I NUOVI CONTRATTI A TERMINE e l’azzeramento del periodo “acausale”

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

“Se si consente al legislatore (e alla prassi) l’utilizzo
di un linguaggio giuridico inadeguato,
non ci si può poi lamentare dell’incertezza del diritto.”

 

Fiumi di parole sul contratto a termine che pare proprio non trovare pace. Del resto norme scritte male portano al proliferare di indicazioni contrastanti della dottrina, di circolari fantasiosamente interpretative, di sentenze che dicono tutto e il contrario di tutto. Con incertezze operative che durano anni, con inevitabili ricadute sul raggiungimento degli obiettivi che i provvedimenti si prefiggono. La Legge n. 85 del 3 luglio 2023, di conversione del D.l. n. 48 del 4 maggio 2023 è, ahimè, destinata a produrre altro spreco di inchiostro in quanto da un lato non ha risolto alcuni dubbi dell’originario decreto-legge e dall’altro ne ha introdotti dei nuovi. E pure di un certo peso.

LE NUOVE CAUSALI

Con il D.l. n. 48/2023 come sappiamo si è provveduto alla riscrittura della Disciplina del contratto di lavoro a termine di cui all’articolo 19 del D.lgs n. 81 del 15 giugno 2015, nei seguenti termini:

  1. Al contratto di lavoro subordinato pu essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto pu avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:
  2. nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51;
  3. in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; b-bis) in sostituzione di altri lavoratori.

Partiamo dalla premessa che l’inciso solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni letto in tutt’uno con ognuna delle tre ipotesi non aiuta di certo la comprensione del testo, motivo per il quale sarebbe stata opportuna la sua espunzione e una migliore riscrittura delle singole casistiche.

Va da sé che molti commentatori – tra cui chi scrive – si sono domandati il senso della previsione della lettera b), un confuso mix di condizioni e di motivi, che si presta ad una duplice lettura. Proviamo a riassumere la questione.

Il passaggio va letto in stretta connessione con la precedente lettera a) che consente il superamento del limite dei primi dodici mesi complessivi di acausalità (senza superare comunque i ventiquattro) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51. Qui non vi è alcun dubbio che il rimando è ai contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.lgs. n. 81/2015 che, lo ricordiamo, sono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.

La lettera b) invece è scritta davvero male. Nulla questio sulla prima parte del periodo che ci segnala come la possibilità prevista dalla lettera b) di superare l’anno di acausalità rilevi solo nel caso si registri una assenza delle previsioni di cui alla lettera a). Una premessa assolutamente chiara.

Il problema nasce dal successivo periodo che risulta separato da una virgola, segno di interpunzione la cui presenza o assenza cambia, e di molto, il senso del discorso. Una cosa infatti è dire in assenza delle previsioni di cui alla lettera a) nei contratti collettivi applicati in azienda (senza virgola), la cui conseguenza è che in tale ipotesi rilevano le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti. In questo caso risulta pacifico che il riferimento ai contratti collettivi (seppur ridondante) è sempre a quelli di cui all’art. 51.

Altra cosa è leggere la frase come è stata scritta – appunto con la virgola – che per taluni deve essere interpretata nel senso che, in assenza delle previsioni derogatorie nei contratti collettivi ex art. 51, rilevano quelli applicati in azienda anche se non comparativamente più rappresentativi oltre che, ma solo sino al 30 aprile 2024, le casistiche individuate dalle parti del contratto individuale riferite ad esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva. Questa lettura è senza dubbio intrigante potendosi basare sul fatto che proprio l’art. 51 sopra citato dispone che Salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono … Non si puo’  quindi escludere che con la lettera b) si sia voluto fare riferimento proprio ai contratti collettivi non comparativamente più rappresentativi ma comunque applicati in azienda. Un ostacolo a questa lettura è dato per , ancora una volta, dal mal posizionamento di una virgola. Quella virgola posta all’inizio dell’inciso “e comunque entro il 30 aprile 2024” che andrebbe spostata da prima a dopo la congiunzione “e”.

Volendo far finta di nulla, secondo questa tesi avremmo una sorta di podio che vede: – al primo posto i contratti leader;

  • al secondo qualsiasi contratto collettivo applicato in azienda;
  • medaglia d’argento ex aequo, ma solo fino al 30 aprile 2024, alle pattuizioni individuali siglate tra ditta e lavoratore.

Il che avrebbe un senso ovvero di sprone ai contratti comparativamente più rappresentativi di darsi da fare. E pure in fretta perché il dubbio che sovviene è che non abbiano tutta questa voglia di farlo.

Comunque la si veda – e intenzionalmente si son volute evitare disquisizioni troppo tecniche che del resto lascerebbero il tempo che trovano dato che un punto fermo lo metterà, ahinoi, la magistratura non prima di qualche decennio – è pacifico che oggi il passaggio di questa disposizione non puo’  ricevere una lettura univoca. Proprio per questo, a fronte di tutte le richieste di aiuto partite dalla dottrina, ci saremmo aspettati una puntuale modifica della norma che chiarisse definitivamente il punto. Un po’ di sana umiltà da parte del legislatore sarebbe stata apprezzata.

L’AZZERAMENTO DEL CONTATORE “PRECEDENTI RAPPORTI”

La legge di conversione introduce una novità sulla cui lettura la dottrina, manco a dirlo, si sta nuovamente dividendo.

Ci riferiamo alla introduzione nell’art. 24 del D.l. n. 48/2023 del nuovo comma 1-ter. Ai fini del computo del termine di dodici mesi previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, del decreto legislativo n. 81 del 2015, come modificati dai commi 1 e 1-bis del presente articolo, si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

In questo caso i dubbi riguardano la portata del termine “contratti” sul quale si registrano due letture.

  1. Per parte della dottrina i contratti di cui non tenere conto sono solo i rinnovi stipulati dal 5 maggio 2023. Continuerebbero invece a rilevare, ai fini della durata massima di 12 mesi di acausalità, le eventuali proroghe concordate dopo la data di entrata in vigore del D.l. n. 48/2023 in quanto si dovrebbe considerare la proroga non quale contratto ma unicamente la volontà delle parti di spostare in avanti la scadenza di un contratto già in essere.
  1. Secondo altri commentatori invece anche ! le eventuali proroghe beneficerebbero dell’azzeramento dei termini in quanto la proroga è a tutti gli effetti, civilisticamente parlando, un contratto ai sensi dell’art. 1321 c.c. che stabilisce che

Il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. Lo spostamento del termine è infatti un modo di “regolare” un precedente contratto che, senza questo nuovo patto, cesserebbe di esistere. Tale effetto lo si ottiene con un altro accordo tra le parti che rappresenta quindi un fatto sostanziale che – seppur innegabilmente collegato al precedente contratto – non pu  essere derubricato a qualcosa di secondaria o marginale importanza rispetto all’accordo originale. Chi scrive aderisce a questo secondo schieramento anche perché va sottolineato che il D.lgs n. 81/2015 non dà alcuna specifica definizione, per le proprie finalità, del termine contratto così come non lo ha mai fatto per i termini proroga e rinnovi. In assenza di una simile precisazione si ritiene che per il termine contratto non possano che rilevare le definizioni civilistiche. Ulteriore conferma la si trova nello spirito della legge di conversione dove si registra la volontà di assimilare le ipotesi di proroga e di rinnovo modificando, in questa direzione, il comma 01 dell’art. 21 del D.lgs. n. 81/2015, disponendo così che

Il contratto pu  essere prorogato e rinnovato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1.

Del resto proroga e rinnovo sono per la lingua italiana dei sinonimi. Se proprio vogliamo operare un distinguo il rinnovo è la proroga di pari durata del contratto originario. Si rinnova l’abbonamento alla piscina, l’assicurazione; si proroga il soggiorno al mare, la scadenza di un pagamento.

Altra considerazione che si pu  fare è che una lettura restrittiva della disposizione verrebbe agilmente superata in quelle realtà dove la contrattazione aziendale ha ridotto di molto o addirittura eliminato il cosiddetto Stop&Go. In sostanza per bypassare questa lettura restrittiva basterebbe licenziare il lavoratore il venerdì e riassumerlo il lunedì seguente. Del resto, inutile nasconderlo, la differenza tra proroga e rinnovo – soprattutto nella situazione sopra descritta di accordi aziendali – riguarda, nella sostanza, la presenza di un periodo di stacco. Gli effetti che si ottengono sono assolutamente identici: proseguire il medesimo rapporto di lavoro fino ad una data successiva.

DELUSIONE ED AMAREZZA

Abbiamo già evidenziato tutta la nostra delusione per il mancato chiarimento legislativo sulla prima problematica. Come al solito ci toccherà navigare a vista nel mare magnum dell’incertezza.

Chi scrive deve anche esprimere la propria amarezza nel prendere atto della cronica rassegnazione di molti degli operatori del settore, pubblicisti in primis, che confidano in rapidi chiarimenti da parte del Ministero del Lavoro. Ministero che, per inciso, a distanza di oramai quattro mesi dal D.l. n. 48/2023 ancora non si è espresso sulle questioni qui evidenziate. Ovviamente un intervento ministeriale rappresenterebbe un più che autorevole parere sulla portata delle disposizioni qui in commento dato che le modifiche alla disciplina dei contratti a termine sono state dettate proprio dal Dicastero a guida Calderone. Ma sappiamo bene che spesso la magistratura se ne infischia bellamente delle circolari. A volte pure della legge: ve lo ricordate cosa è successo alla disciplina dei licenziamenti introdotta dal Jobs Act?

Per questi motivi si auspica sulle problematiche qui trattate un rapido intervento di interpretazione autentica.

Magari facendosi aiutare non solo nel rigoroso ed incisivo utilizzo della terminologia ma anche per il necessario corretto posizionamento delle virgole.

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L’ESONERO PARZIALE DEI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI A CARICO DIPENDENTI. Criticità, rimedi e proposte

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

Ci sono norme mal pensate. Concepite con eccessiva superficialità da un legislatore bravo a considerare i benefici diretti ma incapace di valutare le possibili conseguenze negative che spesso si nascondono tra le pieghe di un provvedimento.
Norme la cui applicazione evidenzia delle storture che spesso costringono le aziende a trovare delle soluzioni (se non addirittura dei veri e propri escamotage) al fine di evitare che i propri lavoratori si lamentino degli effetti perversi che l’apparente favorevole applicazione di uno “sconto” ha di contro sulla perdita di altri benefici. Una di queste norme è l’esonero parziale dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori dipendenti introdotto per la prima volta dall’art. 1, co. 121, della Legge n. 234 del 30 dicembre 2021.
Una norma che ha visto successive modifiche che hanno amplificato la portata dei benefici in capo al lavoratore ma, contestualmente, anche gli effetti perversi.

L’ESONERO CONTRIBUTIVO
Nello specifico oggi, dopo le modifiche apportate dall’art. 39 del D.l. n. 48/2023, la norma prevede, per il periodo dal 1° luglio 2023 al 31 dicembre 2023, un esonero sulla quota dei contributi previdenziali per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore nelle seguenti misure:
– 6 punti percentuali a condizione che la retribuzione imponibile, parametrata su base mensile per tredici mensilità, non ecceda l’importo mensile di 2.692 euro;
– 7 punti percentuali a condizione che la retribuzione imponibile, parametrata su base mensile per tredici mensilità, non ecceda l’importo mensile di 1.923 euro.
In relazione alla tredicesima mensilità valgono le stesse aliquote, rispettivamente del 2% e 3%, previste dalla normativa vigente al 30 giugno 2023.

LE PROBLEMATICHE
Un primo problema nasce dal fatto che la norma individua una soglia al di sotto della quale il beneficio spetta, sopra la quale il beneficio non spetta.
Quando nel 2021 il beneficio era limitato allo  0,8% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali la perdita, per retribuzioni lorde vicine ai 2.000 euro, era limitata ad una decina di euro netti al mese (ma comunque un centinaio di euro all’anno).
Con l’aumento prima al 2%, poi con l’introduzione di un nuovo esonero del 3% – aggiornati da ultimo rispettivamente al 6% e al 7% – si è evidenziata l’incidenza negativa sul netto in busta paga nel caso di perdita del diritto all’esonero (oggi si arriva quasi a 1.200 euro netti annui).
È ovvio che non sia piacevole per il lavoratore rinunciare ad un centinaio di euro al mese per aver sforato di pochi euro la soglia dei 2.692 euro (il passaggio dai 1.923 ai 2.692 è meno doloroso dato che parliamo di un 1% lordo di differenza).
Proviamo allora ad ipotizzare alcune possibili soluzioni.

I MINIMI CONTRATTUALI
Ovviamente ci sono delle situazioni in cui c’è poco da fare. Ci riferiamo sempre e solo a “soluzioni” consentite dalla norma.
Se tale limite è superato perché il minimo retributivo spettante per contratto collettivo è, seppur di poco, oltre soglia non esiste nessuna una soluzione. Fortunatamente sono pochi i casi in cui ciò avviene dato che retribuzioni base superiori a 2.692 euro, limite oltre il quale l’esonero non è riconosciuto, non si vedono spesso anche nei livelli cosiddetti apicali.

I SUPERMINIMI
Diverso il caso in cui i limiti sono superati seppur di pochissimo a causa, ad esempio, del riconoscimento di un superminimo.
In questo caso sarebbe bene in sede di definizione dell’importo del superminimo operare delle preventive verifiche e, ove vi sia una “convenienza”, prevederlo di qualche euro in meno per far sì che il lavoratore usufruisca dell’esonero. Certo, al primo aumento da contratto nazionale siamo a punto e a capo (salvo che il superminimo sia dichiarato assorbibile), ma così operando qualche mese lo si può portare a casa.

GLI STRAORDINARI
Anche nel caso che l’imponibile contributivo risulti superiore a causa di prestazioni lavorative straordinarie non ci sono soluzioni (parliamo sempre di quelle legali). Al massimo si può evitare di richiedere straordinari ove non siano strettamente necessari oppure posticipare alcune prestazioni eccedenti l’orario normale, specie se previste a fine mese, al mese successivo.
Chiaro che si tratta, oltre che di calcoli da certosino, di posticipare il problema al mese successivo, ma quantomeno in quel mese l’esonero lo si riesce a godere.

I PREMI DI PRODUZIONE
Ci sono tuttavia situazioni in cui è possibile fare qualcosa e ci riferiamo alla erogazione di premi di produttività. In questi casi si potrebbe evitare di concordare la loro corresponsione in unica soluzione e prevedere di spalmare il premio su più mensilità al fine di rimanere sempre entro il limite dei 1.923 e, soprattutto, dei 2.692 euro mensili. Certo questo comporta delle simulazioni ma spesso il gioco vale la candela. È vero che il lavoratore dilazionerà la percezione del premio (in pratica è una mera questione di liquidità) ma si vedrà riconosciuto mensilmente l’esonero.

GLI ACCERTAMENTI ISPETTIVI, VERTENZE E TRANSAZIONI
La particolarità dell’esonero, che ricordiamo prevede la riduzione dell’imponibile contributivo e di contro l’innalzamento di quello fiscale, richiederebbe peraltro dei chiarimenti ufficiali circa gli effetti di una visita ispettiva che accertasse differenze retributive da imputare su più mesi.
Questo soprattutto ove si trattasse di differenze retributive sottratte all’imposizione anche per volontà del lavoratore (ad esempio premi o straordinari pagati in nero) che così facendo ha illegittimamente usufruito dell’esonero. La domanda in questi casi è: l’organo ispettivo dovrà procedere alla rideterminazione del beneficio (ed eventuale recupero dell’indebito) quando gli importi accertati evidenzino il superamento delle varie soglie?
E che dire poi nel caso di transazioni per differenze retributive mensili che il lavoratore ritiene spettanti (indennità o straordinari) e riconosciute tali dall’azienda? Anche in questo caso c’è stata una indebita percezione dell’esonero contributivo.
Anche in questo caso come procedere?

PROBLEMATICHE DI TIPO FISCALE
Vi è poi un ultimo gruppo di criticità. Quelle più nascoste perché derivano non da una maggiore retribuzione lorda ma dal fatto che la diminuzione delle ritenute contributive a carico del lavoratore comporta l’innalzamento dell’imponibile fiscale. Un fatto che potrebbe avere conseguenze a cascata su quelle prestazioni previdenziali e assistenziali che prevedono un limite reddituale o un determinato Isee.
È ovvio che in questi casi – statisticamente rari, ne siamo ben consapevoli, ma a chi capita poco importa delle statistiche – il calcolo di convenienza è estremamente complesso ma riuscire a farlo potrebbe rendere conveniente la rinuncia all’esonero, avendo sì un netto in busta paga inferiore ma mantenendo l’accesso ai benefici collegati all’indicatore Isee.
Ma non solo. L’aumento dell’imponibile fiscale potrebbe avere effetti anche sulla situazione di familiare a carico con la conseguente perdita della detrazione fiscale prevista in capo al coniuge o al genitore.
Si pensi ad un figlio di età tra i 21 e i 24 anni che, a fronte di una retribuzione complessiva lorda annua di 4.300 euro, risulti avere – tolta la quota di contributi a suo carico del 9,19% e considerando lo sconto del 2% pari a 86,00 euro – un imponibile fiscale di 3.991,00 euro.
In questo caso il figlio mantiene lo status di familiare a carico del nostro lavoratore. Applicando oggi lo sconto del 6%, corrispondente a 258,00 euro, il suo imponibile fiscale sale a 4.163,00 euro, perdendo il requisito di familiare a carico.
In sostanza per un beneficio di 172,00 euro sulla retribuzione netta del figlio, il genitore ne perderebbe fino a 950,00 euro sulla propria.
Ovvio che parliamo sempre di casi limite ma purtroppo a volte capitano e quando succedono ci si morde le mani.
Ora, ammesso e non concesso che un lavoratore possa rinunciare all’esonero sulla contribuzione a proprio carico, chi tra i dipendenti è in grado di monitorare il reddito dei propri figli ed intervenire tempestivamente informando la di lui azienda di non procedere all’applicazione dello sgravio, magari solo per alcuni mesi, quelli necessari per non superare il reddito imponibile di 4.000 euro?
Peraltro, non è affatto detto che basti questa eventuale segnalazione.
La domanda è infatti: l’azienda sarebbe disposta a seguire le indicazioni – fossero pure date per iscritto – del lavoratore o, senza una indicazione ufficiale sul punto di Inps e/o Agenzia delle Entrate sulla possibilità di rinuncia allo sgravio, deciderà di non correre alcun rischio e quindi di operare secondo le indicazioni di legge?

UN SUGGERIMENTO AL LEGISLATORE
Si parla della volontà del Governo, con il placet delle opposizioni, di rendere strutturale questo esonero. In tal caso sarebbe quantomeno opportuno prevedere la periodica indicizzazione al costo della vita degli attuali limiti mensili. Questo considerando la situazione di coloro che ad oggi, per vari motivi,  percepiscono retribuzioni di poco inferiori ai limiti che consentono l’applicazione dell’esonero e per i quali l’aumento dei minimi salariali previsto dai futuri rinnovi dei Ccnl applicati comporterebbero la perdita dell’esonero. Quella ventina/trentina di euro lordi riconosciuti dalla contrattazione collettiva farebbero perdere molto di più rispetto a quanto di netto percepito in precedenza.
Sempre su questa strada un’altra ipotesi sarebbe di prevedere la contestuale decontribuzione e detassazione dell’attuale esonero, fissandolo in misura inferiore alle attuali percentuali così da mantenere invariata la stima di spesa sul bilancio statale.
Ma ancor più consigliabile, viste le considerazioni qui sopra svolte, sarebbe che il legislatore non insistesse con provvedimenti del tipo di quelli in commento. Più lineare risulterebbe invece un intervento sul sistema delle detrazioni fiscali per lavoro dipendente (anche individuando, ove prevalessero motivazioni di “visibilità mediatica”, uno sconto ad hoc) prevedendo comunque, quale bilanciamento, un meccanismo di gradazione a scalare dell’importo del beneficio per i redditi di poco superiori alle soglie previste.

 

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Senza filtro – IL PRIMO MAGGIO: una festa o solo un’occasione di visibilità?

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

Puntuale è arrivato il Primo Maggio con il solito – lasciatemelo dire in tutta franchezza – stucchevole carico di polemiche.

Per carità, nulla di nuovo sotto il sole.

I motivi? Aveva cercato di spiegarceli, due anni or sono, l’amico e collega Andrea Asnaghi che così osservava: «la Festa in questione più che una festa del lavoro appare una festa dei lavoratori. Una festa di lotta, e pertanto in qualche modo divisiva, una rappresentazione di uomini “contro”. E quando si dice lavoratori si parla di quei lavoratori lì, e solo di quelli lì, degli operai, degli sfruttati, in ogni caso dei proletari. Una festa, scusate la parola forte, “comunista”. Prettamente e radicalmente comunista».1 Inevitabili pertanto, in questo clima, le tensioni tra i contrapposti schieramenti alla ricerca di una posizione politica di vantaggio sfruttando appunto la grande visibilità data dalla Festa del Primo Maggio.

Quest’anno però si è davvero esagerato.

Da un lato abbiamo assistito al consueto Concertone durante il quale sono saliti sul palco, ovviamente invitati, alcuni personaggi per trattare temi sociali ma con un taglio politicamente di sinistra. Qui il fuoco di fila della maggioranza di Governo è apparso finanche sopra le righe considerando il fatto che il Concerto del Primo Maggio è organizzato dai Sindacati, per l’esattezza la cosiddetta Triplice, e non certo dalla Presidenza della Repubblica. E in effetti il Concertone mica è la commemorazione ufficiale della Festa del Lavoro, o dei Lavoratori che dir si voglia.

È un evento che è sì un simbolo ma resta un evento organizzato da una certa parte “politica” che nel tempo se ne è appropriata e non intende certo rinunciare a questa esclusiva. Partendo da questo dato di fatto di sicuro non si poteva pretendere che si invitasse sul palco un sostenitore dei contratti a termine o dei voucher.

Non sono poi mancati gli strali delle opposizioni che hanno ritenuto propagandistica la scelta del Governo di convocare un tavolo di lavoro con i Sindacati proprio il giorno della Festa del Lavoro. Nei fatti un’accusa di sciacallaggio mediatico. Anche qui non si capisce la polemica. La Festa del lavoro è ad appannaggio esclusivo della “sinistra” che, in questo giorno, può solo lei manifestare o esternare dei pensieri sul tema? Certo che no.

Ma forse sta proprio qui la spiegazione: la paura che quella parte politica, che da questa festa ha sempre ricavato visibilità, la possa perdere a favore di altri.

Infine, è arrivato Landini. Anche lui approfittando legittimamente della visibilità della ricorrenza per rimarcare le proprie idee critiche contro l’operato dell’esecutivo, censurando in primis la scelta del Governo di convocare un tavolo di lavoro con i Sindacati proprio il giorno della Festa del Lavoro ritenendo «non troppo rispettoso decidere di fare un Consiglio dei ministri il Primo Maggio. Pensare al lavoro, ai  lavoratori, vuole dire mettere al centro il lavoro non un giorno all’anno, ma tutti i giorni.». A dire il vero non si capisce bene cosa volesse intendere il Segretario generale della CGIL. Sta forse dicendo che, poiché il Governo non si è mai occupato di lavoro durante l’anno (affermazione tutta da dimostrare: un progetto di legge non si fa in un giorno), non potrebbe farlo proprio il 1° Maggio? Ma poi, irrispettoso di chi e di che? Perché si chiede ai rappresentanti dei lavoratori di lavorare per i lavoratori? Oppure voleva soltanto dire che la Festa del lavoro, pardon la Festa dei Lavoratori, è una sorta di festa pagana durante la quale, sulla falsa riga di certe religioni, non si può andare a lavorare altrimenti si fa peccato? Secca la replica della Premier che, sfruttando l’ambiguità delle parole del Segretario, ha ribattuto sarcastica che «Se Landini pensa davvero che sia diseducativo lavorare il primo Maggio, allora il concerto la triplice dovrebbe organizzarlo in un altro giorno».

Questo, piaccia o no, il livello dialettico.

Certo, si tratta di polemiche, in linea con quello che è il mondo di oggi dove l’apparire conta più dell’essere.

Dove la risonanza mediatica dello slogan conta più della sostanza dell’operare. Dove per apparire diversi, per non confondersi con gli “altri”, è necessario dire sempre che «noi la pensiamo diversamente.».

Come si diceva, nulla di nuovo sotto il sole della politica italiana.

Sarebbe però ingiusto ridurre il confronto a puerile polemica populista. Se è vero che i toni polemici servono per la “pesca” di voti o di consenso, a monte c’è sempre uno scontro tecnico: la convinzione, per taluni, che un contratto a tempo indeterminato sia sempre meglio di uno a termine in un’ottica di stabilità del rapporto.

Che detta così pare pure condivisibile. Ma vista la cosa da un’angolazione diversa queste certezze vacillano. È incontestabile il fatto che, in linea teorica, un contratto a tempo indeterminato può essere sempre e comunque risolto, oltre che per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, anche per un motivo oggettivo. E questo in ossequio al principio di libera iniziativa economica stabilita dall’art. 41 della nostra Costituzione. Se pertanto una ditta vuole chiudere – e quante ne abbiamo viste ultimamente con i tanti lavoratori invitati ai vari talk politici – a cosa serve un contratto stabile? Se un imprenditore vuol convertire la produzione, automatizzando alcuni processi e ridurre il personale, o trasferirsi all’estero, a che serve un contratto a tempo indeterminato? Idem se si tratta di un lavoratore che ha rubato o più semplicemente è un fannullone.

La domanda che allora ci poniamo è perché un’impresa dovrebbe aver timore ad assumere a tempo indeterminato?

Ad esempio, se io fossi un imprenditore e vivessi in un paese pienamente garantista dell’art. 41 della Carta Costituzionale, preferirei assumere tutti a tempo indeterminato. La motivazione è semplice: una assunzione a termine di un anno garantisce di regola uno stipendio per dodici mesi mentre un contratto a tempo indeterminato potrebbe essere risolto per “riduzione di personale” il mese dopo con il rispetto del solo periodo di preavviso. Ove quindi incontrassi nei prossimi mesi delle difficoltà produttive gestirei un’eventuale riduzione di personale con più facilità.

Eppure questa mia scelta non è condivisa nel nostro sistema produttivo e un perché lo dobbiamo trovare.

La risposta sta nel fatto che oggi la disciplina sui licenziamenti, continuamente stravolta da interpretazioni giurisprudenziali – con il Jobs Act fatto a pezzi un po’ alla volta – è divenuta un vero e proprio deterrente anche per chi ha un valido motivo per un licenziamento disciplinare. Le certezze di aver operato correttamente son sempre meno. E ormai è diventato più facile divorziare dalla moglie che “separarsi” da un proprio dipendente.  E, di contro, perché i Sindacati spingono per limitare il ricorso a contratti precari, in primis i contratti a termine? Perché tutto questo astio nei confronti dei voucher?

La giustificazione che ho sentito dare è che i giovani, senza un contratto a tempo indeterminato, non hanno una tranquillità economica e quindi non possono accedere ad un mutuo, rinunciano a sposarsi e ad avere dei figli. Questo perché un contratto a tempo indeterminato è stabile.

Fosse così semplice basterebbe che lo Stato si facesse garante verso le banche per i lavoratori con contratto a termine.

Ma si è anche detto che il nuovo Decreto lavoro alimenta la precarietà a causa della rivisitata disciplina dei contratti a termine e le modifiche alla disciplina dei voucher. Per inciso, non ho sentito parlare in modo altrettanto critico della somministrazione a tempo determinato dove le proroghe possono essere il doppio rispetto ad un contratto a termine stipulato direttamente con l’azienda. Qui nessuna precarietà? La cosa che comunque desta le mie perplessità è sentire ancora oggi, ribadita anche da alcuni esponenti sindacali, l’idea che il lavoro stabile lo si ottiene abolendo i voucher o addirittura i contratti a termine. Niente di più ideologicamente sbagliato.

La precarietà si sconfigge non con leggi che precludono il ricorso a contratti precari, ma con norme che creano opportunità di occupazione e soprattutto un clima sereno, di certezza, per quegli imprenditori che, dopo un picco produttivo, decidano di ridurre il personale, anche quello a tempo indeterminato, o che vogliano eliminare le “mele marce” dalla loro azienda. Invece si continua a spingere i contratti stabili con una sorta di mazzetta di stato: «Se offri il posto fisso ad un mio amico disoccupato ti regalo qualche migliaio di euro».

Ma consideriamo soprattutto il fatto che una azienda che ha necessità di integrare saltuariamente o temporaneamente il proprio organico non è affatto detto che con una eventuale abolizione dei contratti precari si metterebbe ad assumere a tempo indeterminato. Sarebbe come dire che vietando i contratti a tempo parziale tutti assumerebbero a tempo pieno. Più facile che, vietandoli, questi rapporti finiscano, o tornino, nel lavoro nero. Del resto i contratti “precari” genuini rispondono a esigenze che non possono essere ignorate. Se vogliamo solo contratti a tempo indeterminato l’alternativa sarebbe fare come ha fatto la Spagna – in questa diatriba impropriamente citata dai critici del decreto come esempio da seguire – dove hanno sì limitato i contratti a termine ma allentato le conseguenze economiche per i licenziamenti illegittimi nei contratti a tempo indeterminato. Dove, tanto per intenderci, non esiste la reintegrazione nel posto di lavoro come prevista in Italia. Altro e diverso discorso è invece combattere severamente gli utilizzi impropri di questi strumenti, cosa che le vigenti regole mi pare cerchino di fare. Vogliamo migliorarle? Inasprirle? Ok, si discuta del come.

Ma evidentemente queste considerazioni non convincono i Sindacati che continuano a preferire i contratti a tempo indeterminato e anche qui un perché lo dobbiamo trovare. La verità è di fatto la stessa che abbiamo dato per giustificare la preferenza dei datori di lavoro verso i cosiddetti contratti precari. Oggi – complice una disciplina sui licenziamenti, continuamente stravolta da interpretazioni giurisprudenziali, divenuta un vero e proprio deterrente anche per chi avrebbe un motivo valido per un licenziamento disciplinare – si pensa che il contratto a tempo indeterminato sia un simil posto fisso del pubblico impiego tanto caro a Checco Zalone.

In pratica, una volta ottenuta la conferma in servizio nessuno ti licenzia più, la tua stabilità non te la toglie nessuno e se ci provasse ci pensa un giudice a trovare un motivo per dire che non si poteva fare. E questa cosa, ove fosse vera, non mi pare sia qualcosa che faccia bene all’economia.

Del resto lo vediamo bene come funziona la nostra Pubblica Amministrazione dove di fatto non esiste precarietà.

Ed allora vi invito ad una considerazione partendo dal fatto che il datore di lavoro pubblico non è come quello privato, un “cattivone” che licenzia uno bravo per sostituirlo con un incapace a basso costo.

Ora, se nel settore pubblico tutti i contratti fossero a termine e venissero rinnovati solo a coloro che lavorano bene, scommettiamo che le cose andrebbero meglio? Discorso populista? Forse, ma di certo non ho cominciato io per primo.

Non perdiamo però di vista che questa rubrica si intitola Senza Filtro e non sarebbe tale senza un pensiero irriverente.

E oggi le nostre punzecchiature le vogliamo rivolgere a Maurizio Landini, un capopopolo con il fare antipatico da maestrina. Quante volte lo abbiamo sentito urlare il suo, condivisibile, grido di battaglia contro il lavoro povero, quello sottopagato?

Deve essere sfuggita al Segretario generale della CGIL la recente Sentenza del Tribunale di Milano dello scorso 30 marzo che ha dichiarato irrispettoso del dettato costituzionale dell’art. 36 – quello che dispone che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa – un Ccnl che prevedeva una paga oraria effettiva di 3,96 all’ora, ben al di sotto della soglia di povertà stimata dall’Istat.

Sapete chi ha firmato questo vergognoso contratto? Ma che sorpresa: proprio la CGIL di Landini insieme alla CISL!

E che dire poi delle critiche al lavoro precario, quello dei contatti a termine e delle prestazioni occasionali a voucher.

Questi contratti vengono osteggiati in quanto bollati da una certa parte politica quale incentivo alla precarietà oltre che causa di sfruttamento dei lavoratori.

Ecco, a proposito di sfruttati e di sfruttatori mi piacerebbe che qualcuno mi togliesse una curiosità ovvero se la macchina organizzatrice ha utilizzato, per la kermesse del Primo Maggio, Concertone compreso, dei volontari. Già, i volontari, quelli che lavorano gratis quando qualche padre di famiglia si prenderebbe volentieri anche uno sporco voucher per dare da magiare ai propri bambini. Ecco, questo lo trovo poco “rispettoso”. Utilizzare, per la Festa dei LAVORATORI, un qualcuno che, non essendo in stato di bisogno, è disposto a lavorare benevolentiae vel affectionis causa, al posto di chi, un paio di centinaia di euro, farebbero davvero comodo.

Certo, li capiamo gli organizzatori: l’utilizzo di un volontario rende più semplice la gestione della prestazione. Volete mettere il dover appaltare il servizio o l’assumere direttamente un lavoratore con annessa lettera assunzione nel rispetto del Decreto Trasparenza, Centro impiego, COB, busta paga e Libro Unico, Uniemens, versamento con F24, stipula contratti a termine con l’obbligo della causale in caso di rinnovo, Certificazione Unica. Per non dire gli adempimenti in materia di sicurezza. Ma vorrei anche che mi si dicesse che non sono stati affidati appalti ad aziende che utilizzano, o hanno in precedenza utilizzato, prestazioni pagate con i voucher.

Vorrei che mi si dicesse che sono stati utilizzati – in modo diretto o indiretto – durante tutta la manifestazione solo lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato. Un po’ come capita per quelle imprese che si rifiutano di collaborare con aziende che ricorrono allo sfruttamento del lavoro infantile. Ecco, questo sarebbe un grande segnale di coerenza.

E perché non dal prossimo anno, urlandolo a gran voce dal palco del Concertone. Magari invitando il grande Umberto Tozzi a cantare: «Primo Maggio, su coraggio …».

 

1. Si veda A. Asnaghi, Il Primo Maggio: Festa dei lavoratori o del Lavoro? in questa Rivista, aprile 2020, pag. 4

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Una proposta al mese – LICENZIAMENTI E DIMISSIONI: la rinuncia al preavviso da parte del non recedente

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

Ci imbattiamo spesso in sentenze che – al di là delle più o meno condivisibili motivazioni giuridiche – non convincono per i principi ivi affermati, una cosa che dovrebbe spingere un attento legislatore ad intervenire prontamente per evitare che il consolidarsi di tali orientamenti possa danneggiare posizioni soggettive ugualmente meritevoli di tutela. Una di queste è la sentenza della Corte di Cassazione n. 27934 del 13 ottobre 2021.

I  FATTI IN CAUSA

Il caso riguarda le dimissioni di un dirigente che aveva manifestato la propria volontà di cessare il lavoro alla scadenza del periodo di preavviso previsto dal Ccnl.

La società datrice di lavoro informava il lavoratore di rinunciare al preavviso lavorato disponendo la cessazione con effetto immediato del rapporto di lavoro. Veniva in pratica rifiutata la prestazione lavorativa offerta, senza però corrispondere alcunché al lavoratore a titolo risarcitorio per il periodo di lavoro che lo stesso si era dichiarato disponibile a lavorare.

LA DECISIONE

Nel considerare legittimo l’operato del datore di lavoro, la Corte parte da un primo assunto ovvero che l’istituto del preavviso, comune alla maggior parte dei contratti di durata a tempo indeterminato … adempie alla funzione economica di attenuare per la parte che subisce il recesso – che è atto unilaterale recettizio di esercizio di un diritto potestativo – le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del contratto.

Prosegue ancora precisando che in caso di licenziamento si ritiene che il preavviso abbia la funzione di garantire al lavoratore la continuità della percezione della retribuzione in un certo lasso di tempo al fine di consentirgli il reperimento di una nuova occupazione; in caso di dimissioni del lavoratore il preavviso ha la finalità di assicurare al datore di lavoro il tempo necessario ad operare la sostituzione del lavoratore recedente.

In questo passaggio la Corte evidenzia solo l’interesse della parte che subisce gli effetti della cessazione del rapporto senza considerare, sottovalutandole, le possibili ragioni che hanno spinto il recedente a porre fine al rapporto di lavoro.

Gli Ermellini si soffermano poi sul tema dell’efficacia, reale o obbligatoria, del preavviso ritenendo che ciò sia decisivo della questione affermando che, ove si optasse per la natura reale del preavviso, con diritto quindi della parte recedente alla prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del relativo periodo, non potrebbe ipotizzarsi una rinunzia della parte non recedente idonea a determinare la immediata estinzione del rapporto di lavoro.

Nel caso invece se ne riconosca l’efficacia obbligatoria, il preavviso può ben essere considerato quale mero obbligo (accessorio e alternativo) dell’esercizio del recesso; la parte recedente è libera di optare tra la prosecuzione del rapporto durante il periodo di preavviso e la corresponsione a controparte dell’indennità (con immediato effetto risolutivo del recesso).

E fin qui, parlando della parte recedente, potremmo pure condividere. Sono le conclusioni che ne seguono che destano quale perplessità soprattutto ove si sostiene, dapprima, che dalla natura obbligatoria dell’istituto in esame discende che la parte non recedente, che abbia – come nel caso di specie – rinunziato al preavviso, nulla deve alla controparte, la quale non può vantare alcun diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino a termine del preavviso e subito dopo che alcun interesse giuridicamente qualificato è, infatti, configurabile in favore della parte recedente; la libera rinunziabilità del preavviso esclude che ad essa possano connettersi a carico della parte rinunziante effetti obbligatori in contrasto con le fonti dell’obbligazioni indicate nell’art. 1173 cod. civ.. Proviamo ad analizzare meglio queste due affermazioni.

 

IL DIRITTO ALLA PROSECUZIONE DEL RAPPORTO

Cominciamo col primo punto affrontato dagli Ermellini ovvero la natura obbligatoria o reale del preavviso. Detto che nulla questio sugli ultimi approdi della giurisprudenza di legittimità circa l’efficacia obbligatoria del preavviso, non possiamo esimerci dall’evidenziare come tale questione si ponga solo ed esclusivamente in merito alle conseguenze di tale qualificazione sul “preavviso non lavorato” da cui dipende la quantificazione della relativa indennità sostitutiva. Parliamo di malattie sopravvenute, di successivi aumenti contrattuali ma anche delle quote di mensilità supplementare, ferie e trattamento di fine rapporto. Ma quando si parla di “efficacia obbligatoria del preavviso lavorato” si utilizza – a parere di chi scrive – una terminologia impropria perché tale periodo è semplicemente un normale periodo di lavoro dove l’efficacia reale non è in discussione. Il fatto che vi sia stata una preventiva manifestazione di volontà di cessare, un domani, il rapporto di lavoro non significa nulla considerato che tale incombenza risulta necessaria per evitare le pregiudizievoli conseguenze economiche collegate all’eventuale mancato rispetto dei termini di preavviso. In sostanza la manifestazione di volontà di cessare il rapporto di lavoro è finalizzata ad individuare il giorno in cui si vuole che terminino gli effetti del contratto. Se voglio andarmene un determinato giorno lo devo dire tot giorni prima per una semplice ragione di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto; se non lo faccio ne subirò le conseguenze. Non significa assolutamente che il giorno di comunicazione di tale volontà è quello in cui il recedente intende cessare il proprio rapporto, considerando quindi il periodo di preavviso lavorato una sorta di “fastidio” da rispettare a tutela del solo ricevente, che quindi potrebbe pure rinunciarvi. Seguendo questo ragionamento la disdetta data ad un contratto di locazione, formulata nel rispetto del preavviso, dovrebbe essere qualificata come disponibilità ad abbandonare immediatamente l’immobile.

Intendiamoci, potrebbe anche essere che un lavoratore abbia interesse ad una risoluzione immediata del rapporto (pensiamo ad una improvvisa migliore offerta di lavoro) ma questa disponibilità dovrà essere accertata dalle parti che, nel caso, saranno libere, ma sempre di comune accordo, di regolamentarla come meglio credono.

Al contrario la Cassazione equipara il recesso per dimissioni ad un «Voglio andarmene ora; se vuoi sono disposto a lavorare il preavviso altrimenti anche a me va bene chiuderla lì.» in una sorta di presunzione assoluta che risulta spropositata anche in considerazione della seconda conclusione della Corte, sopra riportata, che andiamo ad analizzare.

 

L’INTERESSE GIURIDICAMENTE TUTELATO

Abbiamo visto come la Corte ritenga che nel caso di volontà a cessare un rapporto lavorativo non sia configurabile nel preavviso alcun interesse giuridicamente qualificato in favore della parte recedente. Ma siamo davvero certi che sia così?

Proviamo ad ipotizzare una azienda che opti, suo malgrado, per la cessazione dell’attività e quindi, fatti due calcoli circa gli ordinativi residui da evadere, abbia individuato al 31 ottobre 2023 la data in cui non avrà più bisogno dei propri lavoratori e quindi comunichi a tutti i dipendenti, nel rispetto del preavviso, il licenziamento.

Vogliamo davvero permettere che i lavoratori lo abbandonino prima di tale data senza pagare pegno alcuno e che siano ugualmente considerati dei “licenziati”?

Siamo così certi che il povero datore di lavoro non meriti una minima tutela?

Pensiamo anche al lavoratore che, a fronte di un periodo di preavviso di una sola settimana, in un’ottica di correttezza verso l’azienda, segnali la volontà di cessare il proprio rapporto di lavoro con qualche mese di anticipo. Stando al ragionamento della Corte, per la quale pare essere la data di manifestazione della volontà di porre fine al rapporto lavorativo il momento in cui scaturisce il diritto dell’azienda di rinunciare al preavviso, il datore potrebbe cessare da subito, mesi prima, il rapporto? Siamo certi che il lavoratore non meriti una qualche attenzione?

Ma soprattutto pensiamo al caso di un lavoratore che sa che maturerà i requisiti di accesso alla pensione il 31 luglio 2023, che per dimettersi deve rispettare un periodo di preavviso di qualche mese e che quindi a inizio maggio presenti al datore di lavoro le proprie formali dimissioni. Vogliamo permettere che la decisione del datore di lavoro di porre

fine immediatamente al rapporto influisca sul diritto al pensionamento del lavoratore che sarà così costretto a cercarsi, per qualche mese, una nuova occupazione in una fascia d’età che rende la cosa non certo facile? Siamo così certi che l’aspirante pensionato non meriti una maggiore attenzione?

LA CAUSA DEL CONTRATTO

Volendo cercare delle giustificazioni giuridiche alla nostra critica – chiaro, comunque, che ciò che qui si pone è una questione di buon senso – potremmo partire dal concetto di causa del contratto su cui dottrina e giurisprudenza hanno discusso per anni. Non è certo intenzione di chi scrive tediarvi riproponendo tale dibattito ma appare utile richiamo alle contrapposte tesi.

Secondo una prima opinione, quella che si rifà alla teoria della funzione economico-sociale o teoria oggettiva, la causa è la finalità, come detto economico-sociale, del contratto, funzione che si risolve nella sintesi dei suoi effetti essenziali. Così si sostiene che in una compravendita la causa è semplicemente lo scambio di cosa contro prezzo. Stando invece alla teoria soggettiva la causa è lo scopo delle parti, ma non tutti gli scopi che spingono all’atto, bensì solo lo scopo ultimo, quello oggettivato nel negozio. In base alla terza teoria, ovvero la teoria della funzione economico-individuale, la causa è nello scopo pratico del contratto. Per anni la giurisprudenza ha sposato la tesi della funzione economico-sociale anche se negli ultimi approdi si è affermata la lettura che vede nella causa la ragione pratica dell’operazione negoziale ovvero la sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a perseguire.

Se quindi la causa rappresenta lo scopo che una parte si prefigge nell’atto, è chiaro che si sta parlando dell’obiettivo non solo di cessare il rapporto lavorativo ma di farlo in una determinata data. Derubricare a mero motivo la scelta della efficacia temporale di un atto così importante, quasi fossero delle irrilevanti pulsioni che si esauriscono nella sfera interiore del soggetto, non appare degno di un ordinamento giuridico attento ai diritti delle persone.

Peraltro, è proprio perché il diritto di recesso è riconosciuto dal codice civile a condizione che venga rispettato un congruo preavviso (certamente a tutela dell’interesse della controparte ma non solo nell’esclusivo interesse di quest’ultima) che chi scrive ritiene che tale onere confermi la rilevanza giuridica dello scopo che il recedente si prefigge nell’atto ossia far cessare il rapporto lavorativo nei tempi che la norma gli consente di individuare. Nondimeno, per completezza d’analisi, andrebbero anche richiamati i concetti di causa in astratto e di causa in concreto. La causa in astratto è la funzione tipica assegnata dal legislatore ad un determinato tipo negoziale: lo abbiamo visto quando abbiamo parlato di funzione economico-sociale del negozio giuridico.

La seconda, la causa in concreto, è invece il complesso di interessi che i contraenti perseguono attraverso la materiale stipulazione di un determinato negozio, la ragione pratica che, nella realtà, induce le parti a concludere quel contratto. In questi casi si parla di funzione economico-individuale del negozio giuridico. Ovviamente la causa in concreto deve emergere oggettivamente dal regolamento di interessi posto in essere dalle parti, dagli accordi raggiunti dalle parti. E nei casi qui in discussione non si può negare che l’interesse della parte a cessare il rapporto lavorativo sussiste – e viene chiaramente esplicitato nell’atto posto in essere – solo ove ciò avvenga in quella determinata data.

LE POSSIBILI SOLUZIONI

Nonostante i giudici di Piazza Cavour abbiamo motivato la loro decisione alla stregua di una interpretazione letterale e logico-sistematica dell’art. 2118 cod. civ. appare evidente come la questione presenti – e lo abbiamo evidenziato – risvolti delicati che non possono essere trascurati. E non basta sostenere che è sempre fatta salva la possibilità che a livello di disposizione contrattuale, collettiva o individuale, si possano regolare diversamente le conseguenze della rinuncia al preavviso da parte del datore di lavoro o del lavoratore. Occorre di più. Ove quindi si volesse intervenire, tre sono le possibili modalità di intervento.

1. L’ideale sarebbe ovviamente agire sull’art. 2118 del codice civile specificando le conseguenze della rinuncia della parte non recedente al preavviso lavorato. Ad esempio si potrebbe prevedere che:

a. qualora la parte non recedente intenda porre fine immediatamente al rapporto durante il preavviso lavorato (rigorosamente inteso ossia il solo periodo stabilito dal Ccnl o dalle parti) ciò verrà considerato una sorta di contro-licenziamento o contro-dimissioni anche se esclusivamente in relazione all’obbligo di corrispondere un risarcimento per il diniego, da parte del non recedente, alla dichiarata disponibilità del recedente di prestare attività lavorativa durante il preavviso, ovviamente considerando, per la sua quantificazione, solo la parte di esso non lavorato, con annessa copertura contributiva qualora la rinuncia avvenisse da parte del datore di lavoro;

b. se invece il non recedente, a fronte di una anticipata comunicazione di recesso rispetto ai termini minimi di preavviso previsti tra le parti, volesse a sua volta recedere prima che decorra ufficialmente il preavviso lavorato questo fatto verrebbe qualificato come un vero e proprio licenziamento, con tutto ciò che ne consegue.

c.Inserire la predetta clausola nel contratto individuale di assunzione consci che lasciare in toto all’autonomia privata la disciplina di tale fattispecie comporta sempre un rischio di contenzioso che sarebbe bene evitare con un intervento alla fonte nei termini di cui al precedente punto.

Intervenire a livello di Ccnl. Qui purtroppo pare che la sensibilità degli estensori degli accordi collettivi sia, in alcuni casi, piuttosto scarsa. Ci vengono in mente non solo alcuni contratti del personale dirigenziale, ma addirittura quello del Settore Edile, firmato da Ance e da Cgil, Cisl e Uil, dove si prevede che la parte che riceve il preavviso può troncare il rapporto, sia all’inizio sia nel corso del preavviso, senza che da ciò derivi alcun obbligo di indennizzo per il periodo di preavviso non compiuto. E qui una domanda circa la reale capacità delle parti contrattuali di comprendere ed efficacemente tutelare gli interessi dei propri rappresentati andrebbe fatta. Ma questa è un’altra storia.

 

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Senza filtro – IN PIEDI, entra la Corte

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

La locandina era posizionata su un cavalletto in legno sistemato all’ingresso della grande sala del Palazzo della Giustizia. Una semplice ma elegante scritta nera su sfondo bianco avorio recitava
1° Simposio Mondiale dei Sistemi Giuridici e Giudiziari
6 gennaio – 26 gennaio 2048 Sala congressi
Un incontro importantissimo, previsto ai massimi livelli, dove i più grandi esperti del settore si sarebbero confrontati sulle esperienze giuridiche dei rispettivi paesi discutendo dei vari Ordinamenti Giuridici, ossia l’insieme delle norme vigenti in uno Stato che regolano la vita di una comunità, l’organizzazione interna dello Stato e tutto ciò che riguarda i rapporti giuridici tra organi dello Stato e membri della collettività, ma anche dei diversi Ordinamenti Giudiziari, ovvero l’insieme delle norme volte a disciplinare le funzioni e i ruoli dei soggetti preposti a curare l’amministrazione della giustizia.
La scelta della sede congressuale era caduta sul Bwandwa, una piccola nazione del centro Africa nata giusto vent’anni prima, il 26 gennaio 2028, dalla inevitabile frantumazione di uno dei tanti stati i cui confini erano stati tracciati con il righello tra il 1880 e l’inizio della prima guerra mondiale, senza tenere conto delle etnie che in quei territori vi vivevano. Una scelta, la sede del convegno, operata soprattutto per l’altissima qualità del sistema giuridico di questo paese dove tutto pareva funzionare a meraviglia: le leggi, l’amministrazione pubblica, la giustizia.
In verità nessuno sapeva bene il perché di tale eccellenza e questo aumentava l’interesse per la relazione dell’esperto bwandwano che avrebbe concluso la kermesse.
Gli interventi dei relatori si erano susseguiti rapidamente nel fitto calendario di tre settimane e i lavori erano ormai prossimi alla conclusione. Avevano parlato quasi tutti i rappresentanti delle culture giuridiche più antiche di mezza Europa. Nella mattinata conclusiva era stato calendarizzato l’intervento del relatore italiano, il sottosegretario al Ministero della Giustizia. L’anziano politico sistemò per bene sul leggio una decina di fogli, alzò lo sguardo verso la platea e inforcò un paio di occhiali neri dalle spesse lenti. La voce uscì affabile ma al contempo forte e decisa.
Questa la sintesi dell’intervento come fu riassunta da un quotidiano italiano. Carissimi colleghi, il sistema italiano, e su questo non nutro alcun dubbio, deve considerarsi il migliore al mondo. Partiamo dall’iniziativa legislativa che la nostra Costituzione prevede spetti a più soggetti: Governo, Parlamentari, Corpo elettorale, Cnel e Consigli regionali. Tale varietà di attori consente di dare voce alle diverse sensibilità presenti nella nostra comunità. Al contempo impedisce che un solo organo possa legiferare e farsi quindi portavoce esclusivamente di ciò che più gli interessa o, peggio ancora, più gli conviene. Relativamente alla approvazione delle leggi, oltre alla discussione nelle varie commissioni parlamentare, è previsto un doppio passaggio, Camera e Senato, grazie al quale, a mezzo emendamenti, è possibile dare voce ai dissidenti e operare eventuali correttivi. Sulle leggi vi è poi il controllo del Capo dello Stato, che ne è l’assoluto garante. Anche la gestione nell’applicazione delle norme offre varie garanzie, in quanto i vari organi della Pubblica amministrazione, chiamati ad applicarle, possono emanare direttive, circolari e rispondere alle richieste di chiarimenti tramite lo strumento dell’interpello. Contro le loro decisioni definitive è possibile presentare ricorso ad un apposito Tribunale Amministrativo e in secondo grado al Consiglio di Stato quale giudice dell’appello. Eventuali prevaricazioni della legge sono infine gestite da un sistema giuridico molto articolato. Sono previsti due gradi di giudizio nel merito della questione: processo di primo grado e processo di appello, detto anche di secondo grado. Queste decisioni possono sempre essere impugnate per ragioni di legittimità avanti la Corte di Cassazione che può riformare la sentenza o rinviarla a diverso giudice. Altro particolare rilevante è che tutte le norme sono soggette al giudizio di conformità alla nostra Costituzione che spetta alla Corte Costituzionale i cui eletti sono tra i massimi luminari del diritto.
Seguì un vivace e piccato dibattito, soprattutto con alcuni esponenti della cosiddetta common law, durante il quale il relatore ribadì con forza la convinzione che il sistema italico restasse comunque il migliore. Dopo un break, dove fu offerto un rapido rinfresco a buffet a base di piatti locali, i lavori ripresero con l’intervento conclusivo del relatore di casa, il Presidente del Consiglio Supremo dei Giudici presso il Tribunale di Bwandtown, la capitale della Repubblica democratica del Bwandwa.
Il dottor Robert Zindwan si alzò da una delle poltrone della prima fila e salì con passo agile la scala che lo portò rapidamente al centro del palcoscenico.
Era un signore prossimo alla cinquantina, di bell’aspetto, capelli corti e ricci. Una evidente brizzolatura alle tempie dava risalto a due occhi grigi su cui trionfavano delle scure sopracciglia ad evidenziarne lo sguardo penetrante e magnetico. Elegante nel portamento e curato nel vestire senza però quell’ossessiva ricercatezza tipica di chi crede più nell’apparire che nell’essere. Un tipo assolutamente carismatico. Sistemò il microfono del leggio, alzandolo di un buon venti centimetri visto che tra lui e il relatore che l’aveva preceduto c’era una evidente differenza di altezza. Ruotò lo sguardo da sinistra a destra ad accertasi di avere l’interesse di tutti. Con un colpo di tosse richiamò l’attenzione di alcuni che ancora confabulavano tra loro. Abbozzò un mezzo sorriso fingendo di scusarsi per non essersi allontanato per tempo dal microfono. In platea in molti notarono che con sé non aveva alcun appunto. Chiaro che non avrebbe letto un testo preparato a tavolino. Un fatto assolutamente inusuale in incontri di questo livello ma proprio il parlare a braccio avrebbe dovuto far intuire lo spessore di quell’uomo. Si schiarì la voce e con un tono cordiale in un inglese fluido, senza alcuna riconoscibile inflessione regionale, cominciò. «Benvenuti cari amici, devo dire con grande sincerità che ho molto apprezzato i vostri interventi. La vostra storia, la storia dei vostri ordinamenti giuridici è secolare. A tutti i vostri sistemi riconosco la volontà, l’assoluta buona fede nella ricerca e il perseguimento della assoluta equità e della massima giustizia possibile. E peraltro è proprio dai vostri studiosi e dalle vostre esperienze che abbiamo attinto a piene mani per pensare ex novo il nostro sistema giuridico, amministrativo e giudiziario.»
Una breve pausa per risistemare il microfono. Non che fosse necessario ma serviva alla prima delle pause del suo intervento che aveva previsto nella sua mente.
«Quando la nostra nazione ha conquistato la propria autonomia ci siamo posti una serie di domande e, in primis, quale fosse la miglior forma di governo per i cittadini. La prima opzione che valutammo fu la democrazia. Un sistema che però mostrava chiari limiti, bene evidenziati, più di due millenni fa, da Platone secondo cui governare è un’arte, proprio come lo è la medicina: così come il malato non può che farsi assistere da una persona professionalmente adatta e dalle conoscenze assodate, lo stesso vale per l’arte del governare per la quale pochi hanno la giusta attitudine per gestire la “cosa pubblica”. Un rischio quindi affidare il governo dello Stato alle masse, visto che si andrebbe ad attribuire un potere immenso a chi non ha le capacità per gestirlo. Gioco forza quindi, secondo il filosofo greco, rinunciare alla democrazia per optare, se non proprio per una oligarchia, per l’altra forma di governo, l’aristocrazia, intesa come una forma di gestione dello Stato affidata agli “àristoi”, i migliori.»
Un sorso d’acqua per una seconda pausa che doveva servire a consolidare nella mente dei presenti questo primo messaggio ovvero far credere che quello sarebbe stato a suo tempo il sistema prescelto.
Sistema ovviamente fallace in quanto a rischio di democrazia.
«Ma a noi non piaceva l’idea di una aristocrazia al comando, il potere messo nelle mani di presunti migliori, che potrebbero peraltro non rivelarsi tali. E che questo avvenga molto spesso ce lo insegna la storia, anche quella più recente.
E infatti il problema è: chi li sceglie i migliori? Altri migliori? E questi “altri” scelti da chi? E poi cosa potrebbe impedire ai migliori di scegliere se stessi in quanto migliori di altri? La cosa evidentemente era troppo pericolosa.» Si accarezzò il mento. Un altro arresto per lasciare il tempo che tutti rispondessero alla domanda e concludessero che si fosse davanti ad un vicolo cieco.
«Quale soluzione quindi? Per trovarla ci siamo domandati che cosa impedisca alle masse di essere loro stesse parte dei migliori. Come avere una democrazia dove vi sia un popolo di migliori che possa eleggere i migliori? La risposta fu semplice: eliminare l’ignoranza.» Notò sui visi dei presenti serpeggiare una certa perplessità. Tutto come previsto. «Ci siamo anche posti delle domande su un concetto che è alla base di ogni democrazia:
“La legge è uguale per tutti”. Ma come attuare veramente questa che appare come una folle utopia? Cosa fa sì che una legge, una amministrazione, un sistema giudiziario, non creino disparità nell’applicazione dei diritti, che non neghino ad alcuni diritti che, ad altri nella medesima situazione, sono riconosciuti?
Quale soluzione perché una legge non venga scritta male ed applicata peggio? Anche in questo caso la risposta che ci siamo dati fu la stessa: eliminare l’ignoranza.» Altra provocazione e brusio in aumento. «Ma ci è venuta alla mente anche un’altra massima che sento citare spesso, credo in Italia.
“La legge non ammette ignoranza”.
Un precetto che dovrebbe rivolgersi non solo ai cittadini ma anche a chi li governa. Devi conoscere per scrivere una legge; devi conoscere per applicarla; devi conoscere per giudicare correttamente.
Ma soprattutto devi anche fare in modo che il cittadino sia messo in condizione di comprendere le leggi che scrivi. E come arrivare a questo? La risposta non cambia: eliminare l’ignoranza.»
Un signore in prima fila rivolgendosi al collega seduto a fianco lo definì un illuso sognatore. Esattamente ciò che il dottor Zindwan aveva immaginato.
«Per questo abbiamo puntato tutto sulla istruzione, di uomini e donne, vecchi e bambini. L’istruzione finalizzata innanzitutto ad una proprietà di linguaggio nell’espressione, sia di pensieri che di concetti, totalmente scevra della possibilità di fraintendimenti e al contempo correlata ad una capacità assoluta di comprensione dei messaggi. L’istruzione finalizzata alla cultura giuridica. Il tutto con grandissimi benefici sia nei rapporti umani ma soprattutto per il sistema legislativo, amministrativo e giudiziario e, di conseguenza, per il benessere di tutti i nostri concittadini.»
Si concesse una pausa fingendo di aver bisogno di allentare il nodo della cravatta. «Questo nostro approccio comporta dei benefici in primis nei rapporti Stato-cittadino. Dalla chiarezza delle norme consegue infatti che ognuno sa esattamente cosa può fare e cosa non può fare. Ha piena contezza di quali sono i suoi diritti e i suoi doveri, nei confronti degli altri e della comunità in generale. Sa bene quali sarebbero le inevitabili conseguenze di una eventuale violazione delle regole che ci siamo dati. E questa consapevolezza del cittadino rappresenta al contempo un vantaggio e un beneficio per lo Stato in termini di sicurezza e legalità. Vi ricordate cosa scriveva Cesare Beccaria in un fulminante paragrafo del suo Dei delitti e delle pene dal titolo “Certezza ed infallibilità delle pene”? Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più terribile ma unito alla speranza della impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre più gli animi umani. Sintetizzando possiamo dire che quando la macchina della giustizia funziona a dovere ciò porta inevitabilmente ad una diminuzione dei reati.»
Bevve un altro sorso mentre si gustava le reazioni dei presenti.
«Sia chiaro, questo processo non è stato né semplice né veloce. C’è voluto tanto impegno. Ovviamente, inizialmente, siamo dovuti scendere a dei compromessi con quella che era la nostra idea finale di ordinamento giuridico. Per qualche tempo abbiamo avuto un sistema ibrido, in parte molto simile a quello che voi ancora oggi adottate. Un regime transitorio che però, ve lo confesso, è durato molto meno del previsto.
Oggi, grazie all’impegno di tutti, abbiamo un legislatore in grado di emanare norme chiare, esattamente corrispondenti alle idee ispiratrici, compresa l’aderenza ai principi costituzionali contenuti in una Carta costituzionale formata da pochi articoli ma di una chiarezza assoluta, non diversamente interpretabili.» Ancora pausa. Lasciò che la curiosità prendesse il sopravvento sulle perplessità prima emerse. Ed assestò un nuovo colpo.
«Vi sorprenderà ma noi non abbiamo previsto una Corte costituzionale, perché la Costituzione propone principi limpidissimi e le norme vi si adeguano perché il nostro legislatore non se ne può discostare. Le questioni di legittimità costituzionale, ove ve ne fossero, vengono affrontate e risolte dallo stesso giudice di prima cura.»
Ormai aveva in pugno l’attenzione di tutti. «Allo stesso modo la pubblica amministrazione sa esattamente come applicare le norme. Non c’è bisogno di circolari esplicative, ma solo quelle, indispensabili, di tipo tecnico-applicative. Non ci sono specifici tribunali amministrativi a cui appellarsi perché i provvedimenti sono sempre aderenti alla legge, ciò grazie al fatto che le norme sono scritte in modo chiaro e puntuale. Da noi i provvedimenti della pubblica amministrazione sono sempre conformi alla legge.»
Appoggiò le lunghe dita sul bordo del leggio, quasi ad accarezzarlo. Tutto era apparecchiato per il colpo di grazia.
«E pure il potere giudiziario gode di questi benefici e quindi appare molto snello. I tribunali sono tutti monocratici, non è previsto alcun grado d’appello. Tutte le sentenze sono conformi alle precedenti, non vi è possibilità di discostarsi, semplicemente perché tutte aderiscono perfettamente ai principi giuridici generali.
E tanto meno esiste una Corte di Cassazione, e ancor meno delle Sezioni Unite, perché le sentenze sono tutte conformi alle norme, sia nel merito che nella loro legittimità.» Questa notizia, questa precisazione, investì i presenti come uno tsunami.
«Intuisco la vostra preoccupazione che in un sistema come il nostro il cittadino sia alla completa mercé di un giudice. Questo accade perché tutti voi siete convinti che solo un doppio o un triplo grado di giudizio possa tutelare un imputato o un richiedente giustizia.
Ciò è vero solo in parte.
Proviamo infatti a ragionare insieme. I gradi di giudizio successivi al primo sono fatti per correggere eventuali errori commessi in primo grado. L’appello nel merito dovrebbe essere una eccezione, non la regola. Anche una verifica sulla legittimità della sentenza dovrebbe essere un fatto raro, rarissimo. Ditemi ora, quante delle vostre cause si fermano al primo grado di giudizio? Quante vanno in appello? Quante arrivano addirittura in Cassazione? Quante volte le Sezioni Unite della Cassazione hanno dovuto ricomporre il contrasto sulla soluzione di una questione giuridica decisa in modo opposto dalle singole sezioni semplici?
Ricordate cosa ho appena detto: se qualcuno si rivolge ad un nuovo e diverso tribunale è perché crede – o così dovrebbe essere – di aver subito un torto e spera in un giudice, per così dire, più attento.
Ma è proprio nel momento in cui il giudice dell’appello ribalta una sentenza di primo grado che si palesa la fallacità di un tale sistema. Se con due sentenze, prima si dà ragione ad una parte e poi gli si dà torto, significa che uno dei due giudici ha sbagliato ad applicare la norma alla fattispecie. E questo o perché la norma è scritta in modo equivoco, prestandosi quindi a opposte letture – e la cosa è di una gravità assoluta – oppure uno dei due giudici l’ha interpretata male o secondo il proprio sentire o volere. In questo caso il problema è ancora più serio perché parliamo di una palese incapacità a svolgere il proprio lavoro. E vi pongo la questione in termini ancor più brutali: affidereste mai la vostra richiesta di giustizia ad un giudice che ha appena sbagliato in toto una precedente decisione?» L’affermazione era di una forza assoluta. Si stavano mettendo in discussione principi consolidati da secoli. E di ciò il dottor Zindwan era perfettamente consapevole.
«Mi spiego meglio. Se tutti i giudici avessero l’identica preparazione nel comprendere e nell’applicare una norma – dando come ovvio presupposto che questa sia stata scritta in modo ortodosso – il giudice dell’appello emetterebbe la medesima sentenza di condanna o di assoluzione.
Se così fosse, nessuna parte avrebbe più interesse a presentare appello nel merito o un ricorso sulla legittimità sapendo che la sentenza di primo grado verrebbe confermata. E ciò porterebbe, quale processo naturale, alla inutilità e alla dismissione dei Tribunali dell’appello.» Il ragionamento non faceva una piega. Qualcuno in sala pregustava una obiezione, un “però” che fu subito spazzato via. «Ovviamente non siamo degli sprovveduti e abbiamo considerato la, pur remota, possibilità che un giudice possa sbagliare a decidere. In questo caso è ammessa la segnalazione ad un Collegio del Riesame, composto da 3 saggi che riesaminerà la decisione e, se riterrà che il giudice ha sbagliato, avvierà un procedimento disciplinare al termine del quale, ove venisse accertata la negligenza, rimuoverà il giudice dalle sue funzioni.» Nascose un sorriso di autocompiacimento bevendo un altro sorso d’acqua. «So bene a cosa state pensando. E se il Collegio del Riesame sbagliasse a sua volta? In questo caso il giudice rimosso dalle proprie funzioni potrà presentare un ricorso al Consiglio Supremo dei Giudici, composto questo da 7 saggi, che nel caso accertasse l’illegittimità del provvedimento di rimozione procederà a reintegrare il giudice e a rimuovere dalle funzioni tutti i Giudici del Riesame, sostituendoli a loro volta. Permettetemi ora un poco di leggerezza ed una battuta: è la paura di perdere il lavoro il miglior deterrente a lavorare al meglio. Un regola che, peraltro, dovrebbe valere per tutte le professioni e in tutti i rapporti lavorativi.» L’intervento era prossimo a concludersi. Mancava il colpo finale. E lo assestò.
«E sapete quante decisioni sbagliate di giudici monocratici abbiamo avuto negli ultimi 3 anni? Zero. Lo ribadisco, zero.»
Un rappresentante di uno stato asiatico si alzò in piedi e abbozzò un applauso. Lo scroscio che ne seguì fu impressionante. Forse non furono esattamente i 92 minuti di applausi riservati al ragionier Fantozzi di lontana memoria per la battuta sul film la Corazzata Potëmkin ma di certo qualcosa che ci assomigliava parecchio.
Il giudice Zindwan fu l’ultimo ad abbandonare l’aula Congressi.
Guardò le pareti in legno scuro abbellite da splendidi intarsi in stile etnico di artisti locali e adornate da quadri ad olio raffiguranti tutti i centosettanta padri fondatori. Si fermò su quella di un uomo dagli occhi neri e profondi, lo sguardo magnetico.
La targhetta apposta sotto il quadro citava Ahmad Zindwan – 1960 / 2047.
Eh sì. Se ne era andato da pochi mesi. Guardò il padre e sottovoce sussurrò: “Abbiamo fatto un gran bel lavoro, che dici?” Il sorriso con cui era stato immortalato il genitore gli parve un cenno di assenso. Percorse il corridoio che divideva le due lunghe file di sedie fino a pochi istanti prima occupate dai congressisti. Arrivò alla porta, ne afferrò la grande maniglia in ottone e la tirò un poco a sé. Il suo sguardo si rivolse per un’ultima volta verso il palco. Ben visibile sulla parete centrale di quello che una volta era il Tribunale Supremo compariva ancora in bella vista quella scritta che riassumeva tutta la filosofia di quello splendido, grande paese africano. Era un aforisma di un italiano, apparso giusto 25 anni prima, a marzo 2023, sulla rubrica Senza Filtro della rivista online Sintesi dei Consulenti del lavoro di Milano.
Suo padre l’aveva letto durante un viaggio di piacere nel capoluogo lombardo e ne era rimasto affascinato.
Ne rilesse il testo e sorrise compiaciuto.
“OGNI CITTADINO HA DIRITTO
AD ESSERE GIUDICATO PER CIÒ CHE LA NORMA DISPONE E NON PER
COME UN GIUDICE LA INTERPRETA”.

 

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LA CARICA DEI 104

Loredana Salis, Consulente del Lavoro in Milano
e Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

 

Si può coniugare semplicità con tutela? Si può concepire il rapporto di lavoro come una relazione e non come una gabbia? Si può applicare una direttiva UE senza complicarla? Sono queste le domande che hanno indirizzato il lavoro del Centro Studi della Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano che qui siamo lieti di presentare: un testo di legge come l’avremmo scritto noi e che quindi sostituisce completamente il D.lgs. n. 104/2022 (e anche il D.lgs. n. 152/1997). Le esigenze, nate dallo sconcerto e dallo sconforto che fin dai primi giorni erano scaturiti dalla lettura del Decreto in questione, erano molteplici e stringenti: – concepire un testo di legge che non fosse il solito patchwork normativo, fatto di rimandi poco chiari, sovrapposizioni, stratificazioni; – evitare la formazione obbligatoria di documenti chilometrici ma poco, o per nulla utili (anzi, con il rischio di essere addirittura confusivi e fuorvianti) in un’epoca in cui le informazioni sono disponibili – o possono essere rese – con pochi e intelligenti mezzi; – bilanciare la gestione del rapporto e l’esercizio dei diritti di tutti senza squilibri impropri e costi ed oneri iniqui per i datori di lavoro. Dati questi presupposti, offriamo alcune brevi note di lettura per il testo che seguirà e per quanto abbiamo cercato di realizzare con questa proposta.

a) Dal decreto e dagli obblighi sono stati quasi completamente espunti i committenti (e correlativamente anche i collaboratori coordinati e continuativi): in un Paese serio – prima o poi lo diventeremo – gli autonomi sono autonomi e i subordinati sono subordinati, senza commistioni confusive. Siamo per rafforzare le tutele serie, non per annacquarle in fattispecie di dubbia o equivoca definizione.

b) I contenuti dell’informativa da fornire sono stati resi più chiari ed equilibrati, così come i modi di comunicazione ed i tempi di conservazione.

c) Gli obblighi non previsti dalla Direttiva, ma di mera invenzione italiana, sono stati aboliti: in un ambito di competizione internazionale non sembra il caso di distinguersi sempre per italici lacci e lacciuoli o per complicazioni burocratiche di derivazione vetero-ideologica.

d) È stato conservato, ancorché razionalizzato, il nucleo delle tutele che si volevano inserire o specificare: non siamo per un mercato del lavoro volto al più spinto liberismo. Dove il legislatore ha operato in ragione di un forte sbilanciamento abbiamo cercato di equilibrare le posizioni delle parti, peraltro in modo non dissimile a quello di altre norme con analogo scopo.

e) Abbiamo pensato ad un sistema sanzionatorio semplice e chiaro, che favorisca l’intesa e la rettitudine anziché meccanismi esclusivamente punitivi.

f) Abbiamo rivalutato la funzione della contrattazione, anzitutto collettiva (completamente ignorata nella stesura del decreto originario, contrariamente a quanto prevedeva la stessa Direttiva) e, in qualche caso, individuale.

g) In alcuni passaggi abbiamo anche mantenuto il testo di legge originario, integralmente o quasi: il nostro non è stato infatti un lavoro “contro” ma una riflessione “per”. Come ci è capitato di dire in casi analoghi, la (ri)scrittura normativa – certamente non facile e irta di insidie– non è stato esercizio velleitario di stile o manifestazione di presunzione ma semplice esigenza di chiarezza e di efficacia. Non abbiamo pertanto alcuna pretesa di essere stati perfetti o esaustivi, ma confidiamo di avere comunque confezionato una buona esemplificazione del senso sotteso alla Direttiva, nonché di quel che vorremmo vedere e che si potrebbe fare. Offriamo pertanto questo lavoro alla riflessione di tutti, aperti a critiche, suggerimenti, dibattito: il tentativo non è quello di sostituirsi a nessuno ma di sollecitare un confronto costruttivo non partendo da meri principi o desideri ma da un progetto concreto, misurabile parola per parola. È da ultimo doveroso un ringraziamento a tutti i colleghi che, oltre a noi, hanno contribuito a questo progetto, sacrificando tempo e risorse con la segreta speranza di non dover più perdere il sonno (o il senno) rincorrendo norme assurde o scritte in modo discutibile e approssimativo.

 

Hanno collaborato alla stesura del presente lavoro i colleghi del Centro Studi della Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano: Andrea Asnaghi, Manuela Baltolu, Alberto Borella, Margherita Bottino, Loredana Buzzanca, Mariagrazia Di Nunzio, Potito Di Nunzio, Sabrina Pagani, Maria Paladini, Paolo Reja, Alessia Riva, Loredana Salis, Federica Sgambato.

 

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LEGITTIMITÀ DELLA REGISTRAZIONE DI COLLOQUI tra il dipendente e colleghi o datore di lavoro

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

Quante volte avremmo voluto, ma non ce la siamo sentita, registrare una conversazione avuta con degli amici, con dei colleghi o con i fornitori, per la paura di violare la privacy altrui! La domanda che oggi vogliamo porci è: abbiamo fatto bene? Di primo acchito verrebbe da dire di sì. Esistono infatti varie norme poste a tutela della riservatezza: si può iniziare dall’art. 15 della nostra Costituzione che afferma che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili o citare la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che all’art. 8 rimarca il principio che ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare.

Ma è altrettanto chiaro che l’esistenza di più diritti fondamentali – di cui è sottintesa la pari dignità costituzionale – impone, in caso di una loro eventuale intersezione, il contemperamento dei valori in gioco.

Se quindi è pacifico che la mera registrazione di conversazioni tra presenti all’insaputa dei conversanti configura una grave violazione del diritto alla riservatezza (Cass. 16 maggio 2018, n. 11999) tuttavia ciò non è sempre vero essendo in via generale ammessa la registrazione di colloqui avvenuti qualora ciò sia funzionale al diritto di difesa. E si badi bene che questo può pacificamente riguardare – per quanto concerne l’ambito qui di nostro interesse ovvero quello lavorativo – non solo la potenziale controparte in giudizio ma anche soggetti terzi quali ad esempio i colleghi di lavoro.

Una delle ultime pronunce della Cassazione sul tema ci consente un focus su alcuni punti fondamentali della questione.

CORTE DI CASSAZIONE, LA SENTENZA N. 31204 DEL 01.11.2021

Gli Ermellini partono dal principio espresso nell’allora vigente art. 24 del D.lgs n. 196/2003 ovvero che è possibile prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione venga eseguita, sia necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che essi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.

L’indicazione è chiara: l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio. Sia però ben chiaro: la legittimità di questa condotta è subordinata al fatto di aver effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto.

E la Corte non si ferma certo qui, chiarendo che il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso. In pratica si propone una dilatazione della nozione di “sede processuale/giudiziaria” da intendersi quindi anche a situazioni precedenti o prodromiche ad un contenzioso vero e proprio. Pertanto, la registrazione potrà essere legittimamente utilizzata sia in un processo civile che penale, per presentare una denuncia o per difendersi da querela, ma anche – questo l’aspetto giuslavoristico che qui ci interessa – per difendersi contro una sanzione o un licenziamento di tipo disciplinare.

Allo stesso tempo la Cassazione ci avverte che si tratta evidentemente di un profilo estremamente delicato, che esige un attento ed equilibrato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali, quali la garanzia della libertà personale, sotto il profilo della sfera privata e della riservatezza delle comunicazioni, da una parte e del diritto alla difesa, dall’altra. Ed esso si deve fondare su una valutazione rigorosa del requisito di pertinenza, nella prospettiva di una diretta e necessaria strumentalità, della registrazione all’apprestamento della finalità difensiva nell’orizzonte sopra illustrato, all’interno di una scrupolosa contestualizzazione della vicenda. Questo significa che non è mai giustificabile la registrazione di colloqui per il fatto che forse, un domani, potrebbero servire ma occorre che questo bisogno sia attuale. Questa cosa appare chiara nella fattispecie portata davanti alla Corte Suprema nella quale è stata giudicata legittima la registrazione di un colloquio durante il quale il lavoratore intendeva esplicitare le ragioni per cui non poteva partecipare ad un corso obbligatorio di formazione, causa l’esiguità del termine di preavviso (meno di due giorni), a fronte di un evento in orario diverso da quello ordinario e in una località ad oltre cento chilometri dal luogo abituale di prestazione dell’attività lavorativa. Le ragioni addotte dal lavoratore escludevano – secondo la Corte – che la registrazione in questione potesse riguardare un momento di normale relazionalità gerarchica tra dipendenti. Al contrario, la mancata partecipazione al corso senza alcun preavviso all’azienda e senza alcuna giustificazione o autorizzazione a non parteciparvi, ben poteva comportare, stante l’obbligatorietà di detto corso, una contestazione disciplinare. Per questo motivo viene riconosciuta al lavoratore la necessità di poter documentare il contenuto del colloquio per fini difensivi in una controversia che avrebbe potuto affrontare senza mezzi adeguati. Peraltro gli Ermellini si sono sempre dimostrati sensibili alle difficoltà per il lavoratore di altrimenti costituirsi dei mezzi di prova, specie in contesti lavorativi caratterizzati da conflitti con colleghi, anche di rango più elevato, dove il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili sacche di omertà (Cass. 10 maggio 2018, n. 11322).

ALCUNE NECESSARIE PUNTUALIZZAZIONI

Partiamo dall’indiscusso e consolidato principio che bolla come illegittime tutte le registrazioni fatte all’insaputa dei propri interlocutori nel caso siano svolte all’interno della privata dimora di quest’ultimi. Questo significa che in tutti gli altri luoghi “pubblici” è sempre ammesso registrare o riprendere “clandestinamente” – da intendersi quale assenza dell’obbligo di informare l’interlocutore della registrazione in corso – un colloquio a patto, ribadiamolo bene, di essere lì presenti. Solo così non si rientrerebbe nella fattispecie, vietata e con risvolti penali, delle intercettazioni.

Questa possibilità, lo abbiamo visto, deriva dal costante orientamento secondo cui la registrazione di una conversazione all’insaputa dell’interlocutore deve ritenersi legittima e validamente utilizzabile in sede processuale qualora necessaria per tutelare e far valere un diritto in sede giudiziaria (Cass. 10 maggio 2019, n. 12534). Va peraltro evidenziato che, pur essendo considerato il timbro vocale – al pari del contenuto della conversazione – un dato personale, non è previsto alcun rilascio di una informativa privacy né l’acquisizione del consenso in quanto il GDPR (Regolamento UE 2016/679) prevede espressamente che la regola sul consenso possa essere derogata nel caso in cui i  “dati” dell’interessato siano necessari per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria. Ma attenzione: in considerazione delle specifiche finalità indicate nella sentenza, ovvero l’uso difensivo, è evidente che il contenuto della registrazione necessiterà di una attenzione particolare evitando quindi che la stessa (il file per intenderci) possa finire in mani sbagliate e quindi essere utilizzata per altri fini, a nulla importando se per colpa o mera negligenza di chi ha registrato. Spetta quindi a chi ne ha la materiale disponibilità garantire misure di sicurezza idonee ad evitare una sua possibile divulgazione. Tornando però alla questione che qui più interessa ovvero se un lavoratore possa o meno effettuare registrazioni (ed anche le videoregistrazioni) di conversazioni intrattenute col capo, coi superiori gerarchici e coi colleghi, possiamo dire che la giurisprudenza della Cassazione ha da sempre ritenuto legittima la registrazione di una conversazione avvenuta con tali soggetti al bar o per strada ma anche, ad esempio, in un punto vendita o in un negozio, essendo questi luoghi aperti al pubblico. Qualche dubbio invece sussisteva riguardo la possibilità di procedere a delle registrazioni nell’ufficio del personale o in quello del datore di lavoro. La risposta positiva viene confermata dalla sentenza in commento dove si fa salvo il diritto del dipendente di precostituirsi un mezzo di prova se teme di dover scendere in causa con l’azienda e, quindi, di doversi difendere. Dato per assodato il divieto di registrare colloqui avvenuti a casa del datore di lavoro (vige il principio dell’inviolabilità del domicilio), ciò potrà invece avvenire nell’ufficio di quest’ultimo benché di norma tale luogo sia assimilato alla dimora e quindi tutelato dalla normativa privacy. Qui, casomai, l’unico problema è come dimostrare dove sia avvenuta la registrazione: più facile in caso di videoregistrazioni, più difficile per le registrazioni solo vocali. Dal principio sopra segnalato deriva il corollario che il registratore può restare acceso in qualsiasi locale, stanza o ufficio, dell’azienda. È però essenziale che il dipendente sia fisicamente presente e quindi che la registrazione riguardi solo ciò che viene detto dinanzi a lui anche se i commenti non siano a lui indirizzati. In sostanza vanno evitate quelle che sarebbero tecnicamente considerate delle intercettazioni ossia lasciare un registratore acceso e poi assentarsi poiché le persone devono essere consapevoli che ciò che potenzialmente potrebbe in seguito utilizzare, anche registrandole, le loro affermazioni, di fatto accettando un siffatto rischio. Del resto è palese come il diritto alla riservatezza non possa operare quando è lo stesso titolare del relativo diritto a rinunciarvi, come nel caso in cui parli con altri.

In merito alla prova richiesta al lavoratore di aver partecipato personalmente al colloquio, la circostanza è facilmente ricavabile dal contenuto della registrazione ovvero dalla ineludibile interazione del lavoratore con il proprio interlocutore.

Interessante infine la considerazione, sempre contenuta nella sentenza in commento, che esclude qualsiasi rilievo disciplinare di tale comportamento rispondendo la condotta in discorso alle necessità conseguenti al legittimo esercizio d’un diritto e, quindi, essendo coperta dall’efficacia scriminante dell’art. 51 c.p., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico.

Ovviamente la delicatezza della scelta di procedere alla registrazione di colloqui con terzi impone a chi intende avvalersene una preventiva e precisa pianificazione, meglio se affidandosi ai consigli di un consulente del lavoro o di un avvocato.

 

 

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I CHIARIMENTI DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE SUL BONUS 3.000 EURO. Ancora una volta non benissimo

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

Ormai è assodato: sempre di più il legislatore scrive le norme come se fossero una sorta di legge-quadro, lasciando che siano i vari Enti, interessati per competenza, a stabilire la disciplina di dettaglio.

A questo malvezzo non sfugge l’art. 12 – Misure fiscali per il welfare aziendale, del Decreto Legge n. 115 del 9 agosto 2022 come appena modificato dal c.d. Decreto Aiuti-quater, che così ora dispone:

  1. Limitatamente al periodo d’imposta 2022, in deroga a quanto previsto dall’articolo 51, comma 3, prima parte del terzo periodo, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non concorrono a formare il reddito il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale entro il limite complessivo di euro 3.000,00.

I chiarimenti tanto attesi sono arrivati grazie alla circolare n. 35/E del 4 novembre 2022 a firma Agenzia delle Entrate nella quale, ahimè, rilevo troppe criticità.

 

IL LAVORATORE E I FAMILIARI

Dato che la norma in commento estende l’esenzione ai fini reddituali e contributivi anche alle somme erogate o rimborsate dal datore di lavoro ai propri lavoratori dipendenti relativamente al «pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale» e che il comma 3 dell’art. 51 del TUIR stabilisce che nei beni e servizi interessati dalla disposizione sono «compresi quelli dei beni

ceduti e dei servizi prestati al coniuge del dipendente o a familiari indicati nell’articolo 12», la circolare identifica le utenze domestiche in quelle che riguardano tutti gli

immobili ad uso abitativo posseduti o detenuti, sulla base di un titolo idoneo, dal dipendente, dal coniuge o dai suoi familiari, a prescindere che negli stessi abbiano o meno stabilito la residenza o il domicilio, a condizione che ne sostengano effettivamente le relative spese.

In sostanza parliamo, e lo precisa la circolare con nota in calce,

del coniuge del dipendente nonché dei suoi figli e delle altre persone indicate nell’art. 433 codice civile, indipendentemente dalle condizioni di familiare fiscalmente a carico, di convivenza con il dipendente e di percezione di assegni alimentari non risultanti da provvedimenti dell’autorità giudiziaria.

Il chiarimento esclude quindi le utenze intestate al mero convivente, e così pure al convivente di fatto di cui alla Legge n. 76/2016, anche qualora l’utenza venga materialmente pagata, in toto o quota parte, dal lavoratore dipendente. E questo, secondo chi scrive, non rispetta esattamente lo spirito della norma il cui scopo è aiutare il lavoratore a pagare le utenze che di fatto sostiene. Analogamente la richiesta dell’esistenza di un titolo idoneo circa il possesso/detenzione appare travalicare il testo normativo.

 

UTENZE CONDOMINIALI

La circolare prosegue poi precisando che

è possibile, infine, comprendere nel perimetro applicativo della norma anche le utenze per uso domestico (ad esempio quelle idriche o di riscaldamento) – intestate al condominio – che vengono ripartite fra i condomini (per la quota rimasta a carico del singolo condomino) e quelle per le quali, pur essendo le utenze intestate al proprietario dell’immobile (locatore), nel contratto di locazione è prevista espressamente una forma di addebito analitico e non forfetario a carico del lavoratore (locatario) o dei propri coniuge e familiari, sempre a condizione che tali soggetti sostengano effettivamente la relativa spesa.

Anche in questo caso riteniamo che la lettura delle Entrate non sia conforme al dettato normativo, penalizzante peraltro per quei lavoratori che possano dimostrare di aver pagato un rimborso forfettario inferiore all’effettivo costo delle utenze pagate per il tramite del locatore. Idem nei casi in cui si negherebbe il beneficio nei limiti dell’effettivo importo delle utenze per il solo fatto che il lavoratore/conduttore ha corrisposto un rimborso forfettario maggiore (che può ben comprendere altre spese, quali pulizia parti comuni o spese giardinaggio).

PERIODO DI RIFERIMENTO DELLE SPESE

L’Agenzia ci precisa che le somme erogate dal datore di lavoro (nell’anno 2022 o entro il 12 gennaio 2023, come si dirà nel prosieguo) possono riferirsi anche a fatture che saranno emesse nell’anno 2023 purché riguardino consumi effettuati nell’anno 2022.

Diciamo subito che la norma non precisa nulla in merito al periodo di riferimento delle bollette. Il periodo di imposta 2022 viene citato solo in merito all’esclusione dal reddito imponibile delle somme erogate o rimborsate per tale scopo ai lavoratori dipendenti in tale anno. È un principio di cassa (allargato) e non di competenza. E infatti la ratio dell’intervento legislativo è quello di aiutare il lavoratore in un periodo di difficoltà che può ben derivare dal dover pagare delle fatture arretrate anche se relative all’anno 2021 e/o precedenti. Peraltro, se seguissimo il ragionamento fatto dall’Agenzia e se tanto ci da tanto, dovremmo ritenere che le somme erogate per fatture emesse nel 2022, ma riferite a consumi del 2021, non possano godere dei benefici di cui all’art. 12 del D.l. n. 115 del 9 agosto 2022.

LE FATTURE

Nella circolare viene poi evidenziato che la giustificazione di spesa può essere rappresentata anche da più fatture.

Ovviamente, anche se non viene detto esplicitamente, le varie fatture possono essere intestate a diversi soggetti purché si tratti del lavoratore, del suo coniuge o dei familiari indicati nell’articolo 12.

 

LA DOCUMENTAZIONE DI SPESA

Anche la previsione che il datore di lavoro si faccia carico, per eventuali successivi controlli, di acquisire e conservare

la relativa documentazione per giustificare la somma spesa e la sua inclusione nel limite di cui all’articolo 51, comma 3, del TUIR 

appare l’ennesima complicazione posta a carico delle aziende, peraltro per un invito alla liberalità avente un sottinteso, ma chiaro, “scopo sociale” a favore di terzi. Proviamo infatti ad ipotizzare un rimborso che sfrutti tutti i 3.000 euro previsti dal Decreto Aiuti-quater. Considerando le mie utenze potrei avere per ogni lavoratore ben 12 fatture per il gas, 12 per la luce e 4 per l’acqua, per un totale di 28 fatture. Aggiungiamo la prova del pagamento, sperando almeno che il  lavoratore presenti un estratto del proprio conto corrente e non le singole quietanze. Mettiamoci poi le varie autocertificazioni e dichiarazioni previste (vedasi più oltre). E poiché potrebbe pure capitare che il lavoratore chieda il rimborso sia delle proprie utenze che quelle dei suoi familiari, la miracolosa moltiplicazione dei pani e dei pesci al confronto vi sembrerà un giochetto di prestigio da scatola da mago per bambini. Moltiplicate poi questa documentazione per tutti i lavoratori interessati e capite subito che un’azienda media di un centinaio di dipendenti si troverà a gestire qualche migliaio di scartoffie, che dovranno essere accuratamente valutate e poi archiviate.

Le spese sostenute dal locatore

Ma non finisce qui: la cosa si complica ancora di più nel caso in cui alcune delle fatture presentate risultino intestate al locatore dell’immobile detenuto dal lavoratore o dai suoi familiari.

Che deve fare il lavoratore conduttore di un immobile? Di certo autocertificare che nel contratto è previsto un rimborso analitico e non di tipo forfettario. Ma dovrà anche attestare di aver pagato quanto previsto al locatore. Non deve invece, secondo chi scrive, fare alcun controllo circa il fatto che il proprietario dello stabile abbia pagato le varie utenze.

Le spese condominiali

Ma peggio va a coloro che hanno utenze intestate al condominio: il riferimento è principalmente alle spese di riscaldamento, ma potrebbero riguardare anche quelle di luce e acqua per le parti comuni. Provate a ragionare in termini di bilancio consuntivo e provvisorio, di rate (comprensive di altre spese) scadute e in scadenza, di rate non pagate o pagate parzialmente. Le intuite le difficoltà, vero?

Difficile infatti, secondo chi scrive, che il lavoratore possa ricorrere ad una autocertificazione come gli è più semplice nei casi di utenze intestate a lui o ai familiari. Troppo complicato, ritengo, descrivere la situazione in cui versa.

Giocoforza dovrà presentare i vari resoconti condominiali dove emerga il dettaglio dei costi a lui imputati quale conduttore. E se il bilancio consuntivo 2022, come è assai probabile, non è ancora pronto o approvato in quanto l’esercizio non è ancora chiuso? Basterà presentare il bilancio preventivo? E come dimostrare che l’acconto richiesto in tale sede corrisponda all’effettiva spesa? Bisognerà chiedere all’amministratore copia delle fatture ricevute (e relative quietanze) ma non comprese nei vari resoconti? E il datore dovrà controllare tutto questo?

E se il lavoratore non ha pagato le rate condominiali o ne ha pagate solo

alcune? Quanto parzialmente pagato potrà essere imputato integralmente alle utenze o dovrà essere fatta una imputazione proporzionale tra le stesse e le altre spese (pulizia, amministratore, spese straordinarie, etc) a carico del condomino?

L’AUTOCERTIFICAZIONE

E va ancora peggio con l’alternativa proposta dalla circolare che consiglia di

acquisire una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, con la quale il lavoratore richiedente attesti di essere in possesso della documentazione comprovante il pagamento delle utenze domestiche, di cui riporti gli elementi necessari per identificarle, quali ad esempio il numero e l’intestatario della fattura (e se diverso dal lavoratore, il rapporto intercorrente con quest’ultimo), la tipologia di utenza, l’importo pagato, la data e le modalità di pagamento.

Ve lo immaginate un lavoratore predisporre autonomamente questa autocertificazione in modo corretto senza quindi che il datore sia costretto ad interfacciarsi più volte con il suddetto?

E UN’ALTRA AUTOCERTIFICAZIONE

E che dire poi della ulteriore  dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti la circostanza che le medesime fatture non siano già state oggetto di richiesta di rimborso, totale o parziale, non solo presso il medesimo datore di lavoro, ma anche presso altri.

L’Agenzia precisa che è richiesta in ogni caso, ovvero sia che si opti per la presentazione delle bollette che per l’autocertificazione. Ulteriori oneri di controllo e conservazione a carico delle imprese.

E LE AUTOCERTIFICAZIONI NON FINISCONO DI CERTO QUI

Un po’ come le ciliegie, un’autocertificazione tira l’altra. Nel nostro caso alle due indicate dall’Agenzia delle Entrate potrebbero servirne un altro paio.

La prima è prevista nell’ipotesi che l’utenza sia intestata al coniuge o agli altri suoi familiari. Non sempre è agevole infatti rilevare la reale parentela ben potendo essere il cognome dell’intestatario diverso da quello del lavoratore (peraltro anche in caso di coincidenza non è detto che vi sia un rapporto di parentela). Solo in caso di convivenza la cosa potrebbe essere risolta con uno stato di famiglia anagrafico, mentre nella diversa ipotesi dovrà essere predisposta dal lavoratore una apposita autocertificazione riportante il grado di parentela.

Una seconda autocertificazione – e lo abbiamo già evidenziato più sopra – si rende poi necessaria nel caso di utenze intestate al locatore dell’immobile.

LE SOMME EROGATE O RIMBORSATE

L’Agenzia evita accuratamente di affrontare il tema delle somme che possono essere erogate o rimborsate dal datore, ovvero la circostanza che la

norma, di fatto, prevede che le somme possano riguardare non solo il rimborso delle utenze ma anche una dazione in denaro per un futuro pagamento delle bollette. In questo caso entro quanto tempo il lavoratore dovrà dimostrare – sempre che lo debba fare – di aver effettivamente utilizzato tali somme per questa specifica finalità? La fattura dovrà essere pagata alla scadenza o è ammesso un pagamento anche in ritardo? E se sì, entro quando?

Se ci si attenesse al testo di legge chi scrive ritiene che il beneficio possa spettare al lavoratore che si limiti a presentare le fatture non ancora saldate – cosa che sottintende un implicito impegno ad utilizzare gli importi riconosciutigli in esenzione per tale specifica finalità – restando quindi esclusivamente a carico del dipendente la responsabilità in caso di mancato pagamento delle utenze, senza che sia il datore di lavoro a dover rincorrere il lavoratore, in questo caso per sollecitare la presentazione delle relative quietanze.

Ma ipotizziamo un lavoratore che non presentasse nei termini le quietanze e si intendesse quindi recuperare il benefit. Onde evitare discussioni sarebbe opportuno che il lavoratore sottoscrivesse una dichiarazione (almeno questa non nella forma dell’autocertificazione di atto di notorietà) dove prende atto che la mancata presentazione della prova dell’avvenuto pagamento comporterà il recupero delle somme erogate a rimborso in quanto tale erogazione è strettamente collegata all’effettivo pagamento delle utenze. E secondo voi chi preparerà questa dichiarazione? Ovviamente l’azienda che ancora una volta dovrà fare da badante ai propri dipendenti accollandosi altri oneri solo per evitare complicazioni maggiori.

E se il lavoratore, a cui abbiamo recuperato il benefit, potesse far valere una causa di forza maggiore che gli ha impedito la presentazione delle quietanze? E se addirittura contestasse che la norma non prevede – ed è vero – alcuna scadenza per la dimostrazione dell’avvenuto pagamento delle utenze, come la mettiamo? Apriamo un contenzioso con un nostro lavoratore, magari proprio con uno di quelli “strategicamente indispensabili”?

 

IL CANONE RAI IN BOLLETTA 

Vi è infine una questione che l’Agenzia non ha minimamente affrontato.

L’importo del canone Rai contenuto della bolletta per l’energia elettrica è rimborsabile in esenzione o deve essere scorporato non riguardando direttamente una utenza domestica per l’energia elettrica?

Nel secondo caso – che è la risposta che si è dato chi scrive – è quasi certo che il 99 per cento dei lavoratori non lo farà. Con tutte le problematiche connesse ad un futuro recupero da parte dell’Agenzia Entrate che potrebbe coinvolgere anche il datore di lavoro che, avendo acquisito le singole fatture, non ha provveduto allo scorporo di tale importo.

CONCLUSIONI FINALI

Ci si consenta alcune considerazioni.

  1. È altamente improbabile che un lavoratore si dedichi con profitto alla predisposizione di una corretta autocertificazione contenente tutte le informazioni necessarie e che consenta così l’erogazione del benefit senza che il datore di lavoro corra il rischio di future contestazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate. Più facile che la dichiarazione debba essere rispedita al mittente per le dovute integrazioni (con annesse spiegazioni).
  2. È impensabile che l’azienda decida di coadiuvare i propri lavoratori nella predisposizione della predetta autocertificazione anche, ma non solo, per ragioni di tempistiche ristrette.
  3. Anche la sola acquisizione delle fatture in-testate al lavoratore comporta per l’azienda un lavoro (ergo la responsabilità) di verifica della competenza temporale delle fatture, della loro intestazione, dell’intervenuto pagamento (o successivo), dello scorporo del canone Rai, la quantificazione del rimborso spettante.

Per questa serie di motivi si ritiene che la maggior parte delle aziende – fatte salve le situazione più lineari – sarà costretta a rinunciare a rimborsare le spese sostenute per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. E questo a causa di istruzioni cervellotiche. Molto più semplice optare per buoni spesa presso un supermercato o dei più facilmente spendibili buoni carburante.

Che dire? Un’altra norma scritta male e un’altra circolare applicativa pensata infischiandosene delle problematiche che le regole imposte (rectius inventate) per l’erogazione di tali benefits creano.

“Complicare è facile, semplificare è difficile”, diceva un certo Bruno Munari.

Eh già, i concetti di semplificazione e si sburocratizzazione, questi sconosciuti.

 

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Una proposta al mese – DECRETO TRASPARENZA e il sito internet del Ministero del Lavoro

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

 

In linea teorica gli onerosi adempimenti previsti in capo alle aziende dal Decreto Trasparenza in tema di Informazioni sul rapporto di lavoro avrebbero dovuto trovare un più che valido aiuto grazie alla previsione del nuovo comma 6 dell’art. 1 del D.lgs. n. 152/1997 che così dispone:

Le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro sono disponibili a tutti gratuitamente e in modo trasparente, chiaro, completo e facilmente accessibile, tramite il sito internet istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Per le pubbliche amministrazioni tali informazioni sono rese disponibili tramite il sito del Dipartimento della funzione pubblica.

L’obbligo imposto dal Decreto Trasparenza è stato per così dire “assolto” dal Ministero del Lavoro attivando sul proprio sito istituzionale una apposita sezione intitolata: Norme e contratti collettivi – Archivio CNEL. Il Ministero parte da un preambolo precisando agli utenti che:

Per consultare nel dettaglio i contratti collettivi di lavoro è possibile navigare sull’apposito portale del CNEL. Per una fruizione più semplice è anche possibile consultare la Guida CNEL, in formato Pdf.

Per ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato si può anche visitare la sezione web dedicata allo Sportello Unico Digitale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Prosegue poi ribadendo la finalità di questa nuova pagina internet, ovvero

Questa area del sito istituzionale è finaliz-

zata a rendere disponibili per lavoratori e datori di lavoro le principali disposizioni normative e dei contratti collettivi applicabili ai rapporti di lavoro del settore privato.

In pratica suggerisce a lavoratori e datori di lavoro di andare sul sito del Cnel, cercare il proprio Ccnl e, senza tanti giri di parole, di leggerlo per bene se si vuole informare o essere informati. E aggiunge:

Per ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato si può anche visitare la sezione web dedicata allo Sportello Unico Digitale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Dalle mie parti qualcuno liquiderebbe la questione con un vöia de fán sòltòm adóss. Infatti, se fate bene attenzione, il Ministero rende disponibili solo le le principali disposizioni normative e dei contratti collettivi. Ci segnala pure dove trovare le ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato.

Probabile che per il Ministero esistano disposizioni e informazioni “meno principali”, quelle secondarie, quelle di serie B, quelle che evidentemente, se portate o meno a conoscenza dei lavoratori, non rilevano sul loro diritto ad essere informati in base alla Direttiva europea. Il tutto alla faccia di una informazione istituzionale che, per legge, deve essere trasparente, chiara, ma soprattutto completa. Ma non basta. Il Ministero si mostra pienamente consapevole dei propri obblighi tanto che ci tiene a precisare che:

Tali disposizioni sono utili anche ai fini delle informazioni che il datore di lavoro è tenuto a comunicare al lavoratore in attuazione del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152 (omissis).

Infatti, ai sensi dell’articolo 1, comma 6, del medesimo decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali rende disponibili le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro del settore privato.

Segue quindi un elenco dedicato alla principale normativa in materia di rapporti di lavoro riportando un elenco, ad oggi, di 18 norme (presumibile che questo possa essere aggiornato di volta in volta) ovvero:

D.lgs. 27 giugno 2022, n. 104 – D.lgs. 30 giugno 2022, n. 105 – D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 – Legge 22 maggio 2017, n. 81 – D.lgs. 14 settembre 2015, n. 148 – D.lgs. 4 marzo 2015, n. 22 – D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 – Legge 4 novembre 2010, n. 183 – D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 – D.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 – D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 – D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 – D.lgs. 26 maggio 1997, n. 152 – Legge 23 luglio 1991, n. 223 – Legge 8 agosto 1972, n. 457 – Legge 20 maggio 1970, n. 300 – Legge 17 ottobre 1967, n. 977 – Legge 15 luglio 1966, n. 604.

Fateci caso. La circolare n. 19 del 20 settembre 2022 del Ministero del Lavoro – dopo aver detto di ritenere che l’obbligo di informazione per il datore di lavoro riguardi solo quelle astensioni espressamente qualificate dal legislatore come “congedo – ci indica in via esemplificativa e non esaustiva alcune ipotesi di congedi retribuiti previsti dalla legge:

  • congedi di maternità e paternità, congedo parentale e congedo straordinario per assistenza a persone disabili, secondo la disciplina di cui al D.lgs. n. 151/2001;
  • congedo per cure per gli invalidi, secondo la disciplina di cui all’articolo 7 del D.lgs. n. 119/2011;
  • congedo per le donne vittime di violenza di genere secondo la disciplina di cui all’articolo 24 del D.lgs. n. 80/2015.

Bene, solo due di queste normative, il D.lgs. n. 151/2001 e D.lgs. n. 80/2015, vengono richiamate nel sito internet; ci si dimentica invece del D.lgs. n. 119/2011.

Ma come? Da una parte, con la circolare, si dice una cosa e dall’altra, nel sito internet, una diversa? Ma i tecnici dei vari uffici del Ministero si parlano tra di loro o ognuno fa da sé? Sorvoliamo pure e analizziamo gli esempi proposti. Quale utilità pratica hanno? Partiamo dal fatto che stiamo parlando di un Decreto legislativo, quindi emanato dal Governo che, è presumibile, ha affidato ai soli tecnici dell’ex ministro Orlando la trasposizione della Direttiva europea. Se così fosse, è corretto dire che fu il Ministero a prevedere, nel redigere la norma, l’onere in capo a sè stesso di pubblicare sul proprio sito internet istituzionale – in modo trasparente, chiaro, completo e facilmente accessibile – le informazioni riguardanti le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali che devono essere comunicate dai datori di lavoro del settore privato.

Singolare che, dovendo scrivere una circolare e pubblicare la pagina web ad hoc, non sia nemmeno stato capace di riportare un elenco completo dei congedi previsti dalla legislazione nazionale. Non è in grado di farlo il Ministero a distanza di quattro mesi dalla definizione del Decreto 104 e pretende che lo facciano d’emblée i poveri datori di lavoro? E due cose vanno dette anche sulla prevista accessibilità facilitata alle informazioni. Facilmente accessibile è prevedere un rinvio al sito Cnel?

Qualcuno del Ministero ha mai provato a cercare sul sito il nome del Fondo di Previdenza complementare delle Scuole materne Fism? Vi pare trasparente, chiaro, completo precisare che Per ulteriori informazioni e le Faq sui principali istituti del rapporto di lavoro privato si può anche visitare la sezione web dedicata allo Sportello Unico Digitale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali? Imbarazzante.

Oltre il danno pure la beffa. Il Ministero nello scrivere la norma aveva a suo tempo consapevolmente optato per negare ai datori di lavoro la possibilità di rimando ai contratti collettivi, nonostante ciò fosse un’opportunità concessa dall’art. 4, comma 3, della Direttiva europea. Oggi invece, con un classico due pesi e due misure, per i propri obblighi si arroga questo diritto, facendolo peraltro in modo assolutamente parziale ed insufficiente.

Come si intuisce la delusione è tanta.

Per questo motivo questa volta la Proposta del mese non concerne la modifica di una norma o di un suo passaggio. Questo mese la proposta del mese riguarda una legittima pretesa: la pretesa che un ente pubblico rispetti ciò che la norma gli richiede e gli impone di fare per semplificare la vita alle aziende. Una sorta di invito ad adempiere rivolto al neo eletto Ministro del lavoro e da valersi quantomeno fino a quando non si vorrà intervenire con una semplificazione degli obblighi informativi previsti dal D.lgs. n. 152/1997, auspicando un testo più comprensibile e in toto conforme allo spirito della Direttiva europea. Perché una cosa deve essere ben chiara. Fino a quando il Ministero resterà inadempiente il rischio è che i datori di lavoro si sentano autorizzati dalla legge a citare nelle loro informative solo quanto è riportato sul sito istituzionale. Perché – e lo rammentiamo nel caso qualcuno volesse fare il finto tonto – è questo che la norma prevede: Le disposizioni normative e dei contratti collettivi nazionali relative alle informazioni che devono essere comunicate dai datori di lavoro sono disponibili … in modo … completo … tramite il sito internet istituzionale del Ministero del lavoro. E lo ribadiamo per chi non l’avesse capito, Ministero del Lavoro compreso: per come scritta la norma questa non è una facoltà ma un preciso obbligo: i datori di lavoro devono essere resi edotti, tramite il sito istituzionale ministeriale, quantomeno (a voler esser buoni) del quadro normativo vigente da cui, al massimo, estrapolare le dettagliate informazioni da fornire ai lavoratori all’atto dell’assunzione.

Se quindi il Ministero nel proprio sito internet si dimenticasse di citare una certa norma istitutiva di un determinato congedo (così come se lo facesse su un sito diverso) ciò significherà che questa specifica informazione non deve essere fornita al lavoratore. Per quale strano motivo non si sa e nemmeno ci deve interessare: la notizia non è di interesse per il lavoratore ai sensi del Decreto Trasparenza, semplicemente perché è il Ministero del lavoro che ce lo sta dicendo.

Con il corollario finale che, in riferimento a tutte quelle informazioni non sono riportate sul sito istituzionale, ci saranno delle inevitabili conseguenze:

– il lavoratore non potrà avvalersi in toto della possibilità di denunciare all’Ispettorato nazionale del lavoro il mancato, ritardato, incompleto o inesatto assolvimento degli obblighi di cui agli articoli 1, 1-bis , 2, e 3, e 5, comma 2 (art. 4 del D.lgs. n. 152/1197). – idem per lo stesso Ispettorato del Lavoro che vedrà fortemente limitato il proprio potere sanzionatorio in caso di violazione degli obblighi informativi.

 

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DECRETO TRASPARENZA: la fake del diritto alla transizione a forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

Se si consente al legislatore (e alla prassi) l’utilizzo
di un linguaggio giuridico inadeguato, non ci si può
poi lamentare dell’incertezza del diritto.

DECRETO TRASPARENZA: LA TRANSIZIONE AD UN’ALTRA FORMA DI LAVORO

Smoke gets in your eyes, cantavano i Platters nel 1958 in quella che forse è la versione più famosa di un brano scritto ben 25 anni prima, esattamente nel 1933. Fumo negli occhi. Un ritornello che oggi suona attualissimo. Eh già, perché non so voi ma leggendo l’articolo 10 – Transizione a forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili del Decreto Legislativo n. 104 del 27 giugno 2022, attuativo della direttiva (UE) N. 2019/1152 (relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea) l’impressione che ne ricavo è di essere di fronte ad una norma che, di fatto, poco o nulla dispone in termini di diritto, rappresentando al massimo una mera dichiarazione di principio. Tra l’altro, al solito, scritta pure male. Proveremo ad analizzarla nel dettaglio, commentandola comma per comma.

IL COMMA 1 – IL DIRITTO A FORME DI LAVORO “MIGLIORI”

  1. Ferme restando le disposizioni più favorevoli già previste dalla legislazione vigente, il lavoratore che abbia maturato un’anzianità di lavoro di almeno sei mesi presso lo stesso datore di lavoro o committente e che abbia completato l’eventuale periodo di prova, può chiedere che gli venga riconosciuta una forma di lavoro con condizioni più prevedibili, sicure e stabili, se disponibile.

Detto che l’inciso con cui si fa salva, se più favorevole, la vigente normativa non è già di suo un concetto cristallino (meglio forse la formula generica Sono abrogate tutte le disposizioni incompatibili con le disposizioni del presente decreto), tutto ciò che segue presenta difficoltà interpretative anche maggiori.

L’anzianità al lavoro del lavoratore subordinato

Onde poter avanzare la richiesta di transizione viene previsto in capo al lavoratore un doppio requisito: una anzianità lavorativa di almeno sei mesi e il completamento dell’eventuale periodo di prova. Condizioni che la norma richiede esplicitamente sia ai lavoratori subordinati che ai collaboratori. Per la prima categoria – i dipendenti – il riferimento, considerato il contesto di intervento del Decreto Trasparenza, è da intendersi rivolto ai titolari di:

  • contratti di lavoro subordinato, ivi compreso quello di lavoro agricolo, a tempo indeterminato e determinato, anche a tempo parziale; – contratti di lavoro somministrato; – contratti di lavoro intermittente. Come tale disciplina troverà concreta attuazione nei rapporti di somministrazione non pare chiaro.

Ma proseguiamo. Considerato che in base all’art. 7 del Decreto Trasparenza il periodo di prova non può essere superiore a sei mesi, il doppio requisito dell’anzianità di lavoro e dell’aver completato l’eventuale periodo di prova non potrà che riguardare solo quei lavoratori – e sono casi rari – che hanno registrato delle assenze di entità tale per le quali l’originario periodo di prova, prolungato in misura corrispondente alla durata delle stesse, abbia oltrepassato il limite massimo dei sei mesi.

L’anzianità al lavoro del collaboratore Per la seconda categoria – i collaboratori – il riferimento è da intendersi ai soggetti attivi nei rapporti di collaborazione quali individuati dal campo di applicazione del Decreto ovvero: – rapporti di collaborazione con prestazione prevalentemente personale e continuativa organizzata dal committente di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81; – contratti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile;

  • contratti di prestazione occasionale di cui all’articolo 54 -bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96. Anche per questi lavoratori viene richiesto il requisito di una anzianità lavorativa di almeno 6 mesi. Una verifica impropria quando ci si deve riferire a dei rapporti in cui, pur in presenza di un arco temporale, difficilmente si può parlare di una vera e propria anzianità. Considerazione che alimenta il dubbio che lo spirito originario della Direttiva possa essere stato travisato. E la conferma di ciò la troviamo infatti nella stessa Direttiva europea il cui articolo 12 pare indubbiamente riferirsi ai soli datori di lavoro citando per questo un lavoratore con almeno sei mesi di servizio presso lo stesso datore di lavoro.

Una diversa forma di lavoro …

In questo passaggio si parla di transizione ad una diversa forma di lavoro, concetto certamente ampio. Questo significa che la richiesta potrebbe riguardare non solo il passaggio da autonomo a subordinato ma, in linea teorica, anche quello inverso. Va peraltro detto che risulta difficile individuare concrete situazioni nelle quali un collaboratore possa ottenere – dato che questo parrebbe il fine della norma come recepita dall’ordinamento italiano – il passaggio ad un rapporto di lavoro dipendente. Ce lo vedete un collaboratore chiedere se è disponibile un posto come lavoratore subordinato per una mansione che di certo non può aver svolto come “autonomo”? Peraltro, dovendo vantare una anzianità di almeno 6 mesi? A quali casi pensava il legislatore quando ha formulato questo “diritto di istanza”? Probabile si tratta di una svista, o ad essere cattivi diciamo che è stata fatta una estensione del diritto a favore di telecamera ossia demagogia di basso livello.

Più verosimile invece che la disposizione riguardi i soli lavoratori a tempo determinato, a tempo parziale e gli intermittenti (per questi ultimi con i dubbi sopra esposti). Una lettura che rispetterebbe la finalità riportata nel Considerando 36 che invitava a promuovere la transizione verso forme di lavoro più sicure nei casi in cui

 i datori di lavoro hanno la possibilità di offrire contratti di lavoro a tempo pieno o a tempo indeterminato a lavoratori in forme di lavoro non standard.

… con condizioni più prevedibili, sicure e stabili …

Si dice che il datore dovrà verificare la disponibilità di condizioni migliori rispetto a quelle attuali.

Qui il primo aspetto critico nasce dall’utilizzo della congiunzione copulativa “e” anziché la congiunzione disgiuntiva “o”. Che significa ciò? Che tutti i requisiti devono essere verificati o ne basta uno?

Ugualmente problematico è lo stesso concetto di condizioni più prevedibili, sicure e stabili. L’utilizzo, infatti, di un avverbio comparativo porta a ritenere che qualsiasi condizione di lavoro più prevedibile, più sicura, più stabile dovrà essere valutata dal datore di lavoro e dal committente. Sarà effettivamente così? In attesa di avere maggiori certezze possiamo dire che le condizioni migliori devono comunque riguardare solo le modalità di espletamento delle originarie mansioni che quindi, si ritiene, debbano restare invariate. Sarebbe assurdo che l’obbligo posto in capo al datore di lavoro e committenti possa riguarda il passaggio ad inquadramenti diversi, categorie o qualifiche diverse. La domanda, inoltre, che ci poniamo è se, a parità di mansioni, un parttime al 50% dell’orario possa chiedere se c’è la possibilità di passare ad uno al 60%. O anche se un lavoratore a tempo pieno ma a termine possa chiedere se esiste la possibilità di passare ad un part-time al 50% ma a tempo indeterminato. Domande alle quali al momento chi scrive non sa dare risposta. O meglio una risposta ci sarebbe ove ci potessimo riferire al già citato Considerando 36 che chiaramente riferiva la possibilità di presentare istanza e di ricevere una risposta esplicitamente nei casi in cui

i datori di lavoro hanno la possibilità di offrire contratti di lavoro a tempo pieno o a tempo indeterminato a lavoratori in forme di lavoro non standard.

Questo, rifacendoci ad una lettura finalistica della Direttiva, dovrebbe portare a dire che il lavoratore part-time che voglia aumentare il proprio monte ore lavorative non potrà percorrere questa strada. Stessa cosa di un intermittente che aspirasse ad un tempo determinato o anche solo ad un tempo parziale. Il problema è che i Considerandi non hanno una diretta cogenza giuridica. Perplessità maggiori sorgono poi per i lavoratori titolari di un contratto, full-time o part-time, di lavoro somministrato: anche costoro hanno diritto ad una risposta dall’utilizzatore riguardo la possibilità di un contratto diretto a tempo pieno e indeterminato? Dato che la norma concede il diritto di istanza verso i datori di lavoro e i committenti, e l’utilizzatore non è né l’uno né l’altro rispetto al lavoratore somministrato, la risposta dovrebbe essere negativa. L’istanza va rivolta solo alla propria Agenzia. Ma anche qui un dubbio ci assale. Considerata infatti la presa di posizione a suo tempo formulata dall’Inl rispetto al susseguirsi di rapporti in somministrazione e di contratti a termine, ritenuti quali rinnovi ai fini dell’obbligo di indicazione della causale, qualche dubbio che possa essere proposta una lettura diversa è più che lecito.

… ma solo se disponibile.

Qui le domande sono: quando un posto è considerato disponibile? Chi verifica la sua disponibilità?

Sussiste a carico del lavoratore un onere di allegazione dei posti assegnabili o è sufficiente un semplice promemoria al datore di lavoro a cui segnalare il proprio desiderio verso qualcosa di migliore dal punto di vista qualitativo e quantitativo? Anche questo un ulteriore punto critico.

IL COMMA 2 – LA REITERAZIONE DELL’ISTANZA

  1. Il lavoratore che abbia ricevuto risposta negativa può presentare una nuova richiesta dopo che siano trascorsi almeno sei mesi dalla precedente.

La previsione non appare chiarissima. Quale è infatti l’esatta volontà del legislatore? Limitare la reiterazione della richiesta o garantire una validità semestrale alla stessa? In pratica, il datore di lavoro (o il committente) una volta ricevuta l’istanza la dovrà continuamente rivalutare nei 6 mesi successivi per verificare una eventuale sopravvenuta disponibilità di posti oppure una volta data la sua risposta (per la quale ha tempo un mese) non ha più alcun onere di accertare l’esistenza successiva di condizioni di lavoro più prevedibili, sicure e stabili?

Questo non è detto chiaramente dalla norma e mai vorremmo che la questione debba essere risolta, come al solito, dalla giurisprudenza.

IL COMMA 3 – LA FORMA SCRITTA DELL’ISTANZA

  1. La facoltà di cui al comma 1 può essere esercitata a condizione che il lavoratore manifesti per iscritto la propria volontà al datore di lavoro o al committente.

 Non si comprende la necessità di un comma specifico per dire che la richiesta del lavoratore deve essere fatta per iscritto: non era più semplice dire al comma 1 che il lavoratore “può chiedere, solo in forma scritta, che gli venga riconosciuta una forma di lavoro con condizioni più prevedibili, sicure e stabili, se disponibile”. Il dono della sintesi, questo sconosciuto.

IL COMMA 4 – LA RISPOSTA DEL DATORE DI LAVORO O DEL COMMITTENTE

  1. Entro un mese dalla richiesta del lavoratore il datore di lavoro o il committente forniscono risposta scritta motivata.

In caso di richiesta reiterata da parte del lavoratore di analogo contenuto, le persone fisiche in qualità di datori di lavoro o le imprese che occupano fino a cinquanta dipendenti possono rispondere in forma orale qualora la motivazione della risposta rimanga invariata rispetto alla precedente.

I datori di lavoro e i committenti sono tenuti entro un mese a fornire una risposta scritta. La scelta di individuare il mese e non i giorni come termine per riscontrare l’istanza del lavoratore non sembra felice: se la richiesta viene avanzata a gennaio si avrà tempo 31 giorni; se a febbraio solo 28. Meglio sarebbe stato individuare un termine di 30 giorni. Incomprensibile appare poi la possibilità concessa ai soli datori di lavoro con determinate caratteristiche (le persone fisiche in qualità di datori di lavoro o le imprese che occupano fino a cinquanta dipendenti) – i committenti, quindi, dovranno sempre rispondere per iscritto – di poter dare una risposta in forma orale qualora la motivazione della risposta rimanga invariata rispetto alla precedente. In primis non si comprende per quale motivo una ditta individuale con 51 lavoratori sia esonerata dalla risposta scritta e una impresa con gli stessi 51 dipendenti lo debba fare in modo formale. Ma soprattutto è l’idea della risposta orale in presenza di invarianza di motivazione a non convincere: nel caso in cui il lavoratore intendesse contestare che una risposta verbale non gli è stata data il datore dovrebbe replicare, ma per iscritto, che la risposta è stata data verbalmente in quanto legalmente non era dovuto alcun riscontro scritto: tanto vale secondo chi scrive metter nero su bianco, fin da subito, il diniego al passaggio a condizioni più prevedibili, sicure e stabili.

La risposta deve comunque essere motivata. Non essendo un diritto automatico alla transizione la risposta potrebbe limitarsi a spiegare il perché di un diniego che, ad avviso di chi scrive, rimane discrezionale. Ad esempio, si può rispondere che il posto è disponibile ma non assegnabile al richiedente semplicemente perché il lavoratore è ritenuto non avere le determinate qualità, professionali ma anche caratteriali, richieste dalla Direzione. Ricordiamo infatti che il Considerando 36 prevedeva che la risposta del datore di lavoro possa tenere conto delle esigenze del datore di lavoro e del lavoratore.

Lo ripetiamo non è un diritto di precedenza come quello del lavoratore licenziato per riduzione di personale o del lavoratore a termine con una certa anzianità. E’ un diritto ad evidenziare il proprio interesse ad una migliore posizione lavorativa e a ricevere una risposta motivata dell’eventuale diniego, su cui il perimetro di sindacabilità da parte del giudice risulta assai limitato. Questa perlomeno è l’interpretazione di chi scrive.

 

IL COMMA 5 – IL CAMPO DI APPLICAZIONE E LE ESCLUSIONI

  1. Le previsioni del presente articolo non si applicano ai lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ai lavoratori marittimi e del settore della pesca ed ai lavoratori domestici.

Partiamo dal campo di applicazione che vede esclusi i datori di lavoro pubblici, i lavoratori domestici e quelli del settore marittimo e della pesca.

Ma non dimentichiamo che il Decreto Trasparenza esclude già di suo (art. 1, comma 4) dall’applicazione delle proprie disposizioni alcuni soggetti tra cui: i rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro V del codice civile e  di lavoro autonomo sportivo in senso stretto (lett. a); i rapporti di agenzia (lett. c); le collaborazioni prestate nell’impresa da taluni familiari (lett. d); i rapporti nel pubblico impiego (lett. f e g). Tutto bene tranne per l’esclusione di quei soggetti indicati alla lettera b) ovvero

i rapporti di lavoro caratterizzati da un tempo di lavoro predeterminato ed effettivo di durata pari o inferiore a una media di tre ore a settimana in un periodo di riferimento di quattro settimane consecutive.

Ma come, proprio a quei lavoratori che forse più di tutti aspirerebbero e necessiterebbero di un posto di lavoro più stabile diciamo che questo diritto non gli compete? Teniamo peraltro presente che il diritto alla transizione è invece riconosciuto ai lavoratori con contratto di lavoro intermittente.

In base a quale ratio si è deciso di escludere i primi e riconoscere il diritto ai secondi? Mistero.

CONSIDERAZIONI FINALI

Come si vede più si analizza il Decreto Trasparenza e più emergono evidenti criticità. Che fare? Metterci mano e emendare ogni singolo passaggio o ripensare tutta la disciplina operando una riscrittura più conforme allo spirito della Direttiva europea?

Mi viene in mente il solito consiglio che mi dà il mio programmatore quando si impalla il computer.

Schiacciamo CTRL+ALT+CANC e riavviamo il tutto.

Ecco, probabilmente si farebbe prima. E meglio.

 

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