiferare è questo? E sì che le modifiche ai due D.lgs., con un confuso incrocio di rimandi, sono contenute proprio nel Decreto Trasparenza! Bella coerenza, non c’è che dire.
Ma torniamo a noi evidenziando in primis come la circolare Inl n. 4 del 10 agosto 2022 non si sia espressa sulla questione “Sanzioni” (problematica che auspichiamo verrà presto affrontata) come del resto sulle altre
criticità riguardanti l’informativa tra cui: la formazione, altri congedi retribuiti, forme di protezione in materia di sicurezza sociale, sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati. Probabile che nemmeno al Ministero del
Lavoro – il più diretto interessato e coinvolto visto che parliamo di un Decreto legislativo, quindi scritto dall’Esecutivo – abbiano ancora le idee chiare. E questo è tutto dire. L’argomento viene invece trattato nella circolare n. 11 del 18 agosto 2022 della Fondazione Studi, che ritiene la denuncia del lavoratore non costituire condizione di procedibilità, derubricandola a mero ausilio agli organi di vigilanza per quanto di loro non
specifica e diretta conoscenza.
Con tutto il dovuto rispetto si ritiene possibile una diversa lettura. La questione appare infatti a chi scrive più complessa e merita alcuni distinguo. Proviamo insieme a capirci qualcosa di più accennando anche un’analisi ragionata su alcuni degli obblighi previsti dal Decreto.

L’ART. 19, CO. 2, DEL D.LGS.N. 276/2003
Come abbiamo visto l’art. 19, comma 2, del D.lgs. n. 276/2003 prevede una sanzione per la violazione dei seguenti obblighi previsti dal D.lgs. n. 152/1997:
a. mancata comunicazione al lavoratore, secondo le modalità di cui al successivo comma 2, delle previste informazioni sul rapporto di lavoro (art. 1, comma 1).
b. mancato assolvimento dell’obbligo di informazione mediante consegna, all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro e prima dell’inizio dell’attività lavorativa, del contratto individuale o di copia del modello Unilav (art. 1, comma 2).
c. mancata integrazione entro 7 giorni dall’inizio della prestazione – ovvero entro un mese per le informazioni di cui alle lettere g), i), l), m), q), e r) – delle informazioni non contenute nei documenti indicati al comma 2,
lettere a) e b) ovvero nel contratto individuale o nel modello Unilav (art. 1, comma 3).
d. mancata consegna, in caso di cessazione del rapporto di lavoro prima della scadenza del termine di un mese dalla data dell’instaurazione, delle informazioni non contenute nei noti documenti previsti dal comma 2,
lettere a) e b) (art. 1, comma 4).
e. mancata informativa al lavoratore circa l’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio (art. 1-bis, comma 2). Il comma deve essere letto in stretto riferimento agli obblighi di cui al comma 1, tenendo anche presente che tutti gli obblighi informativi di cui all’art. 1-bis gravano anche sul committente nell’ambito sia dei rapporti di lavoro di cui
all’art. 409, n. 3, c.p.c. che dei rapporti di cui all’art. 2, comma 1, del D.lgs. n. 81/2015 (art. 1-bis, comma 7).
f. mancato riscontro entro 30 giorni alla richiesta del lavoratore di accesso ai dati e di ulteriori informazioni concernenti gli obblighi di cui al comma precedente (art. 1-bis, comma 3, secondo periodo). Qui va evidenziata una criticità non comprendendo quali siano le ulteriori informazioni, pertanto diverse da quelle obbligatorie e già fornite, a cui il lavoratore avrebbe interesse ad accedere. Il rischio è di trovarsi di fronte ad istanze pretestuose e ricattatorie.
g. mancata informazione scritta, almeno 24 ore prima, di ogni modifica delle informazioni già fornite ai sensi del comma 2 (art. 1-bis, comma 5).
Un commento a parte merita invece la violazione contestabile per i casi di:

h. mancata comunicazione – nel caso di utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati – delle informazioni e dei dati di cui ai commi da 1 a 5 dell’art. 1-bis alle rappresentanze sindacali aziendali ovvero alla rappresentanza sindacale unitaria e, in assenza delle predette rappresentanze, alle sedi territoriali delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art. 1-bis, comma 6, secondo periodo).
Di questo aggravio di burocrazia – sanzionato peraltro con ben 400 euro (sempre che si adempia alla diffida prevista dall’art. 13 del D.lgs. n. 124/2004) per ciascun mese in cui si verifica la violazione (e qui, a chi scrive, sfugge il riferimento temporale) – non se ne sentiva davvero il bisogno.

L’ART. 4 DEL D.LGS. N. 152/1997
Anche nel caso dell’art. 4 del D.lgs. n. 152/1997  le modifiche sono rilevanti.
La  prima cosa che salta all’occhio è che non è   più previsto il meccanismo che prevedeva: a) la denuncia del lavoratore all’Ispettorato; b) l’invito di quest’ultimo al datore di lavoro ad adempiere entro il termine di quindici giorni; c) l’applicazione della sanzione in caso di inottemperanza alla richiesta. Oggi il lavoratore denuncia e l’Ispettorato, compiuti i necessari accertamenti, applica la sanzione.
Altro rilievo è come all’art. 4 venga citato impropriamente, quale destinatario della denuncia del lavoratore, l’Ispettorato nazionale anziché quello territoriale. Dettagli o la cosa potrebbe avere delle conseguenze?
Il fatto però più rilevante – ne abbiamo già accennato – è che il predetto art. 4 prevede la sanzionabilità, su denuncia del lavoratore, sia per l’inadempimento agli specifici obblighi informativi indicati nell’art. 19, comma 2, del D.lgs. n. 276/2003, ma anche per l’inosservanza degli ulteriori e specifici obblighi informativi, imposti sempre dal D.lgs. n. 152/1997.
Di fatto, ad una prima lettura, solo a seguito di formale, circostanziata (e secondo chi scrive pure spontanea) segnalazione del lavoratore – denuncia che, ove esistente, dovrebbe essere citata nelle motivazioni del verbale pena l’illegittimità dello stesso – dovrebbero potersi sanzionare le seguenti ulteriori violazioni:
i. mancata comunicazione al lavoratore delle informazioni, previste per i lavoratori dipendenti, anche nell’ambito dei rapporti di lavoro di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., dei rapporti di cui all’art. 2, comma 1, del D.lgs. n. 81/2015, nonché dei contratti di prestazione occasionale di cui all’art. 54-bis del D.l. n. 50/2017 (art. 1, comma 5). Qui la criticità risiede nel fatto che questa informativa è dovuta nei limiti della compatibilità: un lavoro di analisi non semplice e foriero di contenzioso.
l. negato accesso al lavoratore alle informazioni già fornite; mancata conservazione della prova di avvenuta consegna delle informazioni stesse (art. 1, comma 8). Per i termini di conservazione si deve fare riferimento all’ultimo periodo dell’art. 3 del D.lgs. n. 104/2022 che li prevede per la durata di cinque anni dalla conclusione del rapporto di lavoro. Questa previsione merita una censura perché potrebbe accadere il caso di un dipendente assunto il 13 agosto 2022 e in forza per 40 anni nella medesima azienda, quindi fino al 12 agosto 2062. La mancata informativa potrebbe quindi essere sanzionata, su denuncia del lavoratore, sino al 12 agosto 2067. Ovvero 45 anni dopo l’assunzione. In pratica disponendo – seppur solo previa la denuncia del lavoratore interessato – un allungamento dei termini prescrizionali previsti dall’art. 28 della Legge n. 689 del 24 novembre 1981, secondo il quale il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la  violazione. Ma in fondo chi se ne importa: l’importante è portarsi a casa dei soldini. m. mancata integrazione all’informativa già data al lavoratore con le istruzioni riguardo la sicurezza dei dati e l’aggiornamento del registro dei trattamenti riguardanti le attività di cui al comma 1 dell’art. 1-bis, incluse le attività di sorveglianza e monitoraggio (art. 1-bis, comma 4). Andrebbe chiarita la portata di questo obbligo onde evitare la consegna di corposi manuali di cui il lavoratore non se ne farà nulla secondo l’assioma che cento informazioni equivalgono a zero informazioni.
n. mancata comunicazione al lavoratore – nel caso di utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati – in modo trasparente, in formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico delle informazioni e dei dati di cui ai commi da 1 a 5 dell’art. 1-bis (art. 1-bis, comma 6, primo periodo). Qui non si condivide sia l’utilizzo di aggettivi di difficile e ambigua interpretazione ma soprattutto la previsione di un dispositivo automatico per la lettura: a parte capire esattamente a cosa ci si riferisca, l’adempimento potrebbe risultare particolarmente oneroso per le aziende poco o per nulla strutturate.
o. mancato riscontro alla richiesta del Ministero del lavoro e dell’Ispettorato nazionale del lavoro alla comunicazione delle informazioni e dati di cui ai commi da 1 a 5 dell’art. 1-bis e l’accesso agli stessi (art. 1-bis, comma 6, terzo periodo).
p. mancata informativa prevista per i casi di prestazioni di lavoro all’estero nell’ambito di una prestazione  transnazionale di servizi, sia per i distacchi in uno Stato membro che in uno Stato terzo (art. 2, commi 1, 2 e 3).
q. mancata comunicazione al lavoratore, entro il primo giorno di decorrenza degli effetti della modifica, di qualsiasi variazione degli elementi di cui agli articoli 1, 1-bis e 2 che non derivino direttamente dalla modifica di
disposizioni legislative o regolamentari, ovvero dalle clausole del contratto collettivo (art. 3). Qui il Legislatore non ha considerato che qualora il Ccnl prevedesse una modifica del periodo di preavviso il lavoratore che
volesse dimettersi non saprebbe che i termini di preavviso sono ora diversi rispetto a quanto comunicatogli in sede di assunzione. Un bel ciao alla informazione trasparente. Merita anche qui un commento specifico il
richiamo alla violazione prevista per:

r. il mancato riscontro entro trenta giorni, e parliamo dei rapporti di lavoro in corso alla data di entrata in vigore del D.lgs. n. 152/1997, alla richiesta del lavoratore di accesso alle informazioni di cui agli articoli 1, 2 e 3 (art. 5, comma 2).
Il perché di questa specifica attenzione? Semplicemente perché il predetto art. 5 del D.lgs. n. 152/1997 – che riguardava le disposizioni transitorie per i rapporti di lavoro in corso alla data di entrata in vigore del provvedimento del 1997 – non risulta modificato dal D.lgs. n. 104/2022.
Si tenga peraltro presente che lo stesso Decreto Trasparenza prevede, come ovvio, una propria disciplina transitoria disponendo all’art. 16, comma 2 che: … il datore di lavoro o il committente, su richiesta scritta del lavoratore già assunto alla data del 1° agosto 2022, è tenuto a fornire, aggiornare o integrare entro sessanta giorni le informazioni di cui agli articoli 1, 1-bis, 2 e 3 del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, come modificati
dall’articolo 4 del presente decreto. In caso di inadempimento del datore di lavoro o del committente, si applica la sanzione di cui all’articolo 19, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Ora, l’art. 5, comma 2, del D.lgs. n. 152/1997 – espressamente richiamato dal nuovo art. 4 dello stesso provvedimento e, ribadiamolo,
mai abrogato – prevede un termine di trenta giorni per dare riscontro al lavoratore che, ove inascoltato, denuncerà il fatto all’Ispettorato, mentre il comma 2 dell’art. 16 del D.lgs. n. 104/2022 ne prevede ben sessanta, senza peraltro sia chiaro se per la sanzione sia necessaria la specifica  denuncia del lavoratore o basti una presa d’atto del fatto in sede ispettiva.
Insomma, il solito legislatore pasticcione.
Mi chiedo quando vedrà la luce un Decreto Trasparenza, con destinatarie le imprese, che imponga al Legislatore l’emanazione di norme chiare, limpide e comprensibili

 

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Senza filtro – SU SU, FORZA, CIRCOLARE … CIRCOLARE …

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

I have a Dream. Parlo di un sogno dal punto di vista professionale. Eh sì, perché anche noi Consulenti del Lavoro abbiamo dei sogni. Si dice del resto che i sogni aiutano a vivere meglio. Il mio è quello di veder dare alla luce una norma di legge che non necessiti di alcuna circolare, esplicativa o interpretativa che sia. Non pretendo molto. Mi basta un testo sufficientemente chiaro, magari che tenga conto della regola giornalistica delle 5 W: Who, What, Where, When, Why, che tradotto è Chi, che cosa, dove, quando e perché. Nessun bisogno di attendere per sapere cosa ne pensano Ministero del Lavoro, Ispettorato del lavoro, Inps, Inail o Agenzia delle Entrate. Se proprio proprio, giusto una circolare con cui gli Enti coinvolti danno – ove sia richiesto dal tipo di provvedimento – mere istruzioni applicative: usa questo strumento, questa modulistica, questo codice, fallo entro questa data. Del resto, se una norma è chiara non vi è alcuna reale necessità che qualcuno ce la spieghi, che la interpreti, che ci illumini. La legge non ammette ignoranza, il che non significa solo che non è scusabile l’averne ignorato l’esistenza ma anche che l’ignorante, l’illetterato, l’incolto deve poterla capire da solo. Ma soprattutto che chi la scrive non deve esserlo.

Il mio personalissimo sogno prevede un corollario ossia veder divulgata una circolare in tempo reale o, perlomeno, quasi contestualmente alla pubblicazione della norma. Il che significherebbe un collegamento reale tra Legislatore e Pubblica Amministrazione, con la quale il primo verifica la fattibilità tecnica, ma soprattutto temporale, degli interventi proposti. Cosa che vorrebbe dire tempestività, efficacia ma soprattutto eviterebbe qualsiasi incertezza di gestione, escludendo così la necessità di sistemazione del pregresso, recuperi e conguagli, o cose simili. Ma si sa, i corollari sono un po’ come le ciliegie, uno tira l’altro e quindi: – si eviti la solita pluralità di interventi sul medesimo argomento perché se hai bisogno di intervenire continuamente a dare nuove e ulteriori spiegazioni vuol dire che nemmeno tu, che le spiegazioni le devi dare, hai compreso da subito il senso, il contenuto e la finalità della norma. Il che avrebbe due possibili spiegazioni: o la legge non era affatto chiara o che il “circolarista” non sa fare il suo lavoro. Che sia l’una o l’altra c’è poco da stare allegri. – basta circolari interpretative, perché se vi è la necessità, da parte di altri soggetti pubblici, di precisare un qualcosa di una disposizione di legge significa che la norma è stata scritta in modo non sufficientemente comprensibile e intelligibile.

– aboliamo le solite circolari di decine e decine di pagine che riportano pedissequamente, per la loro maggior parte, quanto già dice la legge. Limitatevi a dirmi ci  che mi serve per applicarla che il resto me lo so leggere da solo. – finiamola con circolari che integrano, rettificano e smentiscono le precedenti. Ogni correzione è infatti il riconoscimento di aver inizialmente frainteso ci  che la norma voleva dire. Anche qui o perché scritta male o perché chi la commenta non l’ha letta con la necessaria attenzione.

Insomma, il mio sogno è vedere i vari Enti pubblici fare l’esatto opposto di quello oggi ! fanno. E non solo da oggi.

Fatta questa premessa vorrei ricordare a tutti a cosa serve una circolare: è semplicemente quello strumento che consente l’esplicazione della potestà amministrativa da parte dell’Ente pubblico nel raggiungimento dei fini individuati dalla legge e per la cura degli interessi pubblici. Che valore ha quindi una circolare e quale il suo posizionamento nelle fonti del diritto? Una infarinatura o una rispolverata di diritto costituzionale – che vorremmo tanto consigliare agli estensori degli ultimi documenti di prassi – ci chiarisce che il nostro sistema giuridico si basa sul rispetto di quelle che sono chiamate fonti del diritto che hanno una struttura piramidale.

Semplificando, e di molto, diciamo che al vertice del sistema troviamo la Costituzione italiana, le leggi costituzionali, i trattati costitutivi dell’Unione Europea. Al secondo gradino, quali fonti primarie, ci sono le leggi ordinarie dello Stato e gli atti aventi forza di legge, le leggi regionali. Al terzo le fonti secondarie ovvero regolamenti governativi, regolamenti regionali e degli enti locali. All’ultimo gli usi e le consuetudini.

Come si pu  ben vedere tra le fonti non vengono annoverate le circolari, che quindi possiamo correttamente dire non costituire fonte del diritto e per questo non essere vincolanti né per i cittadini, né per i giudici. Ove non fosse abbastanza chiaro basti rammentare quanto a suo tempo venne ribadito dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 7521 del 15.10.2010:

Le circolari amministrative appartengono al novero delle cosiddette “norme amministrative interne”, atti adottati dalle Amministrazioni al fine di autorganizzare la propria attività e darsi la struttura più adeguata per la realizzazione e la cura degli interessi di propria pertinenza … Il fondamento del potere di emanarle va, infatti, rinvenuto non nella legge, ma nel generale principio di autorganizzazione degli ordinamenti giuridici autonomi e nel potere di supremazia degli organi sovraordinati su quelli sott’ordinati.

Sia dunque chiaro che la circolare non crea mai un obbligo o un diritto, non lo amplia né lo limita. Prende atto della sua esistenza e consistenza e fa in modo che si realizzi ci  che il Legislatore vuole sia fatto.

Di norma una circolare si rende necessaria per diramare le istruzioni operative a seguito dell’introduzione di una novità legislativa. Non fa altro che “spiegare” come il dipendente della P.A. deve comportarsi innanzi alle richieste dell’utenza o nell’organizzazione dell’ufficio medesimo. Per questo se si aspettano dei mesi per dire alla struttura cosa fare è chiaro che la macchina burocratica, già malfunzionante di suo, si inceppa. Che ci vuole a capirlo?

Ovviamente le istruzioni operative producono anche effetti esterni all’amministrazione, a volte incidendo sulle posizioni giuridiche di soggetti estranei all’organo da cui provengono. E qui, fin quando richiedono al cittadino di uniformarsi ad un certo comportamento per l’accesso ad un dato servizio, nulla questio: anzi la cosa risulta quanto mai indispensabile perché la macchina statale non si inceppi. È quando invece la circolare diventa integrativa se non addirittura suppletiva della norma che qualcosa non funziona. Vuol dire che il Legislatore non è stato sufficientemente chiaro nell’individuare e precisare la fattispecie, costringendo così la Pubblica Amministrazione a spingersi oltre quanto di propria competenza per dare applicazione ai desiderata (o presunti tali) del Legislatore. Qui il rischio evidente che la lettura fatta dall’interprete pubblico si discosti da quella dell’utente a cui il provvedimento è rivolto e che ci  porti a del contenzioso con coloro che si sentono danneggiati. È palese come in questa situazione il problema stia a monte: mi riferisco all’ignoranza del Legislatore riguardo spesso a certi meccanismi dell’apparato amministrativo i quali impedirebbero, senza un in- ! tervento correttivo della prassi, l’applicazione della norma come scritta. Una cosa – è bene sottolinearlo – che ormai è quasi diventata la regola.

Ed ecco che, in questo marasma, qualcosa di singolare – probabilmente mai avvenuto per quanto io mi possa sforzare di ricordare – è successo lo scorso fine giugno. L’Inps ha infatti pubblicato la circolare n. 76 del 30 giugno 2022 con la quale, intervenendo sulla Riforma degli ammortizzatori sociali, ha fornito le proprie indicazioni in merito alle modifiche riguardanti, lo rammentiamo, l’estensione dei beneficiari gli interventi e la rimodulazione delle relative aliquote di finanziamento. Non entreremo qui nel merito delle istruzioni fornite: ci  su cui vogliamo soffermarci è la tempistica con cui queste indicazioni sono state divulgate.

Ricordate? I have a Dream. Il sogno di veder pubblicare una circolare in tempo reale o, perlomeno, quasi contestualmente alla pubblicazione della norma così da garantirne l’immediata applicazione.

Una cosa che sarebbe più che normale visto che, in questo caso, parliamo di modifiche che dovevano entrate in vigore da gennaio 2022. È infatti chiaro che se si attende a fine giugno 2022 – ovvero 6 mesi, mezzo anno, 180 giorni – per dirci quanto, dal 1° gennaio, devono pagare aziende e lavoratori non puoi non immaginare che delle tardive istruzioni comportino dei “problemini” per quelle aziende che hanno nel frattempo cessato l’attività o anche soltanto in riferimento ai lavoratori che hanno risolto il loro rapporto di lavoro.

Se non ci arrivi da solo, caro amministratore della res pubblica, qualche domanda te la devi porre. Chi andrà a recuperare dagli ex-lavoratori quanto dovuto per i mesi del 2022 in cui sono stati in forza? Le aziende o se ne preoccuperà l’Inps? Gli faranno uno sconto, un abbuono? E la quota a carico dei datori di lavoro sarà ugualmente dovuta? Parliamo di 6 mesi di dimissioni e di licenziamenti, mica di bruscolini. E sì che noi su Sintesi la questione l’avevamo scritta già da aprile1 ed anche il nostro CNO, il mese dopo, l’aveva segnalata al Direttore Generale dell’Inps. Niente. Dall’Istituto manco un accenno alla cosa. E senza che si fa? Cantiamo tutti insieme Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto … chi ha dato, ha dato, ha dato … scurdámmoce ’o ppassato, simmo ’e Napule paisá! … ?

E per il danno erariale come la mettiamo?

Certo, trovare le colpe quando si parla di P.A. è sempre un problema. E poi c’è quel maledetto meccanismo per cui le circolari le prepara l’Inps ma poi devono passare al vaglio del Ministero. Vero, ma 180 giorni per questo iter sono comunque eccessivi. Qui difficile capire se si tratta di indolenza o dove si sia verificato l’inghippo.

Mi chiedo: è l’Inps che ha impiegato mesi per predisporre la circolare da consegnare al Ministero, che di contro è stato ligio e celere a concedere il proprio via libera? O è il Ministero che ha aspettato vari mesi a dare il suo ok ad una circolare preparata invece tempestivamente dall’Inps? Oppure sono tutti e due che se la son presa comoda, dividendosi equamente la responsabilità per questo ritardo?

Comunque sia se il Legislatore si fosse coordinato con gli uffici di Via Ciro il Grande, chiedendo se fosse coerente l’entrata in vigore della norma sugli ammortizzatori sociali prevista dal 1° gennaio 2022 con i tempi tecnici di sistemazione e adeguamento dei programmi informatici dell’Istituto, forse ci saremmo evitati tutti questi problemi.

E non finisce mica il cielo, cantava Mia Martini. All’Inps invece non finiscono mai le circolari ed i messaggi. Infatti, il giorno seguente la pubblicazione della circolare n. 76, appare il messaggio n. 2637 del 01 luglio 2022, che rettifica le prime indicazioni che avevano stabilito l’adeguamento delle procedure di calcolo del carico contributivo a decorrere dal periodo di competenza “GIUGNO 2022” e il conseguente recupero per i mesi pregressi (dal mese di Gennaio 2022 fino al mese di maggio 2022) … esclusivamente nei flussi UniEmens di competenza di giugno, luglio e agosto 2022.

Ovviamente – ma lo avrebbe capito pure un bambino – non potevano esserci i tempi tecnici per adeguare i software paghe e per questo con il nuovo messaggio si è stati costretti a rettificare la precedente indicazione consentendo quindi l’adeguamento delle procedure a decorrere dal periodo di competenza “LUGLIO 2022” e il recupero contributivo per i mesi pregressi (dal mese di Gennaio 2022 fino al mese di giugno 2022) … esclusivamente nei flussi UniEmens di competenza di luglio, agosto e settembre 2022. In un solo giorno l’Inps si accorge di aver scritto una stupidaggine e corre ai ripari. A questo proposito leggiamo sul sito web dei Consulenti del lavoro che la rettifica sarebbe avvenuta grazie all’intervento del nostro Ordine (Aliquote contributive: Inps accoglie richieste del CNO). La cosa se possibile appare ancor più imbarazzante: all’Inps, senza di noi, non si sarebbero nemmeno accorti di questa criticità. Peraltro, non crediamo certo che il CNO abbia avuto contezza della circolare il 30 giugno, che la sera stessa abbia “telefonato” al Direttore Generale per esternare il proprio disappunto ed il Direttore nella notte abbia partorito il messaggio pubblicato poi il 1° luglio 2022. Più probabile che la circolare sia arrivata (informalmente) sulla scrivania dei vertici dei Consulenti molto prima e che le osservazioni siano arrivate all’Inps quantomeno qualche giorno prima della pubblicazione della circolare n. 76/2022. Ove fosse corretta questa ricostruzione, una volta saputo l’Istituto della problematica perché, ci chiediamo, pubblicare una circolare sbagliata per rettificarla il giorno seguente con un messaggio ad hoc?

Non conveniva correggerla direttamente, la circolare? Non mi si dica che occorreva ripassare di nuovo dal Ministero chiedendo l’autorizzazione anche per simili bazzecole? Anche perché poi la rettifica l’Inps l’ha fatta, sua sponte, il giorno dopo senza chiedere alcunché a nessuno.

Ma qualche domanda ce la dobbiamo porre anche sul modus operandi dei tecnici ministeriali circa le procedure di validazione delle circolari Inps.

Infatti, se anche fosse che il Ministero abbia licenziato la circolare in prossimità della fine di giugno perché non ha corretto egli stesso i riferimenti al mese di giugno con luglio? Ma le leggono le circolari, entrando nel merito del loro contenuto, o fanno semplicemente da ufficio passacarte? Non si sono accorti della sciocchezza che stavano autorizzando a pubblicare? Chi è il responsabile di questa ennesima figuraccia da dilettanti del diritto e della gestione della cosa pubblica?

Oddio, un dubbio: non sarà che la circolare se la sono letta già a febbraio, piuttosto che a marzo (quando il riferimento al mese di giugno ci poteva anche stare), e se la sono tenuti nel cassetto a stagionare un poco senza quindi una sua rilettura finale?

Anche in questo caso il Ministero non ne esce affatto bene.

Comunque sia è più che evidente che il sistema, così come oggi strutturato, non funziona. Il problema è che se provi ad avvicinarti per capire o per cambiare qualcosa ti senti dire dal solito “agente”:

Su su, signori, per cortesia … non c’è niente da vedere … su su, forza, circolare … circolare …

  1. A. Borella, Le novità 2022 e la solita burocrazia Inps. Metti la cera, togli la cera, in questa Rivista, aprile 2022, pag. 32.

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L’indennità una tantum di 200 euro ai dipendenti. CHIARIMENTI INPS IN ORDINE SPARSO

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

IL MESSAGGIO N. 2397 DEL 13.06.2022: LE PRIME INDICAZIONI

Quasi un mese dopo l’emanazione del D.l. n. 50 del 17 maggio 2022, che ha previsto l’erogazione (per quanto qui di nostro interesse) di una indennità una tantum di 200 euro a favore dei lavoratori dipendenti, arrivavano con il messaggio n. 2397 del 13.06.2022 le prime indicazioni dell’Inps. Gli operatori del settore le criticità di questo provvedimento le avevano evidenziate praticamente da subito, noi compresi1; gli Enti interessati evidentemente se la prendono con più calma.

Va peraltro sottolineato che quanto riportato nel predetto messaggio non era nemmeno un granché: trovavamo giusta l’indicazione delle modalità di esposizione nel flusso Uniemens dei dati relativi al conguaglio del bonus erogato, mentre per gli aspetti applicativi relativi all’indennità in esame – così come per quella erogata direttamente dall’Inps ai soggetti di cui all’art. 32 del medesimo decreto – veniva preannunciata una specifica circolare. Un modus operandi, la pluralità di interventi sul medesimo argomento, già visto e da noi anche già aspramente criticato.2 Chi, dunque, sperava in un celere chiarimento sulla annosa problematica del periodo di erogazione dell’una tantum (cedolino paga di giugno o quello di luglio) oppure su quella dei lavoratori a tempo determinato è rimasto deluso. Sulla prima questione, le tempistiche di erogazione del bonus, l’Istituto si limita di fatto a ricordarci che l’articolo 31 citato dispone che l’indennità “è riconosciuta per il tramite dei datori di lavoro nella retribuzione erogata nel mese di luglio 2022” e che “nel mese di luglio 2022, il credito maturato per effetto dell’erogazione dell’indennità […] è compensato attraverso la denuncia” Uniemens. Quasi a sottintendere come la norma sia sufficientemente chiara: il bonus va inserito nel cedolino paga relativo alla retribuzione che sarà erogata a luglio (su quale prospetto paga dipenderà quindi dalle modalità di pagamento delle retribuzioni adottate in azienda), mentre il conguaglio dell’indennità anticipata ai lavoratori dovrà avvenire – a prescindere ovvero senza se e senza ma – nelle denunce di competenza del mese di luglio 2022. Dal messaggio Inps pareva quindi venire confermato un possibile sfasamento temporale nella gestione del bonus il quale, per le aziende che pagano gli stipendi nei primi giorni del mese successivo, comparirebbe nei cedolini paga di giugno 2022 mentre il relativo conguaglio avverrebbe solo con il flusso Uniemens relativo alle retribuzioni di luglio 2022. A questo proposito segnaliamo il lodevole tentativo di semplificazione fatto dalla Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro che nell’Approfondimento datato 06.06.2022 prova a bypassare il problema segnalando che questa una tantum verrà erogata dai datori di lavoro con la mensilità del mese di luglio 2022. Una lettura sicuramente di buon senso ma che purtroppo giuridicamente non rispetta il dettato della norma che parla esplicitamente di una indennità riconosciuta, per il tramite dei datori di lavoro, nella retribuzione erogata nel mese di luglio 2022. Detto ci , in attesa di una preannunciata successiva circolare che avrebbe trattato gli ! aspetti applicativi relativi all’indennità in esame, va sottolineato come il documento di prassi qui in esame anticipasse la soluzione ad una prima problematica nascente dal fatto che il comma 2 dell’articolo 31 del D.l. n. 50/2022 prevede che l’indennità una tantum di cui al comma 1 spetta ai lavoratori dipendenti una sola volta, anche nel caso in cui siano titolari di più rapporti di lavoro.

L’Istituto precisava che il lavoratore, laddove fosse titolare di più rapporti di lavoro, potrà chiedere il pagamento dell’indennità una tantum ad un solo datore di lavoro, dichiarando al prescelto di non avere fatto analoga richiesta presso altri datori. La specifica dichiarazione non è prevista dalla norma ma sicuramente il richiederla è un consiglio di buon senso che va senz’altro assecondato. Cosa che in effetti noi già avevamo consigliato ai nostri lettori.

E fin qui tutto bene. Ma poteva mancare l’ennesima complicazione? Certo che no.

L’Inps, infatti, stabilisce che sia il datore di lavoro ad accollarsi tutti gli oneri derivanti dall’eventuale comportamento illecito del lavoratore che abbia richiesto, o avvallato di fatto, l’erogazione di un doppio (ma anche triplo e perché no, anche quadruplo) bonus ai suoi vari datori di lavoro. Le aziende vengono infatti avvertite che:

Nell’ipotesi in cui dovesse risultare, per il medesimo lavoratore dipendente, che più datori di lavoro abbiano compensato la predetta indennità una tantum di 200 euro, l’Istituto comunicherà a ciascun datore di lavoro interessato la quota parte dell’indebita compensazione effettuata, per la restituzione all’Istituto e il recupero verso il dipendente, secondo le istruzioni che verranno fornite con successivo messaggio. Si precisa, al riguardo, che l’importo indebitamente riconosciuto al lavoratore, ai fini del recupero, sarà suddiviso in parti uguali tra i diversi datori di lavoro interessati alla restituzione.

Nella sostanza la condotta illegittima non è quella del lavoratore che ha dichiarato il falso (o nemmeno si è preoccupato di segnalare al proprio datore l’esistenza di un contestuale diverso rapporto di lavoro) ma sarebbe del solo datore di lavoro che ha compensato indebitamente – anche se in perfetta buona fede e quindi senza colpa alcuna – la predetta indennità. Del resto, se come si suol dire le colpe dei padri ricadono sui propri figli, per la Pubblica Amministrazione le colpe dei lavoratori ricadono sui loro datori di lavoro. E se anche costoro non avrebbero ex lege alcun obbligo di richiede al lavoratore una dichiarazione in tale senso, nulla cambia: la responsabilità è sempre dell’azienda. Per questo motivo non sarà l’Inps a perseguire il lavoratore, attivandosi per il recupero dell’indebito presso di lui, ma ancora una volta dovrà essere il datore di lavoro a rincorrere il proprio dipendente. Auspicando sul punto un rapido ripensamento – magari grazie anche ad una efficace protesta degli Ordini professionali e delle Associazioni di categoria – c’è quantomeno da augurarsi che, nel caso il lavoratore avesse nel frattempo cessato il proprio rapporto di lavoro, l’Inps chiarisca che nessuna azione di recupero verrà intentata presso l’azienda.

 

IL MESSAGGIO N. 2505 DEL 21.06.2022: NOVITÀ, CONFERME E RETTIFICHE

Appena una settimana dopo i primi chiarimenti ufficiali viene pubblicato il messaggio n. 2505 del 21.06.2022 con l’esplicita intenzione di chiarire quale sia la retribuzione erogata nel mese di luglio 2022, così come indicato nella disposizione di legge.

Si precisa così che la retribuzione nella quale riconoscere l’indennità da parte dei datori di lavoro è quella di competenza del mese di luglio 2022, oppure, in ragione dell’articolazione dei singoli rapporti di lavoro (ad esempio, part-time ciclici) o della previsione dei Ccnl, quella erogata nel mese di luglio del corrente anno, seppure di competenza del mese di giugno 2022. Cercando di interpretare l’indicazione di prassi parrebbe che l’importo del bonus potrà essere erogato con la paga di giugno 2022 ! solo nel caso esista una esplicita e puntuale previsione del contratto collettivo nazionale che consenta il pagamento nel mese successivo la competenza. Per quale motivo vengano esclusi i contratti di secondo livello, quelli aziendali o anche solo la prassi aziendale non è dato sapere. Va infatti detto che la norma non pare proprio fare alcuna distinzione ma si riferisca ad una mera situazione di fatto ovvero la “erogazione” della retribuzione nel mese di luglio. Peraltro chi scrive ritiene che la scelta di richiamarsi alle previsioni degli accordi nazionali possa essere causa di complicazioni oltre che di possibili contenziosi. Per intuirlo sarebbe bastato degnarsi di dare un’occhiata alle variegate previsioni dei Ccnl circa le tempistiche di corresponsione della retribuzione.

Si deve inoltre segnalare come, in conseguenza di questo nuovo chiarimento, l’Istituto abbia dovuto rettificare le istruzioni circa le modalità di conguaglio dell’indennità una tantum sostenendo, oggi, che i datori di lavoro potranno recuperare l’indennità anticipata ai lavoratori nelle denunce di competenza del mese di giugno 2022 o luglio 2022. Si corregge pertanto quanto detto nel messaggio n. 2397/2022, pubblicato giusto una settimana prima, dove venivano indicate le sole denunce del mese di luglio, la qual cosa peraltro coincideva con quanto previsto dalla norma.

Ci si permetta qui, in riferimento a questa nuova indicazione, un’amara considerazione. Si ha la netta sensazione che l’Istituto si sia improvvisamente accorto del fatto che le aziende private (e sono tante) pagano di norma le retribuzioni i primi giorni del mese successivo, segnalandole peraltro come se si trattasse di una esigua parte della platea dei possibili beneficiari, tanto da citarle addirittura dopo i lavoratori occupati con part-time ciclico. Ma l’aspetto più imbarazzante di tutta questa vicenda è senza dubbio il fatto che il chiarimento sul periodo di erogazione dell’una tantum arriva, e lo si dice chiaramente, d’intesa con il Ministero del Lavoro. Ora la norma che ha introdotto il bonus qui in esame è un decreto legge del Governo, che diamo per scontato proviene, per competenza, da un’iniziativa legislativa  del  ministro  Orlando. Sappiamo anche che i dubbi sul periodo di erogazione (cedolino paga di giugno o di luglio) sono apparsi praticamente il giorno dopo la pubblicazione della norma. Solo dopo più di un mese il Ministero, bontà sua, ci degna della sua attenzione.

Ma non ci sono solo novità ma anche una apparente forzatura. L’Inps, infatti, dopo averci precisato cosa si debba intendere per retribuzione erogata nel mese di luglio (noi che sappiamo leggere l’italiano lo avevamo capito da subito), aggiunge una precisazione sostenendo che il rapporto di lavoro, in ogni caso, deve sussistere nel mese di luglio 2022. Come dire che quel lavoratore che percepirà la retribuzione di competenza giugno 2022 nel mese di luglio, ma dovesse aver cessato il rapporto di lavoro il 30 giugno, perderebbe il diritto al bonus.

Un requisito, quello della sussistenza del rapporto lavorativo il 1° di luglio, che non si legge direttamente nel testo di legge. La norma infatti richiede esclusivamente che il lavoratore abbia beneficiato nel primo quadrimestre dell’anno 2022 dell’esonero di cui all’articolo 1, comma 121, della legge n. 234/2021 per aver diritto al bonus.

Una lettura che, a chi scrive, desta qualche perplessità. Se infatti una visione organica del provvedimento – che rammentiamo prevede la compensazione nell’Uniemens del mese di luglio 2022 degli importi erogati ai lavoratori – potrebbe far presupporre una mezza volontà del Legislatore di richiedere l’esistenza del rapporto di lavoro nel mese di luglio (una lettura giustificata, forse, più da questioni tecniche collegate alla elaborazione dell’Uniemens di luglio relativo a dipendenti cessati a giugno 2022 ma con retribuzione pagata a luglio) oggi, dopo l’apertura dell’Inps ! al conguaglio anche nel mese di giugno dell’una tantum erogata dai datori che pagano il mese successivo le retribuzioni, non si comprende proprio il diniego del beneficio ai lavoratori cessati prima del 1° luglio.

 

IL MESSAGGIO N. 2559 DEL 24.06.2022: LA DICHIARAZIONE DEL LAVORATORE

E ci volevamo far mancare un nuovo messaggio? Certo che no ed ecco che dopo solo tre giorni arriva il messaggio n. 2559 del 24.06.2022. E siamo a tre in undici giorni. Forse un nuovo record.

Con questo intervento l’Istituto propone un fac-simile, non vincolante, della dichiarazione che il lavoratore deve presentare per dichiarare di non essere titolare delle prestazioni di cui all’articolo 32, commi 1 e 18.

Rammentiamo che la dichiarazione è onere del lavoratore ma l’Istituto e il Ministero paiono proprio rivolgersi al solo datore di lavoro al quale riconoscono la possibilità di personalizzarlo. Manco loro evidentemente sanno quale sia la formulazione esatta richiesta dalla legge.

Leggendo il testo proposto non possiamo non notare come la dichiarazione sia più articolata rispetto la previsione di legge e preveda inoltre l’allegazione di un documento di identità, quasi fosse una dichiarazione sostitutiva ex D.P.R. n. 445/2000 (ma che sappiamo così non essere). Si va quindi ancora una volta oltre la norma ma ormai abbiamo capito che il Ministero è intenzionato ad usare le circolari dell’Inps per correggere le mancanze e gli errori fatti in sede di intervento legislativo.

 

E FINALMENTE LA CIRCOLARE: IMBARAZZANTE PURE QUESTA

In contemporanea con l’ultimo messaggio l’Inps, sempre in condivisione con il Ministero del Lavoro, pubblica la tanto attesa circolare n. 73 del 24.06.2022. Manca una settimana alla fine di giugno e quasi la totalità dei datori privati dovrà inserire in busta paga il bonus che altre indicazioni ci vengono fornite, altri dubbi vengono chiariti. Che dire: la tempestività non è proprio il pezzo forte della nostra Pubblica Amministrazione.

In primis ci viene detto che seppur il decreto legge n. 50/2022, emanato in data 17 maggio 2022, ha indicato nel primo quadrimestre dell’anno 2022 il periodo di riferimento nel quale verificare il diritto all’esonero di cui alla legge n. 234/2021, al fine di beneficiare dell’indennità una tantum di 200 euro, il periodo di riferimento … a seguito di conforme parere del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, tale periodo di riferimento è esteso fino al giorno precedente la pubblicazione della presente circolare.

Grazie a questa apertura anche chi non ha fruito nel primo quadrimestre dell’esonero dello 0,80% avrà diritto al bonus nel caso l’esonero gli sia stato riconosciuto nei cedolini paga di maggio e giugno 2022, con la sola esclusione – al fine di evitare comportamenti elusivi – dei lavoratori assunti dal 24 giugno 2022 in poi. In sostanza, e ce lo chiarisce bene il Direttore generale dell’Inps in una lettera pubblicata in questi giorni ne Il Sole 24 Ore – dopo le Faq ci mancavano solo le corrispondenze epistolari sui quotidiani – si deve fare riferimento (per verificare l’applicazione dell’esonero dello 0,8%) ai contratti di lavoro dipendente esistenti nel periodo 1° gennaio-23 giugno 2022.

Bene, bravi, ma non è quello che prevede il decreto. Una norma, lo ribadiamo, scritta dal Ministero del Lavoro e che lo stesso Ministero vorrebbe modificare in via amministrativa. No, così non si pu  fare.

La circolare affronta poi un’altra problematica ovvero la questione dei lavoratori stagionali, a tempo determinato e intermittenti di cui agli articoli da 13 a 18 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 che, nel 2021 abbiano svolto la prestazione per almeno 50 giornate” e ai “lavoratori iscritti al Fondo pensione lavoratori dello spettacolo che, nel 2021 abbiano almeno 50 contributi giornalieri versati” e che abbiano avuto un “reddito derivante dai suddetti rapporti non superiore a 35.000 euro per l’anno 2021. !

Permettetemi prima di tutto una bella tirata d’orecchi all’estensore della norma per quella virgola posizionata (lo troviamo in ben due differenti passaggi del provvedimento) tra il che e nel 2021 che non ha alcun senso. Esiste una regola che dispone che “la virgola non separi ci  che la logica e la grammatica esigono che resti unito”. Il mio maestro delle elementari probabilmente mi avrebbe rotto il righello sulle dita. Ma evidentemente le regole di sintassi e grammatica, non trovano più cittadinanza in tutto il nostro paese, non solo sui social. Detto questo sulla questione lavoratori stagionali, a tempo determinato, intermittenti e lavoratori dello spettacolo la circolare ci precisa che quanto previsto dall’articolo 32, relativamente al pagamento diretto da parte di Inps, non riguarda la generalità dei lavoratori stagionali, a tempo determinato, intermittenti e iscritti al Fondo Pensione Lavoratori dello Spettacolo, bensì solo coloro i quali abbiano avuto determinati requisiti nel 2021. Pertanto, con la retribuzione di luglio 2022, come sopra individuata, i datori di lavoro dovranno, in automatico, pagare l’indennità anche ai lavoratori stagionali, a tempo determinato, intermittenti e iscritti al FPLS, laddove in forza nel mese di luglio del corrente anno, indipendentemente dalla verifica e dalla sussistenza dei requisiti di cui ai predetti commi 13 e 14 dell’articolo 32.

Anche per questa fattispecie viene quindi ribadito il requisito dell’esistenza del rapporto nel mese di luglio. Per quanto già detto più sopra noi non saremmo d’accordo ma questo è quanto sostiene l’Istituto. E così pure il Ministero del Lavoro.

Di conseguenza i lavoratori stagionali, a tempo determinato, intermittenti o dello spettacolo che hanno cessato il lavoro il 30 giugno dovrebbero rivolgersi direttamente all’Inps, sempre che possano far valere i richiesti requisiti nel 2021. Per essere ancora più precisi l’indicazione dell’Istituto è quindi che i lavoratori in forza nel mese di luglio del corrente anno percepiranno l’indennità dai loro datori ricorrendone i presupposti di legge; per gli altri lavoratori il pagamento da parte di Inps, infatti, sarà residuale, a domanda, secondo i requisiti già indicati e specificati dalla norma, laddove tali lavoratori non abbiano già percepito l’indennità nel mese di luglio 2022, ove spettante. Anche in questo caso non è certo quello che dice la norma. E anche qui siamo davanti all’ennesima correzione in corsa, per via amministrativa, di un Decreto scritto veramente male dal Ministero del Lavoro.

 

CONSIDERAZIONI FINALI

Il quadro sopra descritto è desolante e conferma che per l’erogazione del bonus di 200 euro sono state fatte scelte sbagliate che hanno reso estremamente complicata la sua gestione: solo per citarne alcune si parte dal riferimento allo sgravio dello 0,80% arrivando al requisito della retribuzione erogata nel mese di luglio. Non c’è nulla da fare, l’attuale Legislatore proprio non riesce a fare le cose semplici. La nostra conclusione è quindi ovvia: qualcuno dovrebbe avere il coraggio di chiedere scusa, ai lavoratori, alle aziende ed anche ai professionisti che li assistono.

Ancor meglio sarebbe ritirare il provvedimento e rivederlo semplificato prevedendo, ad esempio, la presentazione all’Inps, direttamente da parte del lavoratore (esiste lo Spid) o tramite un Patronato, di una istanza di accesso al beneficio senza coinvolgere i datori di lavoro nell’erogazione di importi irrisori la cui gestione, considerata la propensione del Legislatore di rendere tutto più farraginoso del necessario, porta a costi – in termini di tempo ma anche economici – assolutamente ingiustificati. Ma del resto abbiamo capito la regola aurea della nostra P.A.: quando non sei capace di fare una cosa, la deleghi ad altri. Rimettiamoci mano, insomma. E magari aggiungiamoci un poco di buona volontà per scriverlo, una volta tanto, in maniera decente e comprensibile, senza che vi sia la solita necessità di una raffica di chiarimenti o di integrazioni di prassi.

 

 

1. A. Borella, Le novità 2022 e la solita burocrazia Inps. Metti la cera, togli la cera, in questa Rivista, aprile 2022, pag. 32.

2. A. Borella, L’erogazione del bonus di 200 euro ai dipendenti. Un automatismo sì, ma previa dichiarazione, in questa Rivista, maggio 2022, pag

 

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